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martedì 24 novembre 2015

Marketing e sangue: la strategia dell'ISIS



di Jacopo Simonetta

Sulla strategia dell’ISIL (o ISIS, o Daesh che dir si voglia) vengono quotidianamente scritti fiumi di parole.   Non ho la competenza per farne una rassegna critica, e troppo numerosi sono i fattori in gioco per discuterli in un post.   Vorrei però approfittare di questo spazio per porre in risalto un dettaglio che mi pare interessante: la strategia della comunicazione dello "Stato islamico".  Un dettaglio che credo abbia a che fare con gli attentati in Europa (compresa la Russia).

Secondo il  RSDH (Réseau syrien des droits de l’homme)  nella guerra civile siriana circa l'80% delle vittime civili e la quasi totalità delle distruzioni materiali sono responsabilità del regime di Assad.   ISIL avrebbe commesso circa il 10% dei massacri e tutti gli altri insieme altrettanto.   Altre fondi danno cifre analoghe. Probabilmente non dipende tanto da scelte strategiche, quanto dalla potenza di fuoco e dai mezzi disponibili.   Solo Assad dispone di artiglierie ed aviazione.   ISIL provò a far volare un paio di caccia, ma furono immediatamente abbattuti dagli americani.

Eppure il "califfo" si è fatto una solida fama di super-criminale, tanto che Putin lo ha paragonato a Hitler.   Non è certo la prima volta che in una guerra uno dei contendenti assurge a male assoluto, ma la cosa interessante è che questa tenebrosa reputazione non dipende tanto da una campagna mediatica condotta dai suoi nemici, quanto da una campagna mediatica condotta dallo stesso Deash.   Per essere chiari, mentre gli altri contendenti hanno evitato di coinvolgere gli stranieri ed hanno seguito la strategia classica di nascondere i propri crimini, ISIL ha fatto di questi l'asse portante della sua strategia di comunicazione.   Anzi, sono dell'idea che molti dei suoi delitti più efferati sono stati compiuti esclusivamente ad uso dei media e dei social network.

Un fatto che credo sia assolutamente nuovo nel vasto panorama bellico recente ed attuale.

Riassumendo molto per sommi capi, Daesh nasce nel caos provocato dall'invasione USA dell'Iraq, sostanzialmente per contrastare la crescente ingerenza iraniana in quel paese e, in una prima fase, ha agito in modo da dare nell'occhio il meno possibile.   Ovviamente gli addetti ai lavori lo conoscevano bene, ma l’opinione pubblica occidentale ne era completamente all'oscuro.  Al massimo qualcuno, di tanto in tanto, ci ricordava che c’era stata l’ennesima autobomba ad una moschea irachena od un massacro in Siria.   Ma da quelle parti sono parecchi soggetti adusi a queste cose.

Poi le bandiere nere sono arrivate nella periferia di Baghdad, dopo aver preso il controllo di gran parte delle aree petrolifere irachene e siriane.   Fulmine a ciel sereno!   Nessuno sembrava sapere da dove fosse saltato fuori un intero esercito, bene armato e combattivo.

La reazione iniziale degli americani e dei loro satelliti fu raffazzonata e ben poco efficace, mentre questo gruppo manteneva una vivace iniziativa sia sul campo, sia sui media, passando istantaneamente dai documenti riservati alle prime pagine del mondo intero.

In questa fase, diciamo di emersione di ISIS, furono decapitati alcuni prigionieri.   Perché usare un modo così poco pratico di ammazzare la gente in un’epoca in cui abbondano i fucili?   La mia ipotesi è perché una fucilazione avrebbe prodotto degli articoli in terza pagina e solo in alcuni paesi.   Una decapitazione filmata e postata su internet viene vista da centinaia di migliaia di persone ed assicura le prime pagine sui giornali del mondo intero per parecchi giorni. E tutto ciò a costo zero.

Non solo, ma questa che potrebbe essere semplicemente una strategia di marketing, si è rivelata particolarmente efficace negli effetti prodotti.   I balordi di banlieu hanno infatti letto l’azione omicida come un atto di forza e di coraggio, mentre hanno visto lo strepito dei media internazionali come uno starnazzare di vecchiette spaventate.

L’effetto galvanizzante è stato quindi particolarmente efficace proprio sul target principale: i giovani maschi della piccola borghesia nelle grandi città, sia arabe che europee.   Gente assolutamente normale, ma potenzialmente pericolosa per l’effetto combinato di sovrappopolazione, recessione economica ed una cultura fatta solo di slogan, videogames e propaganda.   Un ambiente in cui vittimismo a buon mercato, delusione e desiderio di rivolta si sposano bene con una situazione economica spesso modesta, ma sufficiente a garantire l’accesso ai gadget tecnologici necessari per seguire le “eroiche imprese del Califfato”.

Altra trovata pubblicitaria geniale.   Evocare il califfato significa immediatamente evocare i tempi in cui l’Islam era la potenza egemone ed il fulcro della civiltà.   Mentre l’Europa occidentale non era che un ricettacolo di banditi poveri ed ignoranti.   Che non fosse esattamente così lo sanno bene i professori di storia, ma non certo i balordi.   Del resto perché stupirsi, se anche fra gli europei d’antica data questa visione un tantino semplicistica passa per buona?   Non è certo una novità che la storia, come strumento politico, funziona tanto meglio quanto meno è conosciuta.

Dunque un grande successo di mercato, con i “Califfo fan club” che sbocciavano come margherite in buona parte del mondo islamico, comprese le comunità insediate in Europa da generazioni.
Nel bombardamento di immagini cui siamo stati sottoposti,  ogni dettaglio era evidentemente curato da professionisti: coreografi, costumisti, registi, eccetera.   Uno staff di professionisti dello spettacolo e della comunicazione che, chissà? Magari sono americani e francesi.  Perché no? Business is now.


E' però risaputo che l’esposizione ad un messaggio provoca un innalzamento della soglia di attenzione.   Dopo un poco, per mantenere la fatidica posizione fra i primi tre posti su Google fu quindi necessario rincarare la dose.   Così siamo passati dalle esecuzioni singole a quelle multiple, poi ai massacri delle minoranze.  

Come abbiamo visto, altri protagonisti della tragedia siriana hanno fatto cose simili ed anche peggiori, ma la differenza è che l'ISIL se ne è fatto un vanto di fronte al mondo.   Col risultato di diventare un polo d'attrazione planetario per una consistente minoranza di mussulmani nel mondo non solo arabo.

Evidentemente, risultati di questo genere non si ottengono da zero.   A monte di tutto ciò ci sono stati trenta anni di capillare diffusione  del wahhabismo a gran forza di petroldollari e, sopratutto, la massiccia presenza mediatica di questa setta capace di impersonare il ruolo di "Islam tadizionale" in tutti quegli ambienti in cui la storia dell'islam è del tutto ignota.   E fra questi anche gran parte delle nuove generazioni in seno alle famiglie mussulmane.    Un altro fattore che i comunicatori del Daesh hanno saputo magistralmente sfruttare sono gli effetti destabilizzanti della sovrappopolazione; oltre alla delusione per le mancate promesse del progresso all'occidentale.    E, soprattutto, la grave crisi economica generata dal globale impatto contro quei "Limiti dello Sviluppo" di cui tanto si parla su questo blog.

