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giovedì 2 luglio 2020

Mascherine: Quando è necessario usarle?




Di Ugo Bardi e Sara Gandini


Nota: in questo post, è un onore per me avere come coautrice la dott.sa Sara Gandini, epidemiologa e biostatistica. Queste note sono basate in gran parte su un articolo apparso su “Pillole di Ottimismo” e che ha Sara Gandini come primo autore e dove potete trovare un'estesa bibliografia a supporto di quello che leggete qui. 


Come sempre nel dibattito, si tende a estremizzare tutto e le mascherine si prestano particolarmente all’estremizzazione e alla strumentalizzazione ideologica (sono di sinistra o di destra? e la cura al plasma?). Questo specialmente dopo la gran polemica fatta da Vittorio Sgarbi, alla fine portato via di peso dall’aula di Montecitorio (anche se non per via della sua opposizione alle mascherine). Allora, vediamo se possiamo fare un po’ di chiarezza.

Cominciamo con esaminare come si propaga il virus detto “SARS-Cov-2.” C’è scarsa evidenza che si propaghi per contatto ma sembra chiaro invece che viaggi nell’aria in forma di “aerosol,” ovvero portato da minuscole goccioline in sospensione. Queste goccioline sono emesse dalla normale respirazione, in particolare quando uno parla. Le goccioline più grandi, quelle visibili quando uno starnuta o tossisce, tendono a cadere rapidamente a terra e non sono molto dannose. Viceversa, un aerosol si spande dappertutto, specialmente in ambienti chiusi dove tende a ristagnare. E, in effetti, la maggior parte dei contagi sono stati riscontrati in ambienti chiusi: case di cura, residenze, ristoranti, bar, e simili. All’aperto, il virus sparisce rapidamente e la luce del sole da un ulteriore contributo a disattivarlo. Così, il modo migliore per evitare il contagio è stare all’aperto. Se uno deve stare in ambienti chiusi, è bene arearli il meglio possibile.

E le mascherine? I dati sono in accordo con quello che sappiamo di come il virus si trasmette. Finché uno sta all’aperto e non è vicino a persone infette, non c’è evidenza che la mascherina serva a qualcosa. Poi, la mascherina fa moltissimo per eliminare le goccioline relativamente grandi, molto meno per quelle molto piccole, le più pericolose. Questo dipende dal tipo di mascherina, che è comunque utile quando ci si prende cura di persone infette, in ambienti chiusi affollati, o comunque in vicinanza di persone che potrebbero essere contagiose.

Ma come possiamo sapere se ci sono persone infette intorno a noi? Certezze non ce ne sono mai perché che il rischio zero non esiste, e quindi non possiamo fare altro che usare il buon senso come prendere precauzioni quando siamo a contatto con le persone più a rischio, per esempio anziani con patologie croniche. Fortunatamente in Italia, ma anche in molti paesi europei, il numero di soggetti con tampone positivo è oramai molto basso e in continuo declino, molti di questi non sono realmente contagiosi. I ‘focolai’ sono tutti contenuti, ma soprattutto il rischio di ospedalizzazione a causa del Covid-19 oramai è minimo. Alcuni sostengono che il virus potrebbe tornare e, in quel caso, sarà bene avere le mascherine a portata di mano. Ma per ora non sta succedendo.

Per finire, è vero che le maschere fanno male a chi le indossa? Molto di quanto è stato detto a questo riguardo è falso o esagerato. Non risulta che le mascherine abbiano controindicazioni fisiologiche comuni. Però ci sono problemi, come la necessità di smaltire centinaia di milioni di mascherine usate, la maggior parte delle quali non sono state pensate per essere riciclate. E potrebbero portare problemi psicologici seri, specialmente nei bambini.

Quindi, indossate pure la mascherina se vi fa piacere o se vi fa sentire più sicuri, ma sappiate che:

  1. All’aperto, la mascherina non è necessaria, a meno che non si sia in condizioni di forte affollamento.
  2. In casa, la mascherina può servire solo se ci sono persone colpite dal virus.
  3. Non è necessario che i bambini indossino la mascherina. Sembra certo i suggerimenti INAIL per un uso continuativo delle mascherine a partire dal prossimo anno scolastico da parte di tutti i bambini sopra i 6 anni nelle ore di permanenza a scuola *non* sono fondati su considerazioni scientificamente solide.
  4. Nei luoghi di lavoro e luoghi pubblici, ci sono regolamenti che vanno rispettati. Ma la necessità di una mascherina è quantomeno discutibile eccetto in ambienti particolari, come gli ospedali e gli ambulatori.



