martedì 10 giugno 2014

La connessione fra prezzi del petrolio, livelli di debito e tassi di interesse

DaOur Finite World”. Traduzione di MR

di Gail Tverberg

Se il petrolio è “solo un bene come gli altri”, allora non dovrebbe esserci alcun collegamento fra prezzi del petrolio, livelli di debito, tassi di interesse e tassi totali di ritorno. Invece, chiaramente, c'è. Da un lato i picchi dei prezzi del petrolio sono collegati alle recessioni. Secondo l'economista James Hamilton, 10 recessioni su 11 successive alla Seconda Guerra mondiale sono state associate a picchi dei prezzi del petrolio. C'è anche una ragione logica per cui i picchi dei prezzi del petrolio sono associati alla recessione: il petrolio viene usato nella produzione e nel trasporto di cibo e nel pendolarismo per andare al lavoro. Queste sono necessità per gran parte delle persone. Se questi costi aumentano, c'è una necessità di tagliare beni non essenziali, che porta a licenziamenti nei settori voluttuari e quindi alla recessione.

Dall'altro lato, la manipolazione dei tassi di interesse e l'aggiunta del debito governativo (spendendo di più di quanto raccolto con le tasse) sono i modi principali di “mettere a posto” la recessione. Secondo l'economia kynesiana, la produzione è fortemente influenzata dalla domanda complessiva – in altre parole, la spesa totale nell'economia. Ogni approccio che possa aumentare la spesa totale – che sia più debito o più debito abbordabile – aumenterà la produzione economica.

Qual è la connessione diretta fra debito crescente e prezzi del petrolio?

L'economia non cresce semplicemente da sola (al contrario di quanto credono molti economisti). Cresce perché prodotti energetici abbordabili permettono alle materia prime di essere trasformate in prodotti finiti. L'aumento del debito aiuta i prodotti energetici a diventare più abbordabili.

Figura 1.

Senza debito, solo una parte non molto grande della popolazione potrebbe permettersi un'automobile o una nuova casa. Di fatto, gran parte delle aziende non potrebbero permettersi nuove fabbriche, senza debito. Il prezzo dei beni di ogni sorta crollerebbe drammaticamente senza la disponibilità di debito, perché ci sarebbe meno domanda per i beni che vengono usati per fare altri beni. Con beni, come il petrolio o il rame, c'è una
tensione a due direzioni:


  1. La quantità di denaro che costa estrarre il petrolio o il rame (comprese tasse, spese di spedizione ed altri costi indiretti) e
  2. Il prezzo di vendita del bene. Il prezzo di vendita riflette la capacità del cliente di pagare il prodotto, sulla base dei salari e della disponibilità di debito. Riflette anche altri problemi, come la disponibilità di sostituti a buon mercato. 


La disponibilità di sempre maggiore debito a buon mercato tende a alzare i prezzi del petrolio (e del rame e di altri beni) a sufficienza da rendere redditizio per le aziende estrarre questi beni. E' per questo che l'economia keynesiana tende a funzionare – almeno storicamente. Quando i prezzi del petrolio sono diminuiti a meno di 30 dollari nel 2008, il problema era praticamente un problema di “diminuzione del debito in circolazione” - che ha avuto luogo anche prima della bancarotta di Lehman – come mostrerò nei grafici successivi.


Figura 2. Prezzo del petrolio basato sui dati IEA con ovale che evidenzia il crollo dei prezzi del petrolio, con un crollo del debito in circolazione.

Il picco dei prezzi del petrolio hanno avuto luogo nel luglio 2008. Se guardiamo le quantità di mutui in circolazione negli Stati Uniti, scopriamo che il debito per i mutui per la casa ha raggiunto un picco il 31 di marzo 2008 ed è declinata leggermente dal giugno 2008. La bancarotta di Lehman Brothers non è avvenuta fino al 15 settembre 2008. Un ulteriore declino nella quantità di mutui per la casa in circolazione è avvenuto da quel momento in poi, in parte a causa del declino dei prezzi di vendita e in parte perché le organizzazioni commerciali hanno comprato case per affittarle.


Figura 3. Debito statunitense dei mutui, sulla base dei dati Z.1 della Federal Reserve

Se guardiamo il credito al consumo in circolazione, scopriamo che questo ha raggiunto un massimo il 31 luglio 2008 ed ha cominciato a declinare dal 31 agosto 2008 (il credito al consumo è disponibile su base mensile, mentre il debito dei mutui è disponibile solo su base trimestrale. Un certo cambiamento di definizione che riguarda il credito al consumo deve aver avuto luogo intorno al 31 dicembre 2010 e aver causato il salto delle quantità nel grafico).


Figura 4. Credito al consumo in circolazione sulla base dei dati della Federal Reserve. I dati sui prestiti agli studenti erano disponibili solo dal 31/12/2008 in poi. Le quantità precedenti erano stimate.

Se si escludono i prestiti agli studenti, il credito al consumo (compresi quegli elementi come debito da carte di credito e prestiti per auto) oggi non è ancora tornato ai livelli del 31 luglio 2008 (Figura 4). Non ho mostrato il debito commerciale e finanziario, ma ma sono a loro volta diminuiti, con alcuni picchi successivi, coincidendo più che altro col collasso di Lehman. Secondo me, la spesa dei singoli cittadini è primaria. Quando le loro spesa crolla, si insinua rapidamente nei conti di aziende e governo. Vediamo che questo arriva leggermente dopo. Il Governo Federale si è rapidamente inserito con più spesa (finanziata dal debito), come mostrato nella Figura 5 sotto.


Figura 5. Debito pubblico del governo federale statunitense, basato sui dati della Federal Reserve. 

Se mettiamo insieme tutto il debito degli Stati Uniti (Figura 6 sotto), sia governativo si non governativo, diventa chiaro che il tasso di aumento del debito ha rallentato notevolmente nel 2008 e negli anni seguenti.


Figura 6. Debito degli Stati Uniti, escluso il debito dovuto alle agenzie governative come l'Amministrazione della Sicurezza Sociale. Le quantità sono basata sui dati Z.1 della Federal Reserve. 

Senza questo debito in aumento, i prezzi del petrolio sono scesi a meno di un quarto dei loro valori massimi (Figura 2).  I prezzi di altri prodotti energetici – anche dell'uranio – sono a loro volta scesi. In qualche modo gli alti prezzi del petrolio verificatisi all'inizio del 2008 hanno spento la “pompa” del debito sempre crescente che aveva precedentemente tenuto alti i prezzi.

Prezzi del petrolio e tassi di interesse – i due grandi fattori che colpiscono i redditi voluttuari

Se i prezzi del petrolio raggiungono un picco, chiaramente i redditi voluttuari crollano, per le ragioni descritte sopra. Se i tassi di interesse raggiungono un picco, improvvisamente i beni che vengono comprati col credito (come le automobili, le case e le nuove fabbriche) diventano più cari. Così, un picco dei tassi di interesse tenderà a condizionare negativamente anche il reddito voluttuario. Se la Federal Reserve vuole contrastare gli alti prezzi del petrolio (che continuano a condizionare negativamente il reddito voluttuario sul lungo termine), deve mantenere i tassi di interesse bassi. Da qui i tentativi di mantenere i tassi di interesse bassi sul lungo termine. L'approccio principale per mantenere bassi i tassi di interesse è stato l'Alleggerimento Quantitativo (Quantitative Easing – QE). Il QR statunitense è stato avviato nel tardo 2008 ed è stato mantenuto in piedi da allora. Altri grandi paesi usano a loro volta il QE per mantenere bassi i tassi di interesse. La speranza è che con tassi di interesse molto bassi le economie possano in qualche modo recuperare.

Il QE in realtà non funziona, perché non mette a posto i salari, che sono il problema che c'è alla base

Quando i prezzi del petrolio sono alti, i salari tendono a stagnare (Figura 7 sotto).


Figura 7. Salari medi statunitensi confrontati col prezzo del petrolio, entrambi in dollari del 2012. I salri degli Stati Uniti provengono dall'Ufficio per le Statistiche sul Lavoro, Tavole 2.1, adattate al 2012 usando l'inflazione urbana CPI. I prezzi del petrolio son brent-equivalenti in dollari del 2012, dalla Revisione Statistica dell'Energia Mondiale della BP.

La ragione per cui i salari tendono a stagnare quando i prezzi del petrolio sono alti ha a che fare con l'impatto negativo che i prezzi del petrolio hanno sull'economia. I consumatori tagliano le spese voluttuarie. Questo porta a perdita di posti di lavoro nei settori voluttuari. A sua volta, il lavoro è uno dei costi maggiori che molte aziende hanno. Se i profitti vengono spremuti dagi prezzi alti del petrolio, la risposta logica è quella di cercare di ridurre i salari. Un modo è quello di delocalizzare la produzione in un paese con salari più bassi. Un altro è quello di meccanizzare ulteriormente il processo, aumentando quindi leggermente l'uso di combustibile ma riducendo significativamente i costi dei salari. Al posto di andare agli individui sotto forma di salari, i soldi del QE sembrano andare agli speculatori, che lo usano per fare offerta su prezzi delle azioni e della terra. I soldi provenienti dal QE tendono anche a mantenere alti i prezzi delle case, perché alcune case vengono comprate dagli speculatori. I soldi provenienti dal QE aiutano anche ad incoraggiare investimenti in imprese marginali, come le trivellazioni di gas di scisto. Come ha descritto la situazione di recente Bloomberg, I trivellatori dello scisto sguazzano nel debito spazzatura per rimanere nel giro.

