sabato 3 maggio 2014

L'era glaciale che non fu

Da “Real Climate”. Traduzione di MR (h/t Dario Faccini/ASPO-Italia)

 
William Ruddiman è ben noto per la sua interpretazione del clima dell'Olocene. Secondo questa interpretazione, l'effetto serra causato dalle emissioni di metano da parte dell'agricoltura umana abbiano evitato una nuova era glaciale, una nuova manifestazione dei cicli glaciali/interglaciali particolarmente intensi dell'ultimo milione di anni l circa. L'idea di Ruddiman è stata variamente contestata e sembra oggi che non saremmo comunque ripiombati in un'era glaciale a breve scadenza (intesa come nell'arco di un migliaio di anni circa). Tuttavia, l'interpretazione di Ruddiman rimane interessante: è possibile che l'influenza umana sul clima sia stata intensa fin da epoche molto precedenti a quella dei combustibili fossili. L'articolo che segue è del 2011, ma è sempre valido per capire i concetti fondamentali delle idee di Ruddiman


Di William  Ruddiman

Più di 20 anni fa, le analisi delle concentrazioni di gas serra nelle carote di ghiaccio hanno mostrato che la tendenza al ribasso di CO2 e CH4 che è cominciata circa 10.000 anni fa ha successivamente invertito la direzione ed è aumentata stabilmente durante le ultime migliaia di anni. Le diverse spiegazioni di questi aumenti hanno invocato o i cambiamenti naturali o le emissioni antropogeniche. Sono state avanzate prove ragionevolmente convincenti pro e contro entrambe le cause e il dibattito è continuato per quasi un decennio. La Figura 1 riassume questi diversi punti di vista.



Un'edizione speciale di agosto della rivista The Holocene aiuterà a far fare un passo avanti a questa discussione. Tutti gli scienziati che hanno partecipato a questo dibattito durante l'ultimi decennio sono stati invitati a contribuire al volume. L'elenco degli invitati era ben equilibrato fra i due punti di vista, entrambi i quali sono ben rappresentati nell'edizione. I saggi hanno recentemente iniziato ad essere disponibili online, sfortunatamente a pagamento. Probabilmente, la nuova visione più significativa che emerge da questa pubblicazione proviene da diversi saggi che convergono su una visione dell'uso preindustriale del suolo che è molto diversa da quella che ha prevalso fino a poco tempo fa. Gran parte delle simulazioni dei modelli precedenti si affidavano sull'assunto semplificante che la deforestazione e la coltivazione fossero rimasti minimi e quasi costanti durante il tardo Olocene, ma i dati storici ed archeologici ora rivelano un uso del suolo precedente pro capite molto maggiore di quello usato in questi modelli. L'emergenza di questo punto di vista è stato riportato in diverse presentazioni alla Conferenza di Chapman nel marzo 2011 e ed ha attratto l'attenzione si di Nature sia di Science News. L'articolo che segue riassume questa nuova prova.

I dati storici sull'uso del suolo che risalgono circa fino a 2000 anni fa esistono per due regioni – Europa e Cina. In un saggio del 2009, Jed Kaplan e i suoi colleghi hanno riportato prove che mostrano una deforestazione quasi completa in Europa ad una gamma media di densità di popolazione, ma una deforestazione aggiuntiva molto limitata a densità di popolazione maggiori. Incorporato in questo rapporto storico c'era una tendenza da una deforestazione pro capite molto maggiore 2000 anni fa a valori molto minori nei secoli recenti. Analogamente, un'edizione speciale di Holocene di Ruddiman e colleghi ha indicato uno studio pionieristico dell'agricoltura delle origini in Cina pubblicato nel 1937 J. L. Buck. Accoppiato a stime di popolazione ragionevolmente ben limitate che risalgono alla dinastia Han di 200 anni fa, questi dati mostrano una diminuzione di quattro volte dell'area di suolo coltivata pro capite in Cina da quel tempo al 1800.

Queste due rivalutazioni dell'uso pro capite di suolo hanno implicazioni importanti per le emissioni globali di carbonio preindustriali. Un saggio in edizione speciale di Kaplan e colleghi ha usato i rapporti storici dall'Europa per stimare la deforestazione mondiale, con necessità pro capite di suolo inferiori nelle regioni tropicali a causa della più lunga stagione agricola che permette raccolti multipli su base annuale. Il loro modello ha simulato grandi abbattimenti di foresta migliaia di anni fa non solo in Europa e Cina, ma anche in India, Mezzaluna Fertile, Africa saheliana, Messico e Perù. Lo schema di deforestazione è mostrato bene in una sequenza temporale disponibile nell'articolo di Science News citato sopra. Kaplan e colleghi hanno stimato emissioni cumulative di carbonio di ~340 GtC (1 Gt = miliardi di tonnellate) prima che l'aumento del CO2 dell'era industriale iniziasse nel 1850. Questa stima è da 5 a 7 volte maggiore di quelle basate sull'assunto che i primi agricoltori abbattevano foreste e coltivavano il suolo in piccole quantità pro capite tipiche dei secoli recenti.

Su scale temporali di millenni, circa l'85% delle emissioni di CO2 in atmosfera sono finite nella profondità degli oceani. Di conseguenza, le 340 Gt stimate da Kaplan delle antiche emissioni di carbonio antropogenico in atmosfera sarebbero risultate in un aumento totale di CO2 preindustriale di ~24 ppm (340 Gt diviso per 14.2 Gt per ppm). Riamane tuttavia un disallineamento nella tempistica fra il primo aumento della tendenza delle carote di ghiaccio e l'aumento successivo della stima delle emissioni di carbonio di Kaplan. Una possibilità che viene attualmente investigata da Kaplan e colleghi è una maggiore pratica pro capite dell'incendio di foreste da parte di primi agricoltori (e di quelle culture che erano ancora cacciatori-raccoglitori).


Una storia analoga di diminuzione dell'uso pro capite di suolo vale anche per la pratiche agricole che generano metano. Il saggio di Ruddiman e colleghi cita uno studio del 1977 di Ellis e Wang su Agricultura, Ecosistemi e Ambiente (61: 177-193) che riporta una diminuzione quadrupla dal 1000 al 1800 DC nella dimensione delle risaie pro capite nella bassa valle del fiume Yangtze. A causa della crescita della popolazione in corso e della mancanza di suolo coltivabile addizionale, gli agricoltori sono stati costretti a produrre riso in proprietà terriere sempre più piccole, che ha portato alla tipica agricoltura cinese “a giardino”. Per scale temporali più lunghe, un articolo in via di pubblicazione di Fuller e colleghi sul “Contributo della coltura del riso e dell'allevamento ai livelli di metano preistorici: una valutazione archeologica” ha assemblato prove archeologiche da centinaia di siti ben datati che mostra la diffusione dell'irrigazione del riso nell'Asia meridionale fra 5000 e 1000 anni fa . Sulla base di relazioni regionali moderne, hanno ipotizzato che la coltura del riso in ogni regione si è successivamente riempita col logaritmo della densità di popolazione. Combinando il primo arrivo del riso e il successivo riempimento, Fuller e colleghi hanno proiettato l'aumento progressivo dell'area totale dell'Asia meridionale dedicata al riso.

La loro stima ha mostrato una tendenza esponenziale all'aumento dell'area totale che ha raggiunto più del 35% dei valori moderni di 1000 anni fa, anche se la popolazione nelle aree che coltivavano riso a quel tempo era solo il 5-6% dei livelli moderni. Questo disallineamento indica ancora una volta un uso di suolo pro capite molto più grande all'inizio dell'era storica che nell'ultimo periodo preindustriale. Secondo questa analisi, l'aumento di emissioni di CH4 dall'irrigazione del riso può contare per gran parte dell'aumento di CH4 misurato nelle carote di ghiaccio fra 5000 e 1000 anni fa. Fuller e colleghi hanno anche mappato il primo arrivo di bestiame addomesticato in Asia e in Africa e hanno scoperto che è iniziata una grande espansione della pastorizia nelle aree umide con grandi capacità di carico 5000 anni fa. Hanno osservato che questa diffusione di bestiame avrebbe anche dato un grande contributo alle emissioni ed alle concentrazioni atmosferiche di metano antropogenico, ma non hanno provato a valutarne la quantità.

Le prove in tutti questi saggi recenti convergono verso la stessa conclusione: l'ipotesi semplicistica di un uso costante di suolo pro capite da parte di gran parte dei modelli di studio precedenti ha ignorato sia i dati storici sia la vasta gamma di prove contrarie assemblate dagli scienziati in archeologia e in discipline collegate che fanno il lavoro sporco sul campo necessario per svelare la vera storia degli effetti umani sul suolo. Questo punto di vista basato sul campo è stato sintetizzato molto tempo fa dal lavoro seminale di Ester Boserup dagli anni 60 agli anni 80. La Boserup ha concluso che la grande diminuzione dell'uso di suolo pro capite dal medio al tardo Olocene è avvenuto perché la crescita della popolazione e le usurpazioni dei vicini hanno costretto gli agricoltori a trovare nuovi metodi per produrre cibo per le proprie famiglie con sempre meno terra. Questi saggi nel numero speciale rendono chiaro che i tentativi futuri di modellare l'uso di suolo del passato dovrebbero evitare l'assunto di coltivazione e deforestazione pro capite costante e ridotto.

