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lunedì 15 giugno 2020

La retorica del lavoro: più lavoriamo, più distruggiamo il pianeta


Per via di tutta la faccenda del coronavirus, questo interessante post di Bruno Sebastiani è rimasto in coda nella lista dei post e ora arriva un po' in ritardo rispetto alla data del 1 Maggio che ne era l'origine. Comunque, meglio tardi che mai e vale comunque la pena di leggerlo.

Un post di Bruno Sebastiani


Il 1° maggio, in occasione della festa del lavoro, un membro del Gruppo Cancrismo di Facebook ha scritto questo post: “Buon 1° maggio a chi crede ancora nella giustizia e nella libertà e combatte la sopraffazione...” L’immagine mostrava un corteo di uomini e animali che sfilavano affiancati.
Io, in qualità di amministratore del Gruppo nonché di ideologo del Cancrismo, ho così commentato: “Per il Cancrismo il lavoro è lo strumento attraverso il quale abbiamo devastato il pianeta! Non vedo cosa ci sia da festeggiare!
L’estensore del post ha replicato che “il senso di questo post era un altro e c’è scritto chiaramente”.
A questo punto concedo al mio interlocutore il beneficio della buona fede, ma credo che l’occasione sia propizia per fare un po’ di chiarezza su tutto l’argomento.
Coloro che festeggiano il 1° maggio apprezzano lo spirito di questa festa, e cioè l’aspirazione alla giustizia sociale da conseguire con l’accesso a forme di lavoro equamente retribuite, prive di rischi, non degradanti né eccessivamente faticose.
In realtà anche i datori di lavoro, imprenditori, industriali, amministratori ecc. hanno buon diritto a celebrare questa festa, perché è proprio attraverso il lavoro (oltre che il capitale) che essi conseguono i loro obiettivi produttivi e quindi economici.
Il lavoro in definitiva costituisce uno dei miti fondanti della nostra società, tanto da essere stato inscritto nell’articolo 1 della Costituzione italiana (“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) e da essere citato tra i principali obiettivi del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (Art. 3: “L'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato […] su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale […]”).
È un mito che è sempre andato di pari passo con quello del progresso tecnico e scientifico, ma che rischia, in un futuro ormai prossimo, di separarsi inesorabilmente da quest’ultimo: l’automazione dei processi produttivi rende infatti sempre più superfluo l’intervento dell’uomo, che, oltretutto, rappresenta uno degli elementi di costo maggiore di tali processi.
Sulla graduale espulsione dell’uomo dal mondo del lavoro e sulla sua progressiva sostituzione con dispositivi automatici e robot esiste un’ampia letteratura e ad essa rimando chi volesse approfondire l’argomento. In questi giorni sto leggendo “Homo Deus – Breve storia del futuro” di Yuval Noah Harari e anche in questo saggio ho trovato un’ampia descrizione di quella che sarà la società di domani, dominata dagli “algoritmi informatici” anziché da quelli “biologici” (alias “uomini”; vedasi il capitolo 9 dove il paragrafo titolato “La classe inutile” si apre con questa frase: “La più importante questione economica del XXI secolo potrebbe essere come impiegare tutti gli individui superflui.”)
Ma tralasciamo in questa sede il problema della disoccupazione prossima ventura e concentriamoci invece sul significato della retorica del lavoro tuttora imperante.
Iniziamo col dire che la glorificazione di questa attività tipica dell’essere umano è abbastanza recente. Nasce e si diffonde tra la metà e la fine del settecento con la prima Rivoluzione industriale e poi con la Rivoluzione francese.
Fino ad allora il lavoro manuale non aveva goduto di buona fama.
Per chi crede nei miti, la sua origine deriverebbe nientemeno che dalla maledizione divina conseguente al peccato originale, quando Dio scacciò Adamo dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo, a sua volta maledetto e destinato a produrre spine e cardi. Questa attività sarebbe stata dolorosa e Adamo avrebbe potuto mangiare il pane solo con il sudore del suo volto. La donna avrebbe partorito tra grandi sofferenze. Così il capitolo 3 della Genesi.
Fin qui il mito. Ma anche quando dalla preistoria si passò alla storia, la considerazione per il lavoro non crebbe gran che.
I Faraoni utilizzarono migliaia e migliaia di schiavi per edificare le piramidi e stessa sorte toccò a miriadi di cinesi (o loro schiavi) quando fu costruita la Grande Muraglia.
Le antiche società per caste collocavano la categoria dei lavoratori al punto più basso della organizzazione sociale.
Tra gli indù i “bramhani” o sacerdoti erano al vertice gerarchico delle caste, seguiti dagli “kshatriya” o guerrieri. Solo dopo di loro venivano i “vaishya”, agricoltori e mercanti e i “shudra”, servi addetti ai lavori manuali più umili.
In Occidente le caste erano forse meno rigide che in Oriente, ma fino al tardo Medio Evo, e anche dopo, il clero e l’aristocrazia si spartirono i primi posti della gerarchia sociale, lasciando alla nascente borghesia (gli abitanti delle città) e ai servi della gleba (i lavoratori della terra) le posizioni meno degne.
Con la Rivoluzione industriale le cose iniziarono a cambiare, ma con estrema gradualità. La classe lavoratrice “urbana” e “operaia” andò acquistando consistenza numerica, ma non ancora dignità e considerazione; i contadini rimasero per tutto l’Ottocento tristemente subordinati ai proprietari terrieri (si veda il bell’affresco della società contadina realizzato da Ermanno Olmi nel film “L’albero degli zoccoli”)
Ma i lavoratori acquisirono un poco alla volta coscienza della loro importanza per il sistema industriale e capitalistico. Si unirono in organizzazioni sindacali e dettero vita a vasti movimenti rivoluzionari. Uno di questi conquistò il potere in Russia e lo tenne per quasi tutto il Novecento, espandendo la sua influenza su buona parte del globo terracqueo.
A est e a ovest il mito del lavoro crebbe sempre più in diffusione e importanza.
Lo stesso simbolo prescelto dai partiti delle classi lavoratrici (la falce e il martello) rendeva assai bene l’idea del culto nutrito per questa attività umana.
D’altra parte analogo culto venne tributato al mito del lavoro da parte delle classi egemoni (politici, industriali, finanzieri), fino al punto, come abbiamo visto, di inserirlo in testa alle Costituzioni nazionali e sovranazionali.
Ma in ottica cancrista quale è il reale significato del lavoro? Quale il valore da attribuirgli?
Iniziamo a dire che il lavoro è l’attività mediante la quale l’essere umano trasforma la materia a proprio vantaggio.
Si manifesta originariamente nella cosiddetta “industria litica”, oltre 2 milioni di anni fa, come conseguenza delle accresciute capacità encefaliche dei nostri progenitori che da ominidi si trasformarono in “Homo habilis”.
Proprio l’abilità è una delle principali caratteristiche del lavoro, la capacità di trasformare la materia prima (pietre, minerali, legno, esseri viventi) in “altro da sé”, in qualcosa di diverso da ciò che sarebbe stata in natura in assenza dell’intervento umano.
La pietra divenne la punta di una lancia, il ramo si trasformò in un arco, la pelliccia degli animali fu usata per ripararsi dal freddo.
La pietra non fu più pietra, il ramo non fu più ramo e gli animali furono uccisi per il nostro comfort.
Da allora è trascorso un tempo immemorabile e il significato del lavoro dal punto di vista concettuale non è cambiato.
Si è però modificato enormemente da un punto di vista quantitativo e qualitativo.
I piccoli, insignificanti sfregi perpetrati ai danni di un’ecosfera ricca di foreste lussureggianti sono divenuti immani scempi su un corpo planetario esausto, sfruttato all’estremo limite.
Tutto ciò grazie al lavoro.
La responsabilità, naturalmente, è della mente che ha guidato la mano, non della mano in sé. Ma l’atto che ne è conseguito, l’atto lavorativo, è lo strumento attraverso il quale abbiamo distrutto l’equilibrio che regnava nel mondo della natura e attraverso il quale non siamo in grado di ricomporlo.
Come e perché festeggiamo dunque questo strumento di distruzione?
La spiegazione che io do è la seguente:
  • con il lavoro abbiamo edificato una società ultra-complessa e sovrappopolata, quella che nel mio nuovo libro ho definito “l’impero del cancro del pianeta”
  • pur se ci rendiamo conto dei guai combinati, la via del ritorno ci è preclusa
  • non resta pertanto che andare avanti sperando che il progresso tecnico / scientifico trovi rimedi all’esaurimento delle risorse, all’inquinamento, al riscaldamento globale ecc.
  • l’andare avanti implica nuovo lavoro, e ciò perpetua il mito di questa attività mediante la quale abbiamo devastato la biosfera.
La retorica del lavoro come valore fondante della società è destinato dunque ad accompagnarci ancora per un certo numero di anni, unitamente agli altri miti corresponsabili della distruzione dei tessuti sani di Gaia, il mito del progresso, della crescita economica, dell’aumento della produzione e dei consumi.
Poi, come abbiamo già accennato, qualcosa cambierà. Ma non intendo parlare di situazioni future che non si sa con esattezza come evolveranno.
Preferisco rivolgermi ai miei contemporanei e dire loro: non festeggiate il lavoro, rimpiangete piuttosto il mondo che il lavoro ha distrutto e continua a distruggere! L’attività che voi celebrate il 1° maggio è in tutto analoga a quella delle cellule tumorali nel corpo dell’ammalato di cancro!

