venerdì 28 febbraio 2014

Guerre in prestito

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

di Antonio Turiel




Cari lettori,

Sembra che questo 2014 degeneri rapidamente verso una situazione di conflitto e violenza generalizzati in tutto il globo. Disgraziatamente, la violenza è una cosa molto comune nel nostro mondo nelle sue molteplici manifestazioni, da quelle più individuali a quelle più collettive. La cosa grave è che si sta allargando a paesi dove da tempo non si vedeva (anche se non è mai stata dimenticata).

Proprio adesso uno dei fuochi più caldi dell'attenzione occidentale si trova in Ucraina, dove la reiterata occupazione delle strade da parte di un movimento che brandisce la bandiera della UE, pro occidentale e che esige un cambiamento di governo, è finito per portare ad una sanguinosa repressione da parte della polizia e la logica escalation di violenza che, negli ultimi giorni, ha portato il presidente del paese a scappare verso la regione orientale del paese con simpatie per la Russia. Molti livelli si sovrappongono nel conflitto in Ucraina, alcuni interni (la crisi economica, la disoccupazione, l'insoddisfazione per la mancanza di riforme dalla Rivoluzione Arancione) ed altre esterne, con una forte presenza della partita a scacchi geopolitica fra Russia e Stati Uniti (la Russia vede con enorme sospetto la presenza di un paese pro-occidentale proprio alla sua frontiera, mentre l'Europa vede una grande opportunità di allargarsi verso est e per gli Stati Uniti qualsiasi iniziativa che limiti il potere russo è benvenuta). Non è estranea alla crisi in Ucraina l'entrata in funzione del gasdotto Nordstream lo scorso dicembre. Se avete memoria, ricorderete che durante gli ultimi inverni la Russia ha minacciato di tagliare la fornitura di gas naturale all'Ucraina, poiché questo paese non pagava i prezzi che volevano i russi e alla fine gli avrebbe tagliato la fornitura per qualche giorno, ma in seguito ha dovuto tornare sui suoi passi visto che quello stesso gasdotto, che attraversa il territorio ucraino, è lo stesso che porta a un buon cliente: la Germania. E tendere troppo quella corda porterebbe la nazione teutonica a cercare altre modalità di approvvigionamento, forse più care, ma più sicure. Tutto ciò è finito col nuovo gasdotto, che attraversa il mar Baltico e va direttamente dalla Russia alla Germania. Pertanto non è casuale che quest'anno non sia stata messa in scena la minaccia del taglio della fornitura, visto che i russi possono chiudere tranquillamente il rubinetto e il governo ucraino ha dovuto gestire la scarsità come ha potuto, nonostante la crisi e lo scontento popolare. Significativo è anche che proprio una delle contropartite offerte dalla Russia durante queste settimane confuse è la fornitura di gas all'Ucraina a buon prezzo.

Ma tornando agli avvenimenti sulle strade di Kiev e di altre città ucraine, è difficile sapere con precisione cosa succede, perché l'informazione diffusa dai media occidentali e estremamente di parte. Sembra che una parte dei manifestanti del Majdán sia equipaggiata quasi militarmente, in mezzo ad una massa di innocenti cittadini che vogliono solo esprimere la loro stanchezza per una situazione che non migliora (e che alla fine si ritirano all'aumentare della violenza). Il conflitto sembra degenerare verso una guerra civile più o meno aperta, in modo analoga a quanto è avvenuto in Siria, di cui è altrettanto impossibile avere una visione affidabile di ciò che succede in questo momento (vi sarete resi conto che ultimamente di Siria non si parla quasi più nei media: praticamente è diventato un non-tema, nonostante che, ovviamente, in quel paese la guerra civile continua).

Sembra che anche in Venezuela l'agitazione aumenti, anche se, di nuovo, è molto difficile in Occidente (è ironico chiamare Occidente paesi che si trovano più a est o a nord del Venezuela) accedere a informazioni affidabili su ciò che sta realmente avvenendo. A margine dei dettagli, praticamente inafferrabili da qui, di nuovo si intuisce una situazione simile a quella dell'Ucraina: da un lato c'è un governo emerso dalle urne che si confronta con una situazione interna molto complicata che porta spesso a fughe in avanti e a misure di carattere autoritario, dall'altro un certo livello di protesta dei cittadini istigata dallo scontento, in mezzo alla quale si nasconde una forza emergente, di dimensione molto inferiore ma sempre meglio armata, con la pretesa di deporre il governo con qualsiasi mezzo. Se si tratta di un processo completamente interno o istigato dall'esterno è complicato da sapere, anche se sicuramente c'è un mix di entrambe le cose: problemi interni di cui agenti esterni (e di nuovo molte dita indicano gli Stati Uniti) tentano di approfittarne.