Ciò che pompa realmente l'economia è un'offerta in aumento di petrolio a buon mercato

Una prova che sostiene il punto di vista secondo cui il petrolio a buon mercato pompa l'economia è il salario medio in aumento visto in Figura 7 (sopra) durante il periodo in cui i prezzi del petrolio sono bassi. Un'altra prova che sia così è il collegamento stretto fra consumo di petrolio (e consumo di energia in generale) e PIL al netto dell'inflazione (Figura 8 sotto).


Figura 8. Crescita del PIL mondiale confrontata con la crescita del consumo di petrolio e di energia mondiale, basato su media triennali. Dati dalla Revisione Statistica dell'Energia Mondiale 2013 della BP e  dalla compilazione del'USDA del PIL reale mondiale.

Quando c'è un'offerta di petrolio inadeguata, questo condiziona la crescita del PIL. Ciò accade perché non c'è un modo rapido ed economico di spostarsi dal petrolio. Ci serve petrolio per tantissimi usi, compresi trasporto, agricoltura e costruzioni. Nei tardi anni 70 e nei primi anni 80, abbiamo cercato di spostarci dal petrolio il più possibile. Ora i frutti bassi per fare un tale passaggio sono in gran parte andati. Il picco dei prezzi del petrolio ha segnalato che qualcosa era cambiato drammaticamente. Non potevamo più contare su un'offerta in aumento di petrolio a buon mercato per pompare l'economia. Le opportunità di lavoro delle persone stavano diminuendo. Si è reso necessario un taglio sul debito. Oppure un taglio della disponibilità di credito dei creditori. In un modo o nell'altro, i cittadini hanno cominciato a usare meno debito.

Offerta mondiale di petrolio

L'offerta mondiale di petrolio sta crescendo solo molto lentamente, come mostrato nella Figura 9. Mentre sentiamo molto parlare di crescita del petrolio dalle formazioni di scisto, questo funge più che altro da compensazione della perdita di produzione altrove.


Figura 9. Crescita dell'offerta mondiale di petrolio, con linee di tendenza adattate, basata sulla Revisione Statistica dell'Energia Mondiale 2013 della BP.

E' una mancanza di crescita dell'offerta di petrolio insieme al suo prezzo alto che sta frenando la crescita economica. Come detto in precedenza, sono necessari tassi di interesse molto bassi solo per mantenere il livello di crescita economica che abbiamo ora.

La differenza fra un'economia in crescita ed una in contrazione per ripagare il debito

In un'economia in crescita è possibile ripagare il debito con gli interessi. Ma quando l'economia non cresce, è molto più difficile ripagare il debito.


Figura 10. Ripagare i prestiti è facile in un'economia in crescita, ma molto più difficile in un'economia in contrazione

E' probabile che sia questo il problema che sta alla base della difficoltà che le economie hanno nell'aumentare il loro indebitamento. Tassi di interesse molto bassi possono aiutare, ma alla fine se l'economia non si espande, il debito non funziona bene. I salari non crescono al netto dell'inflazione e, a causa di questo, non è possibile per i cittadini indebitarsi molto di più. L'aumento del debito degli studenti si frappone all'aquisto di case con l'uso di mutui successivamente.

Lo sfortunato problema del prezzo del petrolio che abbiamo ora

Il problema che abbiamo ora è che un'offerta di petrolio a buon mercato in aumento non è più possibile. Gran parte del petrolio facile da estrarre è già andato. Piuttosto, il costo di estrazione continua a salire, ma i salari non crescono a sufficienza perché le persone si possano permettere l'alto costo dell'estrazione di petrolio (anche con tassi di interesse super bassi). La sfortunata conseguenza è che i prezzi del petrolio ora sono troppo bassi per molti produttori. Ho descritto ciò nel mio post L'inizio della fine? Le compagnie petrolifere tagliano le spese. Siccome i prezzi del petrolio sono troppo bassi perché le compagnie lo estraggano, ci servono davvero prezzi del petrolio più alti. Ma se i prezzi del petrolio sono più alti, riporteranno il paese (e il mondo) nella recessione. I tassi di interesse sono già molto bassi – non è possibile abbassarli ulteriormente per compensare i costi del petrolio. Stiamo raggiungendo il limite di quello che le banche centrali possono fare per tenere insieme le economie.

L'effetto dell'aumento dei tassi di interesse sull'economia

Se ci vogliono tassi di interesse molto bassi per compensare i prezzi del petrolio, dovrebbe essere chiaro che tassi di interesse in aumento, sempre che possano aumentare, avranno un effetto disastroso sull'economia. Se i tassi di interesse dovessero salire, ci si può aspettare che avranno diversi effetti negativi, in pratica simultaneamente.


  • Renderanno i pagamenti mensili per una nuova casa o automobile più cari, riducendo le vendite di entrambe
  • Ridurranno i prezzi di vendita delle obbligazioni esistenti (effettuate sui bilanci delle banche, sui fondi pensione e sulle compagnie di assicurazione)
  • Ridurranno probabilmente i prezzi del mercato azionario, perché le obbligazioni daranno l'impressione di avere un rendimento maggiore in confronto. 
  • Inoltre, il paese verrà spinto nella recessione e i prezzi inferiori delle azioni si tradurrà sulla base delle prospettive apparentemente peggiori di gran parte delle aziende.
  • Il valore di rivendita delle case probabilmente scenderà, perché ci saranno meno persone nel mercato per lo scambio di case. 
  • Il governo degli Stati Uniti dovrà pagare un interesse maggiore sul suo debito, che renderà necessario un aumento delle tasse, spingendo ulteriormente il paese verso la recessione. 
  • Con tasse più alte e più licenziamenti, ci saranno più fallimenti per debiti di ogni tipo. Banche, compagnie di assicurazione e piani pensione ne saranno particolarmente colpite. Molte avranno bisogno di essere salvate, ma sarà sempre più difficile farlo.

La Federal Reserve ha detto che sta per ridurre la quantità di debito che compra sotto il QE. L'effetto atteso della riduzione del QE è che i tassi di interesse aumenteranno, specialmente per quanto riguarda il debito a lungo termine. Per un po', i tassi di interesse degli Stati Uniti sono aumentati e la vendita di case è crollata. Ma più di recente, dall'inizio del 2014 ad ora, i tassi di interesse sembrano diminuire piuttosto che salire. Questo è strano, visto che questo è il periodo in cui la riduzione del QE dovrebbe avere luogo, piuttosto che essere semplicemente pianificata. E' possibile che le transazioni transoceaniche stiano distorcendo ciò che sta avvenendo realmente.

Uscire da questo pasticcio

La sostituzione del debito per il salario aggiuntivo non è necessariamente una cosa buona, anche con tassi di interesse molto bassi. Per esempio, la lunghezza massima dei nuovi prestiti per l'acquisto di automobili è aumentato da cinque a sei a sette anni, permettendo alle persone di comprare automobili costose. Il trucco è che i prestiti sono “sott'acqua” più a lungo e diventa più difficile comprare un'auto sostitutiva. Quindi alla fine i compratori tendono a tenersi le proprie automobili più a lungo, riducendo la domanda di nuove automobili. Il problema non è completamente risolto; in qualche misura è solo ritardato. E' difficile vedere una via d'uscita dal nostro dilemma attuale. La capacità dei consumatori di pagare prezzi più alti per beni e servizi in circostanze normali richiede salari più alti. Ma se salari più alti non sono disponibili, debito maggiore più tassi di interesse molto bassi possono “tipo” sopperire. Questa non può essere una soluzione permanente, perché ci sono troppe cose che disturberanno questo equilibrio.

Come abbiamo visto, tassi di interesse in aumento porteranno a una fine del nostro attuale equilibrio, aumentando i costi in molti modi, senza che aumentino i salari. Ciò ridurrà anche i valori dei prezzi di patrimoni e obbligazioni. Un aumento del costo dell'estrazione del petrolio, se non è accompagnata da prezzi del petrolio alti, metterà a sua volta fine al nostro equilibrio, perché i produttori di petrolio smetteranno di trivellare il numero di pozzi necessari per mantenere alta la produzione. Se i prezzi del petrolio aumentano (a prescindere dalla ragione), questo tenderà a portare l'economia in recessione, portando a perdita di posti di lavoro e fallimenti per debito. Il solo modo per far andare avanti le cose un po' più a lungo potrebbero essere i tassi di interesse negativo. Ma anche questo appare “incerto”. Viviamo davvero in tempi interessanti.


lunedì 9 giugno 2014

Il CO2 non fa necessariamente bene alle piante

Da “BBC News”. Traduzione di MR (h/t Nicola Caporaso). 

Di Matt McGrath


Il contenuto di nutrienti delle grandi colture come il grano viene probabilmente ridotto dall'aumento delle temperature

L'aumento dei livelli di CO2 nel mondo avrà un impatto significativo sul contenuto di nutrienti, secondo un nuovo studio. 

