martedì 4 marzo 2014

Ecco la Fine della Crescita

Post di Mauro Bonaiuti, originariamente pubblicato sul "Fatto"




Ecco la fine della crescita

ovvero: tecnocrazia stadio supremo del capitalismo?

Mauro Bonaiuti

Il fatto

Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.

Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman.

L'analisi del problema

Chiariamo per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato.

In altre parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare.

La tentazione tecnocratica

Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti).

Su questo ultimo punto Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è più crescita, e lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese.

Naturalmente Krugman e Summers si guardano bene dal trarre conclusioni pessimistiche sulla salute di lungo termine del capitalismo, come evitano con cura di allargare l'analisi sulle cause del malessere economico fino a comprendere tutti quei costi sociali ed ambientali che non rientrano nel calcolo degli indicatori economici tradizionali.

Tuttavia, anche limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario presentato è estremante serio e foriero di conseguenze. Questo quadro si chiarisce ulteriormente analizzando le proposte di intervento pensate dai due economisti, che indicano come sarebbe concretamente possibile rianimare un'economia nelle nuove condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente negativo.

La prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica dei tradizionali incentivi keynesiani alla spesa. Secondo Krugman si potrebbe decidere, ad esempio, di dotare tutti gli impiegati di Google Glass (una sorta di occhiale multimediale) e altri strumenti che consentono di essere perennemente connessi ad internet. Anche se poi ci si accorgesse che si tratta di una spesa inutile, questa decisione politica sarebbe comunque positiva in quanto costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente sarebbero preferibili speseproduttive, ma nello scenario attuale non si può andare tanto per il sottile: anche spese improduttive sono meglio di niente.

Ma questo evidentemente non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse naturale stabilmente negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman un modo ci sarebbe: “si potrebbe ricostruire l'intero sistema monetario, eliminare la cartamoneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi.” Traducendo per i non economisti questo significherebbe niente meno che togliere la possibilità ai cittadini di comprare e vendere attraverso la moneta cartacea (che per definizione non costa nulla) e rendere forzose la transazioni con carta di credito, appoggiata necessariamente su conti correnti sui quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo forzoso di alcuni punti percentuali l'anno. In questo modo si costringerebbe la gente a spendere di più (la ricchezza infatti si deprezza restando immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse invece di riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato, le imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo ancora più subdolo e surrettizio.

Se queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale” (per riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far fronte all'incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere, non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo. E' evidente che, una volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull'altare di qualche punto percentuale di PIL. La prospettiva è chiara: tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista.

Quanto detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe incamminare il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli ex neoliberisti alla Summers) nell'era dei rendimenti decrescenti. Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo. E qui veniamo al secondo punto fondamentale.

Rendimenti decrescenti e l'impossibile ritorno al passato

Anche se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe questa scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui fondare il rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due economisti non spendono una sola parola. Perché è evidente che per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente, tutto per tenere in movimento - da una bolla speculativa all'altra - la macchina economica globale.

Qui si evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo terminale di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato, (peraltro con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes. Quello che gli economisti tardo keynesiani sembrano non capire è quanto il contesto sia completamente mutato rispetto all'età della crescita: dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi, dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato, come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?

Se, come credo, le economie capitalistiche avanzate sono entrate già da quaranta anni in una fase di rendimenti decrescenti questo non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali. Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più vasta portata che comprende la riduzione della produttività dell'energia (EROEI), dell'estrazione mineraria, dell'innovazione, delle rese agricole, dell'efficienza dell'attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), oltre che di una sostanziale riduzione della produttività legata al passaggio da un'economia industriale a una fondata sostanzialmente sui servizi. E sopratutto, cosa che manca completamente nell'analisi di Summers e Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e dunque incrementale.

I rendimenti decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale aumento del malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della megamacchina tecnoeconomica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici. Occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di PIL, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica).

In conclusione, benché sia un fatto di per sé eccezionale che i sostenitori dello status quo (sia di ispirazione neoliberista che keynesiana) siano disposti ad ammettere, pragmaticamente, la “fine della crescita”, questi non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica). Insomma dove il capitalismo è una cosa seria, come negli Stati Uniti, si riconoscere pragmaticamente il problema, e ci si attrezza per affrontarlo. Credo tuttavia che il problema dovrebbe cominciare ad interessare anche quelli che, nella vecchia Europa come in Italia (e sono moltissimi, a sinistra, ma anche nelle reti e nell'associazionismo di base) credono ancora alla possibilità di un capitalismo addomesticato, ad un modello di "mercato regolato" che dovrebbe produrre insieme occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.

Dal nostro punto di vista il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita.





lunedì 3 marzo 2014

Ucraina: una guerra per le risorse?




L'immagine qui sopra (dal Gorshenin Institute) mostra i due principali bacini nella zona intorno all'Ucraina dove si ritiene che esistano risorse di gas naturale in forma di gas di scisto (o "shale gas"). Le riserve della zona del "Bacino di Lublino" a cavallo fra Ucraina e Polonia sono stimate come al terzo posto in ordine di grandezza in Europa. Sono anche considerate fra le più accessibili nel senso che sono in una zona poco popolata dove sarebbe più facile fare accettare agli abitanti i danni prodotti dal "fracking" per accedere alle risorse.