venerdì 20 settembre 2019

Il Caso e la Colpa: Una Risposta a Igor Giussani





di Bruno Sebastiani


Igor Giussani il 9 settembre 2019 ha dedicato un lucido e ben argomentato articolo al cancrismo (vedi http://www.decrescita.com/news/cancro-del-pianeta/).

A testimonianza del suo interessamento di vecchia data per questa teoria, nel rispondere ad un mio commento ha confessato che era “da un anno o più che quest’articolo bolliva in pentola”.

Ma l’interessamento di Giussani era ambivalente: da un lato respingeva istintivamente la premessa e le conclusioni della teoria, da un altro si sentiva “attanagliato dal dubbio che il rigetto per le tesi de Il cancro del pianeta fosse dettato essenzialmente dall’incapacità di accettarne le conclusioni dure e sconfortanti”.

Poi, all’improvviso, il dissolvimento del dubbio. “Ogni timore è stato spazzato via nel momento in cui, ragionando a mente fredda, mi sono accorto della curiosa somiglianza tra la strategia argomentativa di Sebastiani e quella che, sulla carta, dovrebbe rappresentare la sua perfetta nemesi (sic), ossia la mitologia umanista-progressista. A quel punto mi si sono drizzate le antenne perché, se questa è falsa e fuorviante (come abbiamo spesso ripetuto e dimostrato), non può essere riabilitata solo affibbiandole un giudizio opposto, degradandola cioè da ‘buona’ a ‘cattiva’ ma lasciandone inalterati i contenuti fondamentali. Ecco alcune singolari analogie tra i due pensieri: popoli, classi sociali, culture, individui, ecc. spariscono nel calderone dell’etichetta onnicomprensiva ‘umanità’; la narrazione di tale umanità, dall’età della pietra ai giorni nostri, si basa sul presupposto che essa abbia immancabilmente adottato la forma mentis della cultura occidentale-industriale …”

Premesso che non si capisce come una “mitologia” (quella “umanista-progressista”) possa essere riabilitata degradandola da ‘buona’ a ‘cattiva’, il resto del ragionamento di Giussani coglie nel segno: il progressismo ha vinto su tutta la linea e il cancrismo ne prende atto.

L’umanità ha immancabilmente adottato la forma mentis della cultura “occidentale-industriale”: come negarlo? Questo è un punto fondamentale. Certamente nel corso dei secoli vari popoli si sono dimostrati più rispettosi di altri nei confronti della natura, ma questi sono stati sempre sconfitti da noi “occidentali” e brutalmente sottomessi, fino a quando i pronipoti degli sconfitti si sono adeguati anch’essi alla forma mentis della cultura “occidentale – industriale”.

E i popoli che non sono stati sottomessi con la forza si sono adeguati spontaneamente al “nuovo ordine mondiale” rinnegando poco alla volta usi e costumi che avevano ereditato da antiche tradizioni. La Cina moderna mi pare l’esempio più calzante al riguardo, ma il continente asiatico offre molte altre palesi dimostrazioni. E che dire dello sgretolamento del muro di Berlino e del dissolvimento dell’impero sovietico in assenza (fortunatamente) di un conflitto bellico planetario?

Pensare che il corso della storia possa mutare seguendo l’esempio di qualche sparuta e sperduta popolazione (gli abitanti di Tikopia?) che si è ostinata a rifiutare i vantaggi materiali procurati dal progresso o “cercando di esaltare la fecondità naturale” è una pia illusione.

Nel mio blog https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/, passato attentamente in rassegna da Igor Giussani, vi sono due sezioni che tendono ad avvalorare l’ineluttabilità del cammino intrapreso dall’uomo. La prima ha per titolo “Le Grandi Metastasi”, la seconda “Il Villaggio Globale”.

Rimando i lettori a quelle sezioni per prendere atto di come, dalle strade consolari dell’antica Roma alle grandi esplorazioni geografiche e soprattutto al vergognoso capitolo del colonialismo, nel corso degli ultimi duemila anni il modello “occidentale” si sia diffuso in ogni angolo del pianeta, al punto da tendere ad uniformare il contesto urbano (dove vive oramai la maggioranza della popolazione mondiale).

Stiamo andando anche verso l’omologazione linguistica, del modo di vestire, di parlare, di mangiare ecc. Su questo tema si veda il mio articolo su Effetto Cassandra https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2018/11/10/la-de-differenziazione-ovvero-lomologazione-globale-delle-cellule/.

Dei sette grattacieli più alti al mondo (compresa la erigenda Jeddah Tower, destinata a superare il chilometro di altezza) tre sono in Cina, due in Arabia Saudita, uno a Dubai ed uno a Taiwan (vedasi la sezione “Torri di Babele” di https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/). Il mio interesse per questi edifici nasce dal fatto che li ritengo la punta dell’iceberg della malattia che sta ricoprendo con asfalto e cemento il bel manto verde che una volta rivestiva il pianeta.

Il riconoscimento da parte del cancrismo di questa realtà così evidente ed incontrovertibile fa sorgere in Giussani “il sospetto che l’umanità-cancro possa servire da pretesto per qualche autoritarismo sedicente ecologico, che adduca la scusa di salvare il pianeta dalle ‘metastasi’”.

E qui si apre il capitolo del difficile futuro che ci aspetta. Come ho già precisato in altra sede, l’insieme di queste spinte “progressiste” prefigura la nascita dell’Impero del Cancro del Pianeta, argomento al quale ho dedicato un libro di imminente pubblicazione. E Giussani nel suo articolo riporta la mia frase in cui preciso che l’argomento principale sarà “la complessità dell’organizzazione sociale che abbiamo creato e l’ineluttabilità del suo continuo progresso sino alla crisi finale”.

Che il cammino dell’umanità vada in questa direzione è sotto gli occhi di tutti. Tra le “cellule – uomo” e le “cellule – macchine” si sta creando una rete sinaptica mondiale la cui gestione richiederà un controllo sempre più pressante e centralizzato.

Se ne è accorto anche il regnante pontefice che nella sua Lettera enciclica “Laudato sì” ha precisato come sia “indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate … dotate del potere di sanzionare”. Non solo: “… per il governo dell’economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale” (par. 175).

Ma un conto è prendere atto della realtà e della direzione di marcia del futuro, un altro conto è auspicarla ed approvarla. Papa Francesco forse auspica ed approva. Io, molto più modestamente, ritengo inevitabile l’accentramento dei poteri, ma condanno radicalmente la direzione di marcia del progresso tecno-scientifico che ci ha condotto in questo vicolo cieco. Credo che nessuna “condanna” possa essere più assoluta di quella contenuta nella dottrina cancrista: tu, uomo, ti sei trasformato in cellula maligna e stai proliferando in modo indiscriminato nel corpo dell’organismo che ti ospita, distruggendo tutte le cellule sane che incontri sul tuo cammino. Più espliciti di così!

Sennonchè Giussani, che ben conosce i danni da noi causati alla biosfera, non ritiene che sia giusto accusare di questi delitti l’intera umanità, perché “l’etichetta ‘uomo’ raggruppa indistintamente gli industriali che causano tale scempio, i politici che lo avallano, i comitati cittadini che lo combattono, le tante persone che usufruiscono di derivati del petrolio per lo più obbligate dalle circostanze e le altrettanto o più numerose che ne fanno scarsissimo uso: tutti bollati quali cellule maligne, malgrado i diversi gradi di responsabilità compromissione e nonostante gli individui maggiormente collusi siano poche decine. … La devastazione è logica conseguenza della ragione umana-cancro? Allora siamo tutti colpevoli, ma, si sa, tutti colpevoli = nessun colpevole.”

