sabato 2 maggio 2015

La grande catastrofe in arrivo: l'esplosione del metano artico

DaArctic News”. Traduzione di MR 

Di Sam Carana

Il grande dispiegamento del modo in cui la catastrofe climatica si sta manifestando sulla terraferma e negli oceani, nell'atmosfera e nella criosfera, sta diventando sempre più chiaro di mese in mese. Le temperature di marzo 2015 sono state le più alte a marzo nel periodo di 136 anni di registrazioni. L'analisi del NOAA mostra che la temperatura media di tutte le temperature di superficie insieme di terraferma e oceano di marzo 2015 è stata 0,85°C più alta della media del XX secolo di 12,7°C. Le anomalie della temperatura dell'oceano dell'Emisfero Nord di marzo 2015 sono state le più alte mai registrate. Per diversi aspetti, la situazione sembra destinata a peggiorare. Nel periodo di 12 mesi da aprile a marzo, i dati dal 1880 contengono una linea di tendenza che punta ad un aumento di 2°C per il 2032, come illustrato dall'immagine sotto.


giovedì 30 aprile 2015

Cambiamento climatico:l'effetto Seneca può salvarci?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Il “Dirupo di Seneca” (o “Collasso di Seneca”). L'antico filosofo Romano disse che “La strada dell'ascesa è lenta, ma quella della rovina è rapida”. Un Collasso di Seneca” dell'economia mondiale ridurrebbe sicuramente le possibilità di un disastro climatico, ma sarebbe un grande disastro in sé e potrebbe anche non essere sufficiente. 

Niente di ciò che facciamo (o cerchiamo di fare) sembra essere in grado di fermare l'accumulo di biossido di carbonio in atmosfera. E, di conseguenza, niente sembra essere in grado di fermare il cambiamento climatico. Con la situazione che peggiora in continuazione (guardate qui, per esempio), siamo a sperare che un qualche tipo di accordo internazionale per limitare le emissioni possa essere raggiunto. Ma, dopo molti tentativi e molti fallimenti, possiamo davvero aspettarci che la prossima volta, miracolosamente, possiamo avere successo?

Un'altra linea di pensiero, invece, sostiene che l'esaurimento ci salverà. Dopotutto, se finiamo il petrolio (e i combustibili fossili in generale) dovremo smettere di emettere gas serra. Questo non risolverà il problema? In linea di principio sì, ma succederà?

Il nocciolo del dibattito sull'esaurimento dei combustibili fossili è che, nonostante le risorse teoricamente abbondanti, il tasso di produzione è fortemente condizionato da fattori economici. Questi fattori costringono normalmente la curva di produzione a seguire una forma “a campana”, o “di Hubbert”, che raggiunge il picco e comincia a declinare molto prima che le risorse finiscano in senso fisico. In pratica, gran parte degli studi che tengono conto del fenomeno del “picco” giungono alla conclusione che gli scenari del IPCC spesso sovrastimano la quantità di carbonio fossile che si può bruciare (vedete questa recente rassegna di Hook et al.). Da questo, alcuni sono giunti alla conclusione ottimistica che il picco del petrolio ci salverà dal cambiamento climatico (vedete questo mio post). Ma questo è troppo semplicistico.

Il problema del cambiamento climatico non è che le temperature continueranno a crescere dolcemente da adesso alla fine del secolo. Il problema è che ci troveremo in grossi guai molto prima se lasciamo aumentare le temperature oltre un certo limite. Aumento del livello del mare, acidificazione dell'oceano e desertificazione sono soltanto alcuni dei problemi, ma uno peggiore potrebbe rivelarsi il “punto di non ritorno climatico”. Cioè che, oltre un certo punto, l'aumento delle temperature comincia ad essere alimentato da una serie di effetti di retroazione interni all'ecosistema e il cambiamento climatico diventerebbe inarrestabile.          