Sara Gandini.  Dal 2018 direttrice (Group leader) dell’unità "Molecular and Pharmaco-Epidemiology" presso il dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO).  Docente dell’European School of Molecular Medicine di Milano (SEMM). Dal 2016 professoressa a contratto di statistica medica presso l'Università Statale di Milano.
http://www.semm.it/content/sara-gandini
https://www.researchgate.net/profile/Sara_Gandini


martedì 16 giugno 2020

Ma le mascherine servono veramente a qualcosa? Cosa ci dice la letteratura scientifica.




Serve a qualcosa la mascherina contro il coronavirus? Dipende dalle condizioni.: l'OMS dice che non c'è evidenza scientifica di un beneficio derivante dall'uso genaralizzato di mascherine da parte di "persone in buona salute nella comunità". Però possono essere utili in condizioni particolari, ma quando esattamente? Qui, vi racconto che cosa ho trovato in proposito sulla letteratura scientifica.


Come al solito, ogni problema discusso sui social diventa una questione di tifoseria calcistica, con due opinioni opposte e contrapposte. E' successo anche per le mascherine, dove ci si divide fra quelli che dicono "non servono a nulla" (tipo Vittorio Sgarbi) e quelli che invece sostengono, "se non le mettiamo, moriamo tutti" (non scherzo, me lo sono sentito dire in un commento!)

Allora, ho fatto una piccola ricerca sulla letteratura scientifica e, senza pretendere di sapere di medicina, mi sento di potervi raccontare i risultati che ho trovato.

Per cominciare, qual'è la strada principale per la trasmissione di questi virus? Su questo vi potete leggere un rapporto del CNR che fa il punto della faccenda. Per approfondire, vi potete leggere l'articolo di Shaman e altri che non è recentissimo (2010) ma mi è parso veramente illuminante a proposito della natura stagionale delle malattie respiratorie.

Da questi e altri articoli e documenti si può concludere che che il vettore principale dell'epidemia sono le "droplets" emesse da persone infette con la respirazione. Invece, i cosiddetti "fomiti", particelle che stanno su superfici solide e infettano per contatto, hanno un ruolo marginale. Ma, in effetti, sembra logico che malattie che colpiscono l'apparato respiratorio si trasmettono principalmente attraverso le vie respiratorie.

Dopo di che, si tratta di stabilire come e in che condizioni si diffondono queste "droplets" e qui la faccenda si fa interessante. Risulta chiaro che le goccioline prodotte da starnuti o cose del genere, quelle visibili a occhio nudo, cadono a terra rapidamente -- fosse solo quello il problema, basterebbe mantenere le di distanze anche senza mascherina. Il problema sono quelle sotto il micron (milionesimo di metro). Si usa il termine di "aerosol" per una sospensione di queste particelle. Ne trovate una descrizione interessantissima a questo link.

In ambienti chiusi, queste particelle rimangono in sospensione a lungo e si diffondono anche a distanza di parecchi metri, rendendo inutile il distanziamento sociale. Non solo, ma la loro persistenza dipende dall'umidità assoluta dell'ambiente in cui si trovano. In ambienti secchi (una condizione tipica di ambienti chiusi), le goccioline evaporano parzialmente, diventano ancora più piccole e la loro persistenza aumenta. Il contrario succede per ambienti umidi.

Questo spiega come mai l'influenza è una malattia tipicamente stagionale, come spiegano bene Shaman e gli altri. In estate, l'umidità assoluta è più alta e quindi gli aerosol di nano particelle si diffondono meno bene. Aiuta che la gente tiene di più le finestre aperte, cosa che fa sparire rapidamente gli aerosol per ventilazione, come fanno vedere i ricercatori Giapponesi. Aiutano anche i raggi ultravioletti del sole, ma ovviamente solo all'aperto.