Effettivamente i concetti di colpa e di condanna ci riportano a quelle categorie morali secondo le quali si è andata strutturando la nostra ragione man mano che il numero dei neuroni e delle connessioni sinaptiche andavano crescendo. Ed anch’io mi ritrovo ad usarle, contro il mio stesso intendimento.

Proviamo a ragionare in altri termini.

L’evoluzione del nostro cervello, che io ho definito “abnorme” e che ci ha consentito di rompere l’equilibrio della natura, è conseguente a modifiche genetiche intervenute nella notte dei tempi all’interno della scatola cranica di alcune scimmie antropomorfe.

Tra i tanti studi in materia si veda anche quello della italiana Marta Florio (e altri) che ho riportato nel blog de Il Cancro del Pianeta (https://ilcancrodelpianeta.files.wordpress.com/2019/09/human-specific-gene-arhgap11b.pdf).

Non è corretto quindi parlare di colpa.

È stato il caso a dar vita alla neo-corteccia e a tutto ciò che ne consegue.

Per usare la metafora di un autore che mi è caro (Arthur Koestler), abbiamo ricevuto “the unsolicited gift”, il regalo non richiesto.

E, una volta ricevutolo, non potevamo restituirlo al mittente: aveva modificato per sempre la struttura del nostro cervello. Abbinato al preesistente istinto di sopravvivenza della specie, non poteva che mettere in moto la macchina della cosiddetta “civiltà” e del cosiddetto “progresso”.

È stato un caso, non una colpa.

Il libero arbitrio non esiste. È un’invenzione dialettica per far credere ai nostri simili che avremmo potuto restare buoni, saggi e in armonia con la natura se solo lo avessimo voluto, e che potremo farlo in futuro se lo vorremo.

I tentativi di innestare la retromarcia ai quali assisteremo prossimamente non saranno conseguenti a ravvedimenti virtuosi indotti dal libero arbitrio: saranno semplicemente azioni estreme atte a ritardare la catastrofe. Se fosse per la mente dell’uomo resteremmo per sempre sul trono di re del mondo a goderci i nostri privilegi ai danni di tutti gli altri esseri viventi. Ma la natura sta per presentarci il conto e non riusciremo nel poco tempo che ci resta a disposizione a ricostituire un equilibrio che ha richiesto milioni di anni per formarsi.

Il che non significa che i tentativi di innestare la retromarcia non vadano fatti e che non si debba cercare di ritardare il più possibile la catastrofe.

Significa che per farlo nel modo più efficace è bene guardare in faccia la realtà senza cercare alibi morali o scappatoie ideologiche: lo scempio non è stato causato da poche decine di industriali o di politici corrotti, né dagli scienziati e dai tecnici che lo hanno reso possibile, né dai militari o dai poliziotti che lo hanno difeso ed imposto.

La causa risiede nella nostra testa.

Come ho scritto in un recente post (in attesa di pubblicazione su Effetto Cassandra) è l’uomo il vero responsabile dello scempio (la “sesta estinzione di massa”), non Trump o Bolsonaro o qualche altro capo di stato privo di scrupoli.

Certo, esistono cellule maligne più aggressive ed altre meno. Come accostare un San Francesco a un Henry Ford o a un Elon Musk? Ma teniamo conto che i seguaci di San Francesco, quelli che si ispiravano alla sua predicazione di povertà e di amore per la natura, si sono gradualmente trasformati in frati missionari e sono andati in giro per il mondo a portare il pensiero occidentale (la cosiddetta “civiltà”) a milioni di poveri indigeni inconsapevoli, sino a trasformarli in altrettante cellule maligne che ora concorrono a devastare il pianeta in modo assai più violento di quanto non facevano i loro progenitori prima dell’incontro con i missionari.

Caro Igor, il tuo il rigetto per le tesi de Il cancro del pianeta è dettato dal non voler accettare conclusioni tanto dure e sconfortanti! La teoria è davvero spaventosa. Ma, una volta condivisa, non ci si deve lasciar prendere dallo sconforto. Si deve utilizzarla come un grimaldello per scardinare il convincimento che la nostra superiorità intellettuale ci dia diritto a esercitare un brutale predominio su tutti gli altri esseri viventi ed anche sulla stessa struttura fisica del pianeta sul quale ci siamo trovati a nascere.

mercoledì 12 dicembre 2018

Le Monadi Sovrumane


(Immagine di Colin Hay). Nel 1971, Robert Silverberg pubblico un romanzo dal titolo "The World Inside", tradotto in Italiano come "Monade 116" (Fanucci 1974). La storia descrive un mondo futuro dove decine di miliardi di esseri umani vivono in immense città verticali, (le "monadi"). In cambio del diritto di riprodursi senza limiti, hanno ceduto tutti gli altri diritti umani che una volta avevano, allo stesso tempo avendo sterminato tutti gli altri esseri viventi del pianeta. Una storia che risponde in un modo inquietante alla domanda che viene spesso posta: "quante persone può nutrire la terra?" alla quale dovremmo rispondere, "a che prezzo?" Qui di seguito, Bruno Sebastiani esamina l'impatto degli edifici multipiano sull'occupazione umana di spazio sul pianeta




E SE TUTTI GLI EDIFICI DELLA TERRA FOSSERO MONOPIANO?

di Bruno Sebastiani


L’uomo è l’unico tra gli animali cosiddetti superiori a costruire abitazioni su più piani.

Lo fa perché è in grado di farlo (il suo cervello super evoluto gli consente di fare questo e ben altro).

Lo fa perché è conveniente farlo (un solo basamento e un solo tetto per più nuclei abitativi).

Lo fa perché consente ad un numero elevato di persone di abitare entro il perimetro delle città in cui si svolgono gran parte delle attività lavorative, amministrative, culturali ecc.

Ma, inconsapevolmente, lo fa anche per un altro motivo, che, passo dopo passo, andiamo ora ad indagare.

Nei miei libri mi sono soffermato a lungo sulla nocività della nostra specie per la biosfera. Ho paragonato gli esseri umani alle cellule tumorali: ci riproduciamo con lo stesso ritmo frenetico ed invadiamo e distruggiamo in modo analogo i tessuti sani limitrofi.

Questa attività patologica però non è addebitabile, a mio avviso, ad alcun “istinto malvagio” della razza umana: semplicemente è l’inevitabile conseguenza della super evoluzione cerebrale già ricordata.

Anzi, l’uomo è anche in buona fede quando spinge sull’acceleratore del progresso: ritiene di rendere un servigio alla propria specie, di sviluppare tecnologie utili a migliorare la qualità della vita dei propri simili. E tra queste tecnologie vi è anche la propensione a costruire abitazioni su più livelli.

Questa tecnica costruttiva secondo Lewis Mumford prende avvio a fine Medioevo.

«Nello schema medievale, la città si estendeva orizzontalmente e le fortificazioni erano verticali. Nell’ordine barocco la città, confinata entro le fortificazioni, poteva svilupparsi solo verticalmente con caseggiati a più piani …» (L. Mumford, La Città nella Soria, Milano, Tascabili Bompiani IX ediz., 1996, p. 453)

Ma, pur accettando come attendibile questa ipotesi, vi è da dire che la crescita verticale delle abitazioni umane è proseguita, ed anzi si è incrementata, anche quando le città non furono più racchiuse entro fortificazioni e presero ad estendersi nuovamente anche in senso orizzontale.

Sempre Mumford così spiega queste due direzioni espansive:

«Con l’invenzione della diligenza, della ferrovia e infine del tram, si ebbero per la prima volta nella storia mezzi di trasporto di massa. La distanza che era possibile percorrere a piedi cessò di costituire un limite all’estensione della città, il cui ritmo di crescita aumentò vorticosamente …» (ibidem, p. 535)

«Questo discorso sull’ampliamento in superficie della città commerciale dall’Ottocento in avanti vale anche per la sua espansione verticale favorita dall’invenzione dell’ascensore. Quest’ultima in un primo tempo fu limitata alle maggiori città del Nuovo Mondo. Ma gli errori radicali che vennero a suo tempo commessi nell’ideazione dei grattacieli si sono ora diffusi a tutto l’universo… Tutti gli sbagli commessi nelle città americane si stanno così ripetendo su scala altrettanto orrenda in Europa e in Asia … il grattacielo divenne un simbolo di “modernità”.» (ibidem, p. 536)

Da notare che l’americano Mumford scriveva innanzitutto per i suoi compatrioti e lo faceva nel 1961. Oggi, a 58 anni di distanza, quanti argomenti in più avrebbe potuto addurre a sostegno delle sue tesi! Uno di questi è l’oggetto del presente articolo, ma prima di sviscerarlo soffermiamoci un attimo su quel simbolo di superbia e di presunzione che è il grattacielo.