Non sappiamo dove possa essere situato il punto di non ritorno climatico, ma c'è un consenso sul fatto che dobbiamo impedire che le temperature aumentino oltre un certo limite. Spesso il livello di 2°C è considerato il limite per evitare la catastrofe. Grazie al saggio del 2009 di Meinshausen et al. possiamo stimare che, da ora in avanti, non dobbiamo rilasciare più di circa 1x10+12 t di CO2 nell'atmosfera. Considerando che finora abbiamo rilasciato circa 1,3x10+12 t di CO2 (fonte: global carbon project), il totale non deve essere più di circa 2,3x10+12 t di CO2.

Cosa possiamo aspettarci quindi in termini di emissioni totali considerando uno scenario di “picco”? Lasciate che vi mostri alcuni dati di Jean Laherrere, che è stato fra i primi a proporre il concetto di “picco del petrolio”.


In questa figura, fatta nel 2012, Laherrere elenca le quantità di combustibili bruciate, con una “U” ("ultimate"), misurate in Tboe (Terabarrels of oil equivalent, vedete più in fondo i fattori di conversione usati). Come prima approssimazione, se tutte le emissioni fossero da petrolio greggio, emetteremmo 4,5x10+12 t di CO2. Le cose cambiano un po' se separiamo i contributi dei tre combustibili fossili. Il petrolio greggio, da solo, produrrebbe 1,3x10+12 t di CO2. Il carbone produrrebbe 2,8x10+12 t e il gas naturale 0,95x10+12 t. Il risultato finale è quasi esattamente  5x10+12 t di CO2.

In breve, anche se seguiremo una traiettoria di “picco” nella produzione di combustibili fossili, emetteremo circa due volte il biossido di carbonio di quello che al momento è considerato essere il limite “di sicurezza”.

Naturalmente, ci sono moltissime incertezze in questi calcoli e il punto di non ritorno potrebbe essere più lontano di quanto stimato. Ma potrebbe anche essere più vicino. A dobbiamo tenere conto del problema dell'aumento delle emissioni di CO2 per unità di energia man mano che progressivamente passiamo a combustibili più sporchi e meno efficienti. Così, stiamo davvero giocando col disastro, con una buona possibilità di correre dritti in una catastrofe climatica.

Ciononostante, potrebbe anche essere che Laherrere fosse ottimista nella sua stima. Infatti, la curva quasi simmetrica “a campana” o “di Hubbert” è il risultato dell'ipotesi che l'estrazione venga eseguita in un'economia pienamente funzionante. Ma, una volta che il sistema economico comincia a disfarsi, una serie di retroazioni distruttive accelerano il declino. Si tratta del “Collasso di Seneca” che genera una curva di produzione asimmetrica “il “Dirupo di Seneca”).

Il dirupo di Seneca ci può salvare? Perlomeno ridurrebbe considerevolmente la quantità di carbonio fossile bruciato. A titolo di prova, se il collasso dovesse cominciare entro i prossimi 10 anni e dovesse tagliare più della metà della produzione potenziale di carbone, allora potremmo rimanere entro il limite di sicurezza. Laddove Hubbert non può salvare l'ecosistema, Seneca potrebbe (forse).

Ma, anche se ciò dovesse avvenire, un collasso di Seneca è un grande disastro in sé per l'umanità, quindi c'è poco di cui rallegrarsi al pensiero che potrebbe salvarci dal cambiamento climatico fuori controllo. In pratica, la sola speranza di evitare il disastro sta nell'assumere un ruolo più attivo nel sostituire i fossili con le rinnovabili. In questo modo, possiamo costringere la produzione di combustibili fossili a diminuire più rapidamente, ma senza perdere la fornitura energetica di cui abbiamo bisogno. E' possibile – è un grande sforzo, ma possiamo farlo se siamo disposti a provarci (vedete questo saggio di Sgouridis, Bardi e Csala per una stima quantitativa dello sforzo necessario).
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Unità di conversione