Questo punto di vista emergente porta una discussione attuale rispetto a se designare o no in intervallo di “Antropocene” (un tempo di grande influenza umana sul sistema terrestre) e, se sì, dove porre il suo inizio. Anche se l'opinione prevalente sembra a favore dell'uso dell'era industriale (gli ultimi due secoli o meno) come inizio, queste nuove prove offrono una prospettiva diversa. L'abbattimento di foreste per la coltivazione e il pascolo sono la più grande trasformazione della superficie della Terra che sia mai avvenuta finora. Se ben oltre metà di questa trasformazione chiave è avvenuta prima dell'era industriale, allora si può discutere per piazzare l'inizio dell'antropocene in un tempo precedente. Una possibile soluzione sarebbe designare due fasi: un “primo antropocene” (un tempo si trasformazioni lente ma crescenti che è cominciato 7000 anni fa per il CO2 e 5000 anni fa per il CH4) ed un “tardo antropocene” per segnare i molti cambiamenti accelerati dell'era industriale.

Altri saggi dell'edizione speciale puntano a loro volta ad una interpretazione rivista di un tipo di prova collegato che si dirige verso una antica deforestazione – le analisi meticolose della composizione degli isotopi di carbonio del CO2 nelle bolle d'aria delle carote di ghiaccio del gruppo di Berna. Elsig et al. in un articolo del 2009 su Nature hanno concluso che la piccola (~0.05o/oo) ampiezza della diminuzione di δ13CO2  durante gli ultimi 7000 anni limita le emissioni nette di carbonio terrestre a ~50 GtC (una Gt è un miliardo di tonnellate), se pienamente bilanciate con l'oceano profondo. Come parte dell'equilibrio da loro proposto di varie sorgenti e pozzi di carbonio, hanno stimato un contributo antropogenico di ~50 GtC alla tendenza del δ13CO2, equivalente ad un aumento di CO2 di 3,5 ppm.

Ma il calcolo dell'equilibrio della massa in Elsig et al. implicava l'ipotesi discutibile che solo 40 Gt di carbonio siano state sepolte nelle torbiere boreali durante gli ultimi 7000 anni, mentre questo valore si trova ben al di sotto di una stima molto rispettata di 300 GtC di  Eville Gorham (vedi, Applicazioni Ecologiche 1: 182-195, 1991; Gajewski et al., Cicli Biogeochimici Globali 15: 297-310; 2001). Una nuova analisi di Zicheng Yu nel numero speciale prende in considerazione sia il seppellimento iniziale della torba sia, per la prima volta in uno studio, la successiva decomposizione e il rilascio della torba dopo il seppellimento. Yu giunge ad una stima di un seppellimento di ~300 Gt di carbonio in torba durante gli ultimi 7000 anni. Questo valore molto più alto (~300 GtC contro 40 GtC) richiede emissioni di compensazione molto più grandi di carbonio terrestre per soddisfare il limite complessivo di δ13CO2, ma il carbonio aggiuntivo è improbabile che sia venuto da fonti naturali. Gli studi dei modelli hanno, in media, posto l'equilibrio netto del carbonio causato da cambiamenti naturali nella vegetazione monsonica e nella fertilizzazione del carbonio vicino alla dimensione di 30 Gt stimate da Elsig e colleghi. Questi cambiamenti non valgono per le emissioni necessarie per compensare la quantità molto più grande di carbonio sepolta sotto forma di torba.

La sola fonte rimasta è l'emissione antropogenica. La stima risultante di >300 GtC di emissioni antropogeniche preindustriali è della stessa quantità della stima di simulazione di uso di suolo di Kaplan e colleghi. Se le prime (Gorham) e le più recenti (Yu) stime del grande seppellimento di carbonio nella torba boreale sono corrette, la piccola tendenza negativa del  δ13CO2 durante gli ultimi 7000 anni non è un argomento contro la prima impotesi antropogenica, ma piuttosto un argomento in suo favore. Le due stime di un aumento del CO2 antropogenico preindustriale di 24 ppm sono molto più grandi delle stime precedenti di 3-5 ppm, ma ancora inferiori ai 40 ppm proposti nella prima ipotesi antropogenica. Tuttavia, un altro fattore che avrebbe contribuito al totale antropogenico preindustriale è stata la retroazione di CO2 da parte di un oceano mantenuto caldo dalle emissioni agricole di CO2 e CH4 nell'atmosfera. Un saggio di Kutzbach e colleghi nell'edizione speciale stima un contributo di 9 ppm da parte della ridotta solubilità del CO2 in un oceano riscaldato dalle prime emissioni antropogeniche di CO2 e Ch4 nell'atmosfera. Questa ed altre possibili retroazioni da parte dell'oceano, pongono l'effetto totale del CO2 preindustriale a >30 ppm, più prossimo ai 40 ppm dell'ipotesi originaria.

Diversi saggi dell'edizione speciale continuano a favorire una spiegazione naturale per le tendenze di CO2 e CH4 del terdo Olocene, quindi il dibattito non è concluso. Tuttavia, le nuove prove indicano la strada verso tre vie di esplorazione che promettono di darci una risoluzione di questo problema: (1) investigazione più accurata delle registrazioni storiche dell'uso del suolo preindustriale; (2) lavoro archeologico supplementare per riempire i vuoti nella copertura spazio/temporale della diffusione dell'agricoltura e (3) ulteriore lavoro di modellazione per trasformare i dati storici ed archeologici in stime quantitative degli effetti della prima agricoltura sulle concentrazioni atmosferiche di CO2 e CH4.

- Altro su: http://www.realclimate.org/index.php/archives/2011/04/an-emerging-view-on-early-land-use#sthash.ZPt1mSwl.dpuf 


venerdì 2 maggio 2014

Il Culto dello Sportello - III: Miracolo alla ASL



Terzo post della serie "il culto dello sportello" (qui il primo e qui il secondo). Vi racconto di un'avventura fra lo studio del dottore e la sede della ASL. (immagine da "haisentito.com")




La mattinata comincia subito male quando mi  presento nella sala d'aspetto del dottore all'ora di apertura e trovo che ci sono già 11 vecchietti ad aspettare, chissà da quanto tempo. Provo flebilmente a descrivere il mio caso "sapete, il dottore mi ha detto che è una cosa abbastanza urgente per mio padre che ha 92 anni, devo fare una richiesta alla ASL e qui mi bastano dieci secondi per farmi dare un foglio che mi ha preparato....."

I vecchietti sono abbastanza gentili, ma mi fanno anche notare che hanno i loro problemi e molti di loro dicono che faranno alla svelta anche loro. E comunque, il dottore non c'è. Mi metto a sedere ad aspettare: sono le 10 del mattino e devo far lezione alle 12. Mah?

Il dottore arriva alle 10:45. I vecchietti non fanno cenno alla mia richiesta di priorità e si mettono subito in fila davanti alla porta. Sembra che non ci sia  proprio modo che ce la faccia per la lezione di mezzogiorno. Fortunatamente, il dottore mi ha notato quando è arrivato e esce lui stesso dal suo ambulatorio passandomi il foglietto che devo portare alla ASL. Primo miracolo della mattina. Sono le 11:10.

Mi fiondo alla ASL col motorino (anche questo un piccolo miracolo di trazione elettrica). Arrivo all'ufficio informazioni col foglino in mano e la signora allo sportello mi dice: Oggi non si può fare - il CUP ha chiuso alle 10. Si può fare per domani? No, domani non prendiamo questo tipo di richieste. Dopodomani? No, è il primo Maggio. Venerdì? No, non prendiamo questo tipo di richieste. Ritorni la prossima settimana.

Provo a insistere gentilmente, sa, dico, il dottore si è raccomandato per questo letto ortopedico. Mio padre ha 92 anni ed è bloccato nel suo letto, che non è adatto. Così, per avere un letto ortopedico ci vuole tempo.......... Mi guarda con aria annoiata e mi dice, "non si può fare questa settimana." Sono le 11:30 e la mia lezione comincia alle 12

Provo a telefonare al dottore per sentire se c'è qualche altro modo. Mi dice che, mah..., forse...., boh....  Mentre mi aggiro con aria spettrale per i corridoi vuoti della ASL col telefonino all'orecchio , mi capita di incrociare una signora che riconosco essere l'impiegata che ho visto altre volte dietro lo sportello del CUP. Provo a raccontarle il mio problema.