A questo punto, la domanda è se le mascherine bloccano l'emissione degli aerosol. La risposta è "in parte, si". Il problema qui è che ci sono talmente tanti tipi di mascherine che è difficile dire quali sono efficaci e quali no, e in che misura. Non ho trovato dati generali su questo punto, ma  qui trovate i risultati di un esperimento fatto usando un "damp cloth" (panno umido) che si rivela efficace. Però non è affatto detto che le mascherine ordinarie, quelle la gente porta in giro per la città, lo siano altrettanto. Diciamo che è ragionevole dire che le mascherine abbiano una certa efficacia, perlomeno in certe condizioni.

Ora possiamo riassumere la vicenda
  1. Il virus si trasmette principalmente come aerosol in ambienti chiusi e poco ventilati, in inverno. In queste condizioni, il distanziamento serve a poco.
  2. In questi ambienti, le mascherine possono avere una certa efficacia, ma sarebbe meglio evitare questo tipo di ambienti che sono comunque malsani. Come minimo, bisogna ventilare bene gli ambienti e cercare di tenerli umidi. Meglio ancora stare all'aperto il più possibile, esponendosi al sole.
  3. La mascherina non serve a niente all'aperto, in particolare in estate. Per non dire di quando andate in motorino!
  4. In condizioni dove non c'è affollamento e non c'è evidenza della presenza di persone infette, le mascherine non sono necessarie, in accordo con quello che dice OMS.  
Ci sono svariate altre deduzioni che si possono fare da questi dati. In particolare, io ne dedurrei che l'ambiente dove è più facile infettarsi è in casa propria, dove ci si trova spesso in ambienti poco ventilati e troppo secchi, specialmente in inverno. Dal che, si potrebbe dedurre che chiudere la gente in casa con lockdown potrebbe aver fatto più danni che altro, ma su questo per il momento non abbiamo dati a sufficienza per stabilire come stanno le cose. 


E questo è quello che ho trovato. Se ne sapete più di me o avete dati diversi, fatevi sentire sui commenti. Nella scienza, niente è mai scolpito nella roccia, si può e si deve cambiare idea sulla base di nuovi dati






giovedì 26 marzo 2020

La Vendetta del Pangolino: La Morte Arriva dal Mercato degli Animali Esotici


Un post di Jacopo Simonetta

Anni fa, durante una garrula riunione di catastrofisti, ci si chiese cosa, secondo il parere di ognuno, avrebbe potuto distruggere la civiltà industriale. Fra le tante ipotesi, le più gettonate furono una bolla speculativa, il blocco di internet e il picco di tutti i petroli. Il prof. Bardi, con l’aria sorniona di quando ha un’intuizione, disse: “Qualunque cosa blocchi il commercio internazionale per sei mesi”. Premio Cassandra! Anche se credo che neanche lui avrebbe mai immaginato che il collasso della più potente civiltà della storia sarebbe stato scatenato da un pangolino finito illegalmente in un mercato cinese.

A dire il vero, che il covid-19 si sia originato nei pangolini è solo una delle varie ipotesi al vaglio, come è anche un’ipotesi che questa sia la fine della civiltà industriale. Siamo però certi che il virus nasce da una zoonosi e che il contraccolpo economico sarà violentissimo (le borse hanno già perso molto più che nel 2008), tanto più che in contemporanea ci sono varie altre calamità in corso: dalla siccità in quasi tutto il mondo, all'invasione delle cavallette, passando per vari conflitti locali e dalla guerra sui prezzi del petrolio.

Certo, una “tempesta perfetta” come usa dire, ma niente che non si sapesse che doveva accadere, come è quindi possibile un tale disastro?

In fondo, finora, il covid-19 ha contagiato circa 528.000 persone di cui 123.000 sono finite all’ospedale e quasi 24.000 al cimitero (dati Worldometrs 26/03/2020). Anche se i dati sono incompleti e l’epidemia non è vicina a concludersi, siamo ben lontani dai 50-100 milioni di morti provocati dalla Spagnola ed anche dei 2 milioni provocati dalla “asiatica” (su popolazioni ben minori dell’attuale: rispettivamente 1,5 e 3 miliardi circa). Eppure, nessuna di queste due pandemie mise in pericolo l’economia del mondo.