Tornando alla campagna mediatica che Daesh ha sviluppato sinergicamente a quella militare, un'altra fase fu caratterizzata dalla formale riduzione in schiavitù delle donne.   Totale o parziale a seconda del credo religioso, con tanto di annunci pubblicitari per la vendita all'asta di lotti di ragazze yazide e cose del genere.   Un altro successo mediatico anche se, bisogna dire, assai più banale.   Maltrattare le donne non è certo un’idea originale, ma come si dice in gergo, è un “evergreen”.   Una cosa che ti assicura comunque un buono share.

E quando anche questo filone ha cominciato a retrocedere verso la seconda pagina sui motori di ricerca, c’è stata la fase della distruzione delle opere d’arte.   Un’altra volta le prime pagine gratis ed una netta divisione fra una massa di persone sgomente ed una minoranza di balordi entusiasti.
Nel mezzo il grosso delle comunità islamiche europee, sempre più strette fra le reazioni dell’opinione pubblica ora buoniste, ora aggressive, ma in entrambi i casi utili alla propaganda jihadista.

Un altro effetto ottenuto con questa strategia è stato quello di contribuire a rivitalizzare in varie parti del mondo un senso di appartenenza basato su di un cristianesimo che, pur essendo perlopiù (ma non sempre) pacifista, sta minando quel laicismo che credevamo essere una conquista definitiva della nostra civiltà.

Ancora più importante è però il successo che l'ISIL sta avendo nel sostenere la crescita della destra xenofoba sia in Europa che in Russia e negli USA.    L'equazione mussulmano = arabo = terrorista (almeno potenziale) è stupida, ma anche rassicurante in quanto identifica un nemico  chiaramente circoscritto e facilmente riconoscibile.   E' bello pensare che hai un nemico, che lo puoi sconfiggere e che dopo andrà tutto bene. Niente di meglio per aumentare il disagio delle comunità islamiche fra cui si raccolgono fondi e si arruolano soldati.

In questo quadro, l’attacco a Charlie Hebdo assicurò daccapo una copertura mediatica globale praticamente gratis.   Ma forse qualcosa cominciò a cambiare nell'atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica europea, compresa quella mussulmana.   La partecipazione di 4 milioni di persone in tutt’Europa alla manifestazione che seguì può essere spiegata solo in parte con la propaganda.   Personalmente ho avuto modo di vedere palestinesi ed israeliani scambiarsi le bandiere ed ho udito importanti imam dire chiaro e tondo che l’integralismo islamico era un pericolo mortale prima di tutto per i mussulmani.   Più di una fatwa è stata formalmente lanciata contro il Daesh.   Per ora apparentemente senza risultato, ma l’evoluzione dei fenomeni storici non necessariamente rispetta il nostro infantile desiderio di veder risolti i problemi in un fiat.

Forse, dal loro punto di vista, fu un errore e forse no.   Ma sta di fatto che nei mesi precedenti il "califfo" aveva subito importanti rovesci ad opera di inedite alleanze, temporanee e parziali, ma efficaci.   Ad esempio la città strategica di Tikrit era stata riconquistata da truppe irregolari iraniane e milizie locali, sostenute dall'aviazione statunitense.

In Siria, sempre grazie agli americani, i Curdi avevano respinto l’ISIL a Kobane, per poi passare alla controffensiva anche in altri settori.   Più di recente, rinforzi iraniani e russi hanno rianimato  le sfinite truppe di Assad che hanno ripreso l’iniziativa in tutto l’ovest del paese.  Anche se l’ISIL non è il loro unico obbiettivo.

Per rilanciare l’immagine del "califfato" e portare nuova linfa alle sue fila occorreva qualcosa di sensazionale.   Purtroppo anche in questo campo vige l’implacabile legge dei ritorni decrescenti e, se un paio di anni fa bastava assassinare un prigioniero per ottenere un successo di pubblico planetario, man mano che la gente si abituava allo spettacolo della violenza gratuita, è stato necessario alzare il tiro.   Finché, forse, si è commesso un errore di valutazione.

Gli attentati in Turchia (Suruc in Luglio, circa 30 morti, ed Ankara in ottobre, 100 morti) sono di difficile lettura perché fra le loro conseguenze ci sono stati il rilancio delle ostilità contro il PKK e la vittoria elettorale di Erdogan che non nasconde le sue ambizioni.   Se non proprio califfo, almeno sultano lo vuole diventare di sicuro.

Poi ci sono stati i due attentati più sanguinosi: quello contro l’aereo russo e quello in centro a Parigi.
Sia la Russia che la Francia sono attori recenti nello scacchiere siriano.   Forse il doppio attentato aveva quindi lo scopo di intimidire questi governi ed indurli a ritirarsi, come era avvenuto con l’attentato di Madrid del 2004 (quasi 200 morti).   Se questo fosse il caso, il risultato ottenuto sembra essere stato quello opposto.

In alternativa, potrebbe essere stato un modo per rilanciare la consolidata strategia di marketing, con azioni tanto spettacolari da assicurare nuovamente uno share globale, provocare reazioni isteriche da parte occidentale, mettere ulteriormente nell'angolo le minoranze islamiche e ridare entusiasmo ai propri sostenitori.   Tutte cose puntualmente successe.

In questa seconda ipotesi, che Francesi e Russi bombardassero  alcuni palazzi ed installazioni a Racca era scontato e, forse, faceva parte della strategia di comunicazione.   Il fatto di resistere ad un attacco portato con mezzi strapotenti non può che convincere ulteriormente i balordi di periferia dell’indomito coraggio e dell’invincibilità dei combattenti del “califfo”.

Ma potrebbe anche darsi che le potenze grandi e piccole che svolazzano sui cieli siriani si siano stufate e trovino un accordo.   Magari parziale ed ingiusto, ma temporaneamente efficace.   Non sarebbe facile per l’intreccio mortale di interessi fra occidentali e Sauditi, ma potrebbe accadere e forse è già accaduto. Se fosse (o se sarà) così i giorni del “califfo” sarebbero contati.   E’ presto per saperlo, lo vedremo nel corso dei prossimo mesi, ma per adesso vediamo un’azione congiunta franco-russa.   Non si vedeva dal 1945 e sfido chiunque a dire che lo aveva previsto.

Ovviamente, l’eventuale fine del Daesh non significherebbe in alcun modo la fine del caos e della violenza in medio Oriente.   E nemmeno la fine dell’immigrazione di massa o degli attentati.
I balordi ad un tempo sfigati e viziati saranno ancora li, mussulmani e non.   Ci sarà ancora l'industria teologico-mediatica del wahhabismo, come saranno ancora li la recessione economica, la delegittimazione della classe politica, l’avidità senza fondo del mercato.   E ci saranno ancora il picco di tutto, la sovrappopolazione, il peggioramento del clima, la desertificazione dei suoli, la morte della Biosfera e molto altro ancora che nessuna alleanza militare, né alcun progetto di integrazione culturale può minimamente scalfire.

Ma se vogliamo essere ottimisti a tutti i costi, possiamo forse sperare che gli europei, di tutte le confessioni e colori, capiscano che l’unione non fa solo la forza per reagire agli attacchi criminali.   E’ anche l’unico strumento che abbiamo per mitigare gli effetti del rendiconto che il Pianeta ha appena cominciato a presentaci.




mercoledì 21 ottobre 2015

Tecnologia, energia, popolazione, capacità di carico e la sesta grande estinzione...

