giovedì 6 marzo 2014

Picco del cibo: il drammatico declino dell'agricoltura industriale

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Gran parte dei modelli di predizione convenzionali non tengono conto della realtà, dicono alcuni ricercatori statunitensi.

I cereali di prima necessità come il riso affrontano un declino senza precedenti. Foto: George Osodi


L'agricoltura  industriale potrebbe aver raggiunto dei limiti di fondo nella sua capacità di produrre raccolti sufficienti a sfamare una popolazione globale in espansione, secondo una nuova ricerca  pubblicata su Nature Communications. Lo studio di alcuni scienziati dell'Università del Nebraska-Lincoln sostiene che ci sono stati declini improvvisi o plateau nel tasso di produzione dei principali cerreali che minano le proiezioni ottimistiche di rendimenti dei raccolti in continuo aumento. Il “31% del totale globale della produzione riso, grano e mais” ha visto “un livellamento del rendimento o delle diminuzioni improvvise del miglioramento del rendimento, compreso il riso nell'Asia orientale e il grano nell'Europa nordoccidentale”. I declini e i plateau della produzione sono diventati prevalenti nonostante gli aumentati investimenti in agricoltura, il che potrebbe significare che i rendimenti massimi potenziali del modello industriali di agricoltura commerciale sono già superati. "I rendimenti dei raccolti nelle maggiori regioni produttrici di cereali non sono aumentati per lunghi periodi di tempo a seguito di un periodo precedente di costante crescita lineare”.

Il saggio è una lettura inquietante. I livelli di produzione si sono già livellati con “nessuna possibilità di tornare alla precedente tendenza alla crescita” per le regioni chiave che ammontano al “33% della produzione di riso globale e il 27% del grano”. I ricercatori statunitensi hanno concluso che questi plateau del rendimento potrebbero essere spiegati dalla deduzione secondo la quale “i rendimenti medi agricoli si avvicinano ad un tetto di rendimento biofisico per le colture in questione, il che è determinato dal loro potenziale di rendimento nelle regioni dove la coltura è prodotta”. Scrivono:

“... abbiamo trovato una diffusa decelerazione nel tasso relativo di aumento dei rendimenti medi delle maggiori colture di cereali durante il periodo 1990-2010 in paesi con la più grande produzione di queste colture e prove solide di plateau di rendimento o un improvviso calo nel tasso di aumento del rendimento nel 44% dei casi che, insieme, assommano al 31% della produzione totale globale di riso, grano e mais”. 

Le tendenze passate degli ultimi 5 decenni di aumento continuo dei rendimenti delle colture erano “guidate dalla rapida adozione delle tecnologie della rivoluzione verde che erano in gran parte innovazioni del passato” e che non possono essere ripetute. Queste comprendono le grandi innovazioni industriali come “lo sviluppo delle specie di grano e riso semi nane, il primo uso diffuso di fertilizzanti commerciali e pesticidi e grandi investimenti per espandere le infrastrutture di irrigazione”.

Anche se l'investimento in agricoltura in Cina è aumentato del triplo dal 1981 al 2000, i tassi di aumento dei rendimenti del grano sono rimasti costanti, diminuiti del 64% per il mai e sono trascurabili per il riso. Analogamente, il tasso di rendimento del mais è rimasto ampiamente piatto nonostante un 58% di aumento dell'investimento nello stesso periodo. Lo studio avverte:

“Una preoccupazione è che nonostante l'aumento dell'investimento in ricerca e sviluppo agricolo ed educazione durante questo periodo, il relativo tasso di guadagno del rendimento nelle maggiori colture alimentari  è diminuito nel tempo insieme con l'evidenza di plateau di rendimento in alcuni dei domini più produttivi”.

Lo studio critica prevalentemente altri modelli di proiezione dei rendimenti che prevedono aumenti in proporzione geometrica o esponenziale nei prossimi anni e decenni, anche se questi “non avvengono nel mondo reale”. Lo studio nota che “tali tassi di crescita non sono sostenibili sul lungo termine perché i rendimenti agricoli medi alla fine si avvicineranno ad un tetto potenziale di rendimento determinato da limiti biofisici ai tassi di crescita ed ai rendimenti delle colture”. I fattori che contribuiscono ai declini o ai plateau della produzione di cibo comprendono il degrado delle terre e dei suoli, il cambiamento climatico e dei modelli ciclici meteorologici, l'uso di fertilizzanti e pesticidi e l'inadeguato o inappropriato investimento.

La nuova ricerca solleva domande cruciali sulla capacità dei metodi dell'agricoltura industriale tradizionale di sostenere la produzione globale di cibo per una popolazione in crescita. La produzione di cibo dovrà aumentare di circa il 60% per il 2050 per soddisfare la domanda. Un rapporto uscito questo mese da parte della banca olandese Rabobank raccomanda di tagliare gli sprechi di cibo del 10%, in quanto oltre un miliardo di tonnellate – metà delle quali collegate all'agricoltura – finisce per essere sprecato. Un uso dell'acqua più efficiente è necessario, dice il rapporto, come la micro irrigazione, per affrontare un potenziale deficit di disponibilità di acqua del 40% per il 2030. Attualmente, l'agricoltura utilizza il 70% della domanda globale d' acqua. Il rapporto invita anche a ridurre la dipendenza dai fertilizzanti usando metodi di “ottimizzazione degli input” progettati per ridurre la quantità di energia ea acqua necessarie. Visto che il 53% dei nutrienti dei fertilizzanti rimangono nel terreno dopo il raccolto, i fertilizzanti contribuiscono al degrado del suolo nel tempo a causa della contaminazione delle acqua di falda, alla lisciviazione, all'erosione e al riscaldamento globale.