I fenomeni complessi dipendono sempre da insiemi articolati di concause, ma credo che le principali qui siano due, la prima di natura sistemica e la seconda culturale.


Primo motivo: la vulnerabilità del capitalismo globalizzato.

La peculiarità del capitalismo è di essere strutturato su una ridondanza di retroazioni positive. In altre parole, è fatto in modo da dover crescere per forza, altrimenti si disintegra. Non può rallentare, deve per forza accelerare. Era già così ai tempi della Spagnola, ma allora il Pianeta offriva ancora ampi margini di crescita per l’economia e per la popolazione umana; superata la crisi acuta, una vivace ripresa era possibile ed infatti avvenne. Oggi quei margini non ci sono più, anzi ci troviamo in “overshoot” per almeno il 50%, probabilmente di più. Questo significa che passata la crisi acuta, ne comincerà una cronica.

I mezzi usati per poter continuare a crescere oltre la capacità di carico del Pianeta sono stati sostanzialmente tre: tecnologia, debito e globalizzazione. Nessuno di questi è stata un’invenzione del capitalismo e neppure della civiltà industriale, ma negli ultimi decenni li abbiamo tutti sviluppati fino alle loro estreme conseguenze. Il risultato è stato integrare tutte le economie del globo in un’unica colossale macchina inarrestabile, ma ad una condizione: che i flussi di merci, energia, denaro e persone crescano in maniera regolare e costante.

Un significativo rallentamento di questi flussi mina infatti alla base l’intero sistema e, quanto più a lungo dura, tanto più aumenta la probabilità di un deragliamento irreparabile. Questo lo sanno bene coloro che gironzolano nelle stanze dei bottoni ed anche per questo in tutti i paesi, a partire dalla Cina, si è ripetuto lo stesso “film”: dapprima negare, poi minimizzare, poi cominciare a fermare gradualmente le attività, fino a giungere ad un blocco totale che oramai ha messo in quarantena miliardi di persone.

E qui sorgono un paio di domande: Per esempio, perché alcune centinaia di morti per virus sono sufficienti a far scattare misure che non si vogliono prendere neanche di fronte a decine di migliaia di morti per inquinamento od altre cause? Oppure, visto che il blocco totale è ad oggi l’unico modo per fermare l’infezione (almeno temporaneamente), perché non farlo subito?

Ci sono certamente dei motivi pratici, come l’impreparazione ed il fatto che i provvedimenti contro l’inquinamento sarebbero permanenti, mentre quelli contro il coronavirus si presumono temporanei. Tuttavia, secondo me, ci sono anche motivi più profondi che vanno cercati non già mediante la scienza moderna, bensì usando la mitologia antica.

Secondo motivo: la vulnerabilità del nostro modello mentale.
La caratteristica principale che ci rende unici nel mondo e forse nell'universo è il fatto che non ci rapportiamo quasi mai direttamente alla realtà, bensì a dei modelli mentali che la descrivono, ci spiegano come funziona e cosa bisogna quindi fare.

Se in altre culture la creazione ed il dominio di tutto ciò che era vitale era attribuito a divinità che si potevano implorare in caso di bisogno, nella nostra civiltà gli artefici di tutto ciò che consideriamo importante siamo noi stessi e il dominio universale è il destino ineluttabile dell’umanità. Di conseguenza, quale che sia il nostro credo apparente, a livello subliminale il nostro dio è l’Uomo; inteso come rappresentazione astratta dell’umanità. Non per nulla consideriamo che la vita umana sia “sacra” e seconda in importanza solo al compimento della nostra ascensione dalla caverne alle stelle.

Neppure questo atteggiamento mentale è un’invenzione moderna, tanto è vero che esistono termini antichi per indicarlo: Hybris, fra gli altri. Ma anche in questo caso la disponibilità di quantità illimitate di energia di ottima qualità quasi gratis ci ha permesso di svilupparlo fino alle sue estreme conseguenze: esattamente quelle che stiamo vivendo e che vivremo.

Una di queste conseguenze è che qualunque cosa può essere sacrificata per salvare una vita umana, ma migliaia o milioni di persone possono essere tranquillamente immolate in nome e per conto del progresso.  Caso limite: i transumanisti accettano di buon grado perfino l'estinzione della nostra specie, a condizione che prima di scomparire per sempre si dia origine ad una stirpe di macchine pensanti.