Tra i vari fattori interni che contribuiscono al malessere in Venezuela è importante sottolineare la sempre meno dissimulata diminuzione della produzione di petrolio e delle sue esportazioni, come mostra il grafico seguente (preso come al solito dal sito di Flujos de Energía); tenete conto che arriva solo fino al 2012, quindi la situazione adesso potrebbe essere sensibilmente peggiore:


































Se confrontate questo grafico con quello di altri paesi che si sono visti coinvolti in processi simili (e che abbiamo commentato nel post corrispondente) si direbbe che al Venezuela restino per lo meno cinque anni prima che comincino i problemi gravi col crollo dei proventi petroliferi. Tuttavia, circa un terzo del petrolio prodotto dal Venezuela in questo momento è greggio extra pesante, dall'EROEI molto basso, il che significa che l'energia netta proveniente dal petrolio venezuelano è abbastanza inferiore rispetto a quanto indicato dal volume lordo e questo in particolare implica che il rendimento economico è abbastanza inferiore di quanto ci si aspetterebbe. Questo fatto probabilmente influisce sui problemi della nazione caraibica. Non a caso, gli Stati Uniti importano petrolio dal Venezuela ed hanno grande interesse a che il petrolio continui a fluire (nonostante i canti della sirena che parlano di una finta indipendenza energetica degli Stati Uniti). Pertanto non sorprende che, in mezzo alla confusione regnante e forse in parte provocandola, alcune personalità politiche statunitensi stiano chiedendo già adesso ad Obama di invadere il Venezuela.

Nel frattempo, lo Yemen, paese nel mirino, si avvicina con passo fermo al suo collasso finale; in quel paese sono frequenti gli attentati, mentre il potere politico cerca di frenare la sua inevitabile decomposizione, con una misura di decentralizzazione (dividere il paese in sei stati confederati, nonostante la sua piccola estensione). Dato il rapidissimo crollo delle esportazioni petrolifere di un paese tanto dipendente dall'esterno, il disastro è più che prevedibile: è una certezza. Essendo un paese confinante con la decisiva Arabia Saudita, è ovvio che non sarà permesso che il paese esploda incontrollatamente e a un certo punto le truppe saudite, appoggiate direttamente o indirettamente dagli Stati Uniti, entreranno nel paese in modo simile a come hanno già fatto in Bahrein nel 2011 (proprio in tempo perché si potesse correre il Gran Premio di Formula 1 di quell'anno, BAU a oltranza).

Per parte sua, l'Egitto non si è stabilizzato dopo le rivolte della fame del 2011 (cinicamente battezzate “primavera araba”) e l'esercito resiste nel cedere il potere alla società civile di un paese sovrappopolato (85 milioni di abitanti) e impoverito. Per finirlo, i piani dell'Etiopia, altro paese sovrappopolato (92 milioni) e impoverito, di fare una diga nell'Alto Nilo minaccia di scatenare una vera e propria guerra per l'acqua (come abbiamo già spiegato, un'ulteriore forma delle guerre della fame) mentre in Egitto si privatizza l'accesso all'acqua e si da un accesso preferenziale alle classi benestanti: una forma ancora più vile della Grande Esclusione in un paese assetato e affollato. Tanti problemi possono finire soltanto in disastro. Ma l'Egitto è una enclave strategica per la presenza del Canale di Suez, quindi c'è aspettarsi che o prima o dopo le truppe straniere facciano la loro apparizione, perlomeno nella fascia del canale, mentre il resto del paese si unisce nel caos e nella miseria.

Tutti gli esempi sopra mostrano casi di paesi con gravi problemi interni tutti acutizzati dal proprio declino energetico (con l'eccezione dell'Ucraina, tutti sono o erano fino a poco fa esportatori di petrolio) e in tutti grandi potenze straniere svolgono o finiranno per svolgere un ruolo primario, a volte lottando fra loro per mezzo di bande locali. Sono le nuove Proxy Wars o guerre sussidiarie: guerre scatenate da altri a beneficio non dichiarato (e a volte sconosciuto agli stessi combattenti) di interessi delle grandi potenze, una tradizione che data all'inizio del capitalismo e che ha raggiunto il suo apice nel ventesimo secolo. Sono le nuove guerre in prestito che disgraziatamente pare che caratterizzeranno il nostro declino energetico.

Ma il problema non sono solo queste guerre in prestito che si scateneranno nel territorio dei principali produttori di petrolio e di altre risorse. Anche senza arrivare all'intensità di una guerra, l'instabilità cresce su scala mondiale. Per esempio, la popolazione di un paese amante del calcio come il Brasile si ribella contro le spese del Mondiale di Calcio, odiose in un paese sottomesso a molte restrizioni e tagli (di nuovo, la parabola del lago risulta opportuna). Ricordate come anche in Argentina ci sono state rivolte e saccheggi solo un paio di mesi fa. Intanto, l'economia della Cina sta rallentando e cresce lo scontento popolare, visto che viene sovvertito il contratto sociale implicito (non richiedete democrazia e vi lasceremo prosperare e anche arricchire, se lavorate duro). E' questione di tempo che anche lì scoppi una rivolta.

E cosa succede nell'Europa occidentale? La Grecia soffre, il Portogallo subisce, l'Italia delira, l'Irlanda sembra abbastanza tranquilla, la Francia langue e la Germania spera... E in quanto alla Spagna, certi giorni ho l'impressione che stiamo facendo un conto alla rovescia collettivo, silenzioso, che non so bene dove ci porterà.

Saluti.
AMT