L'ossessione di Rabobank col focus sul miglioramento degli attuali metodi industriali – senza proprio afferrare la scala dei problemi che affronta l'agricoltura industriale – è, tuttavia, una deficienza grave. Due anni fa, un rapporto di riferimento del Relatore Speciale dell'ONU sul Diritto al Cibo dimostrava che l'agroecologia basata su metodi biologici sostenibili e su piccola scala potrebbero potenzialmente raddoppiare la produzione di cibo di intere regioni che affrontano la fame persistente nell'arco di 5-10 anni.






mercoledì 5 marzo 2014

Il ritorno del picco del petrolio




Da “PennEnergy”. Traduzione di MR

Di Colin Chilcoat

Il picco del petrolio è entrato nel nostro lessico nel 1956 e da allora ha dato vita a infinite discussioni sulla natura finita degli idrocarburi della nostra Terra. Nel mondo dell'energia, nessun altro fenomeno ha attraversato più di frequente il terreno fra rilevanza e obsolescenza. Tuttavia, l'idea in sé ha diverse interpretazioni. Il picco del petrolio è relativamente indipendente dal volumetotale delle riserve, che di fatto sono aumentate. Piuttosto, M. King Hubbert, il geologo americano che ha coniato il termine, si preoccupava dei tassi di produzione, che sono a loro volta influenzati da limiti politici, tecnologici ed economici. Mentre le previsioni di estrazione di Hubbert sono superate, il suo principale contributo (la curva di Hubbert) rimane ancor oggi significativo. La curva presuppone che la produzione regionale e/o globale di combustibile fossile segue nel tempo una curva a campana. Più specificamente, a seguito di una scoperta, la produzione aumenta esponenzialmente e infine raggiunge un picco, dopo il quale la produzione subisce un declino esponenziale analogo. Hubbert ha correttamente previsto il picco della produzione negli Stati Uniti, che è avvenuto all'inizio degli anni 70. Tuttavia, i progressi tecnologici hanno fatto strada ad un secondo picco statunitense ed ha aperto la porta ad un picco globale ritardato.

La rivoluzione dello scisto negli Stati Uniti ha riportato in auge la credenza diffusa nella longevità degli idrocarburi ed ha bloccato la crescita del settore dell'energia rinnovabile. La produzione di petrolio greggio statunitense è aumentata tutti gli anni dal 2008 ed alcuni attori dell'industria hanno sognano un occidente come l'Arabia Saudita. Ciononostante, una tale rinascita è probabilmente un'eccezione e non la regola.

Figura 1: Produzione di petrolio greggio statunitense


Globalmente, la produzione di petrolio greggio sta diminuendo ad un tasso di circa 3,5 milioni di barili all'anno. Fra le 34 economie ad alto reddito che fanno parte dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), la produzione ha visto una crescita modesta, in gran parte grazie a Stati Uniti e Canada. Tuttavia, a parte l'America, la produzione è scesa sia nell'area OCSE di Asia e Oceania, sia in quella dell'Europa, del 18,1 e del 7,4 rispettivamente se confrontata all'anno precedente. Ad oggi, la rivoluzione dello scisto deve ancora decollare dall'altra parte dell'Atlantico, ma non certo per mancanza di volontà. I giganti dell'energia hanno trovato potenziali pretendenti in paesi come Polonia, Francia e Regno Unito, ma la gente, e finora anche i governi, hanno espresso la loro preferenza per uno sviluppo più verde di fronte alla reputazione meno pulita della fratturazione idraulica. In ogni caso, un'Europa alimentata dallo scisto offre poco in direzione di una spinta alla produzione globale. Rispetto ai pozzi convenzionali, i pozzi del fracking declinano in modo iperbolico. Il ritorno iniziale è alto, ma il flusso declina rapidamente prima di livellarsi. I pozzi possono essere re-fratturati diverse volte nell'arco della loro vita. Tuttavia, i risultati, sia in termini di flusso sia in termini di impatto ambientale, sono molto variabili ed ognuno rappresenta un caso a sé.

Tassi di declino a parte, non abbiamo visto il livello di esplorazione e sviluppo richiesto per compensare i declini di produzione della fonti convenzionali. Parlando di più di considerazioni finanziarie, le attuali condizioni dell'economia globale semplicemente non supportano l'intensificazione dello sviluppo di fonti convenzionali e non convenzionali. Molte aree del globo sono ancora nella morsa della recessione e di conseguenza la domanda i combustibili fossili costosi è stagnante. Prezzi sostenuti di circa 110 dollari al barile manterranno probabilmente tale domanda relativamente piatta nel prossimo futuro. In aggiunta, questi prezzi, e qualsiasi prezzo inferiore, garantiscono praticamente che le compagnie lavorino in rosso una volta che i frutti più a portata di mano saranno stati raccolti. I prezzi vicini ai 150 dollari al barile sosterrebbero sicuramente un nuovo sviluppo e, nel tempo, una crescita della produzione. Tuttavia, le economie nazionali avrebbero difficoltà a sostenerne i costi. Un esame del ritorno dall'investimento (EROEI) spiega ulteriormente la relazione fra energia e crescita economica. L'EROEI è riferito alla quantità di energia prodotta di fronte alla quantità di energia spesa per estrarre, trasportare e fare uso di quella energia. L'EROEI è espresso come rapporto. Mentre questo rapporto si avvicina ad 1, il guadagno netto di energia diminuisce. Globalmente, l'EROEI è di circa 15; l'EROEI delle fonti non convenzionali è inferiore, di circa 10. Mentre l'EROEI di una fonte diminuisce, la stessa fonte di energia diventa più preziosa; la risorsa è più difficile da ottenere e la tensione sull'economia per ottenerla è a sua volta maggiore. La dipendenza della crescita economica globale dal petrolio a buon mercato non è un segreto e, in assenza di un combustibilke alternativo, la crescita economica a lungo termine sarà sempre più difficile da realizzare. A questo proposito, considerando i limiti economici e della domanda, la produzione di petrolio greggio ha probabilmente già raggiunto il proprio picco.

Figura 2: Energia e PIL


Nel mondo post picco ci sono ancora giochi da fare ed utili da realizzare. Diverse di queste si trovano nella Federazione Russa che, nonostante si trovi di fronte al declino delle sue gigantesche aree industriali dismesse, di recente ha superato l'Arabia Saudita come primo produttore di petrolio greggio del mondo. Per mantenere gli ambiziosi obbiettivi di produzione di Putin, la Russia affronterà costi di sviluppo sempre più esorbitanti, in quanto stanno testando l'Artico e magari prova a cimentarsi nel non convenzionale. Mentre non è particolarmente aperto alla collaborazione estera, Putin e la Russia avranno bisogno di aiuto estero se vogliono mantenere il loro passo da leader sia per il petrolio che per il gas. La IEA stima che serviranno investimenti, da parte dei produttori russi di gas, che ammontano a 730 miliardi di dollari per sostenere l'attuale produzione di circa 655 miliardi di metri cubi. La situazione riguardo alla sostituzione dei liquidi è forse ancora più terribile, in quanto circa il 50% del bilancio federale russo viene bilanciato con i proventi del petrolio. In aggiunta, la Russia rimane un price taker, soggetta alla volatilità intrinseca del prezzo. Non potendosi permettere uno scivolone del prezzo, la Russia deve appoggiarsi alla propria produzione per assicurarsi stabilità.