Così, la geologia della regione sembra portare in modo naturale allo smembramento dello stato ucraino e alla spartizione del suo territorio fra i vicini più potenti. Per gli Europei/Americani, il gas dell'Ucraina dell'est potrebbe rappresentare una risorsa dalla quale possono ottenere notevoli profitti ma che finora gli Ucraini non cedevano volentieri (come potete leggere, per esempio, in questo documento). Per i Russi, il bacino di Lublino non sarebbe raggiungibile in pratica e, comunque, loro di gas ne hanno in abbondanza. Gli interessa di più, semmai, la Crimea per il suo valore strategico e probabilmente anche l'Ucraina dell'Est con le sue riserve di Gas aggiuntive. Visti in questa luce, gli ultimi eventi sembrano avere una logica ineluttabile che conduce a una spartizione dell'Ucraina con vantaggi sia per la Russia che per il blocco Euro-Americano. Chi ci rimette, evidentemente, sono gli Ucraini, ma si sa che è così che va il mondo e quando si tratta di petrolio e gas, non si guarda in faccia nessuno.

L'unico problema è che questo famoso gas di scisto potrebbe non essere quella meraviglia di abbondanza di cui si parla. Si sa che il gas di scisto è costoso e che causa danni disastrosi a tutto quello che sta intorno alle trivellazioni. E non sarebbe la prima volta che una risorsa descritta come promettente si rivela poi un imbroglio. Vi ricordate di quando, negli anni '90, si diceva che la zona del Mar Caspio sarebbe stata "La nuova Arabia Saudita?" Beh, oggi sappiamo che, al massimo, potrebbe essere la nuova Caltanissetta (tanto per fare un confronto con un area che produce un po' di petrolio, ma vi potete immaginare che non è tanto!).

Così, anche le riserve di shale gas del bacino di Lublino potrebbero rivelarsi una clamorosa sovrastima, nonostante che i polacchi ci abbiano creduto (e non solo loro). Perlomeno, le ultime notizie che arrivano dalla Polonia sono deludenti. Un paio di mesi fa è arrivato l'annuncio che l'ENI ha abbandonato la ricerca di gas nella zona - così come hanno fatto altre compagnie petrolifere.

Curiosamente, proprio questa delusione polacca sembra aver generato un aumento di interesse nell'Ucraina. Sarà una coincidenza rispetto a quello che è successo poco dopo, certo, però come diceva Andreotti "A pensar male, di solito ci si azzecca". Guerra per le risorse, dunque, come lo sono quasi tutte le guerre. Ma chi ci dice che le risorse di gas ucraine, tanto millantate, non si rivelino poi delle illusioni proprio come quelle polacche? Chi può dirlo? In fin dei conti perché si fanno le guerre se non per delle illusioni?




Su questo argomento, vedi anche questo articolo di Ugo Bardi





domenica 2 marzo 2014

Pausa nel riscaldamento? Quale pausa?

Da “Climate Progress”. Traduzione di MR

Grafico delle temperature dal 1950 che mostra anche la fase del ciclo El Niño-La Niña. Via NASA.

L'ultimo decennio è stato il più caldo mai registrato e il 2010 è stato l'anno più caldo mai registrato, in continuità con la tendenza a lungo termine alimentata dalle emissioni umane (vedi il grafico sopra). Tuttavia, negli ultimi 10 anni le temperature di superficie non sono sembrate aumentare rapidamente come in molti si aspettavano – anche se gli oceani hanno continuato a scaldarsi rapidamente e il ghiaccio dell'Artico si è fuso più rapidamente di quanto ci si aspettasse, così come ha fatto la grande calotta glaciale in Groenlandia e in Antartide. (Vedere qui). Ora una nuova ricerca scopre che il rallentamento nel tasso di riscaldamento della
superficie è causato dall'aumento della velocità senza precedenti degli alisei, che mescolano più calore e più in profondità negli oceani mentre portano l'acqua più fredda in superficie. Ricordate, più del 90% del riscaldamento planetario antropogenico va negli oceani, mentre solo il 2% va nell'atmosfera. Quindi piccoli cambiamenti nell'assorbimento dell'oceano possono avere impatti enormi sulle temperature di superficie.

L'autore principale, il professor Matthew England, ha spiegato in una nuova pubblicazione:

“Gli scienziati hanno sospettato a lungo che un assorbimento di calore supplementare da parte dell'oceano avesse rallentato l'aumento delle temperature medie globali, ma il meccanismo dietro al rallentamento rimaneva poco chiaro... Ma l'assorbimento di calore non è in nessun modo permanente: quando la forza degli alisei torna normale – come inevitabilmente accadrà – la nostra ricerca suggerisce che il calore si accumulerà rapidamente nell'atmosfera.   Quindi, le temperature globali sembrano destinate a crescere rapidamente oltre il periodo attuale, tornando ai livelli ai livelli previsti entro un decennio”.