Un Boe di petrolio greggio = 0,43 t CO2 (http://www.epa.gov/cleanenergy/energy-resources/refs.html)

Un Boe di carbone = 0,53 t CO2 (calcolo da https://www.unitjuggler.com/convert-energy-from-Btu-to-boe.html?val=1000000 e da http://www.epa.gov/cpd/pdf/brochure.pdf)

Un Boe di gas naturale: 0,31 t CO2 (calcolo da https://www.unitjuggler.com/convert-energy-from-Btu-to-boe.html?val=1000000 e da http://www.epa.gov/cpd/pdf/brochure.pdf)

martedì 28 aprile 2015

Perché la democrazia non funziona (e come sistemarla)

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi





“Non sono un truffatore” Non è stato uno scambio di armi per ostaggi” “Non ho fatto sesso con quella donna” (fonte dell'immagine)

Questo post non è una proposta di riforma della democrazia. Ogni vera riforma sembra essere impossibile in un mondo in cui la regola principale (e forse la sola) sembra essere “non pensarci nemmeno di cambiare qualcosa di importante”. Detto questo, ho notato un recente articolo di Dean Burnett su "The Guardian" che ha cercato di rispondere alla domanda del perché le persone continuano ad eleggere degli idioti. Questo ha messo in moto la mia mente e mi sono uscite fuori alcune considerazioni sulla base dell'effetto delle “pubbliche relazioni” (PR) sul processo democratico. Non dico di essere un esperto in PR ma, se avete a che fare col cambiamento climatico, come spesso faccio io, è impossibile perdersi il ruolo delle PR in un dibattito che è stato basato su bugie ed esagerazioni volte a demonizzare la scienza e gli scienziati. Così, questo post è più che altro una riflessione mia sull'importanza della PR nel nostro mondo. 


Sembra che non ci sia categoria peggio vilipesa e disprezzata di quella dei politici. Eppure, in teoria gli elettori possono votare per chi vogliono. Perché continuano ad eleggere persone che disprezzano? (Somiglia alla vecchia barzelletta: 'un masochista è uno a cui piacciono le cose che gli fanno schifo'). La maggioranza degli elettori è masochista o cosa?

Penso che ci sia una spiegazione a questo comportamento apparentemente bizzarro degli elettori. Ha a che fare coi metodi di PR usati nelle campagne elettorali e, in particolare, con la pubblicità negativa che ha generato un vilipendio auto-inflitto generale su tutti i politici. Lasciate che vi spieghi.

Nelle pubbliche relazioni ci sono due approcci fondamentali per promuovere le idee o i prodotti di qualcuno: uno negativo ed uno positivo. L'approccio negativo (demonizzare l'avversario) di solito è molto più potente di quello positivo (idolatrare l'amico) Devono esserci ragioni psicologiche profonde per questo, ma è così che vanno le cose (*).

Il problema della pubblicità negativa è lo stesso che si ha con le armi chimiche: fa miracoli, ma può ritorcersi contro chi la usa. Questa è una cosa che gli eserciti della prima guerra mondiale hanno imparato quando il vento riportava indietro su di loro il gas che avevano diretto contro i loro nemici.

Infatti, la pubblicità negativa è così potente – e così pericolosa – che non viene quasi mai usata nella pubblicità commerciale (**). Pensate cosa accadrebbe se, diciamo, la Pepsi dovesse mettere in piedi una campagna basata sull'accusa che la Coca Cola fa venire il cancro. Ed immaginate che la Coca Cola dovesse ribattere dicendo che la Pepsi causa attacchi di cuore. Un'idea non buona, ovviamente: ci sarebbe qualcuno che berrebbe ancora una bibita gassata? E' un principio ben conosciuto: se la butti sul ventilatore, si diffonde dappertutto.