E qui si inserisce il recente, e in qualche modo inaspettato, rilascio dell'ex magnate del petrolio ed ex uomo più ricco della Russia, Mikhail Khodorkovsky. Khodorkovsky ha passato l'ultimo decennio dietro le sbarre per un lungo elenco di crimini facilmente attribuibili praticamente a tutti i suoi confratelli oligarchi. A differenza degli altri, tuttavia,  Khodorkovsky sembra che abbia dimenticato, o piuttosto sfidato, le regole del gioco. In un sistema di limiti legali deboli, i diritti di proprietà perdono il loro valore e, bene che vada, riflettono un privilegio garantito da coloro che controllano i diritti. Dopo aver messo saldamente il piede nell'arena politica, violando un accordo non scritto fra Putin e gli oligarchi, Khodorkovsky è stato improvvisamente incarcerato nel 2003 e la sua azienda multi miliardaria in dollari è stata sottratta al suo controllo, andando in seguito a formare la spina dorsale del gigante petrolifero nazionale Rosneft. Le conseguenze sono state immediate in quanto le fughe di capitali sono quadruplicate l'anno successivo. Nel 2010, Khodorkovsky è stato condannato a pene aggiuntive per appropriazione indebita e riciclaggio di denaro, allontanando la data del suo rilascio al 2014.

Il 19 dicembre 2013, Putin ha sorpreso tutte le parti coinvolte annunciando che intendeva perdonare Khodorkovsky ed ha dato seguito all'annuncio con la sua liberazione il giorno successivo. L'improvviso cambiamento di atteggiamento genera molte domande, le cui risposte arrivano solo dalla speculazione. Il perdono arriva sulla scia di pesanti critiche sui diritti umani mentre il mondo anticipa il giochi olimpici invernali di Sochi. Tuttavia, il rilascio comporta implicazioni finanziarie, che probabilmente non sono sfuggite al presidente Putin. Per gli investitori stranieri e, forse più importante, per quelli interni, l'arresto di Khodorkovsky è servito come richiamo costante delle insicurezze finanziarie e contrattuali che caratterizzano l'attuale trappola istituzionale russa. L'investimento straniero diretto sta crescendo, ed è cresciuto in tutti gli ultimi tre anni, ma le cooperazioni internazionali significative si sono materializzate lentamente. Agli investitori interni manca la fiducia e la ricchezza sta ancora scorrendo via dal paese rapidamente. Come parte del suo rilascio, Khodorkovsky ha presumibilmente acconsentito di stare lontano dalla politica di tutti i giorni e di non cercare di recuperare le sue attività di Yukos perse. Evitando il suo esperto di affari e forse spaventato dal suo potenziale politico, Putin crede che il simbolismo, rappresentato dalla sua mera libertà, porti anche dei benefici.

Qualsiasi picco globale imminente è il prodotto di picchi di produzione a livello nazionale. Mentre l'arrivo esatto dei picchi globali e/o nazionali sono fortemente soggetti alle condizioni economiche dell'estrazione, il mondo puù star sicuro che l'era del petrolio a buon mercato è una cosa del passato. Fra le nazioni che troveranno difficile rimpiazzarlo, figuriamoci di aumentare la produzione, gli Stati Uniti e la Russia si classificano vicini alla vetta. Inoltre, la Russia continua ad essere una terra piena di burocrazia in cui l'efficienza è tutt'altro che la norma. Se si aggiungono i già alti costi di sostituzione e le spese di ricerca ed esplorazione in aumento, la Russia è proprio all'angolo. In questo contesto, la recente amnistia e specificatamente il rilascio di Khodorkovsky non sorprende del tutto, ma è invece un passo ben calcolato verso una nuova immagine e forse la più sottile delle ammissioni che, dopo anni di ostentazione, la Russia, soltanto probabilmente, potrebbe non essere in grado di farcela da sola.

Riferimenti bibliografici:

Ahmed, Nafeez. 2013. “Earth Insight.” The Guardian.       <http://www.theguardian.com/environment/earth-insight/2013/dec/23/british-petroleum-geologist-peak-oil-break-economy-recession>.
Chilcoat, Colin. n.p. “Petroli non convenzionali in una trappola istituzionale: lo sviluppo di idrocarburi alternativi nella Federazione Russa”  M.A. Università Europea di San Pietroburgo.
EIA. 2013. “Analisi per paese: Russia.”  <http://www.eia.gov/countries/country-data.cfm?fips=rs#pet>.
EIA. 2013. “Statistiche energetiche internazionali” <http://www.eia.gov/cfapps/ipdbproject/iedindex3.cfm?tid=5&pi d=53&aid=1>.
Fitzgerald, Timothy. 2013. “Fracknomics: un po' di economia della fratturazione idraulica”. Case Western Reserve Law Review. 63 (4): 1337-1362.
IEA. 2013. “Indagine petrolifera mensile”. <http://www.iea.org/stats/surveys/oilsurv.pdf>.
Khodorkovsky, Mikhail. 2014. “Trascrizione della conferenza stampa di Mikhail Khodorkovsky a Berlino”. <http://www.khodorkovsky.com/transcript-of-mikhail-khodorkovskys-open-press-conference-in-berlin/>.
Myers, Steven e David Herszenhorn. 2013. “Putin, sicuro al potere, dice che potrebbe liberare il suo rivale incarcerato”. New York Times. <http://www.nytimes.com/2013/12/20/world/europe/mikhail-khodorkovsky.html?hp&_r=1&>.
The Economist. 2013. “Gazprom: il gigante ferito russo”. <http://www.economist.com/news/business/21573975-worlds-biggest-gas-producer-ailing-it-should-be-broken-up-russias-wounded-giant>.
The Economist. 2013. “Mikhail Khodorkovsky: ritorno dal freddo” <http://www.economist.com/blogs/easternapproaches/2013/12/mikhail-khodorkovsky-0>.
Smirnova, Lena. 2013. “Medvedev parla chiaro con gli amministratori delegati stranieri”. The Moscow Times. <http://www.themoscowtimes.com/business/article/medvedev-talks-straight-with-foreign-ceos/488262.html>.