I dati corretti (linee in grassetto) sono mostrati
paragonati a quelli incorretti (linee sottili). Via Real Climate
Questo è preoccupante visto che la nozione secondo cui c'è stato un rallentamento proviene in larga parte dall'esame dei dati HadCRUT4, piuttosto che sui dati della NASA. Visto che non abbiamo stazioni meteorologiche permanenti nell'Oceano artico – il luogo dove il riscaldamento globale è stato più grande – la decisione del Hadley Centre britannico di escludere quest'area ha significato che hanno sottostimato il riscaldamento recente. Una recente analisi che usa i dati satellitari per riempire i vuoti ha scoperto che il rallentamento era minore di quanto non sembrasse (vedere la figura sulla destra). La NASA, invece, ha ipotizzato che la temperatura di superficie nell'Artico sia uguale a quella delle più vicine stazioni di terra. Quindi i dati della NASA sono più precisi. In ogni caso, come potete vedere dal grafico in alto, non c'è stato nessun rallentamento nelle temperature di superficie in confronto alla tendenza a lungo termine. Ci sono stati un paio di eventi de La Niña, dal 2010, e La Niña riduce le temperature collegate alla tendenza del riscaldamento antropogenico, proprio come El Niño aumenta le temperature di superficie collegate alla tendenza. Quando vedremo il prossimo El Niño, che potrebbe essere anche quest'estate, possiamo aspettarci di vedere un altro record della temperatura globale subito dopo, nel 2014 o nel 2015. Ciò che il nuovo studio scopre è che è probabile che le temperature aumentino anche di più nei prossimi anni, visto che “l'effetto netto di questi alisei anomali costituiscono un raffreddamento della temperatura media globale dell'aria in superficie del 2012 di 0,1-0,2°C”.




Edipo e i Limiti dello Sviluppo





Vi ricordate la storia di Edipo? L'oracolo di Delfi gli predice che ammazzerà suo padre e sposerà sua madre. Uno direbbe: una scemenza totale, no? E invece Edipo ci crede completamente, gli prende un accidente e si ingegna a far di tutto per far si che la profezia non si avveri, scappando il più lontano possibile dai suoi genitori (ovvero da quelli che lui credeva fossero i suoi genitori). Così, arriva a Tebe, dove finisce per sposare la regina della città. Dopo qualche anno, gli arriva la notizia che suo padre (ovvero quello che lui credeva essere suo padre) è morto. Tutto contento, Edipo si affretta a dichiarare che l'Oracolo di Delfi aveva sbagliato tutto. Proprio una bufala, vero? Peccato che non avesse fatto troppo caso al fatto che la regina di Tebe, che lui aveva sposato, beh, aveva proprio l'età giusta per essere sua madre. Fra le altre cose, inoltre, un po prima di sposare la regina, aveva ammazzato un tale che aveva proprio l'età giusta per essere suo padre. Insomma Edipo non era proprio un mostro di intelligenza: se veramente voleva dimostrare che la profezia era sbagliata, avrebbe dovuto fare più attenzione. Poi, sapete come va a finire la storia: Edipo aveva effettivamente ucciso suo padre e sposato sua madre!


E' curioso come ci siano dei punti di contatto fra la storia di Edipo e quella dei "Limiti dello Sviluppo." Vi ricordate lo studio del 1972? Quello che aveva previsto che se non si faceva niente per evitarlo, l'economia globale sarebbe collassata entro i primi decenni del ventunesimo secolo. Ovviamente, lo studio non era una profezia, non arrivava da un oracolo, e non si supponeva che ci entrassero di mezzo gli Dei per fare avverare le previsioni. Niente del genere, ma perlomeno su un punto, sia i denigratori come i sostenitori della bontà dello studio si trovavano d'accordo. Nessuno voleva che gli scenari peggiori si avverassero. Su questo, ragionavano un po' come Edipo che, anche lui, non voleva assolutamente che la profezia dell'oracolo si avveerasse.

Ma, mentre i sostenitori dello studio suggerivano delle strategie di sostenibilità per evitare il collasso, i denigratori si comportavano come Edipo pensando che, forse, se scappavano via lontano il collasso non sarebbe arrivato. Così hanno criticato e demonizzato lo studio per poi ignorarlo completamente. Qualche decennio dopo, notando che il collasso previsto non si era verificato, hanno tirato un sospiro di sollievo dichiarando che le previsioni dei "Limiti" erano sbagliate - proprio come quando a Edipo arriva la notizia della morte di suo padre (quello che lui credeva essere suo padre)

Peccato che sia Edipo come i denigratori dei "Limiti dello Sviluppo" abbiano cantato vittoria troppo presto. Oggi, sfortunatamente per noi, lo scenario "caso base" dello studio si sta rivelando sempre più come una profezia. Perlomeno, la crescita economica che ci aveva accompagnato fino ad oggi sta rallentando e ci sono dei segnali preoccupanti che stiamo per vedere quel collasso dell'economia planetaria che lo scenario "caso base" dei "Limiti dello Sviluppo" aveva previsto entro i primi decenni del ventunesimo secolo. Non era una profezia. Era solo una possibilità che avremmo potuto evitare se fossimo stati un po' più attenti. Non lo abbiamo fatto, e adesso ne stiamo subendo le conseguenze. Anche Edipo, d'altra parte, avrebbe dovuto stare in po' più attento a chi si sposava.