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR



Steven A. LeBlanc, un archeologo del Museo Peabody di Harvard, ha scritto un libro significativo: Battaglie continue: perché combattiamo (2004). Come un altro archeologo controverso, Lawrence H. Keeley, di cui ho parlato in note precedenti, LeBlanc si arrovella per fare un po' di chiarezza sul mito persistente dello stile di vita pacifico dei cacciatori-raccoglitori in equilibrio ecologico col proprio ambiente. Per quanto possiamo dire sulla base dei ritrovamenti archeologici, scrive LeBlanc, le società umane hanno superato le loro risorse di base, denudato la terra, fatto estinguere altre specie con le quali condividevano il territorio, poi si sono spostate per fare la stessa cosa altrove. LeBlanc mostra che lo squilibrio ecologico è sempre stato la causa principale di lotte e guerre. “Il solo filo conduttore che ho trovato in tutta questa guerra... era che era correlata a persone che superano la capacità di carico della loro area. Lo squilibrio ecologico, credo, è la causa fondamentale della guerra”.

venerdì 28 agosto 2015

La resa energetica ('EROEI') della guerra

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR



Di Antonio Turiel

Cari lettori,

Data la situazione di decrescita energetica alla quale ci vediamo inevitabilmente condannati come società, un aspetto antipatico, anche se necessario, da analizzare è quello del rendimento, non tanto economico quanto energetico, della guerra. Poiché di sicuro la guerra è un modo di ottenere risorse e in particolare risorse energetiche, che sono quelle che in ultima istanza muovono tutta l'economia. Inoltre, è importante analizzare ciò che rappresenta la guerra da questo punto di vista, perché senza un cambiamento di rotta deciso dalla politica internazionale (poco probabile in questo momento), il futuro ci riserva una serie di guerre che si andranno concatenando senza soluzione di continuità e senza che i nostri esperti più avvezzi comprendano quale sia il filo conduttore di tutte (proprio il contrario: in questo momento c'è un'autentica offensiva mediatica per negare che il picco del petrolio si stia approssimando, proprio quest'anno che sembra che si verificherà il picco del petrolio in volume – in energia è stato nel 2010.

Di fronte alla moltitudine di conflitti armati che sorgeranno dal collasso dei paesi produttori (oggi l'Egitto, Libia, Siria o Yemen, domani Nigeria, Venezuela e Algeria) e dando per scontato il travisamento mediatico che ci sarà su tutte queste guerre fino a che l'esplosione di qualche produttore (per esempio rivolte in Arabia Saudita nel prossimo decennio) ponga gli orgogliosi paesi occidentali in ginocchio, credo che sia importante analizzare cosa significano le guerre come strumento per garantire che le risorse continuino ad arrivare alle nazioni più ricche e, in ultima istanza, analizzare il loro EROEI, inteso in questo contesto come il guadagno di energia che ottiene un paese che entra in guerra in confronto all'energia che consuma nel fare la guerra stessa. Il fatto è che, analogamente a quello che succede con le fonti di energia, ci sono certi modi di fare la guerra, i più semplici, che hanno EROEI alti, mentre in scenari geopolitici più maturi l'EROEI delle guerre è sempre più basso fino a giungere al punto in cui la guerra non è una sorgente ma un pozzo di risorse.

Dal punto di vista etico, parlare del rendimento o beneficio della guerra sembra di un cinismo insopportabile, poiché innanzitutto la guerra è morte, feriti, distruzione, epidemie, fame, famiglie distrutte, illusioni perdute, caos, perdita di civiltà... Non c'è niente di eroico nella guerra per quanto la propaganda la glorifichi e pensare alla guerra in termini del proprio beneficio è deplorevole. Tuttavia, le guerre si fanno sempre per guadagnare qualcosa e la maggior parte delle volte (se non tutte) il beneficio preteso è abbastanza tangibile e materiale, persino prosaico. D'altra parte, discutere del beneficio materiale della guerra può essere utile se si può dimostrare che tale beneficio materiale non si realizzerà, perché non è raggiungibile o perché semplicemente non esiste. Di fatto, nella misura in cui la nostra civiltà va consumando il suo prevedibile transito di decrescita energetica, le guerre successive saranno sempre meno interessanti dal punto di vista del beneficio. Addirittura, passato un certo punto (quello dei ritorni decrescenti), andare in guerra accelererà il nostro cammino verso il collasso, anziché ritardarlo. La Storia mostra e dimostra, tuttavia, che riconoscere che ci si trova in un punto di ritorno negativo (in qualsiasi attività, non solo nella guerra) è molto difficile e generalmente si continua a fare la stessa cosa che si è sempre fatta, “abbiamo sempre fatto questo”, per inerzia, finché quella stessa inerzia è quella che accelera la nostra caduta. Quanti imperi aggressivamente espansionisti hanno collassato nella Storia ancora più rapidamente di quanto si siano espansi, proprio perché le nuove guerre finivano per porre un carico maggiore dei benefici che apportavano? Il fenomeno si ripete in continuazione nella Storia, dai Maya fino agli Unni, da Alessandro magno ad Annibale, dall'Impero Romano all'Impero ottomano, dall'Impero Austro-Ungarico al Terzo Reich. Comprendere e spiegare come mai la guerra sia materialmente onerosa può essere utile per far riflettere coloro che non vengono toccati dagli argomenti etici, ma che sono sensibili alle variazioni del loro portafoglio.

Distinguerò tre tipi di guerra, a seconda del loro rendimento energetico: le guerre di saccheggio, quelle di dominio e quelle egemoniche. Non è una classificazione molto esaustiva e probabilmente non l'unica possibile, ma personalmente mi quadra abbastanza con le grandi linee delle guerre.

Guerre di saccheggio: E' il tipo più semplice e di base di azione bellica, quello che ha l'EROEI più elevato. L'attaccante assalta un determinato territorio con l'intenzione più o meno dichiarata di prendere tutto ciò che può. Non si tratta di tenere una posizione, ma di prendersi il bottino e scappare di corsa. Questo tipo di conflitti di solito hanno dimensioni limitate, non essendo tipici di stati-nazione ma di bande mercenarie, pirati e simili. Esempi storici di questo tipo di guerra sarebbero su piccola scala, quelle intraprese dai Vichinghi su tutta la costa del nord Europa o quella dei pirati nei sette mari, ma grandi nazioni lo hanno tenuto come forma di finanziamento. Per esempio, la Spagna del XVI e XVII secolo finanziava le proprie armate, praticamente mercenari, col saccheggio delle popolazioni conquistate (in certe parti d'Europa sono ben ricordati alcuni “saccheggi” storici).

Il costo di questo tipo di guerra è molto limitato: un uomo, un'arma e un sacco in cui mettere tutto ciò che si può saccheggiare. Al contrario, il rendimento è molto elevato, soprattutto in regioni dove da tempo non si verificava un saccheggio. Possiamo fare una stima del rendimento del saccheggio in funzione della sua frequenza: più tempo passa fra un saccheggio e l'altro, maggiore è il rendimento del saccheggio precedente. L'EROEI è sicuramente alto, anche se la quantità totale di energia ottenuta è relativamente piccola (pertanto soddisfa una popolazione piccola di saccheggiatori). Le popolazioni di saccheggiatori non possono crescere in modo illimitato, visto che ci sono vari fattori che ne limitano l'espansione: la disponibilità di obbiettivi sufficientemente ricchi da garantire la sopravvivenza del gruppo come tale fino al saccheggio seguente, la necessità di lasciar passare un certo tempo prima di tornare a saccheggiare lo stesso luogo perché si possano riparare i danni e si troni a generare una ricchezza sufficiente che valga la pena di saccheggiare, la difficoltà crescente a saccheggiare se la presenza dei saccheggiatori è molto nota, visto che le città rafforzano le proprie difese, ecc. Le popolazioni saccheggiatrici si uniscono e si possono abbordare obbiettivi più pericolosi ma di maggior ricompensa. Se le circostanze peggiorano, il gruppo saccheggiatore può essere decimato ma la parte che sopravvive potrà sussistere saccheggiando popolazioni più piccola e indifese. Essenzialmente, i gruppi saccheggiatori svolgono il ruolo di predatori nei modelli predatore-preda, con popolazioni molto minori di quelle delle prede e governati dalla dinamica di queste ultime, comprendendo la lotta fra predatori come meccanismo di adattamento della propria popolazione se le prede cominciano a scarseggiare.