Tverberg, Gail. 2013. “Come gli alti prezzi del petrolio portano alla recessione”. OilPrice. <http://oilprice.com/Energy/Oil-Prices/How-High-Oil-Prices-Lead-to-Recession.html>.

Collasso: come siamo messi?

Da “MAHB”. Traduzione di MR.

Apocalípico I di Mauricio García Vega


Abbiamo avuto notevoli dubbi sull'opportunità di pubblicare questo articolo che contiene molteplici inesattezze. Alla fine, ci è parso il caso di metterlo on line dato che è stato scritto da due autori ben noti nel campo degli studi sulle risorse naturali, Paul e Anne Erlich, autori fra le altre cose di quella "The Population Bomb" che è stato uno dei primi documenti (risale al 1968) a segnalare con molta forza il problema della sovrappopolazione. Qui, abbiamo un documento di un certo interesse nel suo tentativo di una valutazione generale della situazione. Purtroppo è un approccio che soffre, appunto, di molte inesattezze e non poche banalità. Quindi, lasciamo al lettore il compito di leggere questo articolo con una certa cautela e molta attenzione.  (U.B)


Collasso: come stanno evolvendo le nostre possibilità?
Di Paul R. Ehrlich e Anne H. Ehrlich

E' passato poco più di un anno da quando abbiamo provato a valutare la probabilità che l'odierna tempesta perfetta di problemi ambientali porterà a un collasso della civiltà. [1] Sembra un momento appropriato per vedere come gli eventi e le scoperte recenti possano aver cambiato le possibilità. Le tendenze nei principali motori di distruzione continuano inesorabili. L'Ufficio di Riferimento per la Popolazione, che nel 2012 ha previsto che la popolazione mondiale nel 2050 sarebbe stata di 9,624 miliardi di persone, ha previsto nel 2013 una popolazione di 9,727 miliardi di persone sempre per il 2050, come risultato di un leggero aumento del tasso di fertilità globale. C'è un lieve segnale di diminuzione dei consumi, col potere d'acquisto medio che globalmente cresce (ma con grandi differenze geografiche). Ci sono prove crescenti che il cambiamento climatico antropogenico non stia solo aumentando la temperatura media globale, ma che stia anche aumentando la probabilità di eventi atmosferici estremi. Quest'ultimo aspetto è stato particolarmente distruttivo in parti del “paniere” americano, essenziali per il mantenimento degli approvvigionamenti umani di cibo.

Ancora più preoccupante, sembra che ci sia un'escalation di scoperte di "retroazioni positive" come la fusione del ghiaccio marino artico, che diminuisce la riflettività e quindi accelera il riscaldamento mentre ironicamente causa sgradevoli blizzard nel nord degli Stati Uniti. Il riscaldamento porta anche ad ulteriore riscaldamento aumentando il flusso del gas serra metano nell'atmosfera mentre il permafrost si scioglie e probabilmente i clatrati di metano (complessi di ghiaccio e metano che stanno sotto agli oceani settentrionali) si disintegrano con il riscaldamento degli oceani. Altre retroazioni positive stanno chiaramente riducendo le possibilità di mantenere la distruzione del clima entro limiti “gestibili” (se questi non sono già stati superati). Le recenti analisi delle situazioni del clima e dell'agricoltura [2] dipingono un quadro sempre più oscuro. Infatti, ci sono prove crescenti di un possibile fallimento nella generazione di ulteriori aumenti nei rendimenti delle colture che sarebbero necessari per nutrire 9 miliardi di persone nel 2045, anche se la distruzione climatica non colpisse duramente l'agricoltura. Ci sono anche problemi inevitabilmente crescenti che colpiscono gli sforzi per ottenere le risorse minerali necessarie alla civiltà industriale.

Infine, ci sono segnali che le grandi potenze, specialmente Stati Uniti, Cina e Russia, sono in competizione per le risorse in modi che potrebbero portare a grandi guerre, probabilmente nucleari. Gran parte della competizione in un Medio Oriente disintegrato è collegata all'accesso al petrolio, che avremmo potuto gradualmente eliminare se le società si fossero orientate verso la sostenibilità. La situazione internazionale, come la storica Margaret MacMillan ha indicato, ha una rassomiglianza spaventosa con quella che ha preceduto la Prima Guerra Mondiale. [3] Stiamo per giungere al termine un lungo periodo senza guerre mondiali ma caratterizzato da cambiamenti tecnologici senza precedenti che i problemi ambientali e di risorse renderanno anche meno comprensibili. Mentre la globalizzazione continua in una situazione di intensificata competizione per le risorse, i movimenti reazionari tenuti insieme dalle nuove tecnologie e la mancanza di fiducia dilagano in un mondo ancora strutturato in stati nazionali con meccanismi deboli disponibili per affrontare minacce globali. Il crescente confronto militare fra Cina e Stati Uniti potrebbe finire col rendere tutti i problemi ambientali secondari. Però ci sono anche alcune buone notizie.

Il consumo totale di energia negli Stati uniti è diminuito sotto il Presidente Obama a causa di un costante aumento dell'efficienza, specialmente dei veicoli. Il consumo statunitense di carbone è sceso perché la produzione di elettricità è stata piatta e il ruolo del carbone in essa è stato ridotto, rimpiazzato dall'uso del gas naturale (che, anche tenendo conto delle emissioni per perdite nella produzione e nel trasporto, rimane molto meglio del carbone in termini di cambiamento climatico). Naturalmente, questo ha senso soltanto come “ponte” temporaneo verso un mix a minore intensità di carbonio. La produzione statunitense di petrolio sale, ma ma questo potrebbe essere un fenomeno di breve durata. Anche così, bruciare petrolio interno è meglio sia dal punto di vista economico sia ambientale rispetto a bruciare petrolio importato. E anche se l'Australia intende continuare ad esportare enormi quantità di carbone, con costi enormi per l'ambiente australiano e quello mondiale, il governo cinese si sta rapidamente avviando verso una rapida riduzione dell'uso del carbone e l'India è costretta dalle proprie finanze in quella direzione. C'è anche un rincuorante diffusione della tecnologia solare nei paesi poveri, che fra le altre cose da alle persone un maggiore accesso alle comunicazioni moderne (la qual cosa, naturalmente, può essere usata sia bene che male!).