Gli esperimenti mostrano che è probabile che i livelli di zinco, ferro e proteine vengano ridotti fino al 10% nel grano e nel riso per il 2050. Gli scienziati dicono che questo potrebbe avere implicazioni sulla salute per miliardi di persone, specialmente nel mondo in via di sviluppo. Il rapporto è stato pubblicato sulla rivista Nature. I ricercatori negli ultimi due decenni si sono sforzati per progettare sperimentazioni sul campo su larga scala per modellare con precisione gli impatti dell'aumento dei livelli di CO2 nella composizione dei nutrienti delle colture. Ora, una squadra internazionale ha messo insieme un'analisi globale basata su esperimenti in Giappone, Australia e Stati Uniti. Hanno coltivato 41 diverse varietà di cereali e legumi in campo aperto, coi livelli di biossido di carbonio attesi per la metà di questo secolo. “Probabilmente è la più significativa minaccia alla salute che sia stata documentata da parte del cambiamento climatico”, ha detto l'autore principale, il dottor Samuel Myers della Scuola di Salute Pubblica di Harvard. “Abbiamo scoperto riduzioni significative di ferro, zinco e proteine nel riso e nel grano ed abbiamo scoperto riduzioni significative di ferro e zinco nella soia e anche nei piselli”, ha detto.

     Scala degli impatti
     Livelli di CO2 di 546-568 ppm ridurrebbero i nutrienti nei cereali e nei legumi delle quantità seguenti:
  • Grano: zinco -9,3%; ferro -5,1%; proteine -6,3%
  • Riso: zinco -3,3%; ferro -5,2%; proteine -7,8%
  • Piselli: zinco -6.8%; ferro -4,1%; proteine -2,1%
  • Soia: zinco -5,1%; ferro -4,1%; proteine -4,6%
  • Nessuna riduzione significativa per mais e sorgo

I ricercatori stimano che queste riduzioni che raggiungono il 10% potrebbero avere grandi conseguenze per la salute di milioni di persone nel mondo. Circa un terzo della popolazione globale sta già soffrendo di carenze di ferro e zinco, che portano come conseguenza alla perdita di circa 63 milioni di anni di vita ogni anno. “Abbiamo scoperto che circa 2 miliardi di persone stanno assumendo almeno il 70% del loro ferro e zinco da questi cereali e legumi. Quindi le riduzioni in queste colture sono potenzialmente molto preoccupanti in termini di aumento di quelle deficienze”, ha detto il dottor Myers. Mangiare più cibo per compensare queste riduzioni dei nutrienti non sarebbe una buona soluzione, ha detto. “Il problema è che se si mangiano il 5-10% di calorie in più ogni giorno, sarebbe questione di mesi il fatto di diventare patologicamente obesi, incorrendo in problemi circa le malattie metaboliche”. 


Diverse varietà di riso hanno reagito diversamente al CO2, dando la speranza che si possano sviluppare nuove razze che non perdano i propri nutrienti

Gli scienziati non sono sicuri del meccanismo attraverso il quale i livelli di biossido di carbonio di circa 550 ppm limitino i nutrienti delle colture. Si pensa che le colture sostituiscano i nutrienti coi carboidrati nel momento in cui il gas aumenta. Ma la nuova ricerca è stata incoerente su questo punto. 

Difficoltà di riproduzione

Gli autori hanno scoperto che in alcune specie come il riso ci sono considerevoli differenze nella risposta al CO2 che fa loro sperare di superare queste riduzioni. “Ciò che ipotizziamo è che ciò potrebbe costituire una base per programmi di riproduzione per produrre riso che sia meno sensibile al CO2. Non stiamo dimostrando che questo sia possibile, ma stiamo solo dicendo che potrebbe esserci una base genetica per farlo”, ha detto il dottor Myers. “Questi programmi di riproduzione sono tutti buoni sulla carta, ma non si possono produrre dei cultivar che magari riduce il rendimento, o non ha un buon sapore. E' complicato”. L'impatto del carbonio sul livello dei nutrienti è un altro colpo alla produzione globale di cibo. Secondo l'IPCC, i rendimenti delle colture sono destinate anche a soffrire in conseguenza dell'aumento delle temperature. I loro recente riassunto sugli impatti del riscaldamento globale ha dichiarato che la produzione di mais, grano e riso diminuirà nel corso di questo secolo. 

Il grande imbroglio del PIL 2014



Questa faccenda del "PIL truccato" l'avevo già fatta notare in un post precedente su "Effetto Risorse". Come è ovvio, non sono stato il solo ad accorgersene; ecco qui un commento recente da "Scenari Economici" che stima che la revisione del PIL con l'inclusione delle attività illegali potrebbe portare a un aumento di oltre il 10% (!!). In sostanza, quando non funziona più nulla, non rimane che truccare i conti.


da "Scenari Economici" di "GPG"

#arrivailBidone – La Revisione del PIL potrebbe pesare tra il 6 ed il 14% del PIL

Su scala planetaria, di recente, c’e’ un gran da fare per revisionare i metodi di calcolo del PIL. Qualche mese fa si parlava dell’adozione nel PIL della spesa in ricerca e sviluppo, attualmente conteggiata come un costo e che invece rientrerà tra gli investimenti, e quindi nel PIL, sulla scorta di quanto fatto negli USA. Si stimava (vedi QUI) un impatto in europa del 2% (appena l’1-2% per l’Italia dove tali spese hanno minore incidenza). Di recente pero’, si sa che in autunno arrivera’ una revisione del PIL che includera’ oltre a quanto sopra, anche l’inclusione nel PIL delle attivita’ criminali. La domanda da porsi e’: quanto pesera’ tutto cio’?

Andiamo a vedere cosa dice l’ISTAT. Nel paper “Cambia il Sistema dei conti nazionali” ci dice che”
Il 2014 è un anno di importanti cambiamenti per il Sistema dei conti nazionali (Sec), l’impianto che definisce la metodologia armonizzata per la produzione di dati di contabilità nazionale all’interno dell’Unione europea. In Italia, come in gran parte dei paesi Ue, il passaggio ad una nuova versione delle regole di contabilità (ovvero la transizione dalla versione 1995 a quella 2010 del Sec) è il momento più adatto per adottare i necessari miglioramenti dei metodi di misurazione e per introdurre nuove fonti informative che si sono rese disponibili negli anni recenti.
Aprendo l’allegato si sa che la nuova stima del PIL arrivera’ il 3 Ottobre 2014. Vediamo alcuni passaggi:
Le innovazioni dei metodi di misurazione e delle fonti che saranno introdotte nei nuovi Conti Nazionali sono state suddivise in tre categorie principali:

a) I cambiamenti metodologici introdotti dal Sec2010
 Qui si parla di considerare nella nuova versione dei conti, le spese in Ricerca e Sviluppo come spese di investimento (e quindi PIL) e non come costi. Cio’ si porta dietro anche gli ammortamenti dello stock di capitale di R&S delle PA. Anche le spese per armamenti, verranno riclassificate da spese per consumi intermedi a spese per investimento.

b) Le altre modifiche sulle pratiche di compilazione dei conti
Qui c’e’ un po’ di tutto, e cio’ nasce da rilievi Eurostat. Tuttavia, la rilevanza maggiore, riguarda l’inserimento nei conti delle attività illegali, che già il Sec95 aveva previsto, in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico. La misurazione di tali attività è molto difficile, per l’ovvia ragione che esse si sottraggono a qualsiasi forma di rilevazione, e lo stesso concetto di attività illegale può prestarsi a diverse interpretazioni. Eurostat ha fornito linee guida ben definite. Le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol).

c) Innovazioni e miglioramenti nelle misurazioni combinati a nuove fonti informative
 Innovazioni connesse al modello di definizione dell’input di lavoro e i metodi di misura dell’economia non osservata e, in particolare, della componente connessa con la sotto-dichiarazione dell’attività economica da parte della imprese. Il nuovo modello di costruzione delle stime dell’occupazione è basato sulla completa integrazione a livello micro di tutte le fonti amministrative con informazioni relative all’attività lavorativa (e ai relativi redditi) e sul loro collegamento puntuale con le informazioni raccolte dal lato degli individui mediante l’indagine continua sulle Forze di Lavoro. E’ stata sviluppata una revisione completa ed approfondita dell’insieme delle metodologie utilizzate per la misurazione dell’economia non osservata … e nella misurazione delle componenti non osservate dell’economia riguarda la stima dei redditi da lavoro dipendente per il lavoro irregolare.
Ricapitolando:
 a) I cambiamenti metodologici introdotti dal Sec2010 (Spese Ricerca e Sviluppo, etc): queste sono stimate avere un impatto sul PIL dell’ordine dell 1-2% in Italia
b-c) Aaltre modifiche, inserimento nel PIL delle attivita’ illegali e criminali (traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando), nuova stima dell’economia sommersa.