E qui avviene il secondo miracolo della mattinata. La signora annuisce e mi dice, "Capisco benissimo. Venga con me che le apro il terminale" Giuro che per un attimo ho sentito i cori angelici e ho visto una specie di luminosità dorata intorno alla testa di questa signora - qualcosa tipo i santi dei mosaici di Ravenna.

In cinque minuti e qualche firma la richiesta è fatta. Ringrazio profusamente la signora che mi dice, "Sa, io faccio il possibile per essere d'aiuto quando posso. Però certe volte è veramente difficile. Tempo fa ho cercato di spiegare a un signore che la cosa che mi chiedeva non la potevo proprio fare. Lo sa cosa mi ha detto? Non solo che era colpa mia perchè sono un'incompetente ma mi ha anche augurato che mi venga un tumore al seno!"

Ringrazio ulteriormente per la resistenza all'altrui maleducazione. Sono circa le 11:45 e ce la faccio (ancora un piccolo miracolo del motorino elettrico) ad arrivare in aula per la mia lezione entro il quarto d'ora accademico.


Allora, Questa storia e quelle precedenti mi hanno insegnato un paio di cose, ovvero:

1. L'immagine dell'impiegato statale fannullone e incompetente è spesso falsa e esagerata. Nelle mie vicissitudini ai vari sportelli mi sono spesso trovato di fronte a persone gentilissime che fanno tutto il possibile per aiutarti. Anche loro, però, si trovano di fronte a una burocrazia fatta apposta per renderti le cose difficili, come pure a utenti maleducati e antipatici che se la rifanno con loro a furia di insulti e accidenti. Non c'è da stupirsi se alcuni di loro poi diventano altrettanto maleducati e antipatici. Insomma, l'antipatia è come il morbillo: è contagiosa.

2. Il danno economico che fa il culto dello sportello al "sistema italia" è qualcosa che non so quantificare ma che mi sembra comunque spaventevole. Pensate che in questa vicenda il sistema sanitario mi ha chiesto di fare da fattorino per trasportare un foglio da un ufficio a un'altro. Oltre alla mattinata quasi intera che ho perso io (e mi è andata di lusso, senza i miracoli ce ne avrei perse due o tre), c'è da mettere in conto il che hanno perso altre persone (dottore, impiegata, ecc.). A questo punto, ragionate che la stessa cosa la poteva fare il dottore spedendo direttamente la richiesta all'ufficio competente. Era questione di un microsecondo e costo zero.

Arriveremo mai a una burocrazia efficiente? Chissà, forse piano piano riusciremo a eliminare questo assurdo culto dello sportello, ma sono sicuro che si inventeranno qualche altra cosa per far perdere tempo agli utenti - magari anche peggio.







mercoledì 30 aprile 2014

Gaël Giraud del CNRS: “Il vero ruolo dell'energia obbligherà gli economisti a cambiare dogma”.

Da “Oil Man”. Traduzione di MR (h/t Luca Mercalli)

Contrariamente a quanto c'è scritto in tutti i manuali di economia, l'energia (e non il capitale, che senza l'energia è inerte) si rivela essere IL fattore essenziale della crescita, secondo Gaël Giraud, 44 anni, direttore di ricerca al CNRS e gesuita. Economisti, dopo due secoli perpetrate ancora l' stesso errore fatale?


Gaël Giraud, direttore di ricerca al Centro di economia della Sorbona, specializzato in matematica e membro dal 2004 della Compagnia di Gesù. [Agenzia Sipa]. 

Quali sono secondo lei gli indici di un legame intimo fra consumo di energia e crescita dell'economia?

Dopo due secoli, dopo il lavoro di Smith e Ricardo, per esempio, la maggior parte degli economisti spiegano che l'accumulo di capitale è il segreto della crescita economica inedita conosciuta dalle società occidentali e di una parte del resto del mondo. Marx è stato, lui stesso, convinto di questa prova apparente. Tuttavia, storicamente, l'accumulo di capitale (in senso moderno) non è iniziato nel 18° secolo con l'arrivo della rivoluzione industriale, ma almeno duecento anni dopo. Al contrario, la prima “rivoluzione di mercato” del 12° e 13° secolo, che ha permesso all'Europa di uscire dalla feudalità rurale, ha coinciso con la diffusione di mulini ad acqua e a vento. Una nuova fonte energetica, oltre alla fotosintesi (agricoltura) e della forza animale, era diventata disponibile. Allo stesso modo, chi può negare che la scoperta delle applicazioni industriali del carbone, poi del gas e del petrolio (e più di recente dell'atomo) abbia giocato un ruolo decisivo nella rivoluzione industriale e, quindi, come motore della crescita? Dal 1945 al 1975, i “trenta gloriosi” sono stati un periodo di crescita accelerata ed anche di consumo inedito di idrocarburi. Da allora, il pianeta non ha mai più ritrovato la velocità di consumo di energie fossili che era loro proprio nel dopoguerra. E' una buona notizia per il clima. Ma questo non è estraneo al fatto che non abbiamo mai ritrovato il tasso di crescita del PIL dei trenta gloriosi.

Nel corso degli ultimi 10 anni in Francia, il consumo di energia, e di petrolio in particolare, è diminuito, mentre il PIL è aumentato. Questo non prova il fatto che non c'è legame fra consumo di energia e crescita economica?

Il consumo di energia primaria francese è passato da 2,55 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio (gigaTep) nel 2000 a 2,65 gigaTep nel 2004. In seguito ha declinato leggermente fino al 2008, prima di mostrare un crollo nel 2008-2009, seguito da un secondo crollo nel 2011. Ha raggiunto un plateau (provvisorio?) nel 2012 a 2,45 gigaTep. Il PIL francese ha conosciuto delle variazioni analoghe, queste variazioni sono semplicemente state più ammortizzate. Questo è del tutto normale nella misura in cui, fortunatamente, l'energia non è il solo fattore di produzione che “tira” il PIL. Il lavoro realizzato con Zeynep Kahraman, membro di Shift Project, mostra che l'efficienza energetica gioca ugualmente un ruolo grande, anche quello maggiore di quello del capitale. Eppure, sul lungo termine, esiste una relazione estremamente stabile fra il consumo di energia e la crescita del PIL. Si ritrova la stessa grande stabilità quando si allarga la prospettiva non più nel tempo, ma nello spazio. Per dei paesi importatori come la Francia, l'esternalizzazione del consumo di energia attraverso le importazioni porta a sottostimare l'influenza dell'energia nell'evoluzione della crescita economica. La stima della relazione fra energia e crescita è molto più affidabile su scala mondiale che su scala nazionale.



Crescita mondiale dell'economia, del consumo di energia e di petrolio. 

Il suo lavoro porta a una conclusione che diverge totalmente dalle analisi classiche: “l'elasticità”, altrimenti detta sensibilità del PIL per abitante in rapporto al consumo d'energia è secondo voi dell'ordine del 60% e non di meno del 10% (o il costo della bolletta energetica nella produzione) come dice la letteratura economica abituale. Come giustifica questo enorme scarto? 

La ragione profonda di questo scarto è evidentemente il livello molto basso del prezzo degli idrocarburi, anche oggi. Molti economisti postulano che il mercato internazionale dell'energia sia in equilibrio e che i prezzi che ne emergono riflettono le tensioni reali che si esprimono su quel mercato. Intanto qualche nota su questa idea di un equilibrio naturale. Il prezzo della maggior parte delle energie fossili è influenzato da quello del petrolio e, di recente, da quello del gas. Tuttavia, il prezzo del petrolio, come quello del gas di scisto nordamericano, non risulta affatto da un puro incontro concorrenziale di offerta e domanda. Entrambe sono sottomesse a diverse manipolazioni. Sembra che il modo per fissare il prezzo del petrolio spot, disponibile a breve termine, somiglia al modo in cui si fissa il tasso monetario del LIBOR che alle finzioni ideali dei manuali di economia. Oggi sappiamo che questi tassi interbancari del LIBOR sono stati scientemente manipolati da diverse banche della City di Londra, questo negli anni e forse con la complicità passiva del loro controllore, la banca centrale d'Inghilterra. Allo stesso modo, il prezzo del petrolio è un tema politicamente molto sensibile, non sorprende che sia sottoposto a diverse pressioni. Per esempio, la caduta del prezzo del petrolio durante la seconda metà degli anni 80 non è estranea alla strategia di Washington che era tesa a strangolare l'economia dell'URSS (chiedendo all'alleato saudita di aprire del tutto i propri rubinetti del greggio, nota della redazione), cosa che ha portato ad accelerare la caduta dell'impero sovietico. Non intendo dire che questo shock petrolifero degli anni 80 sia unicamente il risultato di questa iniziativa dell'amministrazione Reagan, ma che misura, attraverso un esempio di questo tipo, la natura in parte geopolitica del prezzo dell'oro nero. Al piano superiore dei mercati internazionali, quello dei mercati finanziari, il prezzo dei future, i contratti di consegna a termine sul petrolio, è lui stesso sottoposto a dei movimenti di capitale che non hanno granché a che fare con la realtà economica dell'energia, ma che hanno a che vedere con delle strategie speculative messe in atto da un pugno di grandi banche d'affari americane. Infine, a proposito del gas di scisto nordamericano, è certamente soggetto di uno scarico verso il basso, favorito da sovvenzioni più o meno nascoste dell'amministrazione americana. Da tutto questo risulta una sconnessione abbastanza forte fra le realtà strettamente economiche degli idrocarburi e i loro prezzi.