Le zone “protette” (aree in cui la pesca è proibita) hanno mostrato un'incredibile capacità di rigenerare la pesca di prossimità. Ma, tristemente, le zone non possono tenere sotto controllo inquinamento, acidificazione o cambiamento della temperatura, quindi potrebbero rapidamente perdere il loro valore. Il Brasile ha fortemente rallentato la deforestazione in Amazzonia con una combinazione di buone politiche e con la loro buona applicazione. E le prospettive della popolazione per gli Stati Uniti sono leggermente meno fosche: la proiezione del 2012 per il 2050 di 442,6 milioni è scesa nel 2013 a 399,8. Ma ciò che è lampante è che questi cambiamenti non sono neanche lontanamente grandi o rapidi abbastanza da incidere realmente sul problema. Inoltre, non ci sono piani né alcuna tendenza nella direzione di fare la scelta più cruciale necessaria per diminuire le possibilità di collasso: un rapido ma umano sforzo di ridurre la scala di tutta l'impresa umana mettendo fine alla crescita della popolazione, dando inizio al terribilmente necessario declino generale dei numeri e limitare drammaticamente il consumo dei ricchi. Non c'è nemmeno discussione sugli elementi ovvi del sistema socio-economico che supportano una struttura che incorpora un bisogno di crescita perpetua – essendo la riserva frazionaria bancaria un obbiettivo classico che richiede un'inchiesta in questo contesto. Virtualmente ogni politico o economista pubblico presuppone ancora acriticamente che ci siano dei benefici in un'ulteriore espansione economica, anche fra i ricchi. Pensano che la malattia sia la cura.

Qualche anno fa abbiamo avuto un dissenso col nostro amico Jim Brown, un eminente ecologista. Gli abbiamo detto che pensavamo che ci fosse un 10% di possibilità di evitare il collasso della civiltà ma, a causa della preoccupazione per i nostri nipoti e pronipoti, eravamo disposti a lottare per farlo diventare un 11%. Lui ha detto che la sua stima delle possibilità di evitare il collasso era solo del 1%, ma che stava lavorando per farlo diventare 1,1%. Tristemente, le tendenze e gli eventi recenti ci fanno pensare che Jim possa essere stato ottimista. Forse adesso è il momento di parlare di una qualche forma di collasso presto, nella speranza di fare un “atterraggio” relativamente dolce. Questa potrebbe essere l'unica cosa che potrebbe preservare la capacità della Terra di sostenere l'Homo sapiens in un futuro post apocalittico.

[1] Ehrlich PR, Ehrlich AH. 2013. Può essere evitato un collasso della civiltà? Atti della Royal Society B http://rspb.royalsocietypublishing.org/content/280/1754/20122845.
[2] http://vimeo.com/78610016; http://www.youtube.com/watch?v=TFyTSiCXWEE; Grassini P, Eskridge KM, Cassman KG. 2013. Distinguere fra miglioramenti del rendimento e plateau del rendimento nelle tendenze storiche di produzione delle colture. Nature Communications 4:2918 | DOI: 10.1038/ncomms3918 |www.nature.com/naturecommunications.
[3] http://bit.ly/K4rf8G



martedì 4 marzo 2014

Epidemia globale di disordini: è un effetto della carenza di risorse

Da “The Guardian”. Traduzione di MR


L'epidemia di sommosse globali è sintomatica del fallimento del sistema globale

 Da Sud America al Sud dell'Asia, una nuova era di disordini è in pieno svolgimento mentre la civiltà industriale transita ad una realtà post-carbon 

Un manifestante in Ucraina agita una catena di metallo durante gli scontri – un anticipo delle cose a venire? Foto: Gleb Garanich/Reuters

Se qualcuno sperava che la Primavera Araba e le proteste di Occupy di qualche anno fa fossero degli episodi isolati che avrebbero presto lasciato spazio a più stabilità, ecco un'altro disastro che arriva. La speranza era la ripresa economica in corso ci avrebbe riportati ai livelli di crescita pre-crisi, alleviando il malcontento che alimenta focolai di disordine civile attizzati da anni di recessione.  

Ma non è accaduto. E non accadrà. Piuttosto, l'era del dopo crisi del 2008, compresi il 2013 e l'inizio del 2014, ha visto la persistenza e la proliferazione della tensione civile su una scala che non è mai stata vista prima nella storia umana. Solo in questo mese, si è assistito allo scoppio di sommosse in Venezuela, Bosnia, Ucraina, Islanda e Thailandia. Non è una coincidenza. Le sommosse sono basate, naturalmente, su forze economiche regressive comuni che di dipanano su ogni continente del pianeta – ma quelle forze stesse sono sintomatiche di un processo più profondo e protratto di fallimento del sistema globale mentre transitiamo dalla vecchia era industriale dei combustibili fossili sporchi verso qualcos'altro. Anche prima che scoppiasse la Primavera Araba in Tunisia, nel dicembre 2010, analisti dell'Istituto per i Sistemi Complessi del New England avevano avvertito del pericolo di disordini civili a causa dell'aumento dei prezzi del cibo. Se l'indice dei prezzi degli alimenti della FAO sale al di sopra di 210, avevano avvertito, ciò potrebbe innescare sommosse in grandi aree del mondo. 

Giochi di fame

Lo schema è chiaro. Il il picco del prezzo del cibo nel 2008 è coinciso con lo scoppio dei disordini in Tunisia, Yemen, Somalia, Camerun, Mozambico, Sudan, Haiti e India, fra gli altri. Nel 2011, i picchi del prezzo hanno preceduto i disordini sociali in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa – Egitto, Siria, Iraq, Oman, Arabia Saudita, Bahrain, Libia, Uganda, Mauritania, Algeria e così via. Lo scorso anno ha visto i prezzi del cibo raggiungere il loro terzo anno più alto mai registrato ed è coinciso con gli ultimi scoppi di violenza nelle strade e di proteste in Argentina, Brasile, Bangladesh, Cina, Kirgysistan, Turchia e altrove. Da circa un decennio fa, l'indice dei prezzi della FAO è più che raddoppiato, dal 91,1 del 2000 a una media di 209,8 nel 2013. Come ha detto il professor Yaneer Bar-Yam, presidente fondatore dell'Istituto per i Sistemi Complessi al Vice Magazine la scorsa settimana:

“La nostra analisi dice che il valore di 210 dell'indice della FAO è il punto di ebollizione e ci abbiamo girato intorno durante gli ultimi 8 mesi... In alcuni dei casi il collegamento è più esplicito, in altri, dato che siamo al punto di ebollizione, qualsiasi cosa innescherà i disordini”. Ma l'analisi di Bar-Yam delle cause della crisi alimentare globale non va abbastanza a fondo – si concentra sull'impatto delle terre coltivabili usate per i biocombustibili e sull'eccessiva speculazione finanziaria sui beni alimentari. Ma questi fattori graffiano a malapena la superficie del problema".