Nel mio blog (https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/) vi è una pagina dal titolo “Torri di Babele” dove passo in rassegna le 20 più alte torri del mondo, in ordine crescente fino ad arrivare alla “Burj Khalifa” di Dubai, alta oltre 800 metri e attualmente il più alto edificio del pianeta (in attesa che sia completato il grattacielo che supererà per la prima volta il chilometro di altezza, attualmente in costruzione a Jeddah - Arabia Saudita).

Perché dedicare una pagina di un blog alla descrizione e alle foto degli edifici più alti del mondo? Perché essi raffigurano egregiamente lo smisurato desiderio di onnipotenza dell’essere umano che già aveva attratto l’attenzione e la condanna del narratore biblico nell’episodio della Torre di Babele, descritto in Genesi, 11,1-9.

E la gran parte di queste “Torri di Babele” moderne sorge oramai in Asia, ben 16 tra le prime 20, esattamente come aveva predetto Mumford quasi sessant’anni fa.

Ma, attenzione, questa tendenza a costruire edifici sempre più alti, di cui la realizzazione dei grattacieli è solo la punta dell’iceberg, nasconde un segreto inconfessabile che l’uomo contemporaneo non ha il coraggio di manifestare neppure a se stesso!

Proviamo a disvelarlo per la prima volta e vediamo se la sua conoscenza potrà servire allo scopo che mi prefiggo, e cioè rendere edotto Homo sapiens della sua natura tumorale nei confronti della biosfera.

Cominciamo col chiederci: quanta parte del globo è ricoperta dalle colate di asfalto e cemento su cui poggiano le nostre città e con le quali impediamo a Madre Terra di respirare e alla vegetazione di crescere?

Calcolo oltremodo difficile. Secondo alcuni la superficie occupata dalle città sarebbe limitata all’1 – 3 % del pianeta (fonte Focus.it “L’impronta delle città sul pianeta”), nonostante che in esse risieda ben oltre il 50 % della popolazione mondiale.

La stima è vecchia e certamente inesatta per difetto.

In Italia l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) pubblica annualmente un rapporto su “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. L’edizione 2018, reperibile in rete, indica che nel nostro Paese la stima della cosiddetta “superficie artificiale” (quella ricoperta da asfalto, catrame, cemento ecc.) si attesta nel 2017 al 7,75 % dell’intero territorio nazionale (esclusi i corpi idrici), pari a poco più di 23.000 km quadrati.

Il medesimo rapporto precisa come siano difficoltosi i confronti internazionali in quanto il consumo del suolo non è monitorato in maniera omogenea, ma informa che in Europa Eurostat ha promosso la rilevazione “LUCAS” (Land Use and Cover Area frame Survey), secondo la quale nel 2015 la “superficie artificialmente ricoperta” a livello europeo sarebbe intorno al 4,2 % di quella totale (in quell’anno l’Italia era al 6,9 %).

Ma il vero superamento delle difficoltà di confronto tra i vari Paesi è già in atto a cura dell’Agenzia Spaziale Tedesca (DLR), la quale, utilizzando 180.000 immagini radar di due suoi satelliti, ha dato vita al progetto Global Urban Footprint, ha cioè mappato l’intero pianeta suddividendo la superficie terrestre in tre tipi di copertura: insediamenti (in nero), superficie terrestre (in bianco) e acqua (in grigio). Il tutto con una precisione stupefacente ovvero una risoluzione spaziale di 12 metri per cella di griglia.

La mappa è di libera consultazione e risulta estremamente suggestiva, come si può vedere dall’immagine qui riportata, relativa al nord Italia.











Non è possibile a occhio valutare con esattezza la percentuale di suolo effettivamente “urbanizzata” e, salvo errori, l’Agenzia Spaziale Tedesca non ha fornito cifre al riguardo.

Ma è sufficiente ciò che l’immagine mostra per condurre a termine il nostro ragionamento.

Pensiamo infatti quanti punti neri vi sarebbero sulla piantina se le nostre costruzioni, anziché svilupparsi in altezza, fossero tutte monopiano.

Dovremmo moltiplicare le percentuali di copertura del suolo per quante unità? Io credo almeno per 5, ma forse per 6, 7 o anche più: teniamo presente che anche le attuali costruzioni cosiddette monopiano in realtà hanno un seminterrato e un sottotetto, costituendo così a tutti gli effetti degli edifici a tre piani.

E dunque il 7,75 % di copertura del suolo italiano diventerebbe il 38,75 % o il 46,5 % o il 54,25 % o ancora di più?

Più della metà del territorio nazionale sarebbe cementificato! E noi oltretutto sappiamo che non è solo la cementificazione la causa di alterazione irreversibile del suolo: ad essa si aggiungono significativamente agricoltura e allevamenti intensivi, inquinamento, smaltimento rifiuti incontrollato ecc. ecc.

In altre parole, il collasso che per il momento siamo ancora riusciti a rinviare sarebbe già avvenuto da tempo.

E dunque, a conclusione del ragionamento, possiamo affermare che la propensione a edificare costruzioni su più piani, seppure inconsapevolmente e fortuitamente, è il sistema che l’essere umano ha escogitato per potersi riprodurre più di quanto la disponibilità di suolo del pianeta gli avrebbe consentito.

La nuova tendenza del villaggio globale a crescere in altezza con grattacieli sempre più alti persegue anch’essa il medesimo fine?

È probabile, ma pur con tutti questi espedienti i limiti della sostenibilità prima o poi verranno raggiunti, ed allora il redde rationem non potrà che essere triste e doloroso.

mercoledì 19 dicembre 2018

Il "Cancrismo" di Bruno Sebastiani

Articolo pubblicato anche su "www.ilcancrodelpianeta.wordpress.com"






Bruno Sebastiani continua a proporre una sua versione "sistemica" della situazione attuale, paragonando la crescita incontrollata della popolazione umana nell'ecosistema a quella di un tumore maligno in un singolo organismo. E' una visione che molti troveranno pessimistica e che non porterà di certo voti all'ipotetico politico che volesse abbracciarla. Ma, certamente, è degna di essere presa in considerazione: dove stiamo andando? Stiamo marciando verso il futuro ad occhi bendati, senza neanche immaginare dove potremmo andare a finire. (U.B.)
 


IL CANCRISMO COME SUPERAMENTO DELL’ECOLOGIA PROFONDA

di Bruno Sebastiani

Come noto l’“ecologia profonda” è quella corrente di pensiero che invita a considerare l’essere umano non come il dominus della natura, ma come uno dei suoi innumerevoli componenti, impegnato, in quanto tale, a rispettare le leggi che regolano la vita sul pianeta.

Si contrappone al movimento ecologista superficiale, in quanto questo, pur combattendo contro l’inquinamento e lo spreco delle risorse, ha come «obiettivo primario la salute e il benessere della popolazione nei paesi sviluppati …» (Arme Naess, Ecosofia, Como, Red Edizioni, 1994, p. 29)

Invece «il movimento ecologista profondo rifiuta l’immagine di un’umanità inserita in un ambiente da cui è distinta, a favore dell’immagine del campo totale e relazionale» (ibidem)

«L’uomo sta alla Natura come la parte al Tutto, come un tipo di cellula sta all’Organismo (psicofisico) di cui fa parte» (Guido Dalla Casa, L’Ecologia Profonda, Milano, Mimesis, 2011, p. 49)

Partendo da questi presupposti la società umana «non deve necessariamente svilupparsi, ma anzi deve trovare un modus vivendi con la natura di tipo olistico, di interazione e rispetto» (Fabio Balocco, post del 12 ottobre 2017 sul blog Ambiente e Veleni de IlFattoQuotidiano.it).

Queste affermazioni e questi propositi a prima vista appaiono tutti sensati e condivisibili.

Eppure le analisi dei sostenitori dell’ecologia profonda offrono elementi di debolezza ad un esame più approfondito. In particolare peccano di irrealtà. Ritengono realizzabili condizioni esistenziali che per l’uomo contemporaneo oramai realizzabili non sono più.

Facciamo l’esempio più evidente.