Sembra un paradosso, ma non lo è se si riflette sul fatto che il progresso (in tutte le sue varianti) è esattamente ciò che da senso la vita umana e, a differenza degli altri animali, noi abbiamo un bisogno assoluto di attribuire un significato a noi stessi ed a ciò che facciamo. Chi perde il significato di sé stesso e della propria vita precipita inevitabilmente in patologie anche gravi come la depressione, la droga, ecc. Perciò si può molto filosofeggiare su cosa si debba intendere per progresso, ma negarlo tout court è blasfemo, finanche un’abiura allo stato umano.

A mio avviso, assieme a considerazioni pratiche ed economiche, questo fatto puramente spirituale contribuisce a spiegare molti degli apparenti paradossi della vicenda in corso. Per esempio, che la morte di milioni di persone per cause connesse con l’inquinamento sia considerato un fatto certo deprecabile, ma inevitabile. Un fatto che si può e si deve cercare di mitigare, ma a condizione che questo comporti lo sviluppo di un’ulteriore tecnologia, non certo tramite la rinuncia ad una qualche importante conquista come, ad esempio, l’auto privata. Più in piccolo, la sacralità attribuita a noi stessi di fronte a qualunque cosa, esclusi i prodotti del nostro stesso ingegno, spiega perché la morte di una persona schiacciata da un albero che cade desta scandalo e dure conseguenze, mentre la contemporanea morte di migliaia di persone schiacciate dalle nostre automobili suscita qualche sospiro. Perfino fra i pochissimi che propugnano una retrocessione tecnologica, la maggior parte la compensa immaginando grandi sviluppi artistici, spirituali o d’altro genere. Insomma, si può fare di tutto, ma non “tornare indietro”, pena cessare di essere veramente umani.

Vista questa premessa, ammettere che un virus uscito da una foresta o da una savana tropicale possa uccidere impunemente decine, forse centinaia di migliaia di persone senza che l’intero apparato scientifico ed industriale del mondo riesca a fermarlo è psicologicamente traumatizzante, ben al di là dell’effettiva pericolosità del patogeno. L’intrusione di un agente demoniaco all'interno del nostro spazio sacro per eccellenza, la città, significa ammettere che esistono forze che ci trascendono e contro cui siamo impotenti: una constatazione che ci lascia dapprima increduli, poi terrorizzati, infine furiosi.

Molti leader politici, a proposito di questa pandemia, hanno apertamente parlato di “guerra”, dicendo inconsapevolmente qualcosa di molto profondo: quella in cui siamo impegnati è infatti una vera battaglia mitologica perché non si combatte fra eserciti, bensì fra archetipi.

Ma non è questa la fine della storia, semmai il contrario. Oramai credo che sia inutile ripetere che la traiettoria su cui si trova l’umanità è intrinsecamente suicida e che l’unica cosa che la può cambiare è un drastico e rapidissimo ridimensionamento dei consumi. Lo sanno soprattutto quelli che non lo vogliono fare, ben coscienti del pesante pedaggio di povertà e di morte che sarebbe ormai necessario per cambiare strada. Ma qualunque pedaggio sarà meno pesante del mantenere la rotta attuale poiché cambiare, almeno, consente la speranza che altre civiltà possano un giorno tornare a fiorire. La promessa del "Business as Usual" è invece un deserto in cui la specie dominante sono i ratti (peraltro animaletti simpatici e molto intelligenti).

Dunque, forse, il Covid-19, con tutte le sue funeste conseguenze, è la migliore speranza che attualmente ci rimane. Certo, avremmo preferito percorrere un’altra strada, tipo una fra quelle di cui si parla da 50 anni senza farne di nulla; ma abbiamo scelto questa e come diceva Epicuro: “In Natura non esistono premi e castighi, esistono le conseguenze”.

E se poi, come pare, davvero la fine della civiltà globale fosse dovuta ad uno stravagante e raro abitante di una delle poche foreste ancora in piedi, sarebbe davvero tragicamente comico, come talvolta la storia, effettivamente è.