Questo modello di guerra ha una certa somiglianza con le società dei cacciatori-raccoglitori (con la differenza che questa non si dedicavano all'uccisione di nessuno), visto che si specializzano nel prendere le risorse dall'ambiente senza alterarlo, lasciandolo evolvere liberamente. Ma, al contrario dei cacciatori-raccoglitori, è molto difficile che i saccheggiatori raggiungano un equilibrio col proprio ecosistema e la cosa più probabile è che alla fine i saccheggiati si organizzino e finiscano per distruggerli, inseguendoli fino alle loro case se necessario.

Guerre di conquista: Questo tipo di guerra è quello preferito dagli stati-nazione. L'obbiettivo della guerra di conquista è mantenere il controllo permanente di un territorio e quindi delle sue risorse. Non basta, quindi, entrare in un territorio, bisogna occuparlo. Pertanto questo implica dispiegare un contingente militare ben addestrato e mantenerlo a tempo indeterminato su un territorio per garantire il flusso di risorse. Anticamente, gli Stati occupanti rimanevano fisicamente al comando dei paesi occupati. Oggigiorno, approfittando del fatto che tutto il mondo è organizzato in Stati-nazione, gli Stati occupanti collocano un'amministrazione locale favorevole ai propri interessi e si rivolgono allo stesso esercito locale come garante della pace e dell'ordine in favore dei suoi interessi. L'unica cosa che l'occupante mette in campo, a lungo termine, sono le imprese dedite all'estrazione delle risorse della nazione soggiogata. Grazie a questo sotterfugio di esternalizzare l'occupazione con “subappaltatori locali” si è riusciti a diminuire di molto i costi di questo tipo di guerra, che in passato era molto onerosa (in passato più di un impero ha ceduto a causa degli alti costi di una sola campagna militare fallita). Per questo motivo, le guerre di occupazione del passato avevano un EROEI molto basso e si occupavano soltanto paesi ricchi di risorse deisderate (un buon esempio di ciò è stata la spartizione dell'Africa alla Conferenza di Berlino del 1884). L'attuale sistema di esternalizzazione ha ridotto i costi per i paesi occupanti a quelli della prima campagna destinata ad annichilire la resistenza locale ed instaurare il governo amico, il che è molto più economico che incorrere in costi continui per anni, compreso quello di una opinione pubblica che di solito finisce per essere contraria, soprattutto quando si organizza una resistenza nel paese occupato che comporta vittime umane per l'occupante che si accumulano (e senza contare gli arruolamenti forzati).

L'esternalizzazione ha funzionato molto bene per tutto il XX secolo, permettendo di dissimulare il motivo della nostra ricchezza. Quando diciamo che l'EROEI del petrolio è di 20, di solito non teniamo conto del fatto che l'alto valore energetico per noi è il frutto del fatto che in origine è sicuramente maggiore (30 o più), ma che lì non si estrae ma viene importato ad un prezzo monetario che non corrisponde al guadagno energetico che ci porta. Tuttavia, col crollo naturale, per ragioni fisiche e geologiche, dell'EROEI dei giacimenti di materie prime energetiche, le aziende occidentali si ritrovano in una situazione compromessa: per mantenere l'alto rendimento energetico delle sue fonti per l'occidente devono ridurre il beneficio netto per la popolazione locale. Nascono così abusi ambientali e di diritti come quelli del delta del Niger o delle sabbie bituminose del Canada, arrivando persino a guerre con alcuni produttori importanti per garantire che il flusso di petrolio a buon mercato continui ad arrivare. Il problema è che la guerra è un metodo pessimo per combattere con la geologia. Un esempio paradigmatico lo troviamo in Libia. Pensate a come si è evoluta la produzione di petrolio in quel paese negli ultimi anni:




Si possono dare molte interpretazioni a quello che è successo in Libia, ma il grafico sopra ci mostra alcuni dati curiosi. Per esempio, che apparentemente è arrivata al proprio picco del petrolio nel gennaio del 2009 e che negli anni successivi, nonostante i prezzi del petrolio alti e i suoi sforzi, la Libia non è riuscita a recuperare i quasi 1,8 milioni di barili al giorno di allora. Nel gennaio 2011 comincia l'offensiva che praticamente ferma la produzione del paese e, una volta “liberato”, si riprendono livelli leggermente inferiori a quelli del 2011 per poco più di un anno, per poi crollare e vivere di continui alti e bassi. La situazione della Libia è talmente instabile che le diverse fazioni lottano fra loro, deteriorando il flusso della sua principale fonte di introiti e, senza un esercito occupante potente che imponga la propria legge, la situazione non si stabilizzerà. Ma i paesi occidentali si sono specializzati in eserciti di azione rapida e fulminante, che causano un grande danno iniziale con poco rischio per le proprie truppe, e non in occupazioni a lungo termine. Per questo le occupazioni a lungo termine, come quella dell'Afghanistan, sono tanto disastrose, perché hanno bisogno di un approccio militare diverso che implica un costo più alto che, semplicemente, non si vuole e non si può pagare. Pertanto, l'EROEI delle moderne guerre di conquista sta diminuendo in perfetto parallelo con l'EROEI delle fonti energetiche che si vogliono controllare. Per questa ragione, imbarcarsi in guerre in paesi che hanno già superato il loro picco del petrolio non è solo eticamente disprezzabile, è anche economicamente ed energeticamente rovinoso. Per questo invadere l'Iran non è solo un errore perché è un paese densamente popolato, con un'orografia che rende difficile le azioni militari sul terreno e una popolazione ed un esercito fortemente consapevoli, è che il premio per ciò per cui si lotta è un petrolio di qualità sempre peggiore, più pesante, di minore EROEI e, soprattutto, la produzione di petrolio dell'Iran è in declino.




Si potrebbero applicare ragionamenti simili, per esempio, al Venezuela e ad altri paesi che a loro volta sono nel mirino di alcune grandi potenze.

Le guerre di conquista hanno alcune analogie con le società agricole: si vuol ottenere il controllo permanente di una risorsa, anche modificando l'ambiente per migliorarne il rendimento. Il problema delle guerre di conquista attuali è che le risorse desiderate non sono rinnovabili, pertanto il rendimento è obbligato a cadere, fino a rendere questo tipo di guerra un pozzo, anziché una sorgente, di risorse.

Guerre per l'egemonia: questo tipo di guerra è quello proprio di un impero o, con una terminologia più moderna, di una superpotenza. L'obbiettivo della guerra per l'egemonia è mantenere lo status quo della metropoli. Queste guerre non hanno generalmente l'obbiettivo di ottenere il controllo di una risorsa, ma di mantenere un controllo che si ha già e a volte non si fa neanche contro il paese che ha le risorse, ma contro uno dei paesi satellite, a loro volta controllati, che danno sostegno logistico alle operazioni. Questo tipo di guerra è sempre un pozzo di risorse. Esempi di questo è il tipo di guerra che ha vissuto l'Afghanistan, sia con l'Unione Sovietica prima sia con gli Stati Uniti poi. Anche qui la tendenza è all'esternalizzazione: sono le guerre in prestito o guerre proxy, guerre fatte da manovalanza appoggiata dalle superpotenze che si disputano l'egemonia sul territorio. Un esempio di questo tipo è la guerra civile che sta avvenendo in Ucraina, col controllo del flusso di gas naturale russo all'Europa sullo sfondo.