Arne Naess, il “padre” dell’ecologia profonda, scrive: «L’unicità dell’Homo sapiens, le sue capacità uniche tra milioni di altri esseri viventi, sono state usate come strumenti di dominio ed abuso di potere. L’ecosofia propone di usarle per sviluppare un atteggiamento di responsabilità universale che le altre specie non possono né capire né condividere. (op. cit., p. 218)

È chiaro che quando Naess parla delle capacità di Homo sapiens, fa riferimento alle sue facoltà cerebrali eccezionalmente sviluppate. Ebbene, è proprio a causa di questo incremento abnorme dell’intelligenza che i nostri antenati sono stati in grado di contravvenire alle leggi di natura a proprio vantaggio e a svantaggio degli altri esseri viventi. Una volta che sono stati in grado di farlo non potevano non farlo, indotti a ciò da quell’istinto di sopravvivenza che sta alla base della lotta per la vita.

In altre parole. Ogni essere vivente è “programmato” per combattere, con le armi che la natura gli mette a disposizione al fine di sopravvivere come individuo e come specie. Laddove le armi non sono adeguate soccombe, laddove sono prevalenti domina. E a noi uomini è capitata la ventura di essere dotati di una super arma, il “Dono non richiesto” (“The Unsolicited Gift”) di koestleriana memoria (vedi Arthur Koestler, Il Fantasma dentro la Macchina, Torino, SEI, 1970, XVII capitolo, primo paragrafo), ovvero la super intelligenza.

Nel corso dell’evoluzione si è sviluppato attorno al nostro cervello rettiliano (sede degli istinti, che abbiamo in comune con gli animali più primitivi), il cervello limbico (sede delle emozioni, che ci accomuna agli altri mammiferi), e poi ancora sopra a questo, all’improvviso e in modo rapido e tumultuoso, è proliferata la neocorteccia (sede del pensiero astratto), la super arma che ci ha consentito di sbaragliare ogni avversario e di dominare la natura.

I neuroscienziati mi perdoneranno l’eccessiva semplificazione, ma in questa sede mi preme soprattutto badare all’essenziale.

Ecco, l’”atteggiamento di responsabilità universale” di cui parla Naess dovrebbe consistere nella rinuncia a gran parte dei privilegi che la natura ci ha incautamente concessi dotandoci della neocorteccia, al fine di ricomporre l’armonia del mondo della natura che in gran parte abbiamo già distrutto.

Ma la natura stessa ci ha dotato anche di quel formidabile impulso che è l’istinto di sopravvivenza, al quale non possiamo sottrarci, ed ecco allora che il combinato disposto di tale istinto con le facoltà intellettuali superiori non poteva che condurci al punto in cui siamo, e in futuro non potrà che spingerci verso un ulteriore sfruttamento delle risorse naturali per alimentare una popolazione umana e un apparato di congegni artificiali in continua crescita.

A questo proposito Naess si rende conto che alla base dello sfruttamento delle risorse naturali vi è la ben nota curva iperbolica dell’aumento della popolazione, e nella sua “piattaforma del movimento dell’ecologia profonda” inserisce i seguenti punti:

«4. L’attuale interferenza umana nel mondo non umano è eccessiva, e la situazione sta peggiorando rapidamente.»

«5. Il fiorire della vita umana e delle diverse culture è compatibile con una sostanziale diminuzione della popolazione umana. L’esistenza stessa delle forme di vita non umane esige tale diminuzione.» (op. cit., p. 31)

Qui si dovrebbe aprire un importante dibattito sul tema dell’antinatalismo. L’argomento è fondamentale ma lungo e complesso, e mi riservo di affrontarlo in altra sede. Per lo scopo che mi sono qui prefisso sarà sufficiente far notare come la soluzione proposta dall’ecologia profonda per porre rimedio ai guai sin qui causati dall’essere umano preveda preliminarmente la trasgressione da parte del medesimo essere umano di quell’istinto di sopravvivenza della specie che la natura ha indelebilmente impresso nella parte più recondita del nostro organo di comando, il cervello rettiliano.

Per correggere un errore della natura (la nostra super intelligenza), per uscire dal vicolo cieco imboccato dall’evoluzione, dovremmo abbattere il pilastro che la natura stessa ha posto alla base dei nostri comportamenti. L’uomo moderno non vuole farlo: lo sviluppo della società tecnologica lo dimostra ampiamente. Ma anche se volesse farlo, non potrebbe: gli istinti fanno parte di un codice comportamentale innato, la repressione del quale esula dalle nostre capacità fisiche e psichiche.

Questo punto è basilare e ci riporta indietro nel tempo al noto dibattito sul libero arbitrio che contrappose Erasmo a Lutero.

Per restare più vicini all’oggi, osservo come anche Koestler, che tra il 1959 e il 1978 disegnò in cinque saggi un grandioso affresco sulla mente umana come anomalia evolutiva, non se la sentì di chiudere completamente la porta alla speranza. E allora scrisse che dobbiamo esaminare la possibilità che l’uomo «…possa portare un difetto di fabbricazione all'interno del suo cranio, un errore costruttivo che potenzialmente minaccia la sua estinzione, ma che potrebbe ancora essere corretto da uno sforzo supremo di autoriparazione». (The Ghost in the Machine, London, Hutchinson & Co Publishers, 1967, p. 272)

Ma né la “sostanziale diminuzione della popolazione umana” invocata da Naess né lo “sforzo supremo di autoriparazione” ipotizzato da Koestler sono all’orizzonte. Al contrario si prevede che gli attuali 7,6 miliardi di esseri umani diventino 9,8 entro il 2050 e 11,2 entro il 2100. In parallelo la produzione industriale continua a dilagare, mentre il progresso tecnologico cerca disperatamente nuove soluzioni per consentire il mantenimento di una tale moltitudine di uomini e degli ancor più numerosi animali da macello.

Ed ecco allora la necessità che una nuova teoria ci aiuti a comprendere chi realmente siamo e perché ci comportiamo in un modo tanto distruttivo nei confronti degli altri esseri con cui condividiamo questo pianeta.

Se fino ad oggi l’ecologia profonda ha rappresentato lo stadio più avanzato di contrasto alla ideologia progressista dominante, lasciando invano uno spiraglio alla speranza, la nuova teoria intende mettere l’essere umano a nudo davanti allo specchio della sua mente per mostrargli come il suo comportamento sia del tutto analogo a quello delle cellule tumorali nel corpo di un ammalato di cancro.

Ho battezzato “cancrismo” questa teoria che ho iniziato ad illustrare nel mio libro “Il Cancro del Pianeta”. A breve uscirà un nuovo libro, il cui scopo è proprio quello di rendere consapevole l’uomo contemporaneo di questa sua maligna natura. Seguiranno poi ulteriori contributi, ai quali si affiancheranno articoli, saggi e interventi sui social network.

Perché diffondere una siffatta teoria, che contraddice la positività della nostra attività intellettiva?

Innanzitutto per amore di verità. Ritengo moralmente doveroso far partecipe l’essere umano di questa visione del mondo, per quanto sgradevole essa sia.

In secondo luogo per gli effetti incogniti che potrebbero scaturire dalla consapevolezza di essere agenti maligni anziché figli prediletti del creatore.

Ci sarà un momento, ma non ipotizzo date, in cui l’aggrovigliarsi dei problemi, le dimensioni dei medesimi e la nostra incapacità a fronteggiarli adeguatamente, condurranno a crisi inenarrabili. Gli scaffali vuoti dei supermercati, le bande dei razziatori, la fuga precipitosa dalle città saranno solo alcuni dei tragici aspetti di queste crisi. E allora tutti rimpiangeranno di non aver dato avvio per tempo ad una “sostanziale diminuzione della popolazione umana” e ad uno “sforzo supremo di autoriparazione”, e vorrebbero riuscire a farlo sotto l’incalzare degli avvenimenti.

E se gli sforzi collettivi di risanamento si provasse a farli a seguito dell’acquisita consapevolezza di essere il cancro del pianeta anziché sotto l’urgenza di crisi incombenti? Una cosa è certa: la nostra intelligenza è l’arma più forte. Ci ha consentito di divenire i re del mondo ma ci ha anche trasformati in agenti distruttori dell’armonia della natura. Proviamo a utilizzarla contro se stessa.

L’andamento attuale non lascia adito a speranze. Le nostre ricerche continuano ad essere indirizzate verso progresso e sviluppo.

«Se le cellule del cancro potessero esprimersi, probabilmente avrebbero un’idea dello “sviluppo” assai simile a quella della civiltà industriale, che invade, rendendole uniformi, le altre specie e le altre culture umane, con andamento analogo a quello dei tumori che avanzano a spese delle altre cellule dell’Organismo …» (Guido Dalla Casa, op. cit., p. 40) La consapevolezza di essere il cancro del pianeta potrà indurci ad innestare la retromarcia?