sabato 1 marzo 2014

Il Collasso su richiesta di David Holmgren

Da “Club Orlov”. Traduzione di MR

Di Dmtry Orlov

Gary Larson
C'è stata molta discussione nei giorni scorsi sulla recente revisione di David Holmgren del suo saggio sugli Scenari Futuri del 2007. In quel saggio, Holmgrem descrive quattro scenari alternativi, definendoli Brown Tech, Green Tech, Gestione Globale e Scialuppe di Salvataggio. Nella sua rivalutazione, Holmgren nota che il Picco del Petrolio finora non è riuscito a innescare nessun tipo di diminuzione delle emissioni di gas serra, mentre gli effetti previsti del rapido cambiamento climatico sono passati da negativi al limite del letale per la sopravvivenza umana. Notando che le strategie precedenti per fermare lo scivolamento verso la distruzione ambientale, come i negoziati internazionali, l'attivismo per il clima mainstream, il movimento delle Transition Town e tutto il resto, hanno avuto un effetto trascurabile, ha proposto un nuovo approccio:

“Credo che costruire attivamente in parallelo delle economie ampiamente non monetarie per famiglie e comunità con il 10% della popolazione abbia il potenziale di fungere da profondo boicottaggio sistemico dei sistemi centralizzati nel loro complesso, che potrebbe portare ad una contrazione di più del 5% delle economie centralizzate. Se questa è la pagliuzza che spezza la schiena al sistema finanziario globale o un punto di non ritorno, nessuno può dirlo, anche dopo che sia avvenuto”.

In risposta, Nicole Foss ha scritto una lunga e pacata riflessione nella quale spiega che ognuno di questi scenari opera su scale diverse: l'attuale treno in corsa della tecnologia marrone, compresa la produzione di petrolio e gas di scisto mediante fracking, petrolio e gas da acque profonde, sabbie bituminose e così via, è condotto su scala nazionale o internazionale; le iniziative della tecnologia verde come le installazioni solari, micro idroelettrico, passaggio dall'auto alla bici e così via, stanno avvenendo, dove avvengono, a livello di città o di regione; l'approccio di Gestione Globale funziona meglio a livello locale di città o paese e, infine, costruire scialuppe di salvataggio è più che altro un perseguimento personale o famigliare.

Sono d'accordo sul fatto che trattare questi come quattro scenari distinti è bene che vada fuorviante: queste sono solo diversi aspetti della realtà, osservabili, come indica Nicole, su diverse scale. Il Brown Tech è una serie di meccanismi di adattamento disperati: di fronte al Picco del Petrolio (la produzione di petrolio convenzionale ha raggiunto il picco nel 2005-2006) e al declino della produzione dei pozzi convenzionali, le compagnie energetiche hanno tentato di mantenere la produzione alta ricorrendo a misure disperate come il fracking e le trivellazioni nell'Artico, riuscendoci, finora, anche se a un costo più alto. In particolare, ciò che ha reso loro possibile fare questo è il magico atto di levitazione eseguito dalle banche centrali del mondo, che hanno mantenuto linee di credito globali aperte contro ogni pronostico. La mia sensazione è che quando la gravità tornerà a funzionare, il picco del petrolio si riaffermerà vendicandosi e che l'economia Brown Tech è un morto che cammina. Cerchiamo di mostrare un po' di rispetto per il morto.

Io sono, ovviamente, un fan del Green Tech. Qualche anno fa, Boston non aveva piste ciclabili, ora le ha lungo le vie principali e un programma di bike sharing di successo. Cosa c'è che non va in questo? Sono anche, a questo punto, allenato ad installare pannelli solari e generatori eolici per una facile vita off grid. Ho sperimentato una compost toilet a bordo di una barca, con risultati altalenanti, ma ne ho tratto alcune lezioni utili. A un certo punto mi piacerebbe misurarmi a saldare un convertitore di biochar. Ma tutte queste cose avranno un effetto su scala globale? Ne dubito! Di fatto dubito che ci sia qualcosa che lo avrà. Il corpo legislativo dello Stato del Massachussets ha appena votato lo stanziamento di 50 milioni di dollari per mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Problema risolto! LOL!

Analogamente, la Gestione Globale suona bene. Non sono stato impegnato nella Permacultura oltre alla lettura di qualche libro. Il mio problema è che la Permacultura richiede terra ed io non ne ho. Forse un giorno arriverò a provare qualche esperimento allestendo macchie auto perpetuanti di piante commestibili su parti inabitate della costa. Ma c'è un'altro tipo di cultura di cui ho esperienza diretta: la cultura russa dell'orto in casa. L'orto può essere un salvavita. Si ha ancora bisogno di prendere periodicamente un sacco di semi da qualche parte ed è difficile sopravvivere mangiando un animale di tanto in tanto, ma può fare un'enorme differenza. Tutto ciò di cui si ha bisogno è un pezzo di terra e un po' di capacità; non servono swale, compagnie o altri concetti di Permacultura. L'orto di casa può fare la differenza su scala nazionale? Sì, può. Lo ha fatto e lo farà. C'è solo un problema: i buongustai. Questi non vogliono meramente sopravvivere mangiando una dieta bilanciata di patate, rape, cavoli e segale periodicamente incrementata con stufato di porcellino d'India, vogliono prodotti freschi e deliziosi e ricette stravaganti. Ho spesso pensato che una buona triade da lanciare per un blog che ha a che vedere col collasso sarebbe quella di includere cambiamento climatico, picco del petrolio e cibo locale delizioso, salutare e biologico. Potrebbero esserci tre tasti: l'estinzione della razza umana a breve termine ti deprime? Clicca su un altro tasto e guarda dei pomodori succulenti da far venire l'acquolina in bocca. Ma se i buongustai possono essere tenuti a bada, allora l'rto di casa diventa qualcosa dal valore di sopravvivenza.