L’Istat, già inserisce nel Pil il sommerso economico, ovvero tutte quelle attività di produzione che, pur essendo legali, sfuggono al controllo diretto attraverso il sistema di frode fiscale e contributiva. Le ultime stime in questo senso risalgono al 2008 e indicano come il valore aggiunto prodotto nell’area del sommerso sia stimato tra un minimo di 255 e un massimo 275 miliardi di euro, per un peso percentuale sul Pil che si aggira tra il 16,3% e il 17,5%. Queste verranno riclassificate, ma non si sa l’impatto sul PIL.
La vera novita’ e’ l’inserimento nel calcolo del Pil di alcune attività illegali. La cosa e’ complessa per la misurazione di questo tipo di attività che, per evitare di incorrere in sanzioni legislative, si sottraggono a qualsiasi forma di rilevazione.
Eurispes stimo’ che nel 2007 l’intera economia criminale pesava l’11% del PIL.  Confesercenti fece una stima analoga parlando del 7% del PIL. Banca d’Italia fece uno studio approfondito (opera di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati) relativo al quadriennio 2005-2008, valutando il peso dell’economia illegale al 10,9% del PIL (vedi QUIQUI). Un’altro studio condotto da Argentiero, Bagella e Busato parla del 12% di attivita’ di riciclaggio. Quardate cosa c’e’ scritto nello studio della Banca d’Italia:
Dai risultati emerge un’incidenza media dell’economia sommersa e di quella illegale pari rispettivamente al 16,5 e al 10,9 per cento del PIL. Questa evidenza conferma che, trascurando la componente di scambi illegali, si rischia non solo di imputare erroneamente a comportamenti di evasione una parte di transazioni in contanti derivante invece da attività illecite, ma anche di sottostimare il valore complessivo dell’economia irregolare. Tuttavia, rivedere la stima dell’economia sommersa non implica automaticamente una pari revisione nel livello del PIL, che consegue da un articolato processo di combinazione e bilanciamento di un vasto insieme di indicatori della domanda e dell’offerta, tra cui le attività sommerse.”

 gpg01 - Copy (233) - Copy - Copy

In sintesi, la Revisione del PIL che arrivera’ ad Ottobre, vedra’:

A) Una crescita del PIL dell’1-2%  per l’adozione del SEC 2010 (spese R&S, etc)

B-C) Una crescita del PIL che verosimilmente puo’ essere del 5-12% legata alla stima di gran parte dell’economia illegale e dalla ritaratura dell’economia sommersa

Conclusione) L’Impatto sul PIL dovrebbe essere tra il 6% ed il 14%. Verosimilmente sara’ dell’8-10%.


Cosa implica cio’? Ipotizziamo che il PIL venga rivisto al rialzo del 10%.

  • Il Debito Pubblico del 2014 verrebbe rivisto dal 136% al 124%

  • Un Deficit del 3,3% (con l’attuale contabilizzazione) varrebbe il 3,0% (col PIL revisionato), e quindi vi sarebbe un “extra-deficit” teorico per rispettare il 3% superiore a 5 miliardi

  • Magicamente le Uscite e le Entrate dello stato, attualmente nell’ordine del 51% e 48% del PIL, passerebbero rispettivamente al 46-47% e 43-44%.


gpg01 - Copy (234) - Copy - Copy
Ovviamente nessun problema dell’Italia verra’ minimamente risolto, ma molti saranno indotti a pensare che le cose vanno meglio.
GPG




domenica 8 giugno 2014

Sparisce il 96% del petrolio di scisto in California


 


Da “jeremyleggett.net” (12). Traduzione di MR (h/t Dario Faccini)


Shock per la revisione del 96% in meno del presunto tight oil statunitense.

LA Times: “Le autorità energetiche federali hanno tagliato del 96% la quantità stimata di petrolio recuperabile sepolto nel vasto deposito di scisto californiano di Monterey, sfonfiando il suo potenziale come 'miniera di oro nero' nazionale”. “Solo 600 milioni di barili di petrolio possono essere estratti con la tecnologia esistente, di gran lunga al di sotto dei 13,7 miliardi di barili che un tempo si pensava di poter recuperare dagli strati mescolati di roccia sotterranea distribuita lungo gran parte della California centrale, ha detto la EIA.

La nuova stima, attesa per la pubblicazione il prossimo mese, è un colpo al futuro petrolifero della nazione ed alle previsioni secondo le quali un boom petrolifero avrebbe portato 2,8 milioni di nuovi posti di lavoro in California e incrementare gli introiti delle tasse di 24,6 miliardi di dollari all'anno. La formazione di scisto di Monterey contiene circa due terzi delle riserve di petrolio di scisto nazionali. E' stato visto come un'enorme e ricco giacimento che avrebbe ridotto il bisogno nazionali di importazione di petrolio straniero, attraverso l'uso delle ultime novità in fatto di tecniche di estrazione, compresi i trattamenti acidi, la trivellazione orizzontale e il fracking. L'agenzia energetica ha detto che la stima precedente di petrolio recuperabile, pubblicata nel 2011 da una ditta privata sotto contratto col governo, ha sostanzialmente ipotizzato che i depositi nella formazione di scisto di Monterey fossero facilmente recuperabili quanto quelli trovati in formazioni di scisto altrove. … La nuova analisi della EIA si è basata, in parte, su una revisione della produzione dai pozzi dove sono state usate le nuove tecniche. … J. David Hughes, un geoscienziato e portavoce del no profit Post Carbon Institut, ha detto che la formazione di Monterey “è sempre stato il filone principale mitico gonfiato dall'industria petrolifera – non è mai esistito”.

-------

Non c'è gas di scisto nel bacino di Weald nel Regno Unito e poco petrolio recuperabile, conclude un'indagine. 

Guardian: “Le speranze che il governo britannico possa emulare gli Stati Uniti cominciando una rivoluzione del gas di scisto sono state deluse dopo un rapporto a lungo atteso che ha inaspettatamente concluso che non c'è alcun potenziale nel fracking per il gas nella regione di Weald, nel sud dell'Inghilterra”. “Michael Fallon, il ministro dell'energia, ha insistito di non essere “né deluso né felice” rispetto alle scoperte della British Geological Survey (BGS) ed ha negato che il governo abbia gonfiato il potenziale per estrarre il gas di scisto in Gran Bretagna. Ha preferito concentrarsi sulle scoperte più positive della BGS secondo le quali potrebbero esserci 4,4 miliardi di barili di petrolio nelle rocce di scisto dell'area, che si estendono da Salisbury a Tunbridge Wells – anche se in pratica le riserve recuperabili è probabile che siano solo una parte di queste.

… Il governo ha cominciato una consultazione di 12 settimane sulla nuova legislazione che aggirerebbe la legge di sconfinamento per il lavoro sotterraneo che è di 300 metri o più al di sotto della superficie e per i pagamenti volontari della comunità di 20.000 sterline per ogni pozzo laterale trivellato. … Ma la conclusione della BGS che “è improbabile che ci sia un qualsiasi potenziale di gas di scisto” nell'area di Weald è un forte colpo alle più ampie speranze del ministro di poter trovare scisto lungo tutto il paese. L'uso di nuove tecnologia come il fracking potrebbe significare volumi maggiori, la la BGS ha detto che servono più trivellazioni e più test per “ridurre quella cifra di 4,4 miliardi di barili”. Anche così, la quantità di petrolio di scisto portato in superficie potrebbe essere solo “una piccola percentuale” di tutte le riserve recuperabili”.

Università Italiana: l'effetto dei ritorni decrescenti della complessità



Immaginatevi un ministero della difesa impegnato a finanziare il terrorismo internazionale. Immaginatevi un ministero del turismo impegnato a far saltare in aria con la dinamite i monumenti nazionali. Immaginatevi un ministero della salute impegnato nello sviluppo di armi batteriologiche. Esagerazioni, ovviamente, ma il concetto di infliggere quanti più possibili danni all'entità che si dovrebbe salvaguardare è stato sviluppato con grande efficacia dai vari ministeri che hanno gestito la ricerca in Italia. Ci sono riusciti imponendo una serie di leggi e regole assurde che in questi ultimi tempi stanno finendo di distruggere il sistema di ricerca italiano, già in grave difficoltà per mancanza di fondi. Sembra che ci sia poco da fare contro i "ritorni decrescenti della complessità" descritti da Tainter.

Sullo sfascio dell'università italiana, il collega Nicola Casagli relaziona in questo post da "roars.it


Vent’anni dopo



Se penso a tutto questo mi sento responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema, sono stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi rendo conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa progressiva deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo l’Università e la ricerca nel nostro Paese. In questi venti anni si sono succeduti al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati Rettori, molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto questo, nemmeno un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa di buono, a mio parere, è stato ….

Ho letto e apprezzato il documento del Consiglio Universitario Nazionale denominato “Semplifica Università: per cominciare” a cui ho fornito anche un piccolo contributo attraverso i nostri rappresentanti. È solo l’inizio e seguiranno altre richieste. Spero che le Istituzioni ascoltino il “grido di dolore” dell’Università e che intervengano con fatti concreti. Ho scritto quanto segue nella speranza di contribuire un po’ a far capire l’urgenza e la gravità della situazione.
Venti anni fa completavo il mio dottorato di ricerca e iniziavo la mia carriera accademica come assistente alla cattedra di Geologia Applicata, svolgendo didattica integrativa di supporto all’insegnamento di Geologia Applicata del Corso di Laurea in Scienze geologiche.
Oggi sono professore ordinario del settore concorsuale 04/A3 – settore scientifico disciplinare GEO/05 e sono titolare di 9 CFU dell’insegnamento B015668 del Corso di laurea triennale B035 nel primo semestre e di 6 CFU dell’insegnamento B016195 della magistrale B103 nel secondo semestre. Va già meglio, qualche anno fa mi trovavo nella schizofrenica situazione di coprire in un anno 29 CFU di 5 insegnamenti diversi.