Vorrei quindi chiudere con una citazione non già di un illustre filosofo, ma di un cantante contemporaneo:

“Non voglio essere blasfemo, ma credo che Dio abbia un contorto senso dell’umorismo”. (Martin Gore)


venerdì 13 marzo 2020

Il ritorno del Fato. Cosa fare quando nessuna scelta è soddisfacente?


di Jacopo Simonetta



L'idea alla base di questo articolo è dell'amico Nicolò Bellanca.

Si chiana “triage”. E’ ciò che viene fatto nei reparti di emergenza quando l’afflusso dei malati o dei feriti supera le capacità ricettive della struttura. I medici decidono allora chi soccorrere prima e chi dopo, se sarà ancora vivo. Ho sempre pensato che sia la cosa più brutta che possa capitare di fare ad un dottore, ma accade e i medici, come gli altri professionisti dell’emergenza (pompieri, militari, poliziotti, ecc.), sono almeno in parte preparati ad affrontare queste situazioni.

Noi gente normale no, ma non per questo possiamo esimerci dal fare delle scelte quando anche non-scegliere avrà comunque delle conseguenze.

Sta infatti svanendo la straordinaria bolla di pace e benessere che ha avvolto l’occidente per 70 anni, rendendoci completamente impreparati ad affrontare il concetto stesso di “tragedia”.

Non mi riferisco qui alle crisi di isterismo collettivo che ci travolgono ad ogni minima difficoltà, bensì all'incapacità di sostenere il peso della responsabilità di scelte che, qualunque cosa si decida di fare o di non fare, provocheranno gravi danni e sofferenze. Al di fuori della nostra fatiscente bolla, questo tipo di situazioni è invece frequente ed è stato magistralmente illustrato in molti capolavori della filosofia e della letteratura antica.

E’ la dinamica del Fato: gli uomini non sono semplicemente trascinati da un “destino beffardo”; al contrario sono chiamati a fare delle scelte le cui conseguenze saranno però ineluttabili, tanto che neppure Zeus le potrà modificare. Talvolta, fra la gamma di scelte possibili ve ne è almeno una che potrebbe porre fine alle sofferenze ad alla distruzione. Per esempio Paride potrebbe porre fine alla guerra concedendo ad Elena di tornare a Sparta; oppure Ettore potrebbe vincere, concedendo agli Achei una dignitosa resa ed il rientro in patria.

In entrambi i casi gli eroi fanno la scelta sbagliata e le conseguenze travolgono loro ed il loro popolo, ma non era inevitabile.

Vi sono invece casi in cui tutte le opzioni possibili avranno conseguenze disastrose e, ciò nondimeno, l’eroe deve decidere. Il dilemma di Oreste è paradigmatico: è suo sacro dovere vendicare il padre, ma ciò comporta commettere il sacrilegio di uccidere la madre e lui sa bene che qualunque cosa deciderà di fare le conseguenze saranno nefaste. Analogo dilemma dilania Antigone che deve scegliere se seppellire il fratello, contravvenendo ad un preciso ordine del suo re, oppure lasciarlo insepolto, contravvenendo ad un suo preciso dovere.

Questo tipo di dilemmi è il vero cuore della Tragedia che, non per caso, era strettamente correlata al culto di Dioniso: forse la più antica e certamente la più enigmatica delle divinità greche.

Abbiamo finto e continuiamo a fingere di essere immuni da questo genere di situazioni, ma la realtà sta bussando alla nostra porta sempre più forte e vistose crepe si sono già aperte nelle barriere fisiche e psichiche che abbiamo eretto contro di essa.

Facciamo un esempio facile del genere di scelte tragiche che comunque dobbiamo fare. Tassare i viaggi arerei in modo da ridurne drasticamente il numero avrebbe sicuramente impatti positivi sul clima, ma da subito si metterebbero in mezzo alla strada decine di migliaia di persone, la maggior parte delle quali difficilmente troverebbero un altro lavoro.

Dunque che fare? E’ solo un piccolo dettaglio del tema fondamentale che l’umanità si troverà ad affrontare da ora in poi: la decrescita reale, che si preannuncia assai più problematica di quella teorica.