Analogamente, non c'è niente di male nelle scialuppe di salvataggio. Io vivo in una barca, quindi ho preso il concetto oltre la metafora. Ma anche metaforicamente parlando, è una buona idea avere un piano per cosa fare in caso di chiusura improvvisa della finanza globale seguita dalla chiusura della catena globale della fornitura di tutto, dal petrolio saudita alla carta igienica canadese. Coloro che non si sono preparati affatto per questa evenienza dovranno disturbare coloro che lo hanno fatto, con risultati altalenanti. Se non vi piace pensare ai grandi disastri, pensate ai piccoli. Io ho riserve delle riserve: se l'elettricità se ne va, ho le batterie; se non posso scaldarmi col diesel, posso scaldarmi col propano; se l'acqua a riva viene a mancare, posso passare ai serbatoi interni; se i serbatoi interni si svuotano, ho delle taniche di acqua potabile. Tali piccole emergenze si verificano con una certa regolarità, quindi queste precauzioni non sono vane. Essere preparati per le piccole emergenze rende facile fare il passo successivo e prepararsi per quelle grandi.

Così, queste sono tutte sfaccettature della realtà, non scenari alternativi. Il fatto che la sfaccettatura Brown Tech si stia attualmente espandendo a passi da gigante è problematico. Sarebbe sicuramente bello se collassasse prima piuttosto che dopo. Se, come dice Holmgren, il 10% della popolazione boicottasse la finanza mondiale e la finanza mondiale collassasse, il Brown tech probabilmente chiuderebbe e basta, perché le sue attività hanno una grande densità di capitale. Ora, visto che le nostre voci – quella di Holmgre, la mia e quella di altre persone che possono essere in accordo col messaggio di Homgren – sono prevalentemente diffuse attraverso dei blog, posso fare un po' di conti e capire quanti persone come me ci vorrebbero per realizzare il cambiamento richiesto nel sentimento generale.

Questo particolare blog ha circa 14.000 visitatori unici al mese. Ipotizziamo un tasso di conversione molto alto del 50%, per cui metà dei miei lettori si impegnano a sostenere il boicottaggio di Holmgren. Sono 7.000 persone. La popolazione mondiale sono 7 miliardi di persone, il 10% di questo sono 700 milioni di persone. Dividendo l'uno per l'altro abbiamo il nostro risultato: servirebbero 100.000 attivisti/blogger come me per realizzare il cambiamento di coscienza richiesto. Domanda successiva: quanti blogger come me (più o meno) ci sono? Albert Bates ci ha fatto dono di un bel grafico che mostra tutti i più rimarchevoli.

Notate che ce ne sono parecchi nascosti lungo gli assi. A Bates interessano i mezzi (pacifici) ed è agnostico sul risultato. Altri 5 sono distribuiti lungo l'asse Ecotopia-Collasso, il che significa che sono agnostici sui mezzi. Uno – Kunstler – è agnostico su entrambi. Notate la mia posizione sul grafico: fra Greer e MacPherson. Greer pensa che il collasso impiegherà qualche secolo; MacPhearson pensa che gli essere umani si estingueranno prima di allora. Il mio sospetto è che coloro che sono in vita oggi vivranno a sufficienza per vedere la diminuzione della popolazione terrestre di almeno il 50% a causa di carestia, malattia e guerra – cioè, se se vivono abbastanza da vederla. Come puoi sapere se sei estinto se sei estinto?

Tornando ai conti: dei 22 attivisti/blogger sul grafico di Albert, quanti potrebbero assecondare il piano? Sappiamo già che Rob Hopkins si è chiamato fuori. Ha scritto che Collasso on demand di Holmgren “non è scritto per potenziali alleati nei governi locali, nei sindacati, per la potenziale ampia coalizione di organizzazioni locali che cercano di costruire i gruppi di Transizione, per la diversità dei punti di vista politici...” Sì. Posso capire perché i governi locali possano avere una visioni negativa di un piano che azzeri i suoi bilanci e perché le organizzazioni sindacali potrebbero non essere entusiaste di un piano che metterebbe tutta la loro truppa sulla linea della disoccupazione. Immagino che le “potenziali ampie coalizioni” di Hopkins dovranno semplicemente aspettare il collasso piuttosto che realizzarlo. Potenzialmente, cioè. Non che tutto questo importi, naturalmente, perché, anche se ipotizziamo che tutti saranno d'accordo col piano di Holmgren, dividendo l'uno per l'altro abbiamo ancora un 99,98% di ammanco nel numero richiesto di attivisti/blogger. Pretenzioso. Ma non lasciate che questo vi impedisca di provarci, a prescindere dai risultati (se ce ne saranno) è una buona cosa da tentare.

venerdì 28 febbraio 2014

Guerre in prestito

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

di Antonio Turiel




Cari lettori,

Sembra che questo 2014 degeneri rapidamente verso una situazione di conflitto e violenza generalizzati in tutto il globo. Disgraziatamente, la violenza è una cosa molto comune nel nostro mondo nelle sue molteplici manifestazioni, da quelle più individuali a quelle più collettive. La cosa grave è che si sta allargando a paesi dove da tempo non si vedeva (anche se non è mai stata dimenticata).