Codici, ordinamenti, regolamenti, aule e programmi cambiano praticamente tutti gli anni.
Sono le conseguenze, a lungo termine, della riforma Berlinguer varata con la legge 10 febbraio 2000 n. 30 “Legge Quadro in materia di Riordino dei Cicli dell’Istruzione” e della controriforma Moratti, ovvero dalla legge 28 marzo 2003 n. 53 “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”.

Siamo proprio sicuri che di “riordino” e di “miglioramento delle prestazioni” si sia trattato?
La disoccupazione per tutti i tipi di laurea è aumentata inesorabilmente e sta continuando a crescere raggiungendo, nel 2014, il 26,5% tra i laureati triennali e il 23% fra i giovani in possesso di una laurea magistrale.

Solo negli ultimi dieci anni le Università italiane hanno perso 78 mila immatricolazioni, pari al 23% del totale. Forse anche un po’ perché nessuno ci capisce più nulla?
Venti anni fa, quando entravo in aula un custode mi salutava con “buongiorno professore” (e non ero professore) e io lo ringraziavo per aver pulito la lavagna, aggiunto i gessi nuovi, fotocopiato e distribuito le dispense agli studenti. Il corso durava un anno e si teneva sempre nella stessa aula, equipaggiata con le attrezzature necessarie.

Oggi entro in aula e chiedo agli studenti: “Chi siete? Cosa vi devo insegnare?“ Mi rispondono con codici e acronimi, ordinamenti e regolamenti. Per ogni aula mi devo procurare le chiavi, le attrezzature didattiche, il computer portatile (sperando che il videoproiettore funzioni) e i pennarelli per la lavagna (sperando di trovare almeno la cimosa). I custodi non ci sono più: sorveglianza e pulizie le fanno le cooperative del CONSIP: giovani, spesso laureati, spesso sottopagati con contratto precario che cambiano continuamente e seguono gli appalti. L’assistenza ai docenti ce la facciamo da soli.

Sono gli effetti, tra l’altro, della legge finanziaria per l’anno 2001 (legge 23 dicembre 2000 n. 388 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”) che ha istituito il programma per la razionalizzazione degli acquisti della Pubblica Amministrazione, con “l’obiettivo di razionalizzare la spesa di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni, migliorando la qualità degli acquisti e riducendo i costi grazie all’aggregazione della domanda, e di semplificare e rendere più rapide e trasparenti le procedure degli acquisti pubblici”.

Nel frattempo la spesa pubblica italiana, al netto degli interessi sul debito, è aumentata di oltre il 69%.
Venti anni fa facevo ricerca e pubblicavo in modo normale. Gran parte del mio tempo era impiegato nello studio e nella scrittura di articoli scientifici. Avevo il tempo di leggere le pubblicazioni scientifiche dei colleghi e i colleghi avevano il tempo di leggere le mie. Per ogni pubblicazione si consegnavano gli estratti alla biblioteca, dove erano disponibili per gli studenti e per tutti.

Oggi passo gran parte del mio tempo a cercare di comprendere e a compilare bizzarri moduli e formulari, a partecipare a commissioni di valutazione e a gruppi di lavoro, a scrivere relazioni che giustificano le mie normali attività di insegnante e di ricercatore.

Oggi è di gran moda la valutazione della ricerca. Si combatte con un’astrusa e macchinosa piattaforma informatica denominata U-GOV-Ricerca predisposta dal CINECA con criteri e logiche obsolete. Si inseriscono le pubblicazioni, verificando attentamente gli obblighi del copyright, si calcolano le citazioni e gli indici H, si analizzano mediane realizzate con dati sempre incompleti e mai verificabili. Abbiamo l’ANVUR, la VQR e l’ASN. Giochiamo con i numeri e con la vita delle persone: perché tutto questo serve a distribuire le risorse, sempre più esigue, e i posti, sempre più scarsi e sempre più precari.

Sono gli effetti perversi, tra l’altro, della Legge del 24 novembre 2006 n. 286 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, recante disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria“. La valutazione delle Università in Italia nasce come provvedimento urgente di natura fiscale e questo la dice lunga su come è poi stata implementata.

Venti anni fa per ogni insegnamento si scriveva un programma di un paio di pagine, si indicavano i libri di testo, e lo si distribuiva agli studenti. Il corso era annuale e c’era il tempo per pensare, studiare, discutere, insegnare e imparare. I docenti facevano lezioni e trasmettevano conoscenze basate sull’esperienza e sull’attività di ricerca. Alla fine dell’anno gli studenti compilavano la scheda di valutazione del corso e la consegnavano ai docenti in forma anonima. Con una breve lettura si era subito in grado di capire cosa migliorare.

Oggi, all’inizio di ogni modulo didattico, dobbiamo riempire un bizzarro formulario che, per ogni codice/insegnamento, ci richiede: CFU erogati per tipologia di attività formativa, contenuti, obiettivi formativi, conoscenze acquisite, competenze acquisite, capacità acquisite, prerequisiti, modalità di verifica dell’apprendimento. Ancora non ho capito, come molti colleghi, la differenza tra conoscenze, competenze e capacità. Sono concetti che sfuggono alla mia conoscenza o alla mia competenza o alla mia capacità, chissà!

I docenti oggi non fanno più lezione, bensì “erogano CFU”: si deve fare velocemente, in modo standardizzato, si devono dare le dispense, non si studia più quasi sui libri, gli studenti non sono più abituati a consultare in modo critico le conoscenze a loro disposizione (non c’è tempo!), devono solo assimilare un pacchetto preconfezionato di CFU.

La valutazione del corso si fa on line. Gli studenti riempiono un questionario prima dell’esame, a volte a distanza di mesi dalla frequenza delle lezioni. Il docente deve andare su un sito web, ricercare il codice del suo insegnamento e cercare di capire qualcosa in una selva di indicatori di qualità e di performance.

Una quantità straordinaria di tempo è, e sarà sempre di più, dedicata alla strana pratica dell’autovalutazione: con i GAV, l’AVA, l’AQ, l’AP, la SUA, le CEV e il TECO. Si riempiono formulari si incontrano certificatori della qualità, da poco usciti dalle nostre stesse Università, che valutano i processi, come se fossimo un’industria manifatturiera che produce pezzi meccanici. A nessuno interessa cosa si insegna in aula, interessa solo la qualità del processo formativo, il mezzo e non il fine.

Si tratta delle conseguenze a lungo termine della burocratica via italiana per l’implementazione del Processo di Bologna per la “costruzione dello spazio europeo dell’istruzione superiore e della ricerca”, e della strategia di Lisbona per “rafforzare l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di un’economia fondata sulla conoscenza”.

Il risultato è che lo “spazio europeo” lo abbiamo costruito davvero con la fuga all’estero dei nostri 
laureati che sta raggiungendo proporzioni dilaganti: oltre 5 mila per anno. Il 7% dei laureati che trovano impiego a un anno dalla laurea, lo trova fuori dal Paese. L’“economia della conoscenza” poi pare essere rimasta nelle dichiarazioni, visto che l’Italia è l’ultimo dei 28 Paesi dell’Unione europea per giovani laureati in percentuale sulla popolazione e tra i primi per ragazzi che abbandonano precocemente gli studi.

Venti anni fa se c’era da acquistare un apparecchio di laboratorio riempivo un modulo con indicazione del fornitore, del prodotto, del prezzo e del progetto su cui chiedevo di imputare la spesa. Consegnavo il modulo in segreteria e dopo qualche giorno ricevevo quanto ordinato.

Oggi se devo acquistare un apparecchio da pochi euro per il mio laboratorio inizia l’incubo. Mi chiedono di andare sul MEPA, su un sito dall’architettura informatica arcaica e illogica. Se ho la “sfortuna” di trovare l’oggetto sul MEPA lo devo per forza acquistare con questo strumento bizantino, a un prezzo fuori mercato, con tempi di consegna intollerabili. Se invece sono “fortunato”, e l’oggetto non è presente sul MEPA, devo riempire un modulo per certificare che non c’è, e poi devo contattare cinque – dico cinque – fornitori diversi per farmi fare delle offerte. Sono obbligato a scegliere la più bassa senza guardare alla qualità. Alla fine la pratica si compone di una trentina di moduli e di una quindicina di firme. Per indicare su quale fondo imputare la spesa devo inserire un codice incomprensibile, del tipo CSGPRN11 che codifica il progetto di pertinenza.

A causare tutto questo sarebbero le norme sui contratti pubblici che recepiscono in modo burocratico un paio di direttive europee sulla trasparenza degli appalti. Leggo con sconforto i 257 articoli, suddivisi in 42 fra titoli, capi e sezioni, e i 38 allegati, del decreto legislativo coordinato e aggiornato del 12 aprile 2006 n.163. “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”. Mi chiedo che cosa c’entra tutto questo con i laboratori universitari e proprio non capisco perché nelle Università i piccoli acquisti non si riescono più a fare in modo ragionevole, mentre nel nostro Paese i grandi appalti continuano a non essere trasparenti e la corruzione dilaga.