Dipende da quanto il “cancrismo” riuscirà ad incidere sulle élite intellettuali, politiche, scientifiche ed economiche e sulle masse che ne subiscono passivamente l’influenza.


giovedì 4 giugno 2020

L'impero del cancro del pianeta: il nuovo libro di Bruno Sebastiani

 L'impero del cancro del pianeta


Chi di voi, osservando dal finestrino di un aereo le case, le strade, i capannoni e i campi coltivati sottostanti, non ha avuto l’impressione di trovarsi in presenza di un melanoma, di un vero e proprio tumore maligno ai danni del corpo del pianeta?
In gergo “cancrista” questa si chiama la “prova dell’aeroplano” e ne hanno parlato, tra gli altri, Lewis Mumford e Konrad Lorenz.
Questa raffigurazione terrificante è la conferma visiva di come ormai l’intero globo terracqueo sia diventato un immenso, sconfinato impero dell’essere umano, ovvero del cancro del pianeta.
Ad esso è dedicato il mio nuovo libro, intitolato per l’appunto “L’impero del cancro del pianeta” (Mimesis editore) e sottotitolato “L’organizzazione della società ai tempi dell’ecocidio”.
Per la presentazione dei libri precedenti vedere Il cancro del pianeta e Il cancro del pianeta consapevole.
Ho cercato con questo saggio di scendere metaforicamente dall’aeroplano e di calarmi dentro alla realtà della malattia per vedere come le cellule neoplastiche si sono organizzate al fine di sostenere il loro esorbitante aumento numerico.
Si sa che il cancro è originato da una o più cellule che subiscono un’alterazione genetica tale da rifiutare il meccanismo omeostatico che blocca la proliferazione delle cellule quando il loro numero diventa eccessivo. Venendo meno questo freno, la popolazione delle cellule alterate straborda ovunque, come è accaduto alla nostra specie.
Ogni cellula va nutrita e se il loro numero è elevatissimo, occorre trovare elevatissime quantità di cibo. È il problema con il quale da decenni convive drammaticamente il genere umano, senza che gran parte di esso si renda conto dei problemi e dei drammi che si celano dietro agli scaffali pieni dei supermercati.
Ho cercato di affrontare questa realtà con l’aiuto di altri autori che prima di me l’hanno indagata con grande competenza. Tra questi Raj Patel, Lester R. Brown, Philip Lymbery e Stefano Liberti. Arricchito dai dati, dalle notizie e dai pareri di costoro e di altri autori, ho avuto una ulteriore conferma che quanto accaduto negli ultimi decenni si inquadra perfettamente nell’ottica della teoria cancrista.
Il compito che mi sono assunto, infatti, non è di effettuare una nuova indagine in aggiunta a quelle già esistenti, ma di mostrare all’uomo contemporaneo come i fatti e i processi sociali che si svolgono sotto ai suoi occhi altro non sono che tasselli di un comportamento tipicamente cancerogeno.
Molti autori hanno descritto i mali che affliggono il mondo per cause antropiche, ma poi non sono giunti a trarre le conclusioni più coerenti.
Un nome su tutti, quello di Aurelio Peccei. Il fondatore del Club di Roma nel suo saggio “Cento pagine per l’avvenire” (Giunti Editore, Firenze 2018) scrive:
È […] in uno slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura produce la sua ultima grande specie […] homo sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al controllo della selezione […]? (pag. 56)
Un […] comportamento aberrante della nostra specie la rende gravemente colpevole davanti al tribunale della vita. Si tratta della sua proliferazione esponenziale, che non si può definire che cancerosa.” (pag. 66)
Siamo per caso una specie di geni, destinati in fin dei conti a trionfare su tutto? O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri, magari mostri geniali, che finiranno per restar vittime del loro stesso malsano operare?” (pag. 80)
Questi dubbi e questi atti di accusa non si concretizzano però in una coerente teoria cancrista, ma si stemperano in un atto di fede che sinceramente non condivido:
Pur riconoscendo che questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo. La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.” (pag. 81)
Questa affermazione fa capire come Peccei, nonostante le sue intuizioni sulla nocività del genere umano, sia sempre rimasto sostanzialmente antropocentrico.
La sua preoccupazione non è per la gravità delle condizioni della biosfera, ma per quella del genere umano.
Per un ulteriore approfondimento del pensiero del fondatore del Club di Roma vedere “Aurelio Peccei precursore del Cancrismo?
È come se un medico si preoccupasse dello stato di salute del tumore anziché di quello dell’ammalato.
Credo che questa metafora renda bene l’idea della inversione di prospettiva operata dalla teoria cancrista: non è del genere umano che ci dobbiamo preoccupare ma della biosfera nel suo complesso, anche perché noi comunque della biosfera facciamo parte e se le sue condizioni di salute migliorassero pure noi ne beneficeremmo.
Ma, al punto in cui siamo, questa opzione non è realistica, al contrario tutto sembra indicare che la strada intrapresa vada esattamente in direzione opposta.
Questo è l’oggetto del mio saggio: vedere come la società si sia strutturata per far fronte alle esigenze alimentari ed energetiche di una popolazione mondiale in costante aumento e, soprattutto, come questa organizzazione non consenta inversioni di rotta, pena l’impossibilità di garantire cibo e energia ai miliardi di uomini e donne che abitano il pianeta.
L’agricoltura intensiva, gli allevamenti concentrazionari e l’acquacoltura sono altrettanti capitoli de “L’impero del cancro del pianeta” dove vengono analizzati origini, sviluppo e prospettive dei sistemi più efficaci per produrre cibo. A guardarli da vicino, questi sistemi non possono che suscitare orrore, ma in un altro capitolo del libro spiego come il pensare di sostituirli con la cosiddetta “agroecologia” sia pura utopia.
È una ulteriore riprova che la via imboccata non ha alternative e non può essere percorsa a ritroso. Anche se la crescita della massa tumorale che noi rappresentiamo per la biosfera un giorno dovesse arrestarsi per mancanza di risorse, ciò avverrebbe al limite di ciò che il Pianeta può offrire in termini di terra coltivabile e di animali macellabili, dopo aver distrutto tutte le cellule sane vegetali e animali esistenti.
Ciò significherebbe comunque il collasso della biosfera, la morte dell’ammalato di cancro.
Il discorso è ancora più drammatico se si pensa alla situazione di quello che ho chiamato il “cibo per le macchine”, ovvero l’energia necessaria a far funzionare i miliardi e miliardi di apparati, dispositivi, congegni e altre attrezzature artificiali realizzate dall’uomo nell’illusione di rendere più comoda la sua vita a tempo indeterminato.
Un apposito capitolo del libro è dedicato a tale realtà e alla disperata ricerca di quelle inesauribili fonti di energia pulita che dovrebbero risolvere ogni nostro problema, ma che appaiono ancora ben lontane dal poter sostituire i combustibili fossili.
A tal proposito il Cancrismo ritiene però che, anche se queste fonti di energia pulita e rinnovabile si rendessero disponibili e fossero in grado di soddisfare le esigenze di tutte le macchine del mondo, la salute della biosfera non ne trarrebbe beneficio.
L’uomo - cancro del pianeta ne approfitterebbe infatti per dilatare a dismisura i suoi consumi ai danni di ogni altra residua realtà sana della biosfera, e con questo suo comportamento non farebbe che affrettare i tempi del collasso.
Non si tratta di pessimismo né di visione cupa della vita. È solo oggettivo realismo che trova la sua spiegazione nella metafora che assimila l’essere umano a una cellula tumorale e l’intera umanità alla massa neoplastica che divora lentamente l’organismo dell’ammalato di cancro.
Pochi pensatori, e non tra i più famosi, hanno sin qui avuto il coraggio di esplicitare una teoria così radicale, e io, giunto al termine della mia “trilogia” su “Il cancro del pianeta”, ho avvertito il desiderio di curiosare in rete per vedere chi mi avesse preceduto nel denunciare il comportamento cancerogeno di Homo sapiens.
È nata così la corposa Appendice su “I precursori del cancrismo” posta in calce al volume. Si tratta del primo documento che riunisce personaggi provenienti da esperienze diverse ma uniti nella visione cancrista dell’essere umano.
Di ognuno ho analizzato i punti di contatto e quelli di divergenza rispetto alla teoria sviluppata nei miei tre saggi.
Ma un elemento su tutti accomuna gli autori presi in considerazione: nessuno di essi ha mai sistematizzato le proprie intuizioni in uno o più lavori storico - dottrinali di ampio respiro, tali cioè da configurare la nascita di una teoria o corrente filosofica sulla nocività dell’essere umano per la biosfera.
Con questo mio nuovo libro e con i due precedenti mi auguro di essere riuscito a colmare almeno in parte questa lacuna nella storia del pensiero, in attesa che altri riprendano questo tema per svilupparlo e diffonderlo in modo ancor più autorevole.

lunedì 17 maggio 2021

Punteggio Individuale

 


di Bruno Sebastiani





Nel 2010, quando scrissi “P.I. Punteggio Individuale” (libro che ora ho auto-prodotto), non si aveva notizia di alcun programma volto a “classificare” gli esseri umani in base alle proprie caratteristiche.