Ma in politica? Non si applicano gli stessi limiti. In politica, la dimensione del mercato è fissa: è una poltrona in parlamento (o nel comune, o dove sia). Non importa quante persone si presentano a votare ai seggi elettorali, qualcuno avrà lo stesso la poltrona. Per cui, per un politico, le PR negative non comportano un rischio di contrazione del mercato. Di conseguenza, le PR sono uno strumento fondamentale per venire eletti. E' risaputo: vilipendere il proprio avversario fa miracoli (***). Ma, naturalmente, se tutti se ne avvalgono il risultato è la demonizzazione generalizzata di tutti i politici. Ancora una volta, si vede l'effetto di buttarla sul ventilatore; si sparpaglia dappertutto.

Così, è probabile che la sfiducia diffusa rispetto ai politici sia il risultato di una lunga serie di campagne di demonizzazione politica che hanno portato il pubblico a concludere che tutti i politici siano ladri, bugiardi, psicopatici, maniaci sessuali, idioti, inetti e cose simili. Forse alcuni di loro meritano di essere definiti così, ma il problema è che le campagne di vilipendio tengono lontane le persone oneste dalla corsa. E questo è il problema della democrazia, in poche parole.

Possiamo fare qualcosa per migliorare? In linea di principio, sì. Dopotutto, gran parte dei governi hanno promulgato leggi pensate per proteggere i consumatori dalla pubblicità ingannevole. Spesso, la pubblicità dispregiativa verso il prodotto di un concorrente è proibita e persino la pubblicità comparativa è strettamente regolamentata. Ma nessuna di queste regole si applica alla politica, dove tutto è lecito ed arrivare a regole simili sembra essere semplicemente impensabile.

Possiamo usare una tattica diversa? Possiamo rendere le campagne negative una cattiva idea per coloro che usano questo metodo? Possiamo, per esempio, rendere il “mercato” politico più simile al mercato commerciale nel senso che il numero totale di poltrone in parlamento potrebbe diventare come la dimensione del mercato di un prodotto. Cioè, che il numero di poltrone in parlamento potrebbe essere proporzionale al numero delle persone che votano realmente. Così, se si presenta solo metà degli elettori, vengono assegnate metà delle poltrone. Quelle che restano rimangono vuote, o forse riassegnate da una lotteria nazionale. In questo modo, i politici diffiderebbero dell'uso di tattiche che rischiano di ridurre la dimensione del mercato (per esempio il numero di poltrone assegnate).

Potremmo quindi pensare modi di sistemare la democrazia. Ma il problema non è che ci sia qualcosa di sbagliato nella democrazia. Il problema è con le PR – e con le PR negative in particolare. Non andiamo da nessuna parte in nessun campo finché non capiamo il potere straordinario delle PR negative nella nostra percezione del mondo. E' davvero un'arma di distruzione della mente, come testimonia quanto siano state efficaci le PR nell'attaccare la scienza del clima e gli scienziati del clima e nel convincere un gran numero di persone che il cambiamento climatico sia una truffa.

C'è solo un'arma buona contro questo tipo di PR: è ricordare che, come ha detto Baudelaire, “Il miglior inganno del diavolo è persuaderti che non esiste”.

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(*) Sul maggior potere del negativo, vedete per esempio “Il cattivo è più forte del buono”.
Baumeister, Roy F.; Bratslavsky, Ellen; Finkenauer, Catrin; Vohs, Kathleen D.
Review of General Psychology, Vol 5(4), Dec 2001, 323-370 http://psycnet.apa.org/index.cfm?fa=search.displayRecord&uid=2001-11965-001 

(**) Un caso famoso di pubblicità commerciale negativa potrebbe essere la campagna “dov'è la ciccia?” ("where's the beef?") usata da Wendy's nel 1984 per denigrare i sandwiches venduti dai loro concorrenti, McDonald's e Burger King. Notate, tuttavia, che non era realmente una pubblicità negativa; era una pubblicità comparativa ('i nostri hamburger sono più grandi dei loro'). Ciononostante era abbastanza aggressiva che è stata copiata da Walter Mondale che ha usato con successo lo stesso slogan contro il suo avversario nelle primarie di quell'anno.  