E' un gas

Il recente caso illustra non solo un collegamento esplicito fra i disordini civili e un sistema alimentare globale sempre più volatile, ma anche la radice di questo problema nella sempre maggiore insostenibilità della nostra tossicodipendenza cronica dai combustibili fossili. In Ucraina, i precedenti shock dei prezzi del cibo hanno avuto un impatto negativo sull'esportazione di grano del paese, contribuendo ad intensificare la povertà urbana in particolare. Gli alti livelli di inflazione sono sottostimati nelle statistiche ufficiali – gli ucraini spendono in media il 75% nelle bollette domestiche e più di metà dei loro redditi in necessità come il cibo e bevande non alcoliche. Analogamente, per gran parte dello scorso anno, il Venezuela ha subito le carenze di cibo in atto guidate da una gestione politica errata con il record di inflazione in 17 anni dovuto all'aumento del costo del cibo. 

Mentre la dipendenza da importazioni di cibo sempre più costoso qui gioca un ruolo, al centro del problema di entrambi i paesi c'è una crisi energetica che si acuisce. L'Ucraina è una importatrice netta di energia, avendo raggiunto il proprio picco di produzione di petrolio e gas già nel 1976. Nonostante l'entusiasmo per il potenziale interno di gas di scisto, la produzione di petrolio dell'Ucraina è diminuita di oltre il 60% negli ultimi 20 anni, a causa si di problemi geologici sia di scarsità di investimento. Attualmente, circa l'80% del petrolio ucraino, e l'80% del suo gas, viene importato dalla Russia. Ma oltre la metà del consumo energetico dell'Ucraina è sostenuto dal gas. I prezzi del gas naturale russo sono quasi quadruplicati dal 2004. I prezzi dell'energia alle stelle sono alla base dell'inflazione che alimenta tassi di povertà insopportabili per la media degli ucraini, aggravando la divisione sociale, etnica, politica e di classe. 

La recente decisione del governo ucraino di tagliare drasticamente le importazioni di gas russo probabilmente peggiorerà questo aspetto, in quanto le le fonti di energia alternativa più economiche scarseggiano. Le speranze secondo le quali le fonti interne di energia potrebbero salvare la situazione sono piccole – a parte il fatto che lo scisto non può risolvere la prospettiva di combustibili liquidi più cari, nemmeno il nucleare aiuterà. Un rapporto trapelato della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo rivela che le proposte di prestare 300 milioni di euro per rinnovare le vecchie infrastrutture delle 15 centrali nucleari in possesso dello stato ucraino raddoppierà i già debilitanti prezzi dell'elettricità per il 2020.

“Socialismo” o “Soc-oil-ismo”?

In Venezuela, la storia è familiare. In precedenza, la Rivista del Petrolio e del Gas ha riferito che le riserve di petrolio del paese erano di 94,4 miliardi di barili e più di recente, da parte del USGS a un esorbitante 513 miliardi di barili. L'enorme aumento proviene dalla scoperta di riserve di petrolio extra pesante nella cintura del fiume Orinoco. Gli enormi costi associati di produzione e raffinazione di questo petrolio pesante, in confronto al petrolio convenzionale più economico, tuttavia, significano che le nuove scoperte hanno contribuito poco alle sfide economiche ed energetiche sempre più grandi del Venezuela. La produzione petrolifera del Venezuela ha raggiunto il picco intorno al 1999 ed è diminuita di un quarto da allora. La sua produzione di gas ha raggiunto il picco intorno al 2001e da allora è diminuita di un terzo. 

Simultaneamente, mentre il consumo di petrolio interno è aumentato costantemente – di fatto quasi raddoppiando dal 1990 – questo ha ulteriormente inciso nella produzione in declino, risultando in un tracollo delle esportazioni di quasi la metà dal 1996. Visto che il petrolio rappresenta il 95% dei proventi delle esportazioni e circa metà del bilancio dei proventi, questo declino ha massicciamente ridotto la possibilità di sostenere i programmi governativi di sostegno, compresi i sussidi cruciali.

Pandemia incombente?

Queste condizioni locali sono state esacerbate da realtà strutturali globali. Il record dei prezzi globali del cibo contrastano con queste condizioni locali e li spinge oltre il limite. Ma le escursioni dei prezzi del cibo, a loro volta, sono sintomatici di una serie di problemi che si sovrappongono. La dipendenza eccessiva dell'agricoltura globale dagli input dei combustibili fossili significa che i prezzi del cibo sono invariabilmente collegati ai picchi del prezzo del petrolio. Naturalmente, i biocombustibili e la speculazione sui beni alimentari spinge i prezzi ulteriormente in alto – solo le elite finanziarie hanno benefici da questo mentre i lavoratori delle classi medio basse ne sopportano il peso. Naturalmente, l'elefante nella stanza è il cambiamento climatico. Secondo i media giapponesi, una bozza trapelata dal secondo grande rapporto del IPCC avvertiva che mentre la domanda di cibo aumenterà del 14%, la produzione globale delle colture diminuirà del 2% per decennio a causa degli attuali livelli di riscaldamento globale, causando 1,45 trilioni di dollari di danno economico per la fine del secolo. Lo scenario è basato sun un aumento previsto di 2,5°C. E probabile che questa sia una stima molto prudente. Considerando che l'attuale traiettoria dell'agricoltura industriale sta già assistendo a plateau di rendimento nelle grandi regioni-paniere, l'interazione delle crisi ambientale, energetica ed economica suggerisce che il business-as-usual non funzionerà

L'epidemia di sommosse globale è sintomatica del fallimento del sistema globale – una forma di civiltà che è sopravvissuta alla sua utilità. Ci serve un nuovo paradigma. Sfortunatamente, scendere semplicemente in piazza non è la soluzione. Ciò che serve è una visione significativa per la transizione di civiltà – sostenuta dalla forza della gente e dalla coerenza etica. E' tempo che governi, aziende e la gente allo stesso modo si sveglino rispetto al fatto che stiamo rapidamente entrando in una nuova era post-carbon e che prima ci adattiamo ad essa, migliori sono le nostre possibilità di ridefinire con successo una nuova forma di civiltà – una nuova forma di prosperità – che sia capace di vivere in armonia col sistema terrestre. Ma se continuiamo a fare come le ostriche, dovremo prendercela solo con noi stessi quando l'epidemia diventerà una pandemia che bussa alle nostre porte.