Al contrario, la “privacy” era sulla bocca di tutti e sembrava essere assurta al ruolo di nuova “dea” laica.

Poi una serie televisiva di successo, “Black Mirror”, nel 2016 toccò l’argomento. Nel primo episodio della terza stagione si raccontava di un ipotetico futuro in cui ognuno poteva attribuire, sotto forma di stelline (da una acinque), meriti o demeriti al proprio prossimo. Ma si trattava ancora di fantasia.

Nel frattempo, poco alla volta, dalla Cina cominciò a diffondersi la notizia che si stava procedendo a inserire ogni cittadino e ogni impresa in una graduatoria, sulla base di un Sistema di Credito Sociale stabilito per legge.

Così, a distanza di tanti anni dalla sua stesura, mi son deciso a pubblicare il manoscritto perché “ciò che nasce per scherzo spesso diviene realtà”, come recita uno dei sottotitoli.

Il tema di questo libro rientra nel più vasto argomento che ho trattato ne “L’Impero del Cancro del Pianeta”, e cioè come è possibile che una popolazione di dieci miliardi e più di cellule cancerogene (ovvero noi Homo sapiens) possa sopravvivere nel prossimo futuro in un Organismo dalle risorse limitate e super-sfruttate (ovvero il pianeta Terra).

La risposta è che prima o poi arriverà il collasso, ma, prima che ciò accada, le cellule cancerogene si organizzeranno in modo da ottimizzare al massimo le residue risorse alimentari ed energetiche.

Cosa significa in concreto tutto ciò? Come avverrà questa “ottimizzazione”?

Innanzitutto, i regimi politici al potere convinceranno le popolazioni della necessità di adottare provvedimenti restrittivi delle libertà individuali. Non sarà difficile farlo, perché si tratterà di provvedimenti rispondenti a necessità reali, concretamente verificabili da chiunque.

I lockdown, i coprifuoco e le zone rosse e arancioni dell’era Covid sono emblematici al riguardo.

Ma poi neppure questi provvedimenti saranno sufficienti a razionare le risorse sempre meno disponibili a livello globale.

Vi saranno Paesi ricchi che alimenteranno di più i loro cittadini e le loro macchine, e Paesi poveri dove imperverserà la miseria e l’indigenza. Questo avviene già oggi, ma il divario continuerà ad allargarsi e ciò produrrà emigrazioni di massa, tumulti, guerre.

A quel punto si dovrà far ricorso al Governo Unico Mondiale, a quella autorità sovranazionale già invocata da più soggetti, compresi gli ultimi pontefici della Chiesa Cattolica (vedasi il paragrafo 175 dell’Enciclica “Laudato sì”).

E che provvedimenti potrà prendere questo G.U.M. (come lo chiamo nel mio fanta-saggio)? Come farà a mettere ordine in una umanità difforme quanto a ricchezza, istruzione, situazione sanitaria ecc.?

Io credo che uno dei primi provvedimenti sarà quello di realizzare un dettagliato censimento di tutta la popolazione mondiale, con l’indicazione, per ciascun censito, di ogni notizia utile alla “catalogazione”.

Solo da qui, da questo enorme data-base, potrà prendere avvio ogni tentativo di riforma di qualche efficacia. L’ubiqua diffusione della “grande ragnatela mondiale” e delle reti fonia-dati di ultima generazione (5G e successive) renderanno possibile questa mastodontica operazione di classificazione di tutte le cellule cancerogene del Pianeta.

Ma, a questo punto, perché non assegnare a ogni cittadino un “rating”, un “Punteggio Individuale” tale da semplificare ogni tipo di rapporto con la Pubblica Amministrazione e gli altri Enti, pubblici e privati?

Sto già viaggiando nel futuro, e certamente quanto prefigurato troverà mille ostacoli sul suo cammino. Non perché non abbia una sua logica, ma semplicemente perché gli apparati burocratici (alias Stati nazionali, Enti locali, Amministrazioni periferiche ecc.) lotteranno strenuamente per non farsi strappare dagli artigli la preda succulenta che stanno lentamente scarnificando, ovvero i corpi dei cittadini loro sottoposti.

Dunque, l’evoluzione non sarà spontanea. Guerre, ecocatastrofi e sommovimenti di miriadi di disperati costringeranno l’umanità a strutturarsi in modo sempre più accentrato.

E, a quel punto, quanto descritto nel mio libro potrà avverarsi.

Non scendo in ulteriori dettagli per non rovinare il piacere della lettura. Sappiate solo che le immagini distopiche che descrivo in “P.I. Punteggio Individuale” non sono ciò che mi auguro, bensì ciò che temo.




sabato 13 luglio 2019

LA DISTRUZIONE DELLA NATURA NELL’ANTICHITA’ - Un post di Bruno Sebastiani



di Bruno Sebastiani

Una leggenda assai diffusa anche nel mondo ambientalista è che la devastazione della natura da parte dell’uomo sia di origine piuttosto recente.
Lo sfruttamento intensivo e sconsiderato delle risorse naturali del pianeta sarebbe iniziato un paio di secoli or sono o poco più, allorquando il progresso tecnologico e il sistema produttivo capitalista sfociarono nella rivoluzione industriale.
La rischiosità di una simile impostazione ideologica consiste nel fatto che la colpa di quanto accaduto sembrerebbe imputabile a particolari contingenze storico – filosofico – scientifiche e non ad Homo sapiens in quanto tale.
Per sfatare questa leggenda e ristabilire l’esatta catena delle responsabilità mi sembra pertanto utile riferire, seppur succintamente, dei misfatti compiuti dai nostri lontani antenati già all’alba dei tempi.
Sono solo alcuni esempi che ho rintracciato tra le mie letture. Ognuno di voi potrà effettuare ricerche più approfondite e sono certo che, ahimè, troverà ulteriori prove a sostegno della tesi che il genere umano iniziò a distruggere irrimediabilmente il mondo della natura sin da quando il nostro cervello si evolse in modo abnorme.