Venti anni fa, quando ci veniva approvato un progetto, nell’attesa dello stanziamento dei fondi, si poteva anticipare la spesa su un altro fondo e poi stornarla sul progetto di pertinenza al momento dello stanziamento. Si poteva iniziare a lavorare subito e raggiungere per tempo gli obiettivi richiesti.
Oggi questa cosa banale non si può più fare. È sopravvenuta la Legge del 13 agosto 2010 n.136 “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, poi seguita dalla Legge del 17 dicembre 2010 n.217 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.187 del 12 novembre 2010 recante misure urgenti in materia di sicurezza”. Le relative norme anti-riciclaggio impediscono gli storni di fondi fra progetti diversi perché impongono un CUP per ciascun progetto e un CIG per ciascuna acquisizione di beni o servizi.

Mi chiedo cosa c’entra l’antimafia con la ricerca nell’Università? Mi chiedo se il legislatore ha pensato all’impatto di questa burocratica norma sulle cose normali che si facevano tutti i giorni? Adesso per fare una spesa su un progetto di ricerca non basta più l’approvazione, bisogna attendere lo stanziamento. E spesso questo avviene quando il progetto è già concluso. Nessuna conseguenza però: perché nessuno controlla il buon esito del progetto di ricerca, la qualità e la quantità dei risultati ottenuti. Basta solo rendicontare correttamente le spese per l’audit, con il CUP e i CIG al posto giusto.

Questa è apparentemente l’unica cosa che interessa allo Stato Italiano o, meglio, interessa solo il contenimento della spesa. Il concetto di base è quello di rendere estremamente complicato spendere soldi della Pubblica Amministrazione. Peccato che nessuno abbia spiegato ai burocrati governativi che per i progetti di ricerca i fondi non spesi non possono essere incamerati nel bilancio delle Università o dello Stato. Se non spendo i fondi di un progetto europeo il risultato è che la Commissione Europea trattiene i fondi inutilizzati e poi tutti si lamentano se il nostro Paese non è capace di utilizzare i finanziamenti europei che riceve.
Venti anni fa se un professore aveva bisogno di un collaboratore faceva qualche colloquio e affidava un incarico di collaborazione che poteva essere rinnovato a piacimento, sulla base delle esigenze e dei risultati.

Oggi se ho bisogno di un collaboratore devo preparare un bando pubblico, devo inviarlo alla Corte dei Conti per un parere preventivo di legittimità che arriva in genere dopo un paio di mesi, devo poi pubblicare il bando e seguire le procedure dei concorsi pubblici (quelle pensate per le assunzioni a tempo indeterminato). Devo riunire una commissione per tre/quattro sedute, valutare titoli con burocratici punteggi, fare una prova orale con domande scritte e sorteggiate, fare verbali in triplice copia originale firmati da tutti i commissari su tutte le pagine. Ci vogliono otto mesi di tempo per completare la procedura, al termine dei quali magari il collaboratore non serve più o è scaduto il progetto per cui lo avevo richiesto.

Se ho la fortuna di riuscire a farlo, il contratto, e se alla fine del progetto ho ancora bisogno del collaboratore, devo ricominciare tutto da capo. Proroghe e rinnovi si fanno solo per casi eccezionali a fronte della presentazione di un’incredibile mole di giustificazioni.

Apprendo che il presunto obbligo del controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti – definito dal CUN come “aberrante nuova lettura delle procedure di controllo negli Atenei” – è stato introdotto dalla Legge n.102 del 3 agosto 2009 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.78 del 1 luglio 2009 riguardante provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali”. Apparentemente per reperire fondi per rifinanziare le 18 missioni militari all’estero del nostro Paese si è pensato bene di far controllare tutti i contratti di collaborazione dalla Corte dei Conti, compresi quelli dei giovani ricercatori universitari. Chiaro no?
Venti anni fa per ogni professore che andava in pensione l’Università bandiva un posto di ricercatore. Il risparmio per il bilancio degli Atenei era comunque garantito, stante la differenza stipendiale, e un giovane collaboratore poteva avere una prospettiva chiara di accesso alla carriera universitaria. Poteva fare progetti, darsi obiettivi, costruirsi un’opportunità.

Oggi abbiamo le limitazioni sul turn-over e il complicato sistema PROPER per la programmazione del personale, paragonabile a uno dei peggiori prodotti della burocrazia sovietica. Le persone sono diventate punti-organico o frazioni di questi. I punti-organico vengono distribuiti agli Atenei e poi ai Dipartimenti con modelli di ripartizione straordinariamente complicati e nessuno ci capisce più niente.

Quando va bene si ricevono 0,5 punti-organico e possiamo bandire un concorso di ricercatore per dare un futuro a uno dei nostri giovani. Ma anche questo sarebbe stato troppo semplice: i ricercatori a tempo indeterminato non esistono più, sono stati aboliti dalla legge Gelmini. Possiamo bandire solo posti di RTD tipo A, contratti triennali rinnovabili una sola volta per ulteriori due anni, che eventualmente potranno diventare RTD tipo B triennali con pseudo-tenure-track per la sospirata posizione a tempo indeterminato di professore associato. Per ogni passaggio c’è un concorso pubblico o almeno una procedura di valutazione. Si riuniscono commissioni, si valutano indici e indicatori. E intanto i giovani più bravi scoraggiati da questo delirio burocratico scappano all’estero, dove sono assunti nelle Università e nei Centri di Ricerca inviando il curriculum per email e con un’intervista con skype.

Sono gli effetti dell’incredibile serie di provvedimenti sul turn-over e sul reclutamento iniziati con la Legge 6 agosto 2008 n. 133 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Il famigerato decreto-Tremonti disponeva provvedimenti per ridurre del 20% in cinque anni il finanziamento ordinario alle Università, con un taglio di 1,5 miliardi di euro. Curiosamente all’Art.14 lo stesso decreto autorizzava spese per un importo corrispondente per finanziare l’Expo di Milano 2015. I risultati sono noti e sono notizia di cronaca di questi giorni: sono state create enormi difficoltà alle Università italiane e sono stati sprecati 1,5 miliardi con l’Expo ancora in alto mare.

Venti anni fa potevamo invitare esperti e conferenzieri per seminari e corsi brevi nel nostro Dipartimento. Potevamo rimborsare loro le spese di viaggio, vitto e alloggio, magari, aggiungendoci anche un piccolo compenso.

Oggi no. Non lo possiamo più fare. Se invito un esperto straniero devo pubblicare un avviso preventivo. Devo fare una relazione scritta che spieghi perché sto invitando proprio lui e non un altro. Devo allegare il curriculum e procurargli un codice fiscale italiano. Il rimborso spese è incomprensibilmente assimilato a un reddito di lavoro autonomo e viene assoggettato alle voraci aliquote del fisco italiano. Mi chiedo perché e non capisco. Capisco solo che si tratta di norme anti-evasione fiscale. Ci vogliono 3 mesi nella mia Università per completare l’iter necessario per invitare un conferenziere. Il risultato è che non li invitiamo più.

La situazione paradossale è stata determinata da una scellerata risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 21/03/2003 n. 69 in risposta a un interpello dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica. Ci hanno messo dieci anni per ammettere che avevano preso un abbaglio, come dimostra la risoluzione dell’11 luglio 2013 n.49 della stessa Agenzia in risposta all’Istituto Italiano di Tecnologia, che ribalta completamente la precedente interpretazione, ristabilendo almeno la logica. Peccato che per 10 anni tutte le Università e gli Enti di ricerca siano stati lasciati nel caos e che tutti i conferenzieri stranieri nel frattempo siano stati impropriamente tassati.

E intanto l’ultima stima sui capitali italiani esportati all’estero si attesta per difetto su 200 miliardi di euro, pari al 10% del PIL. Se le misure anti-evasione sono queste, temo che il problema sia destinato a non essere risolto.
Venti anni fa frequentavano il nostro Dipartimento studenti e ricercatori di varie nazionalità: albanesi, etiopi, eritrei, somali, messicani. Studiavano e facevano ricerca a Firenze, si specializzavano e poi tornavano nel loro Paese portando le esperienze fatte. Rimanevamo in contatto e questo contribuiva a internazionalizzare le nostre attività e anche a renderle utili da un punto di vista sociale.

Oggi ospitare uno studente o un ricercatore extra-comunitario è un’avventura tormentata. Nel frattempo è infatti arrivata la legge del 30 luglio 2002 n.189 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, cosiddetta Bossi-Fini.

A un nostro dottorando cinese con borsa triennale europea (Programma Marie Curie), per motivi a me ancora incomprensibili, non è stato riconosciuto il permesso di soggiorno né per motivi di lavoro subordinato né per finalità di studio o formazione. Il dottorato di ricerca non è evidentemente contemplato dalla nostra burocrazia anti-immigrazione. Il risultato è stato che per 4 anni il nostro studente ha dovuto far richiesta di permessi semestrali di soggiorno, con lunghe code in Questura. Ogni volta il permesso di soggiorno non gli veniva rilasciato subito, bensì dopo qualche mese dalla richiesta. In questi periodi di “attesa” secondo la legge egli poteva stare in Italia ma non poteva viaggiare all’estero. Il suo progetto europeo prevedeva però dei corsi di formazione in vari Paesi e ben presto egli ha trovato da sé una soluzione nel caos burocratico nazionale: sembra infatti che, viaggiando in aereo con biglietto elettronico e check-in on line, nessuno controlli i documenti in Italia e anche chi non è in possesso del permesso di soggiorno può viaggiare dove e come gli pare. Anche questo andrebbe spiegato a chi ha scritto la Bossi-Fini, che probabilmente pensava che gli extracomunitari viaggiassero solo sui barconi!
Venti anni fa per svolgere attività di ricerca fuori sede o per partecipare a un congresso scientifico, bastava una domanda di autorizzazione preventiva e un modulo di richiesta di rimborso spese. Se spendevo 20.000 Lire dopo un mese ricevevo un rimborso di 20.000 Lire.