Le guerre per l'egemonia, come abbiamo detto, hanno per definizione un EROEI minore di 1 (cioè, che si guadagna meno di quello che si consuma), quando non direttamente uguale a 0 (non si guadagna niente), perché l'obbiettivo molte volte non è tanto guadagnare ma non perdere. Nella misura in cui una superpotenza è più globale e controlla più territori, deve combattere, direttamente o indirettamente, sempre più guerre per mantenere quello che ha già. Essenzialmente sono guerre completamente territoriali, tipiche del maschio alfa, che hanno senso solo quando altri territori provvedono alle risorse necessarie per mantenerle. Sono anche, per il loro EROEI basso, il principale pozzo di risorse di molti imperi, siccome di solito sono ricorrenti nelle fasi di decadenza degli imperi, di solito sono anche la causa della loro perdizione.

Anche se queste guerre sono tipiche degli imperi, nella misura in cui questi si decompongono emergono paesi che si contendono lo spazio ora vacante, anche aspirando a diventare un impero che sostituisce un altro impero. Ma siccome a quel punto sono molti i paesi che si contendono quel luogo, su scala sempre più regionale, queste guerre sono sempre più complicate e in realtà non si possono mai vincere in modo definitivo. Servono semplicemente a dissipare risorse più rapidamente, in un processo frattale che ricorda la dissipazione di energia in un fluido turbolento. Un politico con una visione strategica potrebbe comprendere, a seconda della fase del declino nella quale si trova il suo paese, quali guerre non gli interessa scatenare e quali sono vitali per trattenere la parte salvabile fino fino a quel momento del suo potere. Tuttavia, questo tipo di capo di solito è raro, per cui pochissimi paesi riescono a prosperare a spese degli altri, semplicemente mantenendosi ai margini e senza richiamare l'attenzione né risvegliare l'avidità dei nuovi contendenti.

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Come vedete, a lungo termine non tornano i conti per nessun tipo di guerra e in realtà la più redditizia è la più banale: il saccheggio. Se la nostra società deve fare affidamento sulla guerra come modo di mantenere la propria sopravvivenza (anche se cinicamente negheremo di accettare che è per questo che si fanno le guerre, le nostre guerre), allora sicuramente non vale la pena che il nostro modello sociale sopravviva. Pensa a questo, caro lettore, quando i tamburi della guerra cominciano a rullare, gioiosi, vicino a casa tua.

Saluti.
AMT


lunedì 18 maggio 2015

Quando e’ cominciata la crisi? Molto prima di quanto non si creda.

Di Iacopo Simonetta

Molti, a dire il vero, si chiedono quando finirà la crisi e su questo i pareri, sostanzialmente,  fanno capo a duescuole di pensiero.  La prima dice che finirà fra 6 mesi, anzi, sta già finendo.  La seconda sostiene che se ne riparlerà nel XXII° secolo. Vedremo, ma certo è una domanda molto difficile. Vorrei quindi cimentarmi con un’altra domanda, apparentemente più facile: quando è cominciata?

Nel 2008”.   Risposta scontata, ma ne siamo sicuri?

Per cominciare, l’unico dato disponibile in serie temporali lunghe è il famigerato PIL che, dovremmo saperlo oramai bene, tutto è tranne che un indicatore affidabile dello stato di salute di un economia.   Ancor meno della qualità della vita.   Del resto, in ecologia, è rarissimo che si possa disporre di serie di dati statistici affidabili su periodi abbastanza lunghi.   Si cerca quindi di ovviare mediante degli indicatori.   Cioè di dati che non descrivono il sistema, ma che sono rappresentativi del suo stato e/o  delle sue tendenze.    Per fare un esempio, in assenza di dati sul numero di cervi in un parco, è possibile farsi un’idea della loro densità dal numero di tracce rilevabili sulla neve.    Oppure, indipendentemente da quanti siano, si può capire se sono troppi o pochi osservando i segni sugli alberi.   Analogamente, in assenza di dati sul reddito dei cittadini, è possibile farsi un’idea dal numero e dal tipo di scarpe vendute (tenuto conto della moda).

Per determinare lo stato di salute di un’economia i dati relativi all'occupazione sono particolarmente interessanti, ma estrarre delle tendenze concrete dalle tabelle ISTAT non è così semplice come potrebbe sembrare.   Il tasso di occupazione dice infatti quale percentuale di cittadini ha un lavoro, ma non che tipo di lavoro.

Molto più interessante, a mio avviso, è uno studio dell’Università Bicocca di Milano, pubblicata “in tempi non sospetti”, vale a dire nel 2001.   Lo studio riguardava il decennio precedente ed era focalizzato sul ricambio generazionale.   In pratica: i figli facevano lavori migliori, peggiori od uguali a quelli dei loro genitori?    Ebbene, il risultato era già allora impietoso.  
I ricercatori avevano diviso i lavoratori in quattro grandi categorie:   In vetta gli imprenditori, i super-dirigenti ed i grandi professionisti.    Seguivano funzionari e liberi professionisti; infine operai ed impiegati.   Per ogni categoria, si era tenuto conto del lavoro svolto dai genitori e di quello svolto dai figli.   Ebbene, anche se negli anni ’90 un certo numero di figli riuscivano a scalare posizioni migliori di quelle dei propri genitori, era nettamente superiore il numero di figli appartenenti ad una classe sociale inferiore a quella paterna. 

Ad esempio, ben il 46% dei figli di imprenditori e super-dirigenti era finito come funzionario ed un altro 22% come impiegato od operaio.   Contro un 15 % di figli di funzionari ed un 5 % di figli di impiegati od operai che erano riusciti a scalare la vetta.

 In complesso, la classe dei lavori molto ben pagati e quella dei liberi professionisti avevano subito una consistente perdita nel cambio generazionale, con una massa considerevole di rampolli che si erano trovati rigettati in una classe sociale subalterna quella in cui erano nati.   Esattamente il contrario di quanto si era verificato a cavallo degli anni ’60.      

Insomma, negli anni ’90 la disoccupazione non era un problema drammatico come oggi, ma l’ascensore sociale era già in avaria e quello che funzionava a pieno regime era piuttosto un efficace discensore sociale.  

Un dato che, da solo, non dimostra alcunché, ma che è un indicatore molto, molto forte del fatto che, già venti anni fa, la crescita economica fosse finita, mentre la popolazione continuava a crescere.

“Una rondine non fa primavera” si diceva un tempo ed è corretto.   Un solo indicatore, per di più puntuale, non significa niente.   Può però diventare significativo se possiamo inserirlo in un contesto coerente.    Le analisi in questo senso sono oramai perfino troppe, mi limito quindi a rimandare ai numerosi articoli di  Antonio Turiel e Richard Heinberg che, fra i molti, hanno forse meglio di altri sintetizzato i punti chiave della questione.

Qui mi limiterò a riprendere alcuni dati che ho già utilizzato in un precedente post.     Sono dati resi disponibili da alcuni ricercatori della Massaciussets university che si sono presi la briga di rifare i calcoli del PIL USA al netto dell’inflazione, utilizzando per tutti gli anni gli stessi parametri di calcolo.   Diversamente dal governo che via via li cambia.  