IL RACCONTO DI CLIVE PONTING

Un grande storico del comportamento distruttivo del genere umano è stato l’inglese Clive Ponting. Nel suo libro “Storia verde del mondo” (Torino, S.E.I., 1992) ha raccontato dettagliatamente le stragi e devastazioni compiute dall’umanità ai danni della natura.
Uno dei suoi meriti maggiori, a mio avviso, è stato proprio quello di riferire non solo dei disastri recenti, ma anche di quelli più antichi, a riprova che l’atteggiamento di Homo sapiens nei confronti dell’ambiente è stato di cinico e prepotente sfruttamento sin da quando lo sviluppo del suo cervello gli ha consentito di passare da habilis ad erectus e poi per l’appunto a sapiens.
Questo atteggiamento, di cui finalmente iniziamo a renderci conto, consiglierebbe di cambiare l’aggettivo che ci contraddistingue da “sapiens” a “vastator” (devastatore): chi vorrà farsi promotore di tale modifica?
Ma lasciamo direttamente la parole a Clive Ponting:
«La riduzione degli habitat naturali e l’estinzione delle specie su scala locale si può notare dal tempo dei primi insediamenti umani. Nella valle del Nilo l’estensione della zona coltivata, la bonifica delle paludi e la caccia sistematica degli animali portò all’eliminazione di molte specie originariamente native della zona. Al tempo del Regno Antico (2950 – 2350 a.C.) animali come gli elefanti, i rinoceronti e le giraffe erano scomparsi dalla valle. Il diffondersi della colonizzazione nel Mediterraneo produsse gli stessi risultati … Nel 200 a.C. il leone e il leopardo erano estinti in Grecia e nelle zone costiere dell’Asia Minore … La consuetudine romana di uccidere deliberatamente animali selvatici nel corso di giochi e altri spettacoli aumentò il massacro. Si può dedurre l’entità della continua distruzione perpetrata per divertire le folle di tutto l’impero romano, anno dopo anno, per secoli, dal fatto che a Roma furono uccisi 9000 animali nel corso delle celebrazioni durate 100 giorni per l’inaugurazione del Colosseo, e 11.000 per festeggiare la conquista della nuova provincia della Dacia da parte di Traiano.»
«I grandi spettacoli dell’impero romano cessarono in Europa Occidentale dopo il V secolo, ma la distruzione del patrimonio naturale continuò in altri modi.»
«L’ultimo avvistamento di un lupo di cui si ha notizia avvenne nel 1486 in Inghilterra, nel 1576 in Galles, nel 1743 in Scozia e in Irlanda nel primo Ottocento. Anche l’orso bruno era comune in tutta l’Europa Occidentale medievale (pur essendosi estinto in Gran Bretagna entro il X secolo). Tuttavia il numero di esemplari diminuì costantemente in seguito alla caccia e alla distruzione dell’habitat e ora l’animale sopravvive solo in alcune remote zone montuose. La stessa sorte toccò al castoro, anch’esso comune nell’Europa medievale e catturato con le trappole per la sua pelliccia, che si estinse in Gran Bretagna già nel XIII secolo e in seguito in quasi tutto il resto d’Europa.» (pp. 180 – 182)
Queste brevi frasi estrapolate da un discorso più articolato riguardano i danni inferti alla fauna. Ma l’accanimento contro selve e foreste non fu da meno. Nel capitolo “Distruzione e sopravvivenza” del libro citato vi è un dettagliato resoconto dei danni ambientali provocati circa 10.000 anni fa con l’introduzione dell’agricoltura. I cacciatori – raccoglitori si nutrivano di ciò che trovavano o di ciò che riuscivano a catturare. La loro “impronta ecologica” era pertanto minima, insignificante. Ma per far spazio ai campi occorreva disboscare e poi irrigare, operazioni che furono tra le prime a modificare in modo sensibile il panorama e l’habitat dei territori popolati dall’uomo. Ovviamente queste perturbazioni crebbero di intensità e di ampiezza con il trascorrere del tempo, man mano che la comunità umana diveniva più numerosa. Ma la linea di tendenza era tracciata e di lì in avanti non fece che crescere. Per i dettagli rinvio il lettore al capitolo del libro di Ponting.

IL RESOCONTO DI RICHARD LEAKEY

Il famoso paleoantropologo keniano di origine britannica Richard Leakey nel suo libro “La Sesta Estinzione” dedica un apposito capitolo, il decimo, a “L’impatto dell’uomo nel passato”.
Qui esamina i casi di estinzione
  1. della megafauna in America alla fine del Pleistocene (13 / 12.000 anni fa),
  2. dei moa giganteschi della Nuova Zelanda (circa 1.000 anni fa),
  3. dell’avifauna delle isole Hawaii.
1. Il primo caso è ben noto anche e soprattutto per gli studi condotti da un altro famoso paleontologo, Paul Martin, autore di “Preistoric Overkill”. Più recentemente Stefano Mancuso parla di questa strage nel suo libro “L’incredibile viaggio delle piante” citando uno studio del 2009 di tre studiosi americani “Quantifying the Extent of North American Mammal Extinction Relative to the Pre-Anthropogenic Baseline” (reperibile in rete).
In estrema sintesi: i primi rappresentanti di «Homo sapiens, abilissimo cacciatore, le cui capacità predatorie si erano affinate per decine di migliaia di anni in Africa e in Eurasia» giunsero in America dall’Asia (passando dal ponte di terra dello stretto di Bering) in coincidenza con la fine dell’ultima era glaciale. Si trattò di una «espansione esplosiva … facilitata da una illimitata disponibilità di risorse – terre e prede». Risultato di questa «inesorabile avanzata» fu lo sterminio di tutti i mastodonti che popolavano in gran numero il continente americano e, conseguentemente, dei loro predatori («leoni, orsi giganteschi, tigri dai denti a sciabola …») a cui venne meno la principale risorsa alimentare.
Una vera estinzione di massa provocata dall’uomo.
2. Le isole che oggi fanno parte della Nuova Zelanda ebbero il privilegio di non essere intaccate dalla presenza umana sino a circa 1.000 anni fa, quando furono raggiunte e colonizzate da un popolo di origine polinesiana, i ben noti “maori”.
La fauna locale era formata esclusivamente da uccelli «ma dei tipi più straordinari, molti dei quali inetti al volo. Protagonisti di questo palcoscenico furono i moa giganteschi, creature simili a struzzi alte più di tre metri e pesanti oltre 250 chilogrammi».
Inutile dire che anche in questo caso i moa e gli altri uccelli fecero una brutta fine: «I resti dei moa dimostrano che i maori sfruttavano gli uccelli come fonte di cibo – li cuocevano in forni a terra – e per ricavarne materiali come le pelli, con le quali si vestivano, e le ossa, che lavoravano per fabbricare armi e gioielli. Gusci d’uovo svuotati servivano come contenitori per l’acqua. Finora nei siti archeologici sono stati rinvenuti gli scheletri di mezzo milione di moa … i maori devono aver macellato i moa per molte generazioni prima che gli uccelli si estinguessero.»
3. Il caso delle Hawaii è emblematico. Trattandosi di uno degli arcipelaghi più isolati del mondo, ospitava specie animali e vegetali uniche, non presenti altrove. Tutta questa varietà scomparve per colpa dell’uomo, come sempre. Ma «fino a poco tempo fa gli studiosi davano … per scontato che la devastazione ecologica … fosse una conseguenza della colonizzazione europea, avvenuta alla fine del Settecento.» E invece a partire dal 1970 furono compiuti studi approfonditi da parte di più di un naturalista ed emerse che il patrimonio di biodiversità tipico delle Hawaii «si era estinto a distanza di qualche secolo dall’arrivo dei primi coloni polinesiani».

IL MISTERO DELLE NAVI VICHINGHE

Per concludere questa nostra breve carrellata sui delitti ecologici commessi da Homo sapiens ben prima dell’era contemporanea, può essere di un qualche interesse svelare il segreto dei “drakkar”, le famose navi con le quali i Vichinghi navigarono dalla Scandinavia sino al nord America superando le tempeste dell’Atlantico.
Ce lo racconta il professor Andreas Hennius, direttore della sezione Archeologia dell’Università di Uppsala in un suo studio dal titolo “Produzione di catrame in età vichinga e sfruttamento del territorio” citato da un articolo di Repubblica del 19 novembre 2018 dove si dice che:
Il segreto dei vichinghi era il catrame: i drakkar erano resi totalmente impermeabili da molti strati di catrame che proteggevano lo scafo. I vichinghi usavano per ogni nave una quantità di catrame fino a dieci volte superiore a quella impiegata normalmente all'epoca, e a tal fine deforestarono e costruirono presso le loro città e villaggi pozzi per la produzione di catrame con il legname, per poi trasportarlo nelle città costiere e nei loro porti.”
“… senza i passi avanti per l'epoca rivoluzionari compiuti dai vichinghi nella tecnica e tecnologia di produzione del catrame, le loro spedizioni transoceaniche non sarebbero state possibili …”
Prima di allora, la produzione di catrame era svolta, in Nord Europa e altrove, su base artigianale. ... A partire dall'VIII secolo d.C. … aumentò drasticamente in Scandinavia.”
I vichinghi riuscirono a raggiungere una produzione di catrame pari a quella industriale costruendo molti pozzi per bruciare le sostanze vegetali e produrre catrame presso i villaggi vicini alle foreste di pini, ampiamente disboscate.”
Per inciso è appurato che anche i Fenici, i Greci e tutti gli altri grandi popoli navigatori dell’antichità disboscarono a man bassa per realizzare le loro navi e le loro case. I cedri del Libano furono le prime vittime illustri di questo sterminio.
Altro che visione idilliaca dell’antichità contrapposta alla nostra voracità odierna: da quando abbiamo iniziato a ragionare ci siamo rapportati al mondo della natura in modo brutale e sopraffatorio.
E per giustificare questo nostro atteggiamento ci siamo persino attribuiti presunte investiture divine che ci avrebbero autorizzato a disporre del creato a nostro piacimento e volontà.
Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma l’origine della devastazione viene da molto lontano ed è tragicamente coeva dell’abnorme evoluzione patìta dal nostro cervello.