Oggi devo spiegare per scritto perché sto facendo una missione, giustificare per scritto ogni scontrino, riempire 4-5 pagine di moduli per ogni missione. Se spendo 20 Euro dopo 6 mesi ricevo un rimborso di 15 euro, chissà perché?: alcune spese infatti sono inspiegabilmente equiparate a reddito e quindi tassate, altre non vengono riconosciute perché gli scontrini non sono abbastanza “parlanti”. Ora tutto mi aspettavo quando ho iniziato a fare questo lavoro, tranne il fatto che il destino mi riservava anche di dover “parlare” con gli scontrini. Capisco che anche qui si tratta del combinato disposto delle norme sul contenimento della spesa pubblica e sul contrasto all’evasione fiscale e quindi non mi stupisco che le stime sull’entità di quest’ultima si attestino a oltre 180 miliardi di euro, ponendoci al primo posto in Europa.
Venti anni fa il personale amministrativo delle Università era impiegato per fare un lavoro normale, che richiedeva competenze normali per cui gli impiegati erano preparati, avevano studiato ed erano stati selezionati nei concorsi: un po’ di contabilità, partita doppia, gestione degli inventari, contratti pubblici e poco altro.

Oggi il personale amministrativo è obbligato a lavorare con norme astruse e sistemi informatici cervellotici. Gli amministrativi devono fare i giuristi e gli informatici per poter svolgere il loro lavoro. E per questo frequentano continuamente corsi di formazione, dove vengono depressi dalle sempre più illogiche innovazioni introdotte per le finalità più disparate, ma mai per il miglioramento dell’amministrazione dell’Università. A causa di ciò, essi hanno sviluppato uno strano linguaggio, comprensibile solo fra di loro, dove i termini sono: U-GOV, DURC, DUVRI, CUP, CIG, MEPA, CONSIP, PROPER, PERLAPA.

Quest’ultimo, PERLAPA, escogitato dal Ministero della Funzione Pubblica per implementare il Piano Nazionale Anticorruzione, merita il premio per l’“acronimo più originale”. Insieme ad AVA, PERLAPA è la dimostrazione del carosello burocratico in cui ci dibattiamo, utile solo a fare il “lavaggio del cervello che più bianco non si può” a chi lavora nelle Università.

Apprendo che il Piano Nazionale Anticorruzione è stato predisposto ai sensi della legge 6 novembre 2012 n. 190 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.

Cerco di capire qualcosa fra gli 83 commi che formano l’articolo 1 e capisco solo perché l’Italia genera la metà del giro d’affari della corruzione in Europa, con un costo per la collettività di 60 miliardi di euro per anno.
Venti anni fa i tecnici universitari si occupavano dei laboratori e delle apparecchiature scientifiche. Facevano funzionare gli strumenti per dare supporto alla ricerca e alla formazione. Se portavano gli studenti a fare attività sul campo, bastava riempire un modulo in segreteria per aver garantita la copertura assicurativa.

Oggi i pochi tecnici rimasti si occupano per lo più di norme di sicurezza, di codice degli appalti e di gestione della qualità. Il loro linguaggio è fatto di DVR, DUVRI, DPI, RSPP, RLS, AQ e ISO9000. L’importante è che tutto sia a norma e che risponda ai burocratici requisiti imposti dalla legge. A nessuno invece interessa se gli strumenti funzionano bene, se forniscono risultati interessanti, se servono per fare ricerca e per insegnare qualcosa agli studenti.

Di nuovo si confonde il mezzo con il fine. Per portare gli studenti in campagna o in laboratorio, oltre che di moduli, dobbiamo dotarci di DPI, caschetti, occhiali, scarpe con suola metallica (che regolarmente si stacca) e altri curiosi accessori venduti a caro prezzo sul MEPA e sul CONSIP.
Tento di leggere il “Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” (decreto legislativo 9 aprile 2008 n.81) scorrendo i suoi 306 articoli, suddivisi in 13 titoli, e i 51 allegati, e non lo capisco. Mi chiedo se l’introduzione di tutte queste regole abbia prodotto concreti benefici? Se gli incidenti sono diminuiti? Poi leggo che l’Italia detiene il record europeo di incidenti sul lavoro.
Venti anni fa si stava diffondendo l’uso della posta elettronica e si apriva un mondo nuovo. Potevamo comunicare attraverso il computer a costo zero risparmiando tempo, carta e spostamenti. Immaginavamo un futuro più semplice e più intelligente, come in effetti si è verificato in tanti altri Paesi.

Oggi in Italia, e solo in Italia, le comunicazioni istituzionali avvengono mediante PEC. Un sistema inutilizzabile con le normali applicazioni di gestione delle email, concepito in maniera burocratica e irrazionale, al di fuori di ogni standard internazionale.

L’obbligo della PEC è sancito dalla Legge del 28 gennaio 2009 n.2 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”. Obiettivo raggiunto, non ci sono dubbi! E intanto siamo terzultimi in Europa, davanti a Grecia e Cipro, per lo sviluppo della banda larga. Ma ci possiamo consolare con la PEC per l’uso della quale siamo primi e unici, in Europa e nel Mondo.

Venti anni fa quando si stipulava un contratto di ricerca si riceveva dalla segreteria una copia del contratto firmata dalle parti. C’era bisogno di una penna e di una fotocopiatrice.

Oggi i contratti con la Pubblica Amministrazione si siglano con firma digitale tramite l’uso di una costosa macchinetta venduta dalle aziende del CONSIP e utilizzabile solo dal direttore del Dipartimento. Non c’è verso di fare una copia dell’atto finale firmato dalle parti. A breve avremo enormi problemi di rendicontazione e si genererà contenzioso all’infinito. Questo è uno dei tanti effetti della tanto decantata “digitalizzazione della P.A.”.

L’obbligo di firma digitale deriva dalla legge del 17 dicembre 2012 n.221 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n. 179 del 18 ottobre 2012 recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”. Evidentemente avevamo proprio bisogno di questo per rilanciare l’economia ormai in cronica recessione.

Venti anni fa per dare il via libera al pagamento di un bene acquistato, dopo averne verificato la corretta rispondenza ai requisiti e il funzionamento, si apponeva un visto sulla fattura.

Oggi sta per arrivare la fattura elettronica per la Pubblica Amministrazione e non oso immaginare come faremo a vistarla. Mi immagino dotazioni di apparecchietti, smart card e firme digitali, acquisiti a caro prezzo sul CONSIP.

Si tratta di un’eredità della legge finanziaria 2008 n. 244 del 24 dicembre 2007 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, provvidenzialmente tenuta in sospeso fino al 2014. Adesso che la fattura elettronica obbligatoria parte per davvero, aspettiamo con ansia di constatarne i benefici in termini di risanamento del bilancio dello Stato.

Venti anni fa mi ero appena sposato. Io e mia moglie, entrambi precari, possedevamo due auto italiane, un motorino italiano, un computer italiano, un costosissimo telefono cellulare italiano, una TV italiana e un certo numero di elettrodomestici italiani.

Oggi la mia famiglia possiede due auto giapponesi, uno scooter giapponese, quattro computer americani, tre smartphone americani, due tablet americani, due TV sud-coreane e un certo numero di elettrodomestici tedeschi.

La crisi dell’Università riflette la crisi del nostro Paese. Ne è la cartina di tornasole e l’inascoltato campanello di allarme.

Se penso a tutto questo mi sento responsabile. In questi venti anni ho fatto parte del sistema, sono stato direttore di Dipartimento e membro del Senato accademico. Mi rendo conto di non aver fatto abbastanza per contrastare questa progressiva deriva burocratica che sta inesorabilmente distruggendo l’Università e la ricerca nel nostro Paese.

In questi venti anni si sono succeduti al MIUR Ministri di destra e di sinistra, alcuni erano stati Rettori, molti erano professori. Eppure nessuno ha arginato tutto questo, nemmeno un po’. L’unico Ministro che ha fatto qualcosa di buono, a mio parere, è stato il primo: Antonio Ruberti, già Rettore della Sapienza e padre della legge sull’autonomia universitaria, la n.168 del 9 maggio 1989 che all’art.6 comma 2 recita: 

Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso riferimento.

Basterebbe applicare questo semplice concetto, liberando le Università Italiane da norme vessatorie sviluppate per altri contesti che con le Università proprio non c’entrano niente. Si può infatti facilmente verificare come le leggi che causano burocrazia non sono affatto “norme legislative che operano espresso riferimento” all’Università e agli Enti di Ricerca. Esse infatti disciplinano argomenti disparati ed eterogenei, quali: revisione della spesa pubblica o spending review, rafforzamento patrimoniale del settore bancario, contratti e appalti pubblici, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, normativa antimafia e anticorruzione, sicurezza e ordine pubblico, provvedimenti anticrisi, contrasto all’evasione fiscale, immigrazione, asilo politico, missioni militari all’estero.