Ebbene, non troppo sorprendentemente, la crescita vera pare essersi fermata agli inizi degli anni ’70 (forse non per caso in corrispondenza del picco del greggio domestico).   Poi il PIL ha continuato a salire fra alterne vicende, ma solo grazie alla contemporanea esplosione del debito e della borsa, mentre l’economia reale cominciava ad arrancare a la qualità della vita pure.    Fino alla fine della guerra fredda il gioco ha funzionato, poi vediamo che neppure la crescita esponenziale del debito e l’esplosione della “new economy”  sono più riuscite a sostenere una crescita dell’economia reale, mentre la qualità della vita declinava.  Con il 2.000, malgrado tutti gli sforzi,  l’economia americana è entrata decisamente in contrazione e la qualità della vita del cittadino medio in picchiata.   Nel frattempo, gli indici di borsa entravano un una fase di estrema volatilità da cui non sono più usciti.


Per l’Italia non disponiamo di dati sul PIL indipendenti dagli enti di governo, ma li abbiamo sul debito pubblico che indicano un’esplosione a partire dalla metà degli anni ’60, con una fase di stasi negli anni ’90, prima di ripartire fuori controllo.   Questo potrebbe suggerire che da noi la crescita avesse cominciato a rallentare prima che in USA, il che è coerente con il fatto che eravamo, e tuttora siamo, un paese periferico dell’impero USA.  


Altri paesi hanno seguito parabole analoghe, anche se spostate nel tempo.   Ad esempio, Cina ha avuto la sua fase di crescita economica reale più convulsa nei venti anni approssimativamente compresi fra il 1985 ed IL 2005 grazie ai massicci investimenti esteri ed al non meno massiccio trasferimento di impianti e tecnologie occidentali.   In pratica, assieme ad altri, ha saputo sfruttare l’onda di mania suicida che ha colto le “economie avanzate”  con la storica vittoria delle potenze capitaliste su quelle socialiste.   Ma sia pure con modi e tempi diversi rispetto agli altri paesi, anche in Cina il rallentamento dell’economia traspare oramai anche attraverso l’intensa manipolazione dei dati ufficiali, così come dal rilancio di forme di propaganda e di repressione che molti credevano oramai consegnati alla storia.

Dunque: “Quando è cominciata la crisi?”  

Una risposta definitiva non sono in grado di darla, ma possiamo perlomeno distinguere fra diversi livelli.    Considerando le  economie “G7”, la stagnazione è probabilmente iniziata negli anni ’70.   Venti anni dopo, negli anni ’90, la contrazione dell’economia reale ha subito una brusca accelerazione in conseguenza della vittoria militare e, soprattutto, politica sull’URSS.   Un apparente paradosso, facilmente spiegabile con un fatto molto semplice: l’economia industriale è un gioco in cui ci sono necessariamente vincitori e sconfitti.   Quelli che hanno le manifatture vincono, quelli che hanno le cave e le discariche (wells and sinks) perdono.   Fra gli altri, lo aveva intuito Mohandras  Gandhi e lo aveva spiegato Nicholas Georgescu-Roegen.    Ma ancora non lo hanno capito i governanti occidentali che hanno incoraggiato e finanziato, a spese del contribuente, il trasferimento delle principali attività industriali in paesi esteri, solo perché praticamente privi di sindacati e di norme ambientali.   Ne hanno usufruito altri stati, primo fra tutti la Cina, finquando  i “Limiti della crescita” non hanno cominciato a fermare anche loro.  

Invece, il picco dell’economia globale è probabilmente stato, effettivamente, fra il 2005 ed il 2010.   Probabilmente non a caso in corrispondenza con il picco globale della disponibilità di greggio, ma anche preoccupantemente in linea con i tempi dello scenario base dei “Limiti dello Sviluppo”.   

Molti contesteranno questa idea con dovizia di dati, ma ritengo che, quando è scoppiato il bubbone nel 2008, la crisi fosse già consolidata da molti anni nel cuore stesso delle economie occidentali.  Se la maggior parte di noi non ci aveva fatto caso è stato probabilmente per un insieme di fattori fra cui l’abitudine, il martellamento mediatico ed il fatto che, ancora, non erano stati toccati i patrimoni piccoli e grandi accumulati nella fase precedente.   Man mano che i risparmi vengono erosi, le proprietà divengono un peso ed i vecchi dotati di buone pensioni muoiono, diviene semplicemente evidente una malattia  che abbiamo oramai da molto tempo.  Un po’ come quando ci si rende conto di avere l’AIDS, magari dopo venti o trent'anni che abbiamo contratto l’HIV.







martedì 7 aprile 2015

Solo di meno funzionerà

DaPost Carbon Institute”. Traduzione di MR

Di Richard Heinberg



Quando non scrivo libri o saggi su temi ambientali, o quando non dormo o mangio, è probabile che mi troviate a suonare il violino. Questa è stata un'attività ossessiva per me da quando ero ragazzo e sembra che mi dia sempre più soddisfazione man mano che passa il tempo. Fare e suonare una piccola scatola di legno, un violino, è essenzialmente un'attività preindustriale: quasi tutte le sue parti provengono da fonti rinnovabili (legno, coda di cavallo, budella di pecora) e suonarlo non richiede né elettricità o benzina. Suonare il violino pertanto costituisce un hobby ecologicamente benigno, no?

Probabilmente lo era, un paio di secoli fa. Ora non tanto. Vedete, gran parte degli archi di violino sono fatti col pernambuco, un legno duro brasiliano che è a rischio perché con esso sono stati già fatti troppi archi. Anche l'ebano viene raccolto in modo eccessivo, viene usato per fare i tasti, i piroli per l'accordatura e parti degli archi. Alcuni elaborati archi di violino più vecchi sono persino decorati con gusci di tartaruga, avorio e ossi di balena. E mentre acero e pino (i legni principali con cui sono fatti i violini) non sono a rischio di estinzione, intere foreste vengono tagliate in Cina per soddisfare la fiorente domanda mondiale di strumenti per studenti. Le corde moderne (gran parte delle quali vengono fatte usando i derivati del petrolio) spesso vengono avvolte con argento o alluminio non rinnovabili e quasi nessuno cerca di riciclarle.

Capite, il problema reale dei violini è un problema di scala. Se ci fossero solo poche migliaia di violinisti nel mondo, fare e suonare violini avrebbe un impatto ambientale trascurabile. Ma moltiplicate queste attività per decine di milioni e i risultati sono la deforestazione e l'estinzione di specie. Sì, vengono fatti sforzi per fare suonare i violini in modo più sostenibile. Il Brasile protegge le sue foreste di pernambuco rimaste e molti costruttori di archi ricercano legno “raccolto in modo sostenibile”, I costruttori di archi stanno anche sostituendo l'avorio di elefante con ossa di manzo o materiali sintetici e le aste di molti archi ora sono fatti di fibra di carbonio. I gusci di tartaruga e ossa di balena sono off limits per i nuovi archi e i sono disponibili sostituti sintetici di questi materiali. Una società si offre di riciclare l'argento delle vecchie corde di violino. Tutto questo aiuta. Ma se il numero di violinisti continua ad aumentare, questi vantaggi verranno presto o tardi superati dalla pura e semplice dimensione della domanda di tutto, dalla colla alla colofonia. Suonare il violino è un'attività piuttosto specializzata e inusuale. Ma il problema fondamentale che ho sottolineato è endemico per praticamente qualsiasi attività umana, dal fare colazione la mattina al guardare la televisione prima di andare a letto.