(***) Circa le campagne negative in politica, c'è un sacco di documentazione sul Web. Potete cominciare, per esempio, da questo articolo su Wikipedia.





domenica 26 aprile 2015

Il 2015 sarà più caldo del 2014?

Non si può ancora dire, ma non comincia bene.....


h/t Greg Laden Nota: il grafico non riporta temperature assolute sull'asse delle Y, ma "anomalie"; ovvero differenze di temperatura rispetto a una media. In questo caso, la media è l'intero database del GISS (Goddard Institute for Space Studies) della NASA. La media è lo "zero" del grafico e le anomalie sono in centesimi di grado centigrado. Ovvero, l'anomalia di "84" per il Marzo 2015 vuol dire la temperatura globale media è stata più alta da di 0,84 oC rispetto alla media di tutte le misure disponibili fino ad oggi. 

sabato 25 aprile 2015

Come costruire un'economia “lagomista”

DaThe Guardian”. Traduzione di MR

di Robert Costanza

Il termine svedese “lagom” è perfetto per descrivere un sistema economico in cui viene prodotto e consumato solo quello che serve. Ma è un obbiettivo raggiungibile? 


Un nuovo modello economico deve raggiungere un'alta qualità della vita per noi stessi e i nostri figli sostenibile ed equa. Foto:  Dio Liveson/Glogster

L'attuale sistema economico capitalista è in continua crisi. Come ha detto Thomas Friedman in un editoriale del New York Times: “E se la crisi del 2008 rappresenta qualcosa di molto più fondamentale di una semplice recessione? E se ci sta dicendo che l'intero modello di crescita che abbiamo creato negli ultimi 50 anni è semplicemente insostenibile economicamente ed ecologicamente e che il 2008 è stato il momento in cui ci siamo scontrato col muro, quando madre natura e il mercato hanno entrambi detto 'basta'”? Nel XXI secolo ci serve un nuovo modello economico per ottenere un'alta qualità della vita per noi stessi e i nostri figli sostenibile ed equa. Questo modello deve superare gli “ismi” convenzionali (comunismo e capitalismo) del XX secolo, tutti concentrati sulla “crescita ad ogni costo”. Ottenere un giusto equilibrio fra privato, bene comune e proprietà di stato è cruciale in questo nuovo modello. Il Comunismo (più che altro povertà comune) e il capitalismo (più che altro proprietà privata) hanno entrambi fallito nell'ottenere il giusto equilibrio. La crisi economica ed ambientale globale in atto presenta l'opportunità di trovare un nuovo equilibrio.

Trovare una strada alla prosperità sostenibile ha bisogno che noi raggiungiamo quell'equilibrio. Abbiamo bisogno anche di un nuovo termine per descrivere questo modello. Ci serve un termine che implichi un miglior equilibrio fra beni costruiti, umani, sociali e naturali. Ci serve un termine che implichi un passaggio dal modello economico della “crescita a tutti i costi” ad uno concentrato sul benessere umano sostenibile – basato sulla misura, l'equità e la sostenibilità. Gli svedesi hanno un termine che connota molte delle qualità di un'economia del genere. Il termine è “lagom”, che significa “solo la quantità giusta”. L'origine del termine è nelle antiche storie vichinghe sul far girare l'idromele in un corno nell'accampamento dove tutti ne prendono solo la quantità giusta, di modo che ne rimanesse ancora un po' per l'ultima persona del cerchio.

giovedì 23 aprile 2015

“La terra secca bruciava come erba” . La via siberiana all'inferno di 'Permafuoco'

Darobertscribbler”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)




(I residenti della regione russa di Trans Baikal scappano attraverso un furioso incendio del permafrost il 13 aprile del 2015. Fonte del video: La strada per l'inferno Registrato da: Vladislav Igorevich). 