Proprio adesso uno dei fuochi più caldi dell'attenzione occidentale si trova in Ucraina, dove la reiterata occupazione delle strade da parte di un movimento che brandisce la bandiera della UE, pro occidentale e che esige un cambiamento di governo, è finito per portare ad una sanguinosa repressione da parte della polizia e la logica escalation di violenza che, negli ultimi giorni, ha portato il presidente del paese a scappare verso la regione orientale del paese con simpatie per la Russia. Molti livelli si sovrappongono nel conflitto in Ucraina, alcuni interni (la crisi economica, la disoccupazione, l'insoddisfazione per la mancanza di riforme dalla Rivoluzione Arancione) ed altre esterne, con una forte presenza della partita a scacchi geopolitica fra Russia e Stati Uniti (la Russia vede con enorme sospetto la presenza di un paese pro-occidentale proprio alla sua frontiera, mentre l'Europa vede una grande opportunità di allargarsi verso est e per gli Stati Uniti qualsiasi iniziativa che limiti il potere russo è benvenuta). Non è estranea alla crisi in Ucraina l'entrata in funzione del gasdotto Nordstream lo scorso dicembre. Se avete memoria, ricorderete che durante gli ultimi inverni la Russia ha minacciato di tagliare la fornitura di gas naturale all'Ucraina, poiché questo paese non pagava i prezzi che volevano i russi e alla fine gli avrebbe tagliato la fornitura per qualche giorno, ma in seguito ha dovuto tornare sui suoi passi visto che quello stesso gasdotto, che attraversa il territorio ucraino, è lo stesso che porta a un buon cliente: la Germania. E tendere troppo quella corda porterebbe la nazione teutonica a cercare altre modalità di approvvigionamento, forse più care, ma più sicure. Tutto ciò è finito col nuovo gasdotto, che attraversa il mar Baltico e va direttamente dalla Russia alla Germania. Pertanto non è casuale che quest'anno non sia stata messa in scena la minaccia del taglio della fornitura, visto che i russi possono chiudere tranquillamente il rubinetto e il governo ucraino ha dovuto gestire la scarsità come ha potuto, nonostante la crisi e lo scontento popolare. Significativo è anche che proprio una delle contropartite offerte dalla Russia durante queste settimane confuse è la fornitura di gas all'Ucraina a buon prezzo.

Ma tornando agli avvenimenti sulle strade di Kiev e di altre città ucraine, è difficile sapere con precisione cosa succede, perché l'informazione diffusa dai media occidentali e estremamente di parte. Sembra che una parte dei manifestanti del Majdán sia equipaggiata quasi militarmente, in mezzo ad una massa di innocenti cittadini che vogliono solo esprimere la loro stanchezza per una situazione che non migliora (e che alla fine si ritirano all'aumentare della violenza). Il conflitto sembra degenerare verso una guerra civile più o meno aperta, in modo analoga a quanto è avvenuto in Siria, di cui è altrettanto impossibile avere una visione affidabile di ciò che succede in questo momento (vi sarete resi conto che ultimamente di Siria non si parla quasi più nei media: praticamente è diventato un non-tema, nonostante che, ovviamente, in quel paese la guerra civile continua).

Sembra che anche in Venezuela l'agitazione aumenti, anche se, di nuovo, è molto difficile in Occidente (è ironico chiamare Occidente paesi che si trovano più a est o a nord del Venezuela) accedere a informazioni affidabili su ciò che sta realmente avvenendo. A margine dei dettagli, praticamente inafferrabili da qui, di nuovo si intuisce una situazione simile a quella dell'Ucraina: da un lato c'è un governo emerso dalle urne che si confronta con una situazione interna molto complicata che porta spesso a fughe in avanti e a misure di carattere autoritario, dall'altro un certo livello di protesta dei cittadini istigata dallo scontento, in mezzo alla quale si nasconde una forza emergente, di dimensione molto inferiore ma sempre meglio armata, con la pretesa di deporre il governo con qualsiasi mezzo. Se si tratta di un processo completamente interno o istigato dall'esterno è complicato da sapere, anche se sicuramente c'è un mix di entrambe le cose: problemi interni di cui agenti esterni (e di nuovo molte dita indicano gli Stati Uniti) tentano di approfittarne.

Tra i vari fattori interni che contribuiscono al malessere in Venezuela è importante sottolineare la sempre meno dissimulata diminuzione della produzione di petrolio e delle sue esportazioni, come mostra il grafico seguente (preso come al solito dal sito di Flujos de Energía); tenete conto che arriva solo fino al 2012, quindi la situazione adesso potrebbe essere sensibilmente peggiore:


































Se confrontate questo grafico con quello di altri paesi che si sono visti coinvolti in processi simili (e che abbiamo commentato nel post corrispondente) si direbbe che al Venezuela restino per lo meno cinque anni prima che comincino i problemi gravi col crollo dei proventi petroliferi. Tuttavia, circa un terzo del petrolio prodotto dal Venezuela in questo momento è greggio extra pesante, dall'EROEI molto basso, il che significa che l'energia netta proveniente dal petrolio venezuelano è abbastanza inferiore rispetto a quanto indicato dal volume lordo e questo in particolare implica che il rendimento economico è abbastanza inferiore di quanto ci si aspetterebbe. Questo fatto probabilmente influisce sui problemi della nazione caraibica. Non a caso, gli Stati Uniti importano petrolio dal Venezuela ed hanno grande interesse a che il petrolio continui a fluire (nonostante i canti della sirena che parlano di una finta indipendenza energetica degli Stati Uniti). Pertanto non sorprende che, in mezzo alla confusione regnante e forse in parte provocandola, alcune personalità politiche statunitensi stiano chiedendo già adesso ad Obama di invadere il Venezuela.