Nella ricerca per rendere la società umana sostenibile, il problema della scala sorge assolutamente ovunque. Possiamo rendere una determinata attività più efficiente energeticamente e benigna (per esempio, possiamo aumentare il risparmio di carburante delle nostre auto), ma i miglioramenti tendono ad essere superati dai cambiamenti di scala (espansione economica e crescita della popolazione portano ad un aumento del numero delle auto sulle strade e delle dimensioni del veicolo medio, quindi ad un maggiore consumo totale di carburante). A quasi nessuno piace sentir parlare della scala nella nostra crisi ambientale globale. E' per questo che se la crescita è il nostro problema, la sola vera soluzione è quella di contrarre l'economia e ridurre la popolazione. Negli anni 70, molti ambientalisti raccomandavano esattamente quel rimedio, ma poi è arrivato il contraccolpo di Reagan – fenomeno politico che prometteva espansione economica infinita se solo avessimo permesso ai mercati di lavorare liberamente. Molti ambientalisti hanno ricalibrato il loro messaggio e così è nato il movimento “verde brillante”, che dichiarava che i miglioramenti di efficienza avrebbero permesso agli esseri umani di mangiare la loro torta (far crescere l'economia) e anche di conservarla (proteggere il pianeta in nome delle future generazioni). Eppure eccoci qua, decenni dopo l'eclissi dell'ambientalismo vecchio stile centrato sulla conservazione, e nonostante ogni sorta di programma di riciclaggio, regole ambientali e miglioramenti di efficienza energetica, l'ecosistema globale si sta avvicinando al collasso a velocità ancora maggiore.


La popolazione è cresciuta dai 4,4 miliardi del 1980 ai 7,1 miliardi nel 2013. Il consumo pro capite di energia è cresciuto da meno di 70 gigajoule a quasi 80 GJ all'anno. L'uso totale di energia è aumentata da 300 exajoule  a 550 EJ all'anno. Abbiamo usato tutta questa energia per estrarre materie prime (legno, pesce, minerali), per espandere la produzione di cibo (trasformando foreste in terreno coltivabile o pascolo, usando immense quantità di acqua dolce per l'irrigazione, mettendo fertilizzanti e pesticidi). E vediamo i risultati: gli oceani mondiali stanno morendo; le specie si stanno estinguendo mille volte di più del tasso naturale e il clima globale sta sbandando verso il caos man mano che processi di retroazione autorinforzanti (compresa la fusione polare e il rilascio di metano). Il movimento ambientalista ha risposto all'ultimo sviluppo adottando una concentrazione estrema sulla riduzione delle emissioni di carbonio. Cosa sicuramente comprensibile, visto che il riscaldamento globale costituisce la minaccia ecologica più pervasiva e potenzialmente mortale di tutta la storia umana. Ma i sostenitori della “crescita verde”, che tendono a dominare le discussioni sull'ambiente (a volte esplicitamente ma più spesso implicitamente), ci dicono che la soluzione è semplicemente cambiare fonte energetica e scambiarsi crediti di carbonio. Se facciamo queste cose facili possiamo continuare ad espandere la popolazione e il consumo pro capite senza preoccupazioni.

Nella realtà, cambiare completamente le nostre fonti di energia non sarà facile, come ho spiegato in un lungo saggio recente. E mentre il cambiamento climatico è la mega crisi dei nostri tempi, il carbonio non è la nostra sola nemesi. Se il riscaldamento globale minaccia di minare la civiltà, la stessa cosa fa il suolo, l'acqua potabile e l'esaurimento dei minerali. Questi potrebbero solo impiegare un po' più di tempo. La matematica della crescita composta porta ad assurdità (un essere umano ogni metro quadrato di superficie terrestre per il 2750 al nostro attuale tasso di aumento della popolazione) e alla tragedia. Se messi a confronto con questa semplice matematica, i verdi brillanti diranno: “Be' sì, alla fine ci sono limiti alla popolazione e alla crescita del consumo. Ma dobbiamo crescere ancora un po' adesso, per affrontare il problema della disuguaglianza economica e per assicurarci di non calpestare i diritti alla riproduzione delle persone. Dopo, una volta che tutti nel mondo hanno abbastanza, parleremo di stabilizzazione. Per ora, sostituzione ed efficienza si occuperanno dei nostri problemi ambientali”. Forse i verdi brillanti (o dovrei dire pseudo verdi?) hanno ragione nel dire che “meno” è un messaggio che non si vende. Ma offrire non soluzioni confortanti al nostro dilemma collettivo non ottiene nulla. Forse la prescrizione della decrescita è destinata a fallire nell'alterare la traiettoria complessiva della civiltà ed è troppo tardi per evitare una collisione grave coi limiti del pianeta. Perché, allora, continuare a parlare di quei limiti e sostenere l'autolimitazione umana? Riesco a pensare a due buone ragioni. La prima è che i limiti sono reali. Quando evitiamo di parlare di parlare di ciò che è reale semplicemente perché è scomodo farlo, segniamo il nostro destino. Io, per esempio, mi rifiuto di bere quella particolare partita di Kool-Aid. La seconda e più importante ragione è: se non possiamo evitare del tutto la collisione, facciamo almeno in modo di imparare da essa – e facciamolo più rapidamente possibile.

Tutte le società indigene tradizionali alla fine hanno imparato l'autolimitazione, se restavano abbastanza a lungo nello stesso luogo. Hanno scoperto, attraverso prove ed errori, che superare la capacità di carico della propria terra portava a conseguenze terribili. E' per questo che i popoli tradizionali appaiono a noi moderni come degli ecologisti intuitivi: essendo stati ripetutamente colpiti dall'esaurimento delle risorse, dalla distruzione dell'habitat, dalla sovrappopolazione e dalle conseguenti carestie, alla fine si sono resi conto che il solo modo di evitare di venire colpiti ancora era di rispettare i limiti della natura limitando la riproduzione e proteggendo le altre forme di vita. Noi abbiamo dimenticato quella lezione, perché la nostra civiltà è stata costruita da persone che hanno con successo conquistato, colonizzato e poi si sono spostate altrove per fare la stessa cosa di nuovo. E perché ci stiamo godendo il dono una tantum dei combustibili fossili che ci rendono potenti per fare cose che nessuna società precedenti si erano nemmeno sognate. Siamo giunti a credere nella nostra onnipotenza, eccezionalità ed invincibilità. Ma ora abbiamo finito i luoghi da conquistare e il meglio dei combustibili fossili è esaurito. Mentre ci scontriamo coi limiti della Terra, la prima risposta di riflesso di molte persone sarà quella di cercare di trovare qualcuno a cui dare la colpa. Il risultato potrebbero essere guerre e caccia alle streghe. Ma il conflitto sociale ed internazionale peggiorerà soltanto la nostra miseria. Una cosa che potrebbe aiutare sarebbe una conoscenza ampiamente diffusa del fatto che il nostro dilemma è in gran parte il risultato dell'aumento dei membri umani e dell'aumento degli appetiti rispetto alle risorse che stanno scomparendo e che solo l'autolimitazione cooperativa eviterà una lotta ad oltranza. Possiamo imparare, la storia lo mostra. Ma in questo caso dobbiamo imparare alla svelta. Quindi a portare faticosamente lo stesso vecchio messaggio in quanti più modi diversi mi è possibile, aggiornandolo man mano che gli eventi si dipanano. Ed io suono il mio violino – con un arco di fibra di carbonio.