Il copione è come una scena di film post-apocalittico. La glaciale Siberia inizia uno scongelamento epico – uno scongelamento scatenato da uno scarico inarrestabile di gas che intrappolano calore nell'atmosfera dall'industria umana dei combustibili fossili. Alla fine, dopo anni di riscaldamento, la stessa terra che si scongela diventa combustibile per gli incendi. Uno spesso strato di materiale organico simile alla torba che funge da accensione per gli alberi seccati dal caldo e le erbe che ci sono sopra.

martedì 21 aprile 2015

La maledizione delle miniere. Da Nauru alle Apuane

 Di Jacopo Simonetta  




Il film Rapa Nui ed i libri di Jared Diamond hanno reso celebre la triste storia dell’Isola di Pasqua, spesso citata come un modello di quello che potrebbe accadere, su di una diversa scala temporale, all'intero pianeta Terra.

Certo, la possibilità di verificare su casi reali le dinamiche evolutive dei sistemi socio-economico-ambientali è vitale per capire cosa sta succedendo oggi nel mondo.

In fondo, sistemi piccoli e grandi sono soggetti alle medesime leggi fisiche ed ecologiche, ma occorre prudenza nell'estrapolazione dei risultati.   Sistemi più grandi sono, infatti, anche più complessi e dispongono di maggiori riserve, per cui non si comportano mai esattamente come i sistemi relativamente più semplici che possiamo studiare in dettaglio.   Una parte importante dell’evoluzione dei sistemi dipende dal loro livello di complessità, ancor più che dalla loro natura.

Tuttavia, la disponibilità di “casi di studio” relativamente semplici rimane una delle maggiori risorse per capire dinamiche specifiche ed è per questo che vorrei qui proporre un altro esempio, assai meno famoso, eppure ancor più istruttivo di quello dell’Isola di Pasqua. Si tratta infatti di una storia contemporanea che riguarda uno stato riconosciuto ed organizzato come gli altri: con bandiera, governo, parlamento, banca centrale e tutto il resto, compreso un seggio all’ONU.   Però in scala: la superficie dello stato è di circa 21 Kmq e la popolazione circa 14.000 persone. Stiamo parlando dell’isola di Nauru. Una storia che trovo particolarmente interessante perché emblematica di molte dinamiche economiche, sociali ed ecologiche correlate con l’industria mineraria in tutte le parti dal mondo.

Scoperta nel 1798 dagli inglesi, fu battezzata nientemeno che “Pleasant Island”.   All'epoca c’erano forse un migliaio di persone, organizzate in dodici clan che riconoscevano l’autorità di un unico capo. Le attività principali erano coltivare una terra particolarmente fertile e pescare sulla barriera corallina, che circonda interamente l’isola. Nel corso del secolo seguente, Nauru passò rapidamente di mano fra varie potenze coloniali che non sapevano che farsene, ma non senza conseguenze.  La disponibilità di armi moderne, avute in scambio dai navigatori che vi facevano scalo, fu infatti all'origine della guerra civile che, nel 1870, spazzò via buona parte della popolazione.

Nel 1900 le cose cambiarono. Il geologo Albert Ellis scoprì che l’isola era ricchissima di fosfati, un minerale strategico sia per l’agricoltura che per l’industria chimica. Certo, l’escavazione ed il trasporto erano molto problematici, ma lo sfruttamento minerario dell’isola comunque iniziò e proseguì sempre, anche durante l’occupazione giapponese. L’isola fu quindi coinvolta nella seconda guerra mondiale, cui sopravvissero meno di 1000 isolani.

Terminate le ostilità, Nauru divenne un protettorato dell’Australia che, forte dei mezzi tecnici e delle fonti energetiche postbelliche, riorganizzò in modo assai più efficiente lo sfruttamento economico dei fosfati.