Si può infatti discutere molto sui dettagli, ma nessuno in buona fede può negare che l’umanità, nel suo complesso, abbia largamente superato i limiti di sostenibilità del Pianeta. Per ricordare solo qualche cifra, oggi la tecnosfera (alias antroposfera, cioè l’umanità con tutte le sue infrastrutture ed i suoi simbionti) ammonta a circa 40.000 miliardi di tonnellate, pari a circa 4.500 tonnellate a cranio.

Noi ed il nostro bestiame domestico siamo il 98% circa della fauna terrestre, il 40% circa della superficie terrestre è totalmente artificializzata (urbano, suburbano, agricolo, ecc.), il 37% è composto da habitat naturali pesantemente modificati ad uso antropico (pascoli e la quasi totalità delle foreste), solo il 23% è ancora classificabile come “selvaggia” (alcune remote foreste, ma quasi esclusivamente deserti, vette montane e zone artiche). (dati IPBES Global Assessment on Biodiversity and Ecosystem Services 1919, Laboratory for Anthropogenic Landscape Ecology, 2020).

In mare va ancora peggio: si stima che solo il 13% degli oceani sia ancora sostanzialmente integro (dati IPBES Global Assessment on Biodiversity and Ecosystem Services 1919).

Ma tutte queste sono valutazioni molto ottimistiche in quanto fattori come il Gobal Warming e la connessa acidificazione dei mari, la diffusione globale di agenti inquinanti di ogni genere, il moltiplicarsi delle barriere agli spostamenti delle popolazioni selvatiche e la contemporanea diffusione di specie aliene, la pesca industriale e la caccia di specie rare, la moria globale degli insetti e degli anfibi, l’alterazione mondiale di praticamente tutti i cicli bio-geo-chimici ci dicono che la Terra è un pianeta su cui oramai vive praticamente una sola specie (Homo sapiens industriale, alias H. colossus sensu Catton), con i suoi simbionti, commensali e parassiti.

Tutto il resto sopravvive in condizioni di estrema precarietà negli interstizi della tecnosfera, ma sono solo ed esclusivamente questi superstiti che ancora assicurano che sulla Terra ci siano condizioni favorevoli alla vita biologica.

Questo significa non solo che una robusta decrescita è l’unica cosa sensata da fare, ma anche che è un fatto ineluttabile. Non possiamo in alcun modo evitarlo e rimandarlo serve solo a pagare un conto molto più salato, un poco più tardi.

La stragrande maggioranza delle persone rifiuta però questa prospettiva, preferendo immaginare modi anche molto ingegnosi per salvare capra e cavoli. Hanno delle ottime ragioni per farlo perché accettare l' "overshoot" comporterebbe di accettare il prezzo del “debito ecologico” che abbiamo contratto. Ovviamente lo pagheremo comunque, ma non posso dare torto a chi preferisce guardare da un’altra parte. Ho infatti l’impressione che, anche fra i “decrescisti”, siano pochi coloro che hanno riflettuto a fondo su quanto sarà necessario decrescere per stabilizzare il clima e fermare l’estinzione di massa.

Ovviamente una stima precisa non è fattibile, ma per farsi un’idea di larga massima facciamo un calcolo semplice semplice, usando i consumi di energia come indicatore degli impatti complessivi. E’ un’approssimazione, ma abbastanza vicina al vero.

A livello globale si stima che l’umanità abbia superato la capacità di carico del pianeta nei primi anni ’70 del ‘900, quando i consumi globali di energia erano nell'ordine dei 70.000 TWh, mentre oggi sono di circa 165.000. Immaginiamo di tornare ai 70.000 di 50 anni or solo, quale sarebbe il consumo pro-capite? Dal 1970 al 2020 la popolazione umana è poco più che raddoppiata, il che vuol dire che per riportare i consumi globali vicino ai 70.000 TWh, la disponibilità pro-capite media dovrebbe scendere a meno di un quarto di quello che è adesso. Significa livelli di consumo analoghi a quelli che attualmente si registrano in Moldavia, Albania, Egitto o Nigeria, per fare degli esempi. Parlando dell’Italia, significherebbe tornare a consumi pro-capite di livello ottocentesco, senza considerare che, probabilmente, società così povere non sarebbero in grado di produrre le tecnologie che consentono di vivere a 8 miliardi di persone, a cominciare dalle sofisticate apparecchiature necessarie per convertire in elettricità la luce del sole ed il vento.