martedì 17 marzo 2015

Declino energetico e allocazione delle risorse

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR


Cari lettori,

nelle ultime settimane ho percepito una certa ondata di commenti, su diversi forum di Internet (nel forum di Crashoil naturalmente, ma anche in commenti di notizie nei quotidiani ed altri media digitali) in cui si pretende di fare a meno del problema del declino energetico. In generale, questi commenti – molte volte dal tono dispregiativo e vessatorio, a volte perfino personalizzando gli attacchi contro le persone che, come me, ci dedichiamo a parlare di questi temi – di solito basano le loro “contro-argomentazioni” ai gravi problemi esposti qui su una qualche meraviglia tecnologica o risorsa favolosa che stanno per arrivare nelle nostre case. Così, un giorno si ricorre alla vecchia falsità della “sempre incombente” rivoluzione degli idrati di metano o clatrati, mentre altri danno un eco smisurato all'ultimo annuncio commerciale della società Tesla Motor o si fa girare la quintessenza del grafene. Qualche mese fa i temi di moda erano i reattori a fusione portatili o il riutilizzo delle plastiche per fare combustibile domestico (tema, di sicuro, già affrontato da tempo in questo blog). Seguendo il solito ordine nell'avvicendamento di messia energetici, nei prossimi mesi sentiremo parlare del grande potenziale dello sfruttamento dei residui e probabilmente di qualcosa collegata all'idrogeno, la fotosintesi artificiale o i miglioramenti nel rendimento dei pannelli solari. E così in un ciclo perpetuo in cui le tecno fantasie si avvicendano senza fine da un insieme di queste che dopotutto, come attestato dalla loro ripetizione continua, è abbastanza limitato.

sabato 17 gennaio 2015

Italia: paese di eroi, santi, poeti, e economisti



Chiedete una cosa qualsiasi a qualcuno che si occupa di "scienze esatte", tipo fisica, chimica o cose del genere, e quello (o quella) vi premetterà una serie di distinzioni, tipo "se è vero che....", "tenendo conto dell'incertezza dei dati.....", "entro i limiti dell'errore sperimentale...." e cose del genere.

Passate ora all'economia, che è tutto fuori che una scienza esatta, e i praticanti del caso non avranno dubbi. La causa della crisi? Vi diranno con grande sicurezza che è colpa di cose tipo debito pubblico, tasse, spread, credito, costo del lavoro, eccetera. In questo periodo, sembra che sia tutta colpa dell'Euro e non ci sono dubbi in proposito - è così e basta. Strano, perché al tempo dell'introduzione dell'Euro, la maggioranza dei politici (che si basavano su quello che gli dicevano gli economisti) erano d'accordo che era una cosa meravigliosa.

Ma è così che vanno le cose e nel dibattito sui media non puoi metterti a fare tante distinzioni. Devi dire qual'è il problema e qual'è la soluzione. Lo devi dire con grande sicurezza; solo così qualcuno ti darà retta. Se poi viene fuori che la soluzione non funziona (come è quasi sempre il caso), darai la colpa a quelli che non l'hanno applicata bene, o non in misura sufficiente. Economisti e politici hanno perfezionato quest'arte a un livello sopraffino.


Ora, è arrivato su questo blog un commento da parte di qualcuno che si firma "Bazaar" (che è quasi certamente un noto economista italiano). Bazaar ci fa dei complimenti, per i quali ringaziamo, ma anche ci critica dicendo che "le crisi economiche sono crisi di domanda, non di offerta", dimostrando ancora una volta come l'assoluta sicurezza delle proprie opinioni sia un marchio di fabbrica degli economisti. Avrà ragione lui.... forse. Comunque, Marco Sclarandis gli risponde nel post che segue (più sotto, trovate il commento di Bazaar)

Risposta a Bazaar

Di Marco Sclarandis

Bazaar: tu dici:

"Le crisi economiche sono crisi di domanda non di offerta."

Giusto.

Peccato che la risposta è già e sarà sempre di più:

"Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato, meglio ancora, chi ha preso ha pre
so, scurdammoce 'o passato".

Di certe cose, è vero, ne abbiamo in abbondanza e non ci saranno mai problemi di offerta. La Terra contiene tantissimo ferro, tant'è che il suo campo magnetico deriva dal suo nucleo, che sappiamo essere principalmente di ferro. E per generare un campo del genere, di ferro bisogna che ce ne sia parecchio, cosa che è, infatti; miliardi di miliardi di tonnellate.

Ma non tutto sulla terra è abbondante come il ferro e non è la mancanza del ferro in sé come  di tante altre risorse sulla Terra, ad essere ostacolo ad un certo tipo di crescita, ma il fatto che la loro disponibilità dipende sostanzialmente dall'energia che è necessariasaria per ottenerle.

Un esempio per tutti:

Il gallio, proprio quello che insieme all'arsenico e al diabolico ingegno del premio nobel 2014 Nakamura, è quella  "merce" che è indispensabile per fabbricare i LED (Light Emitting Diode).

Che da decenni baluginano dagli elettrodomestici e da anni addobbano il Natale,
le fiere delle porchette e dei tartufi, e ormai illuminano tinelli, sottoscala,vicoli, sottopassi e oscurità varie.

Proprio quel tenero e svenevole elemento chimico numero 31(tanto da fondersi al calore ed ardore di una coppia di giovinetti), non viene estratto da alcuna miniera, semplicemente perchè non ne esistono. Il gallio è un impurezza di altri metalli che estraiamo.

E, su Wikipedia, leggiamo:  "By 2012 world production of gallium was an estimated 273 metric tons."

Non c'è nemmeno bisogno di tradurre.(ma sì diciamolo: 273 tonnellate all'anno, sì 273, tonnellate all'anno. Tutto qui. D'oro se ne estrae ben di più)

C'è chi ha solo un piccolo fardello di conoscenze sia d'economia di finanza e d ecologia, ma batte in perspicacia quelli che hanno al seguito una folla di portatori da spedizione Himalaiana.

Due conti d'aritmetica sul retro d'una busta di recupero e anche la casalinga di Voghera, il bracciante di Pachino, e l'ex assessore di Abbiategrasso capiscono
che questa  luce del futuro che ci arriva dal gallio, fulgida, fredda, copiosa, munifica e commercialmente entusiasmante, ebbene anche questa luce iperuranica proietta delle ombre luciferine su tutti noi.

E il gallio non è il solo elemento raro, costoso, difficile da estrarre, che non ricicliamo per niente. Allora, non ci sarà mai una crisi di offerta per questi elementi? Ne siamo proprio sicuri?

A meno che.................

Marco Sclarandis





Quest'analisi è basata su assunti neoclassici rigettati da almeno un secolo e tornati in voga con il pensiero unico neoliberale alla fine degli anni '60.

Lo dico senza vena polemica: il vero problema di chi si approccia all'ecologia - e che ha un minimo bagaglio culturale economico - è, nella mia esperienza, l'indissolubile storico legame tra la lotta per il monopolio delle risorse naturali e la gestione intelligente delle stesse.

Questo articolo mostra come l'ecologia sia generalmente strumentalizzata a fini monopolistici.

Le crisi economiche sono crisi di domanda non di offerta.

Dopo quel bel post sul (non) dibattito economico degli ultimi 40'anni torno ad essere diffidente rispetto a chi non afferra l'ordine causativo rispetto alle dinamiche sociali.

Per il lavoro sulla climatologia che viene fatto, invece, davvero un ottimo lavoro: semplice nei contenuti sintetici e ottimi contributi degli interventori. Complimenti