Torniamo al punto chiave: il grado di elasticità del PIL in rapporto all'energia secondo lei è largamente sottostimato...

Se malgrado i commenti di apertura che ho appena fatto credete, come la maggior parte degli economisti universitari, che il prezzo dell'energia rifletta fedelmente l'offerta e la domanda reali e se, soprattutto, postulate che l'industria degli idrocarburi non sia sottoposta ad alcun vincolo dal lato dell'estrazione, allora concludete tranquillamente che l'elasticità del PIL in rapporto all'energia è vicino alla quota dei costi energetici del PIL, quello che viene chiamato il suo “cost share” in inglese. Meno del 10%, in effetti. E' questo ragionamento che permette ad alcuni dei miei colleghi economisti, penso a torto, di pretendere che l'energia si un tema marginale e, ad essere sinceri, un non-tema. Ammettiamo per un istante, ai fini della discussione, che il prezzo del petrolio sia veramente un prezzo di mercato concorrenziale. Anche in un caso simile, è evidentemente falso pretendere che l'estrazione fisica degli idrocarburi non sia sottoposta ad alcun limite geologico, politico, eccetera. Oppure, appena abbiamo reintrodotto questo tipo di vincolo, si può facilmente dimostrare che (anche su un mercato puramente concorrenziale) ci sarà uno scollegamento completo fra l'elasticità e la parte dell'energia all'interno del cost share: i calcoli fanno apparire dei “prezzi fantasma”, i quali riflettono la potenza dei vincoli esterni e deformano il cost share verso il basso in rapporto all'elasticità. Questa osservazione è già stata fatta molto tempo fa da un fisico tedesco, Reiner Kümmel, ed anche dall'americano Robert Ayres. Pertanto, la maggior parte degli economisti continuano a postulare che l'elasticità dell'energia è uguale al suo cost share, cioè molto bassa, senza essere andati a vedere più da vicino. Penso che questo sia dovuto, nel profondo, al fatto che molti economisti preferiscono guardare i prezzi e le quantità monetarie piuttosto che quelle fisiche. Questo è paradossale, dal momento che molti dei loro modelli funzionano in realtà come modelli senza moneta! (Lo so, ciò vi sorprende, ma servirebbe un'altra intervista per spiegare questo punto...). I miei lavori empirici, condotti su quasi una cinquantina di paesi e su una arco di tempo di più di 40 anni, mostrano che in realtà l'elasticità del PIL in rapporto all'energia primaria è compreso fra il 40%, per le zone meno dipendenti dal petrolio, come la Francia, e il 70% per gli Stati Uniti, con una media mondiale che si aggira intorno al 60%.

L'elasticità (la sensibilità) del PIL in rapporto al capitale le sembra di conseguenza molto più bassa di quanto comunemente accettato. Quali conseguenze ne trae sul livello dei prezzi dell'energia da una parte e sulla remunerazione del capitale dall'altra?

Una delle conseguenze della rivalutazione verso l'alto dell'elasticità del PIL in rapporto all'energia è, in effetti, una rivalutazione verso il basso in rapporto al capitale. Secondo i manuali, quest'ultimo dovrà essere ancora uguale al cost share del capitale, valutato tradizionalmente fra il 30% e il 40% del PIL. Per conto mio trovo delle elasticità la metà più basse e questo, anche adottando delle definizioni empiriche ampie del capitale, come quelle di Thomas Piketty. Si potrebbe essere tentati di dedurne che il capitale è pagato eccessivamente e che l'energia è pagata poco. Questo non è necessariamente sbagliato ma, dal mio punto di vista, questo tipo di conclusione continua a ragionare come se l'uguaglianza dell'elasticità e del cost share debba essere verificata in un mondo ideale. Tuttavia, ed è un punto fondamentale, non conosco delle dimostrazioni del tutto convincenti di questa uguaglianza. Anche se il prezzo dell'energia (o del capitale) è stato fissato in un mercato mondiale perfettamente concorrenziale, e non è affatto il caso in pratica, anche se si crede che le compagnie petrolifere non siano sottoposte a nessun vincolo esterno ai loro affari (di modo che nessun “premio fantasma” venga a deformare la relazione elasticità/cost share, che è una finzione), anche in un tale mondo ideale, questa uguaglianza resta ancora sospetta. E' legata al fatto che la micro-economia tradizionale soffre di numerosi errori interni, approssimazioni e altri cortocircuiti intellettuali che rendono le sue conclusioni estremamente fragili. Un libro eccellente, redatto da un economista australiano, Steve Keen, fa il punto su questi problemi apparentemente tecnici ma che sono, alla fine, decisivi per il dibattito politico contemporaneo. Sono incaricato, insieme a Aurélien Goutsmedt, della traduzione che apparirà il prossimo autunno qui (L'impostura economica,  Steve Keen, Ed. de l'Atelier).

Dopo gli anni 60, il rapporto fra consumo di energia e PIL mondiale e quasi costante (ogni punto corrisponde ad un preciso anno). Questo grafico, di Jean-Marc Jancovici, fondatore dello Shift Project, mostra che a livello mondiale l'efficienza energetica non è stata praticamente migliorata da 50 anni. 

Lei stima che esista una specie di “forza riequilibratrice” fra il consumo di energia e il ritmo di crescita del PIL. I due appaiono “co-integrati”, cioè che sarebbero condannati per sempre a tornare sempre uno verso l'altro, dopo un certo tempo. Esiste un legame di causa-effetto fra l'energia disponibile ed il livello dell'attività economica, o al contrario del livello dell'attività economica sul consumo di energia, o meglio ancora si tratta di un legame reciproco?

Questo tema è già stato studiato abbondantemente dagli economisti specializzati in energia. Non c'è più dubbio, oggi, sul carattere co-integrato dell'energia e del PIL. I miei lavori mostrano che la forza riequilibratrice fra queste due grandezze è tale che dopo uno shock esogeno (un crack finanziario, per esempio), queste variabili impiegano una media di un anno e mezzo per ritrovare la loro relazione di lungo termine. Se guardate la sequenza 2007-2009, questo è più o meno ciò che si osserva. Lei si pone giustamente la domanda della relazione di causalità: è il consumo di energia che causa il PIL o l'inverso? A quel punto, anche gli economisti energetici sono molto più divisi. I miei lavori con Zeynep Kahraman propendono chiaramente in favore di una relazione causale univoca del consumo di energia primaria verso il PIL e non l'inverso. Jean-Marc Jancovici aveva già anticipato questo risultato da tempo, osservando per esempio che a seguito del crack del 2007, la diminuzione del consumo di energia ha preceduto la diminuzione dl PIL in un numero importante di paesi. Come indica il buon senso della fisica, una relazione di causalità non si può tradurre come un precedente temporale della causa sull'effetto. E' esattamente questo che conferma il mio lavoro. Ci sono molti malintesi su questa storia della causalità. La causalità è una nozione metafisica: neanche la meccanica newtoniana pretende di dimostrare che la gravità universale faccia cadere le mele dall'albero! Tutto ciò che può dire è che dispone di un modello nel quale una grandezza chiamata forza gravitazionale che si suppone si manifesti attraverso il movimento di masse e che quel modello non è mai stato messo in crisi – per delle velocità minori in rapporto alla velocità della luce, evidentemente! Qui è lo stesso: tutto ciò che possiamo dire è che osserviamo una relazione empirica fra l'energia e il PIL, che si può interpretare statisticamente come una relazione causale.

Ai suoi occhi, in che misura la crisi del 2008 potrebbe essere una specie di shock petrolifero?