Ecco la Fine della Crescita

Post di Mauro Bonaiuti, originariamente pubblicato sul "Fatto"




Ecco la fine della crescita

ovvero: tecnocrazia stadio supremo del capitalismo?

Mauro Bonaiuti

Il fatto

Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.

Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman.

L'analisi del problema

Chiariamo per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato.

In altre parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare.

La tentazione tecnocratica

Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti).

Su questo ultimo punto Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è più crescita, e lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese.

Naturalmente Krugman e Summers si guardano bene dal trarre conclusioni pessimistiche sulla salute di lungo termine del capitalismo, come evitano con cura di allargare l'analisi sulle cause del malessere economico fino a comprendere tutti quei costi sociali ed ambientali che non rientrano nel calcolo degli indicatori economici tradizionali.

Tuttavia, anche limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario presentato è estremante serio e foriero di conseguenze. Questo quadro si chiarisce ulteriormente analizzando le proposte di intervento pensate dai due economisti, che indicano come sarebbe concretamente possibile rianimare un'economia nelle nuove condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente negativo.

La prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica dei tradizionali incentivi keynesiani alla spesa. Secondo Krugman si potrebbe decidere, ad esempio, di dotare tutti gli impiegati di Google Glass (una sorta di occhiale multimediale) e altri strumenti che consentono di essere perennemente connessi ad internet. Anche se poi ci si accorgesse che si tratta di una spesa inutile, questa decisione politica sarebbe comunque positiva in quanto costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente sarebbero preferibili speseproduttive, ma nello scenario attuale non si può andare tanto per il sottile: anche spese improduttive sono meglio di niente.

Ma questo evidentemente non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse naturale stabilmente negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman un modo ci sarebbe: “si potrebbe ricostruire l'intero sistema monetario, eliminare la cartamoneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi.” Traducendo per i non economisti questo significherebbe niente meno che togliere la possibilità ai cittadini di comprare e vendere attraverso la moneta cartacea (che per definizione non costa nulla) e rendere forzose la transazioni con carta di credito, appoggiata necessariamente su conti correnti sui quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo forzoso di alcuni punti percentuali l'anno. In questo modo si costringerebbe la gente a spendere di più (la ricchezza infatti si deprezza restando immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse invece di riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato, le imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo ancora più subdolo e surrettizio.

Se queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale” (per riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far fronte all'incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere, non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo. E' evidente che, una volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull'altare di qualche punto percentuale di PIL. La prospettiva è chiara: tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista.

Quanto detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe incamminare il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli ex neoliberisti alla Summers) nell'era dei rendimenti decrescenti. Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo. E qui veniamo al secondo punto fondamentale.

Rendimenti decrescenti e l'impossibile ritorno al passato

Anche se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe questa scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui fondare il rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due economisti non spendono una sola parola. Perché è evidente che per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente, tutto per tenere in movimento - da una bolla speculativa all'altra - la macchina economica globale.

Qui si evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo terminale di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato, (peraltro con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes. Quello che gli economisti tardo keynesiani sembrano non capire è quanto il contesto sia completamente mutato rispetto all'età della crescita: dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi, dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato, come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?

Se, come credo, le economie capitalistiche avanzate sono entrate già da quaranta anni in una fase di rendimenti decrescenti questo non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali. Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più vasta portata che comprende la riduzione della produttività dell'energia (EROEI), dell'estrazione mineraria, dell'innovazione, delle rese agricole, dell'efficienza dell'attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), oltre che di una sostanziale riduzione della produttività legata al passaggio da un'economia industriale a una fondata sostanzialmente sui servizi. E sopratutto, cosa che manca completamente nell'analisi di Summers e Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e dunque incrementale.

I rendimenti decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale aumento del malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della megamacchina tecnoeconomica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici. Occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di PIL, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica).

In conclusione, benché sia un fatto di per sé eccezionale che i sostenitori dello status quo (sia di ispirazione neoliberista che keynesiana) siano disposti ad ammettere, pragmaticamente, la “fine della crescita”, questi non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica). Insomma dove il capitalismo è una cosa seria, come negli Stati Uniti, si riconoscere pragmaticamente il problema, e ci si attrezza per affrontarlo. Credo tuttavia che il problema dovrebbe cominciare ad interessare anche quelli che, nella vecchia Europa come in Italia (e sono moltissimi, a sinistra, ma anche nelle reti e nell'associazionismo di base) credono ancora alla possibilità di un capitalismo addomesticato, ad un modello di "mercato regolato" che dovrebbe produrre insieme occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.

Dal nostro punto di vista il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita.





lunedì 3 marzo 2014

Ucraina: una guerra per le risorse?




L'immagine qui sopra (dal Gorshenin Institute) mostra i due principali bacini nella zona intorno all'Ucraina dove si ritiene che esistano risorse di gas naturale in forma di gas di scisto (o "shale gas"). Le riserve della zona del "Bacino di Lublino" a cavallo fra Ucraina e Polonia sono stimate come al terzo posto in ordine di grandezza in Europa. Sono anche considerate fra le più accessibili nel senso che sono in una zona poco popolata dove sarebbe più facile fare accettare agli abitanti i danni prodotti dal "fracking" per accedere alle risorse.