Con ciò non voglio dire che fra X anni andremo avanti con candele e cavalli, voglio solo chiarire che non si tratta di rinunciare al superfluo, bensì di rinunciare a quasi tutto ciò che riteniamo indispensabile o un diritto acquisito, a cominciare da un’aspettativa di vita ultraottantenne.

Questo apre una vasta gamma di questioni con cui, volenti o nolenti, ci dovremo confrontare perché quando la coperta diventa troppo corta, si deve per forza scegliere se scaldare i piedi oppure le spalle. Che, tradotto in termini reali, significa decidere chi dovrà essere sacrificato affinché gli altri abbiamo maggiori probabilità di cavarsela.

Un esempio pratico del tipo di scelte che sempre più spesso saremo chiamati a fare ci viene proprio in questi giorni dalla diffusione dell’epidemia di Covid-19. Abbiamo visto che è particolarmente infido perché si diffonde facilmente e che comporta una mortalità ridotta, a condizione però che siano disponibili cure costose e lunghe.

Abbiamo molte scelte possibili. - Possiamo cercare di fermare il contagio in tutti i modi, ma questo avrebbe delle ricadute economiche devastanti che potrebbero anche proiettare l’economia mondiale in una crisi ben peggiore di quella del 2008. - Posiamo mantenere operativi i principali flussi economici, ma questo comporterebbe un aumento molto maggiore dei contagi e, quindi, costi sanitari che potrebbero mandare in bancarotta interi stati. Senza contare che la saturazione degli ospedali comporterebbe anche un marcato aumento della mortalità. - Possiamo anche far finta di nulla e seppellire i morti alla chetichella, ma non possiamo prevedere quanti sarebbero, né le conseguenze del panico che travolgerebbe il mondo ben più di adesso. - Possiamo cercare dei compromessi fra le diverse opzioni, ma non possiamo comunque evitare che ci siano conseguenze molto gravi, in gran parte imprevedibili.

Un altro esempio anche più brutale è il dramma che si sta consumando in questi giorni al confine fra Grecia e Turchia. Indipendentemente dalla complicata storia che ha condotto decine di migliaia di persone a cercare di forzare i reticolati, ci troviamo di fronte un una classica scelta tragica. - Possiamo accogliere i profughi, ma questo avrebbe conseguenze sociali e politiche devastanti in Europa (non c’è bisogno di fare delle ipotesi in proposito perché abbiamo già fatto l’esperimento nel 2015). 
 
  • Possiamo respingerli, ma questa è gente che non può tornare in Siria dove i governativi li ammazzerebbero, né può restare in Turchia perché i turchi li scacciano. 
  • Possiamo confinarli in dei “campi di accoglienza” che sarebbero dei campi di prigionia a tempo indeterminato. 
  • Possiamo accontentare Erdogan affinché se li ripigli ed appoggiarlo nella sua guerra contro la Siria. 
  • Possiamo pensare anche ad altre soluzioni, ma qualunque cosa sia realisticamente fattibile comporterebbe delle conseguenze tragiche per qualcuno.

Ci sono molti altri campi in cui si presentano dilemmi analoghi: come si affronta la situazione? Perché, alla fine, ognuno di noi dovrà trovare un compromesso fra il proprio modello mentale del mondo e la realtà fisica che sta tornando prepotentemente nelle nostre vite, finora tranquille.

Direi che abbiamo sostanzialmente due scelte:

La prima è negare uno o più parti del puzzle, così da semplificarlo e ripristinare la tranquillizzante dinamica dei buoni contro i cattivi. A questo punto si tratta di scegliere il proprio campo e quindi pensare che non funzioni per colpa degli altri, qualunque cosa accada.

La seconda è prendere atto che in molte questioni chiave del presente e del prossimo futuro abbiamo diverse opzioni possibili, ma nessuna che non comporti grossi danni e sofferenze di cui saremo co-responsabili, anche se si sceglierà di non scegliere perché, comunque, ci saranno delle conseguenze dolorose. Proprio come fu per Oreste e Antigone.