L'argomento è di facile concezione: nel 1999 il barile è a 9 dollari. Nel 2007, gira intorno ai 70 dollari (prima di involarsi a 140 dollari a causa della tempesta finanziaria). Le nostre economie hanno quindi conosciuto un terzo shock petrolifero nel corso dei primi anni del 2000, della stessa grandezza di quello degli anni 70, anche se più spalmato nel tempo. Tuttavia questo “shock petrolifero” non ha avuto un effetto recessivo maggiore di quelli del 1973 e 1979. Perché? Alcuni economisti avanzano l'idea che ciò sarebbe dovuto alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro negli Stati Uniti, negli anni 2000, in confronto a quella che prevaleva negli anni 70, così come alla politica monetaria molto accomodante condotta dalla Federal Reserve americana (così come dalla banca Centrale europea). La prima spiegazione non mi convince affatto: poggia molto ampiamente sul postulato dell'uguaglianza elasticità/cost share, di cui ho già detto quanto sia sospetta. Mira in modo troppo evidente a legittimare dei programmi di flessibilizzazione a tutto tondo del mercato del lavoro, che hanno però dimostrato la loro inefficacia. D'altronde, la seconda spiegazione si avvicina a quella che suggerisce lei. La politica monetaria dei tassi di interesse molto bassi ha reso possibile un'espansione significativa del credito, essa stessa facilitata dalla deregulation finanziaria. Detto altrimenti, le nostre economie si sono indebitate per compensare l'aumento del prezzo del petrolio! Siccome il credito è stato molto a buon mercato, questo ha permesso di rendere lo shock petrolifero relativamente indolore. Allo stesso tempo, la politica monetaria, la deregolamentazione e la miopia del settore bancario hanno anche provocato il rigonfiamento della bolla dei subprime, il cui scoppio nel 2007 ha dato avvio alla crisi. Il rimedio che ha reso possibile ammortizzare lo shock petrolifero ha quindi anche provocato la peggiore crisi finanziaria della storia, essa stessa ampiamente responsabile della crisi attuale dei debito pubblici, della fragilità dell'euro, eccetera. Tutto avviene quindi come se stessimo per pagare, ora, il vero costo di questo terzo shock petrolifero.

L'evoluzione del consumo di energia è, dice lei, un non-tema per la maggior parte degli economisti. Altri lavori analoghi al suo (quello di Robert Ayres, particolarmente) concludono ugualmente che il ruolo dell'energia nell'economia è del tutto sottostimato. Dove viene preso in considerazione il vostro tipo di approccio nella ricerca economica e nel pensiero economico in generale? Ottenete un eco presso i vostri colleghi, o predicate nel deserto?

La comunità degli economisti universitari non è per nulla omogenea. Alcuni continuano a recitare il catechismo dei manuali, eppure abbiamo molte ragioni per credere che ci siano molte verità importanti contro, che non sono estranee all'incapacità di una parte della categoria di anticipare una crisi monumentale come quella dei subprime, o ancora di immaginare altre soluzioni alla crisi europea se non l'approfondimento dei programmi di rigore di bilancio che, tuttavia, ci portano alla deflazione. Ma altri economisti fanno un lavoro notevole: lei ha citato giustamente Robert Ayres, ci sono anche delle persone come  Michael Kumhof al FMI (la sua intervista su 'Oil Man'), James Hamilton (presentazione su 'Oil Man'), David Stern, Tim Jackson, Steve Keen, Alain Grandjean, Jean-Charles Hourcade, Christian de Perthuis...  Sono convinto che, quando la società prenderà coscienza del ruolo vitale dell'energia – questo processo di presa di coscienza è già iniziato – la prima categoria di economisti sarà costretta a cambiare i propri dogmi. Il resto appartiene alla sociologia del campo accademico.

I vincoli del picco del petrolio e del cambiamento climatico promettono di disegnare un avvenire nel quale la macchina economica avrà sempre meno energia a sua disposizione per funzionare. Questi due vincoli secondo lei implicano la fine prossima dell'economia della crescita?

Sì, molto verosimilmente. Senza transizione energetica (cioè, senza un ri-orientamento volontario delle nostre forze produttive e delle nostre modalità di consumo verso un'economia meno dipendente dalle energie fossili), non potremo semplicemente più trovare alcuna crescita sostenibile. Anche se alcuni pretendono di andarla a cercare coi denti. I miei lavori suggeriscono che le economie come le nostre non possono conoscere, alla fine, che tre regimi di medio termine: una crescita significativa accompagnata da un forte inflazione (i trenta gloriosi), la deflazione (il Giappone dopo vent'anni, l'Europa e gli Stati Uniti fra le due guerre) o meglio una crescita lenta accompagnata da bolle speculative a ripetizione sui mercati finanziari. L'Europa occidentale è evidentemente nel terzo regime, verso il quale abbiamo svoltato nel corso degli anni 80 , a favore della deregulation finanziaria. La domanda che ci si pone oggi è quella di sapere se vogliamo continuare questa esperienza, al prezzo dell'aumento delle ineguaglianze incredibili che conosciamo e della distruzione a termine del settore industriale europeo da parte della sfera finanziaria. Oppure possiamo lasciarci scivolare pigramente nella deflazione (la più pericolosa) come è già il caso di una buona parte dell'Europa meridionale. O ancora, possiamo tentare di ricollegarci alla prosperità. Quest'ultima possibilità non coincide con la crescita del PIL. Come lei sa, il PIL è un indicatore molto povero. E' tempo di cambiarlo. Il rapporto Sen-Stiglitz-Fitoussi o, meglio ancora, il lavoro di Jean Gadrey e di Florence Jany-Catrice indicano delle strade molto promettenti per andare in questa direzione. Detto altrimenti, far crescere il PIL non ha importanza. Da questo l'inutilità dei dibattiti sulla crescita verde, che si interrogano sul fatto di sapere se la transizione sia compatibile con la crescita del PIL. La domanda buona è: come operare la transizione in modo da assicurare il maggior numero di posti di lavoro ed uno stile di vita allo stesso tempo democratico e prospero?

L'antropologo americano Joseph Tainter afferma che esiste una "spirale energia-complessità": "Non si può avere complessità senza energia, e si ha l'energia ci sarà la complessità”, dice. Cosa le ispira questa affermazione?

Il parallelo proposto da Tainter fra la dipendenza dell'Impero Romano riguardo all'energia saccheggiata alle società conquistate e la nostra dipendenza energetica mi pare molto pertinente. Il colonialismo ha costituito – senza offesa per alcuni storici come Jacques Marseille – una grande operazione di captazione di un certo numero di grandi risorse energetiche da parte di un continente (l'Europa) che è gravemente carente di risorse energetiche fossili sul proprio territorio. Che il nostro continente sia più o meno condannato al declino se non realizza la transizione energetica, anche questo mi sembra evidente. D'altra parte, sono meno d'accordo con Tainter sulla tesi concernente il legame intangibile fra la complessità di una società ed il suo uso di energia. Questa nozione di complessità non giustifica la rinuncia della politica, se si suppone che questa implichi, decisamente, che le cose sono troppo complesse perché chi governa possa pretendere di decidere alcunché? E' vero, al contrario, che la deregolamentazione finanziaria ha provocato una cortina di informazioni contraddittorie (i premi dei mercati finanziari) che seminano un'enorme confusione sulle tendenze economiche forti e paralizzano sia gli investimenti di lungo termine sia le decisioni politiche. In quel senso, l'esperienza della deregolamentazione ci ha immersi in un mondo “complesso”, nel senso di confuso. Ma non è irreversibile ed è un motivo in più per non far dipendere la nostra prosperità dai mercati finanziari. Se si segue Tainter, nella misura in cui la nostra società avrà raggiunto il suo “picco della complessità”, al di là del quale i guadagni di produttività della complessità diventerebbero trascurabili, saremmo condannati? Posso sbagliarmi, ma sono convinto, per parte mia, che solo due regioni al mondo possono lanciare la transizione energetica come più ampio progetto economico e politico: l'Europa e il Giappone. In effetti, per farla servono ottimi ingegneri ed una popolazione molto istruita. Se l'Europa diventa leader nella transizione energetica e, più globalmente, ecologica, allora potrà, col proprio ritorno di esperienza, esportare al resto del mondo il proprio saper fare. Altrimenti, sarà condannata a dover fare la guerra, come l'Impero Romano, per prendere l'energia d'altri, cosa che non ha più i mezzi di fare. La transizione è di fronte a noi: è il segreto della prosperità futura dell'Europa, perlomeno se il nostro continente si da i mezzi per metterla in atto.


http://www.slideshare.net/PaulineTSP/lien-entre-le-pib-et-lnergie-par-gal-giraud-ads-20140306?ref=http://petrole.blog.lemonde.fr/2014/04/19/gael-giraud-du-cnrs-le-vrai-role-de-lenergie-va-obliger-les-economistes-a-changer-de-dogme/

lunedì 28 aprile 2014

L’UNICITÀ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Correzioni ed integrazioni.

           Alle date 18/04/2014, 19/04/2014, 20/04/2014 e 21/04/2014 sono uscite su questo blog le quattro puntate di un lungo post che ho scritto a proposito delle peculiarità della nostra specie e di come queste abbiano contribuito a determinarne il Fato.   Mi rallegro del fatto che hanno stimolato una discussione animata e corretta su di un argomento tanto vasto e complesso; occasione per me per imparare alcune cose che non sapevo.    Con qualche giorno di ritardo dovuto ad altri impegni, vorrei qui tornare su due punti che alcuni commenti circostanziati hanno criticato come basati su dati inesatti.   Poiché la verifica mi ha dato l’occasione per approfondire alcuni elementi della discussione, propongo qui sia le correzioni del caso, sia qualche considerazione ulteriore.

