sabato 28 giugno 2014

Renzi: un governo contro l'energia pulita






da "Il Fatto Quotidiano"

Rinnovabili e blackout: Italia vs. Germania

Mentre vengono resi noti i risultati degli stress test condotti su 145 reattori nucleari europei che hanno evidenziato estese criticità, la Commissione Europea rimane in stand-by. Non intima la chiusura delle 13 centrali più obsolete e a rischio perché sono fortissime le pressioni del vecchio sistema energetico a mantenere la megastruttura che unifica fossili e nucleare. Così si contrasta la stessa Roadmap 2050 dell’Ue, che prevede una larga prevalenza delle fonti rinnovabili per la metà del secolo.

Il nostro Governo, pur obbligato dal referendum a stoppare il nucleare, rientra nel gruppo degli avversari delle rinnovabili. Continua in questo la politica di Berlusconi – d’altra parte gli interessi dei banchieri al governo sono contigui a quelli delle lobby dei mega-impianti che ispiravano il Cavaliere – e quindi rilancia gas, petrolio e carbone. Tutto questo con lo spauracchio dei blackout energetici, in agguato, a quanto vorrebbero farci credere, se dovesse affermarsi un sistema decentrato, governato sul territorio e alimentato dalle fonti naturali.

Niente di più falso e indimostrabile. A riprova della faziosità di Passera & Co quando ipotizzano un’Italia solcata da tubi e elettrodotti, costellata di rigassificatori e magari depositi di CO2, viene la conferma che in Germania, l’inverno scorso, le luci sono state tenute accese dall’energia solare. Il Governo tedesco, che si prepara a chiudere i suoi 22 reattori nucleari, ha ridotto anche gli scambi nucleari con la Francia rischiando il blackout ma, come ha detto il responsabile per l’energia del Bunderstag: “Siamo stati salvati dal sole”. È pur vero che lo scorso febbraio il territorio dalla Baviera alla Mosella ha avuto un’eccezionale insolazione ma i 28 GW di potenza fotovoltaica, concentrati nella regione, erano collegati alla rete ed hanno fornito il 3% circa della potenza totale. Il solare è un generatore di elettricità intermittente, dipendente dagli impianti di stoccaggio e di back-up che ovviano, se ben progettati, alla capacità di potenza quando il sole non splende.

È risultato determinante per la Germania l’avere investito nelle reti e nei sistemi di immagazzinamento. Lo sforzo tedesco consiste nel ritenere le rinnovabili sostitutive dei fossili e quindi meritevoli della massima attenzione lungo tutta la filiera. Si è così creata una capacità di energia in eccesso, che ha consentito di aumentare le esportazioni di elettricità verso la Francia ipernucleare da 4 a 5 GW.

“I dati non mentono – ha affermato Brandon Mitchener, portavoce di First Solar, azienda leader nel fotovoltaico – e dimostrano che solare ed eolico sono in grado di fornire reale potenza proprio quando è più necessario, quando la domanda è al suo apice”. I governi europei dovrebbero puntare ad ampie e ben coordinate connessioni alla rete inter e intra-europea, che non esistono ancora. È proprio la “Roadmap 2050” a richiedere l’integrazione delle fonti energetiche rinnovabili nella rete e piani di sviluppo delle infrastrutture, ivi compreso il consolidamento delle interconnessioni con i paesi vicini. Invece di mettere controlli alle frontiere per l’energia elettrica (è bene sapere che il gas che passa da Dobbiaco subisce un aumento del 7% quando entra nelle condotte Snam!), occorrerebbe in Europa assicurare una migliore integrazione delle energie rinnovabili.

Come si comporta l’Italia, dove il silenzio copre tutte le decisioni strategiche che i cittadini dovrebbero conoscere? Il piano energetico di Passera, in discussione in questi giorni, va in direzione opposta alla linea proposta dalla Ue. Prevede l’autarchia da petrolio e gas e la marginalità delle rinnovabili. Niente visione di lungo periodo, né partecipazione all’integrazione europea strutturale. Che altro aspettarsi da banchieri e tecnici che usano la crisi per rimettere in corsa vecchi poteri, anziché aprire il varco a speranze, intelligenze, competenze e tecnologie che si misurino positivamente con la crisi climatica e ne facciano occasione per buona occupazione, risanamento ambientale, tutela della salute?