Nel frattempo, lo Yemen, paese nel mirino, si avvicina con passo fermo al suo collasso finale; in quel paese sono frequenti gli attentati, mentre il potere politico cerca di frenare la sua inevitabile decomposizione, con una misura di decentralizzazione (dividere il paese in sei stati confederati, nonostante la sua piccola estensione). Dato il rapidissimo crollo delle esportazioni petrolifere di un paese tanto dipendente dall'esterno, il disastro è più che prevedibile: è una certezza. Essendo un paese confinante con la decisiva Arabia Saudita, è ovvio che non sarà permesso che il paese esploda incontrollatamente e a un certo punto le truppe saudite, appoggiate direttamente o indirettamente dagli Stati Uniti, entreranno nel paese in modo simile a come hanno già fatto in Bahrein nel 2011 (proprio in tempo perché si potesse correre il Gran Premio di Formula 1 di quell'anno, BAU a oltranza).

Per parte sua, l'Egitto non si è stabilizzato dopo le rivolte della fame del 2011 (cinicamente battezzate “primavera araba”) e l'esercito resiste nel cedere il potere alla società civile di un paese sovrappopolato (85 milioni di abitanti) e impoverito. Per finirlo, i piani dell'Etiopia, altro paese sovrappopolato (92 milioni) e impoverito, di fare una diga nell'Alto Nilo minaccia di scatenare una vera e propria guerra per l'acqua (come abbiamo già spiegato, un'ulteriore forma delle guerre della fame) mentre in Egitto si privatizza l'accesso all'acqua e si da un accesso preferenziale alle classi benestanti: una forma ancora più vile della Grande Esclusione in un paese assetato e affollato. Tanti problemi possono finire soltanto in disastro. Ma l'Egitto è una enclave strategica per la presenza del Canale di Suez, quindi c'è aspettarsi che o prima o dopo le truppe straniere facciano la loro apparizione, perlomeno nella fascia del canale, mentre il resto del paese si unisce nel caos e nella miseria.

Tutti gli esempi sopra mostrano casi di paesi con gravi problemi interni tutti acutizzati dal proprio declino energetico (con l'eccezione dell'Ucraina, tutti sono o erano fino a poco fa esportatori di petrolio) e in tutti grandi potenze straniere svolgono o finiranno per svolgere un ruolo primario, a volte lottando fra loro per mezzo di bande locali. Sono le nuove Proxy Wars o guerre sussidiarie: guerre scatenate da altri a beneficio non dichiarato (e a volte sconosciuto agli stessi combattenti) di interessi delle grandi potenze, una tradizione che data all'inizio del capitalismo e che ha raggiunto il suo apice nel ventesimo secolo. Sono le nuove guerre in prestito che disgraziatamente pare che caratterizzeranno il nostro declino energetico.

Ma il problema non sono solo queste guerre in prestito che si scateneranno nel territorio dei principali produttori di petrolio e di altre risorse. Anche senza arrivare all'intensità di una guerra, l'instabilità cresce su scala mondiale. Per esempio, la popolazione di un paese amante del calcio come il Brasile si ribella contro le spese del Mondiale di Calcio, odiose in un paese sottomesso a molte restrizioni e tagli (di nuovo, la parabola del lago risulta opportuna). Ricordate come anche in Argentina ci sono state rivolte e saccheggi solo un paio di mesi fa. Intanto, l'economia della Cina sta rallentando e cresce lo scontento popolare, visto che viene sovvertito il contratto sociale implicito (non richiedete democrazia e vi lasceremo prosperare e anche arricchire, se lavorate duro). E' questione di tempo che anche lì scoppi una rivolta.

E cosa succede nell'Europa occidentale? La Grecia soffre, il Portogallo subisce, l'Italia delira, l'Irlanda sembra abbastanza tranquilla, la Francia langue e la Germania spera... E in quanto alla Spagna, certi giorni ho l'impressione che stiamo facendo un conto alla rovescia collettivo, silenzioso, che non so bene dove ci porterà.

Saluti.
AMT




giovedì 27 febbraio 2014

Big Oil scommette; noi tutti perdiamo

Da “Recharge” (pdf non in rete). Traduzione di MR


Di Jeremy Leggett

“Stiamo scommettendo la nostra intera vita economica nazionale nella speranza – di fatto nell'aspettativa – che il boom del fracking continuerà fino agli anni 20 inoltrati del 2000 e che, a un tasso e ad un costo che desideriamo, quantità significative di petrolio “ancora da scoprire” saranno in qualche modo trovate per soddisfare la domanda. Se una qualsiasi di queste cose si dimostra sbagliata non abbiamo un piano, nessuna alternativa e non abbiamo pensato per niente a come risponderemmo in un caso simile”.