Il primo punto riguarda la seguente affermazione: “Stime ragionevoli valutano in una media globale di 40 joule di energia fossile consumata per mangiare un joule di cibo”.
Non sono stato in grado di ritrovare la citazione originale di cui avevo preso una nota incompleta mesi fa.   Ho quindi fatto una breve ricerca per verificare se l’ordine di grandezza è plausibile.    L’argomento è molto poco chiaro perché i metodi di calcolo cambiano a seconda degli autori, così come i dati di base su cui sono formate le stime.   Non sono quindi in condizione di fornire una stima veramente affidabile, ma posso citare alcuni dati che mi sono parsi particolarmente interessanti:
Limitatamente alla filiera alimentare statunitense, notoriamente la più energivora del mondo, Michael Bomford  (sul sito del PostCarbon Institut )   stima in 10 quadrilioni di btu all'anno il consumo di energia fossile necessario per nutrire 300 milioni di persone; salvo errore di conversione, significa circa 22.500 Kcal/persona/giorno, ossia circa 10 volte il consumo metabolico.   Un valore dovuto in gran parte all'elevata percentuale di cibi congelati ed inscatolati, oltre che all'uso massiccio di bibite nella dieta americana.
Le medie mondiali sono sicuramente inferiori, sebbene occorra ricordare che la "rivoluzione verde",  l’inurbamento ed il commercio globale del cibo (in particolare dei cereali) abbiano elevato considerevolmente i consumi energetici relativi al cibo anche nei “developing countries”.
Per fare un confronto usando dati attinenti alla mia esperienza professionale diretta, posso dire che la coltivazione di un ettaro di grano nella campagna toscana richiede circa 70 kg di gasolio, pari a circa 742.335 Kcal, per dare (se va tutto bene) 45 q di granella, approssimativamente equivalenti a 1.575.000 Kcal.   Dunque il raccolto è circa il doppio del consumo, ma non ho considerato i concimi (circa 65 kg di nitrati, 80 kg di fosfati e 80 Kg di potassio) per il cui calcolo energetico mi rimetto ai chimici.    Se i rapporti tra le diverse fasi della filiera (produzione, trasporto, lavorazione ed impacchettamento, vendita, conservazione e cottura) in Italia fossero simili a quelli che Bomford riporta per gli USA, si troverebbe che il grano “made in Italy” giunge in tavola con circa 5 unità di energia fossile per ogni unità di energia fotosintetica.    Ovviamente, altri cibi hanno rapporti molto più svantaggiosi, in particolare le verdure coltivate in serra (magari riscaldata) ed ancor più la carne da allevamenti intensivi; per non parlare dei congelati, inscatolati, ecc.    Su questa base penso che, in Italia, si possa ritenere realistico un rapporto tra energia fossile e fotosintetica mediamente compreso fra 8:1 e 10:1.
 In conclusione, il rapporto di 40:1 dato nel post probabilmente si riferiva a casi limite e non a medie globali, un errore di cui mi scuso con i lettori.
Un dato strutturalmente diverso, ma ancor più preoccupante è il Sustainability Index (
M.T. Brown and S. Ulgiati 1997) ricavato dal rapporto fra la quantità di energia dissipata nel processo produttivo e quella contenuta nel cibo: un rapporto che, nei paesi sviluppati, è passato da 1 nel 1910, a 10 nel 1970, ad oltre 100 oggi (dati ENEA).    Al solito, nel resto del mondo c’è da aspettarsi un rapporto migliore, ma in progressivo peggioramento: dove per l'aumento del reddito medio e dove, viceversa, per il peggioramento delle condizioni di vita con il conseguente incremento degli aiuti alimentari internazionali.
    Rimane comunque valido il fatto che il petrolio è l’alimento principale dell’umanità contemporanea, il che ci riporta al primo post della serie ed al fatto che dovremo cambiare molto rapidamente la nostra dieta, sempre che ciò risulti possibile.

Il secondo dato contestato è il numero di persone denutrite oggi nel mondo.   Nel post affermo: ”Parallelamente,la quantità di persone denutrite è andata diminuendo dal 1960 fino al 1995,per poi circatriplicare nei 20 anni successivi.(fig. 4)”.   Si è trattato di un lapsus: l’aumento in cifra assoluta è stato infatti del 30% circa e non del triplo.

Per approfondire la questione, riporto qui per intero la figura (fonte European Environment Agency su dati FAO)  che nel post ho riprodotto in parte. Premesso che questo genere di dati è intrinsecamente approssimativo e che come tale deve quindi essere considerato, in numero assoluto si passa da circa 870 milioni nel periodo 1969-1971, a circa 820 nel periodo 1995-1997, per poi risalire a circa 1020 nel 2009.   Essendo che nel frattempo la popolazione è cresciuta considerevolmente, la curva del dato percentuale è diversa, con un minimo nel 2004-2006 (attorno al 15%), che risale al  20% circa nel 2009; molto meno del quasi 35% che avevamo nel 1969-1971.

Ho verificato il dato con quello pubblicato dal Worldwatch Institute nel rapporto 2013 dello State of the World, trovandolo in linea con quello da me utilizzato (probabilmente i dati di base sono gli stessi): 878 milioni nel 1969, minimo nel 1995 con 825 milioni, 1020 milioni nel 2009 e 1030 nel 2011.   Il dato reale è sicuramente peggiore in quanto queste stime si riferiscono ai soli “developing countries” e non considerano dunque i crescenti livelli di denutrizione in Europa, USA, ecc., ma comunque il numero delle persone denutrite, per fortuna, non è triplicato.

Mi scuso di tale grossolana svista che, a mio avviso, non inficia tuttavia l’analisi delle prospettive.   Per l’argomento in discussione non mi sembra infatti che sia tanto importante la cifra in se, quanto il fatto che abbiamo avuto un lungo periodo di miglioramento, seguito da un’inversione di tendenza oramai consolidata.  



Certamente sul problema della denutrizione pesano moltissimo anche altri fattori come gli iniqui meccanismi di mercato, gli sprechi e le speculazioni, ma non è mio scopo analizzare qui il peso relativo dei vari fattori in gioco, quanto porre in evidenza il fatto che le possibilità produttive dell’agricoltura stanno raggiungendo il loro limite estremo e non riescono più a tenere il passo con la crescita demografica che ha rallentato in termini percentuali, ma che è invece al suo massimo storico in termini assoluti.   E proprio per riportare l’attenzione su questo particolare aspetto del problema, aggiungo qui tre grafici (dati FAO) che evidenziano molto bene l’impatto della legge dei “ritorni decrescenti” sull'agricoltura contemporanea.

AI “ritorni decrescenti” si devono poi aggiungere le perdite dovute al mutamento climatico, un argomento su cui non mi dilungo essendo già stato trattato recentemente da diversi articoli su questo stesso blog, ad esempio questo, questo, e quest’altro.

Il pericolo di un’ondata di carestie è quindi uno degli elementi che contribuiscono a formare la “tempesta perfetta” che si addensa sulle nostre teste e viene preso molto sul serio dagli organismi competenti; specialmente in considerazione della progressiva riduzione delle disponibilità di petrolio e dell’inevitabile peggioramento del clima.   Da diverse parti vengono avanzate proposte interessanti per superare o posticipare tale crisi, ma la loro analisi esula dai limiti della presente integrazione. 

In conclusione, anche se non è piacevole essere colti in fallo, vorrei congratularmi per l’accortezza dei lettori di questo blog, cosa che costituisce un importante patrimonio ed un’ottima garanzia per la sua qualità.

Jacopo Simonetta



domenica 27 aprile 2014

Il mito del progresso umano e il collasso delle società complesse

Da “Truthdig”. Traduzione di MR

Di Chris Hedges 

https://www.youtube.com/watch?v=uAo7ky1kq-Q (NOTA: stranamente, blogger non trova questo video, quindi non sono riuscito a caricarlo)

Nota dell'editore: quella che segue è la trascrizione di un discorso tenuto da Chris Hedges a Santa Monica, California, il 13 ottobre 2013. Per comprare il DVD del discorso di Hedge e della sessione di domande e risposte successiva, cliccate qui. Delle clip della sessione di domande e risposte sono disponibili su http://www.truthdig.com/avbooth/item/chris_hedges_on_the_role_of_art_in_rebellion_20131127, qui e qui. Seguite questo link per diventare sostenitori di Bedrock (essere memebri per un anno dà diritto al DVD gratuito di questo evento).