Nel 1968 scadeva il mandato dell’ONU e l’isola divenne uno stato indipendente, formalmente riconosciuto, malgrado le minuscole dimensioni.   E la prima cosa che fece il nuovo governo fu di contrarre un grosso prestito internazionale per comprare i diritti di sfruttamento dalle compagnie minerarie australiane, neozelandesi ed inglesi che li detenevano.

In effetti, questo passaggio avvenne proprio in concomitanza con il picco di estrazione, ma noncuranti di ciò i nauruani non esitarono a contrarre dei debiti per potenziare la loro industria estrattiva e rilanciare la produzione.   Per una quindicina d’anni funzionò e questo isolotto divenne il secondo paese più ricco del mondo, ai punti con l’Arabia Saudita.   Per fare un solo esempio, una popolazione di poche migliaia di persone si permise il lusso, fra l’altro, di una compagnia aerea nazionale con ben sei Boeing 737 che portavano gli isolani a fare shopping in giro per il Pacifico, dalle Hawaii a Melbourne, da Hong Kong a S. Francisco.

Altre centinaia di milioni di dollari furono investite all'estero, dove il governo mise insieme un enorme patrimonio; ivi compreso un intero grattacielo, in centro ad Honolulu, per sistemarvi gli uffici che gestivano questa immensa ricchezza.

Ma alla fine degli anni ’80 la produzione tracollò e nel 2005 l’ultima miniera venne abbandonata.   E con la crisi delle miniere emerse anche il bubbone delle innumerevoli truffe che gli amministratori e la gente di Nauru si erano fatti rifilare negli anni della grande sbornia collettiva.

Incapaci di mantenere il tenore di vita e gli impegni finanziari assunti, i nauruani cominciarono ad arrampicarsi sugli specchi, finendo invischiati fra mafia russa, debiti, tribunali e sanzioni internazionali. Il patrimonio mobiliare ed immobiliare, i diritti minerari, gli aerei e perfino i diritti di pesca sulle acque territoriali, tutto o quasi è finito nel buco.

Oggi Nauru è uno dei paesi più poveri del mondo e sopravvive sostanzialmente di elemosina internazionale.   Le sue entrate principali derivano dalla vendita del loro voto all’ONU e dalla gestione, per conto dell’Australia, di un campo di concentramento per stranieri indesiderati.

Ma non è questa la parte più triste ed istruttiva della storia.

I giacimenti di fosfato di Nauru erano formati da depositi intrappolati fra pinnacoli di roccia calcarea molto dura, coperti da una sessantina di centimetri di suolo straordinariamente fertile.   Il clima era tipicamente tropicale-umido.

Lo sfruttamento minerario ha comportato la completa asportazione della vegetazione e del suolo,
quindi lo scavo dei sedimenti ricchi in fosfati, grattando tra i pinnacoli calcarei.  
Nei decenni, questo ha trasformato l’intera isola in una plaga impraticabile.  

Ma non basta: la vegetazione attuale di Nauru è composta principalmente da una rada sterpaglia che è riuscita ad insediarsi negli anfratti tra le rocce delle miniere chiuse da più tempo. In quelle abbandonate più di recente non c’è praticamente niente.  Di conseguenza, il sole surriscalda la superficie dell’isola, creando una colonna d’aria calda che allontana le piogge. Oggi, un isolotto tropicale in mezzo all'oceano, soffre di siccità cronica e l’acqua dolce proviene da un dissalatore che funziona nella misura in cui altri paesi hanno la condiscendenza di recapitare, via nave, carburante e pezzi di ricambio.