Chi parla è l'esperto di sicurezza nazionale il Tenente Colonnello Daniel Davis, il veterano di 4 turni di servizio in Iraq e Afghanistan. Non sono un militare, ma ma mi preoccupo della sicurezza energetica del mio paese allo stesso modo in cui lui lo fa del suo. Nel Regno Unito, il governo, il servizio civile e gran parte delle grandi aziende energetiche sembrano perfettamente soddisfatti di replicare il grande azzardo in corso negli Stati Uniti. Il 10 dicembre, il Tenente Comandante Davis ed io abbiamo convocato a Washington e Londra, in collegamento video, incontri di persone che condividono le nostre preoccupazioni sul rischio di una crisi petrolifera globale.

Abbiamo anche invitato persone chiave che non lo sono, ma che erano interessate a provare, al di là della propaganda, che il dibattito sulla politica energetica sembra attrarre in questi giorni. Fra coloro che si sono uniti a noi c'erano militari in pensione, ufficiali militari, esperti di sicurezza, alti dirigenti di un'ampia gamma di industrie e politici di tutti i principali partiti, compresi due ex ministri britannici. Abbiamo cominciato con una presentazione di Mark Lewis, un ex capo della ricerca energetica della Deutsche Bank. Con questo retroterra, ci si potrebbe aspettare che Lewis sia un discepolo della narrazione convenzionale dell'abbondanza di petrolio nei mercati. Molti dei suoi pari lo sono. Ma lui ha suggerito tre grandi segni di avvertimento nell'industria petrolifera che puntano ad una narrazione contraria di problemi incombenti per l'offerta: alti tassi di declino, impennata della spesa di capitale e crollo delle esportazioni. I tassi di declino di tutti i giacimenti di petrolio greggio convenzionale in produzione oggi sono spettacolari; la IEA prevede un crollo della produzione da 69 Mb/g di oggi a soli 28 Mb/g nel 2035. L'attuale produzione totale globale di tutti i tipi di petrolio è di circa 91 Mb/g.

Considerate la spesa necessaria per cercare di compensare quel divario. Gli investimenti per lo sviluppo di giacimenti petroliferi e per l'esplorazione sono quasi triplicati in termini reali dal 2000: da 250 miliardi di dollari a 700 miliardi di dollari nel 2012. L'industria sta spendendo sempre di più per sostenere la produzione e la sua redditività riflette questa tendenza, nonostante il perdurare del prezzo del petrolio alto. Nel frattempo, il consumo vola nei paesi del OPEC. Di conseguenza, le esportazioni globali di petrolio greggio sono declinate dal 2005. E' difficile confondere questi dati e non vedere una crisi petrolifera in arrivo, conclude Lewis. Che dire della recente aggiunta di 2 Mb/g di nuova produzione di petrolio, del boom che è stato lanciato come “ciò che cambia i giochi” e la strada verso“l'Arabia Saudita" da parte dei tifosi dell'industria? Il veterano di Geological Survey of Canada, David Hughes, che ha condotto l'analisi più dettagliata dello scisto Nord Americano al di fuori delle aziende di petrolio e gas, ha offerto alcuni punti di vista che fanno riflettere su questo. I suoi dati mostrano i tassi di declino prematuro spettacolarmente alti nei pozzi di gas e petrolio di scisto (più correttamente conosciuto come tight oil) significano che servono alti ritmi di trivellazione solo per mantenere la produzione. Questo problema è aggravato dal fatto che i “sweet spots” si esauriscono prima nello sviluppo dei giacimenti. Di conseguenza, la produzione di gas di scisto sta già calando in diverse regioni chiave di trivellazione e la produzione del tight oli nelle due regioni principali è probabile che raggiunga il picco fra il 2016 e il 2017. Queste due regioni, in Texas e Nord Dakota, permettono il 74% della produzione totale di tight oil statunitense.

Come Lewis, Hughes crede che l'industria del petrolio e del gas stia tirando per il naso il mondo verso una crisi energetica. Nel mio libro The Energy of Nations, descrivo come i think tank militari hanno avuto la tendenza di fiancheggiare l'industria, come Lewis e Hughes, che diffidano della narrazione cornucopiana della permanenza del petrolio. Uno studio del 2008 dell'esercito tedesco, la mette così: “Le barriere psicologiche fanno sì che fatti incontestabili vengano oscurati e portano quasi istintivamente al rifiuto di guardare in dettaglio all'interno di questo tema difficile. Il picco del petrolio, tuttavia, è inevitabile”. Questo oscuramento si estende ai media mainstream, che hanno entusiasticamente fatto eco ai mantra delle aziende petrolifere, fino al punto che le stesse parole “picco del petrolio” sono state ridotte a simbolo di un allarmismo senza fondamento. Non dovremmo mai dimenticare che nella corsa al collasso del credito, l'incombenza finanziaria ha schierato le stesse tattiche di pubbliche relazioni contro coloro che avvertivano sulla fragilità dei titoli garantiti da ipoteca.


Jeremy Leggett è il fondatore e presidente non esecutivo dell'azienda internazionale di fotovoltaico SolarcenturyIl suo nuovo libro, The Energy of Nations: Risk Blindness and the Road to Renaissanceè pubblicato da Routledge