Il ritratto più lungimirante del carattere americano e del nostro destino ultimo come specie si trova sul Moby Dick di Herman Melville. Melville rende le nostre ossessioni omicide, la nostra arroganza, i nostri impulsi violenti, la debolezza morale e l'inevitabile autodistruzione visibili nella sua cronaca di un viaggio a caccia di una balena. E' il nostro principale oracolo. Melville è per noi quello che William Shakespeare è stato per l'Inghilterra elisabettiana o Fyodor Dostoyevsky per la Russia zarista. Il nostro paese si è costituito a forma di nave, il Pequod, a cui è stato dato il nome della tribù indiana sterminata nel 1638 dai Puritani ed i loro alleati Nativi Americani. L'equipaggio della nave di 30 uomini – c'erano 30 Stati nell'Unione quando Melville ha scritto il romanzo – è un misto di razze e di fedi. L'oggetto della caccia è un'enorme balena bianca, Moby Dick che in un precedente incontro ha mutilato il capitano della nave, Achab, strappandogli una gamba. La furia autodistruttiva della caccia, proprio quella in cui ci troviamo, assicura al Pequod la distruzione. E quelli sulla nave, in un certo senso, sanno di essere condannati – proprio come molti di noi sanno che una cultura consumistica basata sul profitto delle multinazionali, lo sfruttamento senza limiti e la continua estrazione di combustibili fossili sono condannati.

“Se fossi stato assolutamente onesto con me stesso”, ammette Ishmael, “solo poco dopo che la nave è salpata ho visto molto chiaramente nel mio cuore che mi sarei impegnato in questo modo in un viaggio così lungo – senza posare una sola volta gli occhi sull'uomo che ne è stato il dittatore. Ma quando un uomo sospetta qualcosa di sbagliato, a volte accade che, se viene prontamente coinvolto nella faccenda, cerca a poco a poco di coprire i suoi sospetti anche a sé stesso. E per me è stato così. Non ho detto niente ed ho provato a non pensare niente”.

Il nostro sistema finanziario – come la nostra democrazia partecipatoria – è un miraggio. La Federal Reserve compra 85 miliardi di dollari in buoni del Tesoro statunitensi – in gran parte mutui subprime di nessun valore – ogni mese. Ha artificialmente puntellato il governo e Wall Street in questo modo per cinque anni. Ha prestato trilioni di dollari virtualmente senza interessi a banche e ditte che fanno soldi – perché i salari vengono mantenuti bassi – prestandoceli a tassi di interessi incredibili che possono salire anche al 30%.  … O i nostri oligarchi delle multinazionali accumulano i soldi o ci scommettono in un mercato azionario gonfiato. Le stime pongono il saccheggio di banche e ditte di investimento del Tesoro degli Stati uniti fra i 15 e i 20 trilioni di dollari. Ma nessuno di noi lo sa. Le cifre non sono pubbliche. E la ragione per cui questo saccheggio sistematico continuerà fino al collasso è che la nostra economia andrebbe in tilt senza questa vertiginosa infusione di contante gratuito.

Allo stesso tempo l'ecosistema si sta disintegrando. Gli scienziati del Programma Internazionale sullo Stato dell'Oceano hanno pubblicato pochi giorni fa un nuovo rapporto che avvertiva che gli oceani stanno cambiando più rapidamente del previsto e stanno diventando sempre più inospitali per la vita. Gli oceani, naturalmente, hanno assorbito gran parte dell'eccesso di CO2 e calore dall'atmosfera. Questo assorbimento sta riscaldando e acidificando rapidamente le acqua oceaniche. Ciò è aggravato, ha osservato il rapporto, da livelli maggiori di de-ossigenazione a causa del dilavamento dei nutrienti dell'agricoltura e del cambiamento climatico. Gli scienziati hanno chiamato questi effetti “trio mortale”, che quando si mette insieme crea dei cambiamenti nei mari che non hanno precedenti nella storia del pianeta. Questo è il loro linguaggio, non il mio. Gli scienziati hanno scritto che ognuna delle 5 estinzioni di massa del pianeta è stata preceduta da almeno una [parte] del “trio mortale” - acidificazione, riscaldamento e de-ossigenazione. Hanno avvertito che “la prossima estinzione di massa” della vita marina è già in corso, la prima dopo 55 milioni di anni. O guardate la recente ricerca dell'Università delle Hawaii che dice che il riscaldamento globale è ormai inevitabile, non può essere fermato, al massimo rallentato, e che nei prossimi 50 anni la Terra si scalderà a livelli che renderanno intere parti del pianeta inabitabili. Decine di milioni di persone verranno sfollate e milioni di specie saranno minacciate di estinzione. Il rapporto getta dei dubbi sul fatto che città [vicine alla costa o sulla costa] come New York o Londra resisteranno.

Tuttavia, come Achab e la sua ciurma, razionalizziamo la nostra follia collettiva. Tutti i richiami alla prudenza per fermare la marcia verso la catastrofe economica, politica ed ambientale, per dei sani limiti nelle emissioni di carbonio, vengono ignorati o ridicolizzati. Persino avendo le luci rosse che lampeggiano di fronte a noi, l'aumento delle siccità, la rapida fusione di ghiacciai e del ghiaccio dell'Artico, tornado mostruosi, grandi uragani, perdita di raccolti, alluvioni, incendi devastanti e aumento delle temperature, ci inchiniamo servilmente di fronte all'edonismo, all'avarizia e alla seducente illusione di potere, intelligenza e bravura illimitati. L'assalto delle multinazionali alla cultura, al giornalismo, all'educazione, alle arti ed al pensiero critico ha lasciato coloro che dicono questa verità marginalizzati e ignorati, frenetiche Cassandre che sono viste come leggermente svitate, deprimenti ed apocalittiche. Siamo consumati da una mania di speranza, che i nostri capi delle multinazionali forniscono generosamente a scapito della verità.

Friedrich Nietzsche in “Al di là del Bene e del Male” sostiene che solo poche persone hanno la forza di guardare, in tempi di afflizione, a quello che chiama il pozzo profondo della realtà umana. La maggioranza ignora studiatamente il pozzo. Artisti e filosofi, per  Nietzsche, sono tuttavia consumati da una insaziabile curiosità, una ricerca della verità e un desiderio di senso. Si avventurano all'interno delle viscere del pozzo profondo. Questa onestà intellettuale e morale, ha scritto Nietzsche, ha un costo. Quelli segnati dal fuoco della realtà diventano “figli bruciati”, ha scritto, eterni orfani in imperi di illusione. Le civiltà decadute fanno sempre la guerra all'inchiesta, all'arte e alla cultura indipendenti per questa ragione. Non vogliono che le masse guardino nel pozzo. Condannano e calunniano la “gente bruciata” - Noam Chomsky, Ralph Nader, Cornel West. Alimentano la dipendenza umana da illusione, felicità e speranza. Spacciano la fantasia del progresso materiale eterno. Ci spingono a costruire immagini di noi stessi da adorare. Insistono  - ed è questa l'argomentazione della globalizzazione – che il nostro viaggio è, dopotutto, decretato da una legge naturale. Abbiamo consegnato le nostre vite alle forze delle multinazionali che alla fine servono sistemi di morte. Ignoriamo e rimpiccioliamo le grida della gente bruciata. E, se riconfiguriamo rapidamente e radicalmente la nostra relazione fra di noi e con l'ecosistema, i microbi sono destinati ad abitare la Terra.

Clive Hamilton nel suo “Requiem di una Specie: perché resistiamo alla verità sul cambiamento climatico” descrive un oscuro sollievo che proviene dall'accettazione che “il cambiamento climatico catastrofico è virtualmente certo”. Questo annullamento della “false speranze”, dice, richiede una conoscenza intellettuale ed una emotiva. La prima è raggiungibile. La seconda, siccome significa che coloro che amiamo, compresi i nostri bambini, sono quasi sicuramente condannati all'insicurezza, alla miseria e alla sofferenza entro pochi decenni, se non anni, è molto più difficile da acquisire. Accettare emotivamente il disastro imminente, per raggiungere la comprensione a livello di pancia che l'élite del potere non risponderà razionalmente alla devastazione dell'ecosistema, è difficile quanto accettare la nostra stessa mortalità. La lotta esistenziale più scoraggiante del nostro tempo è quella di buttare giù questa orribile verità – intellettualmente ed emotivamente – e sollevarsi per resistere alle forze che ci stanno distruggendo.