I diritti sulla pesca oceanica sono stati venduti ad altri per pagare parte dei debiti, e comunque i nauruani non sarebbero in grado di farla.   Rimangono le acque costiere la cui fauna è stata oramai ridotta ai minimi termini dalla pesca eccessiva e dall'acidificazione del mare che sta danneggiando questa, come le altre barriere coralline.   Il tentativo di lanciare i turismo in un posto così triste è ovviamente fallito.
Rimane abitabile solo una piccola zona intorno ad un laghetto ed una fascia di un paio di centinaia di metri lungo la costa. Una fascia quasi completamente edificata, che l’innalzamento del livello oceanico finirà con l’inghiottire almeno in buona parte.

Nel frattempo, dall'indipendenza ad oggi, la popolazione è raddoppiata.   Per circa il 30% è costituita da immigrati che vennero per lavorare nelle miniere; per poi restare qui, non avendo i mezzi per tornare in patria.

Ma questa storia non è ancora finita.  Malgrado lo stato di salute precario ed i servizi sanitari in rapida diminuzione, la popolazione continua a crescere vigorosamente, grazie all'elevata natalità. Il cibo viene quasi tutto importato ed è abbondante, anche se di pessima qualità. Una combinazione che ha dato alla gente di Nauru il dubbio primato di popolazione con la massima incidenza di obesità e di diabete del mondo.

Ma il governo non demorde e, proprio in questo momento, sta tentando di rilanciare l’estrazione dei fosfati. Si, perché il fosfato non è finito.  Come normalmente succede, quelli che sono esauriti sono i giacimenti migliori; quelli che davano un buon rendimento con poco lavoro. Ma sedimenti più poveri e più profondi ci sono ancora e per sfruttarli sono stati fatti accordi con delle compagnie minerarie internazionali. Naturalmente ciò spazzerà via anche la rada sterpaglia che è ricresciuta in alcune zone e abbasserà ulteriormente l’isola, rispetto ad un oceano sempre più minaccioso. In compenso, è possibile che ci siano dei proventi, specialmente in vista del prossimo picco dei fosfati sahariani e dei deliranti progetti di sviluppo agricolo dell’Australia settentrionale. Ma anche se gli affari andassero bene per qualche tempo, saranno le compagnie a trarne profitto, non certo per gli isolani che hanno ceduto i diritti e non hanno ancora finito di pagare i debiti.

Se ora allarghiamo lo sguardo alle principali aree estrattive del Pianeta, troviamo che la storia di Nauru è una parabola di validità quasi universale.   E’ vero che all'interno di paesi di taglia normale o grande le dinamiche molto più complesse comportano conseguenze meno rapide e devastanti, ma se scendiamo al livello locale, troviamo che la somiglianza è molto forte.   In Canada, Cina, Stati uniti e molti altri paesi ancora, intere regioni stanno diventando dei veri inferni di voragini e cumuli di detrito, spesso irreparabilmente contaminate da sostanze tossiche e/o radioattive.

Anche nel nostro piccolo italiano troviamo, in scala, dinamiche analoghe. Personalmente, conosco bene l’industria lapidea apuana che sta arricchendo alcune decine di persone, con il sostegno incondizionato delle amministrazioni ed il disinteresse della maggior parte delle persone. Ma quando avranno finito, la gente si accorgerà che l’eredità lasciatagli saranno finanze ed infrastrutture pubbliche irreparabilmente dissestate, uno stato di calamità idrogeologica semi-permanente ed un immenso buco.

Ciò che apparentemente nessuno che conti qualcosa è in grado di capire è che l’industria è oggi un “gioco” a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince, a spese di chi ha le miniere e le discariche. Ci sono ragioni termodinamiche e sistemiche precise perché non possa essere che così. Varie volte ne è stato trattato su questo stesso blog e da autori importanti, ma non sembra che, collettivamente, siamo in grado di fermarci.

Nel frattempo, la storia di Nauru procede.   Non è ancora finita, ma lo sarà presumibilmente tra breve. Quali opzioni rimangono possibili per questo popolo che, come tanti altri, ha saputo trasformare la propria fortuna in una maledizione?