Così, la geologia della regione sembra portare in modo naturale allo smembramento dello stato ucraino e alla spartizione del suo territorio fra i vicini più potenti. Per gli Europei/Americani, il gas dell'Ucraina dell'est potrebbe rappresentare una risorsa dalla quale possono ottenere notevoli profitti ma che finora gli Ucraini non cedevano volentieri (come potete leggere, per esempio, in questo documento). Per i Russi, il bacino di Lublino non sarebbe raggiungibile in pratica e, comunque, loro di gas ne hanno in abbondanza. Gli interessa di più, semmai, la Crimea per il suo valore strategico e probabilmente anche l'Ucraina dell'Est con le sue riserve di Gas aggiuntive. Visti in questa luce, gli ultimi eventi sembrano avere una logica ineluttabile che conduce a una spartizione dell'Ucraina con vantaggi sia per la Russia che per il blocco Euro-Americano. Chi ci rimette, evidentemente, sono gli Ucraini, ma si sa che è così che va il mondo e quando si tratta di petrolio e gas, non si guarda in faccia nessuno.

L'unico problema è che questo famoso gas di scisto potrebbe non essere quella meraviglia di abbondanza di cui si parla. Si sa che il gas di scisto è costoso e che causa danni disastrosi a tutto quello che sta intorno alle trivellazioni. E non sarebbe la prima volta che una risorsa descritta come promettente si rivela poi un imbroglio. Vi ricordate di quando, negli anni '90, si diceva che la zona del Mar Caspio sarebbe stata "La nuova Arabia Saudita?" Beh, oggi sappiamo che, al massimo, potrebbe essere la nuova Caltanissetta (tanto per fare un confronto con un area che produce un po' di petrolio, ma vi potete immaginare che non è tanto!).

Così, anche le riserve di shale gas del bacino di Lublino potrebbero rivelarsi una clamorosa sovrastima, nonostante che i polacchi ci abbiano creduto (e non solo loro). Perlomeno, le ultime notizie che arrivano dalla Polonia sono deludenti. Un paio di mesi fa è arrivato l'annuncio che l'ENI ha abbandonato la ricerca di gas nella zona - così come hanno fatto altre compagnie petrolifere.

Curiosamente, proprio questa delusione polacca sembra aver generato un aumento di interesse nell'Ucraina. Sarà una coincidenza rispetto a quello che è successo poco dopo, certo, però come diceva Andreotti "A pensar male, di solito ci si azzecca". Guerra per le risorse, dunque, come lo sono quasi tutte le guerre. Ma chi ci dice che le risorse di gas ucraine, tanto millantate, non si rivelino poi delle illusioni proprio come quelle polacche? Chi può dirlo? In fin dei conti perché si fanno le guerre se non per delle illusioni?




Su questo argomento, vedi anche questo articolo di Ugo Bardi





domenica 2 marzo 2014

Pausa nel riscaldamento? Quale pausa?

Da “Climate Progress”. Traduzione di MR

Grafico delle temperature dal 1950 che mostra anche la fase del ciclo El Niño-La Niña. Via NASA.

L'ultimo decennio è stato il più caldo mai registrato e il 2010 è stato l'anno più caldo mai registrato, in continuità con la tendenza a lungo termine alimentata dalle emissioni umane (vedi il grafico sopra). Tuttavia, negli ultimi 10 anni le temperature di superficie non sono sembrate aumentare rapidamente come in molti si aspettavano – anche se gli oceani hanno continuato a scaldarsi rapidamente e il ghiaccio dell'Artico si è fuso più rapidamente di quanto ci si aspettasse, così come ha fatto la grande calotta glaciale in Groenlandia e in Antartide. (Vedere qui). Ora una nuova ricerca scopre che il rallentamento nel tasso di riscaldamento della
superficie è causato dall'aumento della velocità senza precedenti degli alisei, che mescolano più calore e più in profondità negli oceani mentre portano l'acqua più fredda in superficie. Ricordate, più del 90% del riscaldamento planetario antropogenico va negli oceani, mentre solo il 2% va nell'atmosfera. Quindi piccoli cambiamenti nell'assorbimento dell'oceano possono avere impatti enormi sulle temperature di superficie.

L'autore principale, il professor Matthew England, ha spiegato in una nuova pubblicazione:

“Gli scienziati hanno sospettato a lungo che un assorbimento di calore supplementare da parte dell'oceano avesse rallentato l'aumento delle temperature medie globali, ma il meccanismo dietro al rallentamento rimaneva poco chiaro... Ma l'assorbimento di calore non è in nessun modo permanente: quando la forza degli alisei torna normale – come inevitabilmente accadrà – la nostra ricerca suggerisce che il calore si accumulerà rapidamente nell'atmosfera.   Quindi, le temperature globali sembrano destinate a crescere rapidamente oltre il periodo attuale, tornando ai livelli ai livelli previsti entro un decennio”.

I dati corretti (linee in grassetto) sono mostrati
paragonati a quelli incorretti (linee sottili). Via Real Climate
Questo è preoccupante visto che la nozione secondo cui c'è stato un rallentamento proviene in larga parte dall'esame dei dati HadCRUT4, piuttosto che sui dati della NASA. Visto che non abbiamo stazioni meteorologiche permanenti nell'Oceano artico – il luogo dove il riscaldamento globale è stato più grande – la decisione del Hadley Centre britannico di escludere quest'area ha significato che hanno sottostimato il riscaldamento recente. Una recente analisi che usa i dati satellitari per riempire i vuoti ha scoperto che il rallentamento era minore di quanto non sembrasse (vedere la figura sulla destra). La NASA, invece, ha ipotizzato che la temperatura di superficie nell'Artico sia uguale a quella delle più vicine stazioni di terra. Quindi i dati della NASA sono più precisi. In ogni caso, come potete vedere dal grafico in alto, non c'è stato nessun rallentamento nelle temperature di superficie in confronto alla tendenza a lungo termine. Ci sono stati un paio di eventi de La Niña, dal 2010, e La Niña riduce le temperature collegate alla tendenza del riscaldamento antropogenico, proprio come El Niño aumenta le temperature di superficie collegate alla tendenza. Quando vedremo il prossimo El Niño, che potrebbe essere anche quest'estate, possiamo aspettarci di vedere un altro record della temperatura globale subito dopo, nel 2014 o nel 2015. Ciò che il nuovo studio scopre è che è probabile che le temperature aumentino anche di più nei prossimi anni, visto che “l'effetto netto di questi alisei anomali costituiscono un raffreddamento della temperatura media globale dell'aria in superficie del 2012 di 0,1-0,2°C”.