A volte penso che basterebbe una circolare del MIUR di poche righe per risolvere magicamente tutto:
Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33 della Costituzione e specificati dalla legge n.168 del 9 maggio 1989, non si applicano alle Università tutte le norme genericamente riferite alla Pubblica Amministrazione che non facciano espresso riferimento alle Università stesse.
Ma non sarebbe giusto. Anche il resto della Pubblica Amministrazione avrebbe il diritto di essere liberato da questo pesante fardello di assurdità.

Firenze, 30 maggio 2014

venerdì 6 giugno 2014

Urban legend 2: Ma è vero che la popolazione italiana è in diminuzione?

E' il primo? No, il 7-miliardesimo


Di Jacopo Simonetta

Che la popolazione italiana stia diminuendo è una leggenda talmente diffusa e radicata de essere stata accreditata perfino da Serge Latouche in una sua recente conferenza.

In realtà (dati ISTAT), se escludiamo l’immigrazione, osserviamo che il saldo fra nati e morti oscilla molto vicino allo zero dalla metà degli anni ’80 fino al 2010, poi sembra cominciare ad aprirsi un saldo negativo, ma è ancora troppo presto per capire se è una fluttuazione od una tendenza.
Tuttavia, le cose cambiano radicalmente se consideriamo il contributo alla popolazione degli immigrati. Considerando solo l’immigrazione legale (i clandestini sono stimati fra i 300.000 ed il 500.000 a seconda delle fonti e dei periodi), troviamo che la popolazione non ha mai cessato di crescere, ma era giunta molto vicino alla stabilità negli anni ’90, per poi ricominciare a crescere in modo esplosivo fino a giorni nostri.   Un dettaglio interessante: la curva presenta un punto di rottura preciso: il 2001, l’anno precedente l’ approvazione della famigerata “legge Bossi-Fini”  che, giusta od iniqua che sia, non ha minimamente influenzato la tendenza all'aumento della popolazione generato dall'immigrazione.


Per quanto riguarda invece la popolazione mondiale, è vero che il tasso di crescita è diminuito dal 2,19% del 1963 ad un apparentemente modesto 1,14% nel 2013, ma tradotto in numero di bocche da sfamare, nel 1963 l’incremento fu di circa 70 milioni, mentre nel 2013 l’incremento è stato di oltre 80 milioni.   In termini assoluti, oggi stiamo quindi vivendo la crescita demografica maggiore della storia, ma cosa accadrà negli anni venturi?  Generalmente si legge che la popolazione tenderà a stabilizzarsi fra i 9 ed i 10 miliardi di abitanti verso la metà del secolo, complice il miglioramento delle condizioni di vita.   Un messaggio apparentemente tranquillizzante, con una interessante storia alle spalle.

Le proiezioni demografiche che giustificano questa serafica conclusione sono basate su di un modello matematico chiamato “teoria della transizione demografica”.   Per l’appunto una teoria basata sul presupposto che le famiglie benestanti abbiano meno figli di quelle povere; ne consegue che il miglioramento delle condizioni di vita comporta una stabilizzazione della popolazione secondo lo schema seguente:

1 – Equilibrio demografico antico sostanzialmente stabile perché sia la natalità che la mortalità sono alte.

2 – Prima fase della transizione: Crescita dovuta la fatto che, migliorando le condizioni di vita, la mortalità diminuisce mentre la natalità rimane alta.

3 – Seconda fase di transizione: Stabilizzazione dovuta alla graduale riduzione delle nascite.

4 – Equilibrio demografico moderno, sostanzialmente stabile in quanto natalità e mortalità sono entrambe basse.


Nata agli inizi del XX° secolo, questa teoria che ha descritto in maniera abbastanza fedele quanto effettivamente accaduto in Europa occidentale, USA e Giappone nel secondo dopoguerra:   Dunque la teoria è validata dai fatti?   Così pareva agli inizi degli anni ’70, tanto che è entrata a far parte integrante di Word 3 i cui scenari, purtroppo, si stanno dimostrando molto affidabili.    Ma già allora il “gruppo Meadows” metteva in guardia contro alcuni limiti nell’applicabilità di tale teoria.

Oggi, 40 anni più tardi, dovremmo constatare alcune cose:

- Fra i paesi con la natalità più bassa al mondo troviamo alcuni paesi “sviluppati” (come Germania Regno Unito ed Austria), ma anche  paesi poveri ex-comunisti (come Bielorussia, Ucraina, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria) in cui il collasso economico ha portato un aumento della mortalità, ma non quello della natalità, come avrebbe dovuto accadere se la teoria fosse universalmente valida.
- Molti paesi particolarmente ricchi hanno indici di natalità elevati, ad es. i paesi arabi petroliferi.

- Dal momento che gli accordi in sede WTO consentono una notevole (anche se non totale) mobilità dei flussi migratori, il tasso di natalità e quello di crescita demografica dei vari paesi sono due variabili assai poco correlate.   Paesi con tassi di natalità molto bassi hanno tassi di crescita demografica molto elevati e viceversa.   

- Se anche avvenisse la prevista stabilizzazione, non è affatto detto che questa avvenga ad un livello sostenibile, vale a dire al di sotto della capacità di carico del territorio interessato o del pianeta nel suo complesso.   Ne siamo brillanti esempi noi occidentali che, se non fosse per l’immigrazione,  avremmo tassi di crescita molto vicini alla parità o lievemente negativi, ma che per vivere utilizziamo quasi il doppio delle risorse che avremmo a disposizione.

In realtà, il meccanismo storicamente riscontrato (ma da molti contestato)  è un altro: la crescita economica consente la crescita demografica che, alcune generazioni dopo, provoca una crisi economica a seguito della quale i tassi di mortalità e di emigrazione aumentano finché la popolazione non rientra all'interno della capacità di carico del proprio territorio.   Dopodiché le risorse possono rigenerarsi (almeno in parte) ed il ciclo può anche ripartire.   

La trappola psicologica consiste nel fatto che la fase di crescita demografica segue di poco l’inizio di quella di crescita economica e la accompagna a lungo, effettivamente stimolandola ulteriormente mediante l’ampliamento del mercato e della mano d’opera disponibile, ma solo finché gli altri elementi del sistema (risorse, inquinamento, stabilità sociale) lo consentono.    Una volta superata le “linea rossa” della capacità di carico, ogni incremento demografico diviene un chiodo nella bara del benessere acquisito, ma l’esperienza vissuta e ricordata porta invece ad identificare la prosperità con la fecondità.   Fino a giungere ai deliranti messaggi odierni in cui si invoca un’ulteriore crescita demografica per rilanciare quella economica.   Una cosa che suona un po’ come praticare l’incendio boschivo per rilanciare la forestazione.
Ma se i cicli storici sono stati di secoli, quello che stiamo vivendo attualmente ha vissuto l’esplosione e probabilmente vivrà il collasso in meno di cento anni, perché?    Semplicemente perché la nostra strabiliante crescita ha un nome preciso: petrolio di buona qualità ed a buon mercato.   Non abbiamo finito il petrolio (probabilmente non lo finiremo mai), ma quello che ci rimane è scadente e caro.   

Esistono alternative, certo, ma costose e parziali.   Inoltre l’energia non è certo l’unico limite allo sviluppo economico contro il quale ci stiamo scontrando: gli effetti negativi dell’inquinamento, del degrado dei suoli, dell’estinzione di massa in corso, (per citarne solo alcuni) rischiano di essere ancor più dirompenti.   L’estrema instabilità e disparità economica (entrambe senza precedenti nella storia moderna) rischiano di far implodere il sistema  in qualunque momento, mentre il crescere della conflittualità sociale, il risorgere dei nazionalismi e la corsa internazionale all'accaparramento delle risorse residue presentano ulteriori rischi già nel breve periodo.

In conclusione, è estremamente improbabile che la popolazione umana tenda a stabilizzarsi e sono certo che i demografi dell’ONU lo sanno benissimo.   Al contrario, e’ probabile che, a livello globale,  una flessione inizi entro il 2030 se non prima, quindi fra 10-15 anni.   Ma se il modello Word3 si è dimostrato estremamente affidabile finora, la sua affidabilità decrescerà molto rapidamente in rapporto al tempo da quando la curva della popolazione inizierà a flettere.

Ci sono due ragioni molto forti per questo.

La prima, già evidenziata dagli autori, è che nelle prime fasi del collasso il sistema globale si disarticolerà in sotto-sistemi relativamente indipendenti fra loro (magari anche in conflitto fra loro), cosicché saranno possibili dinamiche anche molto diverse a seconda delle zone.

La seconda è che il modello prevede che, al degradarsi delle condizioni di vita, aumentino rapidamente sia la mortalità che la natalità e questo non è detto che avvenga.   A parità di altre condizioni, le zone dove la popolazione diminuirà più rapidamente saranno quelle che si stabilizzeranno prima e che avranno le migliori possibilità di recupero, ma non è certo perché numerosissimi altri sono i fattori in gioco.