La specie umana, condotta da Europei ed Euro-Americani bianchi, è andata avanti per 500 anni nella furia planetaria di conquistare, saccheggiare, depredare, sfruttare e inquinare la Terra – così come di uccidere le comunità indigene che si sono trovate in mezzo. Ma il gioco è finito. Le forze tecniche e scientifiche che hanno creato una vita di un lusso senza confronti – così come di una potenza economica e militare senza rivali per una piccola élite globale – sono le forze che ora ci condannano. L'ossessione per l'espansione economica continua e per lo sfruttamento è diventata una maledizione, una sentenza di morte. Ma anche quando i nostri sistemi economico e ambientale si sfaldano, dopo l'anno più caldo [2012] nei 48 stati contigui da quando sono cominciate le registrazioni 107 anni fa, ci manca la creatività emotiva e creativa per spegnere il motore del capitalismo globale. Ci siamo legati ad una macchina del giudizio universale che continua a macinare. Le civiltà complesse hanno la cattiva abitudine di distruggere sé stesse, alla fine. Gli antropologi, compresi Joseph Tainter ne “Il collasso delle società complesse”, Charles L. Redman ne “L'impatto umano sugli antichi ambienti” e Ronald Wright in “Breve storia del progresso” hanno impostato gli schemi familiari che portano al collasso dei sistemi. La differenza questa volta è che quando crolleremo, l'intero pianeta crollerà con noi. Non ci sarà, con questo collasso finale, nessuna nuova terra da sfruttare, nessuna nuova civiltà da conquistare, nessuna persona nuova da soggiogare. La lunga lotta fra la specie umana e la Terra si concluderà coi resti della specie umana che impara una lezione dolorosa sull'avidità, l'arroganza e l'idolatria sfrenate.

Il collasso delle società complesse nella storia umana arriva poco dopo che queste hanno raggiunto il loro periodo di più grande magnificenza e prosperità.

venerdì 25 aprile 2014

Renzi continua a sbagliare tutto



Ovvero, danneggiare attività produttive per incrementare i consumi. In questo caso, il governo tassa la produzione di energia da impianti rinnovabili nelle aziende agricole. Esattamente il contrario di quello che dovremmo fare (immagine da EnergyTransition)



 

Il colpo alle rinnovabili nel decreto sul bonus Irpef

Per coprire i famosi 80 euro in busta paga ai dipendenti con reddito lordo tra 8.000 e 24.000 euro ci sarò anche un prelievo dalle fonti rinnovabili: si inasprisce la tassazione del reddito che le aziende agricole ricavano producendo energia pulita. Per gli agricoltori il provvedimento produrrà “effetti dirompenti per gli investimenti in rinnovabili”.

giovedì 24 aprile 2014

Rilascio di metano dalle trivellazioni: Nuovi dati indicano che era stato fortemente sottostimato

DaLos Angeles Times”. Traduzione di MR

La torre di un pozzo nella Pennsylvania sud-occidentale. Un nuovo studio scopre che i livelli di metano sopra i pozzi di gas di scisto durante la fase di trivellazione sono fino a 1000 volta più alti di quanto stimato dalla EPA. (Foto, per gentile concessione di Dana Caulton)


Di Neela Banerjee

Questo post è stato aggiornato, Vedi la nota sotto per i dettagli.

Le operazioni di trivellazione di diversi pozzi di gas naturale nella Pennsylvania sud-occidentale hanno rilasciato metano nell'atmosfera a tassi che erano da 100 a 1000 volte maggiori di quanto stimato dalle autorità di regolamentazione federali, come mostra una nuova ricerca.

Usando un aereo che è stato attrezzato specificamente per misurare le emissioni di gas serra nell'aria, gli scienziati hanno scoperto che le attività di perforazione di sette torri di di pozzo nella formazione Marcellus in forte espansione hanno emesso 34 grammi di metano al secondo, in media. L'Agenzia per la Protezione Ambientale (Environmental Protection Agency – EPA) ha stimato che tale trivellazione rilascia fra 0,04 e 0,30 grammi di metano al secondo.

Lo studio, pubblicato lunedì negli Atti dell'Accademia Nazionale delle Scienze, si aggiungono ad un corpus di ricerca che suggerisce che l'EPA stia gravemente sottostimando le emissioni di metano dalle operazioni di petrolio e gas. Ci si attendeva che l'agenzia pubblicasse le proprie analisi delle emissioni di metano dal settore del petrolio e del gas per questo martedì, cosa che darebbe agli esperti esterni una possibilità di valutare quanto abbiano capito bene il problema le autorità di regolamentazione federale.

Il biossido di carbonio rilasciato dalla combustione dei combustibili fossili è il più grande contributo al cambiamento climatico, ma il metano – il componente principale del gas naturale – è circa 20 o 30 volte più potente quando si stratta di intrappolare calore nell'atmosfera. Le emissioni di metano contano per il 9% delle emissioni di gas serra del paese e stanno aumentando, secondo la Casa Bianca.

Lo studio della Pennsylvania è stato lanciato nel tentativo di capire se le misurazioni del metano aereo combaciavano con le emissioni stimate basate sulle letture prese al livello del suolo, l'approccio che l'EPA e le autorità di regolamentazione federale hanno storicamente usato.

I ricercatori hanno fatto volare il loro aereo a circa un chilometro di altitudine al di sopra di un'area di 2.800 chilometri quadrati nella Pennsylvania sud-occidentale che comprende diversi pozzi di gas attivi. In un periodo di due giorni nel giugno del 2012, hanno rilevato da 2 a 14 grammi di metano al secondo per chilometro quadrato sull'intera area. Le stime della EPA di quell'area sono da 2,3 a 4,6 grammi di metano al secondo per chilometro quadrato.

Visto che le misure in quota sono state così tanto più grandi delle stime dell'EPA, i ricercatori hanno cercato di seguire il pennacchi di metano fino alle loro fonti, ha detto Paul Shepson, un chimico dell'atmosfera all'Università di Purdue che ha aiutato a condurre lo studio. In alcuni casi, sono stati in grado di quantificare le emissioni dai singoli pozzi.

I ricercatori hanno determinato che i pozzi che perdono più metano erano in fase di trivellazione, un periodo che non era conosciuto per le alte emissioni. Gli esperti avevano pensato che fosse più probabile che il metano venisse rilasciato durante le fasi successive di produzione, comprese la fratturazione idraulica, il completamento del pozzo o il trasporto lungo i gasdotti.

Le letture aeree sono state un'istantanea su due giorni, ha avvertito Shepson, servono ulteriori ricerche su un periodo più lungo per sapere se le misurazioni della Pennsylvania siano tipiche. Gran parte delle trivellazioni di gas naturale nella Pennsylvania sud-occidentale passano attraverso letti di carbone, che contengono metano che potrebbe fuoriuscire, secondo lo studio. I ricercatori hanno ipotizzato che i metodi di “underbalanced drilling” - nei quali la pressione nel foro di pozzo è inferiore a quella della geologia circostante – favorisce l'entrata nel foro di pozzo stesso di fluidi e gas che arrivano alla superficie. I produttori di energia usano l'underbalanced drilling perché permette loro di recuperare preziose forniture di etano e butano, ha detto Shepson.

La disparità fra le misurazioni dei ricercatori e i dati dell'EPA illustra i limiti del metodo usato dalle autorità di regolamentazione, ha detto Shepson. L'approccio dell'EPA mette le autorità di regolamentazione alla mercé delle compagnie energetiche, che controllano l'accesso ai pozzi, ai gasdotti, agli impianti di lavorazione e alle stazioni di compressione, dove dovrebbero essere fatte le misurazioni. “E' difficile”, ha detto Shepson.

Lo scorso anno, ricercatori da Stanford, Harvard e da altrove hanno riportato su PNAS che le emissioni di metano negli Stati Uniti continentali potrebbero essere del 50% maggiori delle stime ufficiali dell'EPA. Un altro studio di ricercatori di Stanford, pubblicato a febbraio nella rivista Science, hanno a loro volta concluso che l'EPA sottostimi le perdite di metano da parte dell'industria del gas naturale e da altre fonti.

[Aggiornato alle 10 del 10 aprile: L'EPA ha detto che era consapevole che scienziati non governativi erano giunti a “conclusioni diverse sui livelli di emissioni di metanodal settore del petrolio e del gas”. Alcune di quelle stime sono più alte di quelle dell'EPA ed alcune più basse, ha detto l'agenzia in una dichiarazione. Una moltitudine di nuovi dati sul metano e le trivellazioni è atteso per i prossimi anni e i funzionari dell'EPA revisioneranno tutto aggiornando le proprie stime sulle emissioni se necessario, secondo la dichiarazione.]

Il nuovo studio arriva due settimane dopo che la Casa Bianca ha ordinato all'EPA di identificare dei modi per tagliare il metano dalla produzione di petrolio e gas. Se l'agenzia decide di emettere nuove regole, devono essere operative per la fine del 2016.

A febbraio, il Colorado è diventato il primo stato a regolare le emissioni di metano da parte del settore del petrolio e del gas, richiedendo all'industria di rilevare e riparare le perdite e di installare delle apparecchiature per catturare il 95% delle emissioni di metano. La scorsa settimana, l'Ohio ha adottato regole per indurre le compagnie a ridurre la perdita di metano dalle apparecchiature in superficie usate nello sviluppo del gas naturale, come valvole e gasdotti. Quelle regole non sembrano affrontare le perdite durante la trivellazione.