venerdì 27 giugno 2014

Perché non finiremo mai il petrolio






DaResource Insights” Traduzione di MR

di Kurt Cobb

L'economista di Harvard Morris Adelman, famoso per aver detto che non finiremo mai il petrolio, è morto il mese scorso. Ciò che è seguito all'annuncio della sua morte è stato un prevedibile insieme di encomi come questo da parte dei difensori dell'industria petrolifera che esaltano l'infinita saggezza di Adelman. Alcuni (compreso mio padre, apparentemente) sono stati così coinvolti nello strano stato d'animo celebrativo – quello che riemerge ogni volta che la gente contempla quante cose ci sono nell'Universo – che il motto piuttosto limitato e quasi insignificante di Adelman è stato presentato come la base di una politica energetica completa. (E non importa che quella politica energetica non menziona assolutamente il cambiamento climatico). Tutto ciò ha senso solo se si evita di pensarci. Ma una semplice illustrazione mostrerà proprio quanto sia insignificante la nozione che non finiremo mai il petrolio. Immaginate per un momento che a partire da domani una metà del petrolio che la società umana normalmente consuma ogni giorno non sia più disponibile e che questo vada avanti per diversi mesi.

Questo certamente non significherebbe che lo abbiamo finito. Avremmo semplicemente molto meno petrolio di quanto ne serva al nostro attuale sistema globale per funzionare così come è progettato. Il risultato sarebbe sicuramente una depressione economica globale. E' così che siamo dipendenti dall'attuale TASSO di produzione di petrolio. E' questa l'importanza che ha l'input continuo di energia di alta qualità da petrolio per il nostro benessere collettivo. Questo spiega la preoccupazione di coloro che credono che un declino del tasso mondiale di produzione di petrolio potrebbe arrivare entro il prossimo decennio. Nessuno in questo gruppo ha mai detto che finiremo il petrolio. Si tratta di una fandonia usata per confondere la gente sul problema reale, che è il TASSO di produzione. Ma questo non si riflette nell'osservazione spesso troncata di Adelman. Inoltre, ciò che ha detto in realtà è stato che il petrolio non finirà finché la tecnologia sarebbe progredita e i prezzi fossero sufficientemente alti da giustificarne l'estrazione. All'interno dei confini molto stretti della sua dichiarazione piuttosto annacquata e quasi tautologica, Adelma ha ragione. La parola chiave in questa dichiarazione, tuttavia, è “sufficientemente”.

E se la tecnologia progredisce, ma non sufficientemente, e se il prezzo del petrolio è alto, ma non abbastanza alto da giustificare di estrarlo dal sottosuolo al TASSO richiesto per il funzionamento dolce della società globale? Cosa succederebbe? L'ironia è che mentre coloro che si sono alleati con l'industria petrolifera stanno lodando il caro estinto, l'industria petrolifera stessa si sta tirando indietro dagli investimenti in esplorazione e sviluppo petrolifero anche a fronte dei prezzi medi record del greggio mondiale. La ragione: un aumento di cinque volte delle spese del cosiddetto capitale a monte per l'esplorazione e lo sviluppo da parte della grandi compagnie petrolifere dal 2000 che è risultato solo in un piccolo aumento della produzione di petrolio per quelle stesse compagnie. Anche con prezzi del petrolio al di sopra dei 100 dollari, il costo e il miserrimo ritorno sull'esplorazione e lo sviluppo sta spingendo le grandi compagnie a tagliare le loro precedenti spese sontuose.

Tutto ciò può significare solo una cosa: meno petrolio consegnato in futuro. E tutto ciò va nella direzione opposta all'osservazione di Adelman. I progressi tecnologici continuano ad essere sviluppati dall'industria, compreso la cosiddetta fratturazione idraulica con grandi volumi di  “acqua liscia” (slickwater hydraulic fracturing), in combinazione con la trivellazione orizzontale usata per estrarre petrolio dai depositi di scisto profondi che erano precedentemente inaccessibili. E mentre con queste tecniche hanno aumentato significativamente la produzione negli Stati uniti, la crescita nella produzione complessiva mondiale nei 7 anni dal 2005 al 2012 è in realtà rallentata drammaticamente a circa un quarto del tasso dei sette anni precedenti. E questo in un'era di nuove tecnologie, di prezzi medi quotidiani da record e, finora, di spese record in esplorazione e sviluppo da parte delle compagnie petrolifere.

Sì, le condizioni di Adelma – prezzi alti e progresso tecnologico – ci hanno evitato di finire il petrolio. Ma ma non è questo il punto. Queste condizioni avrebbero dovuto produrre un eccesso e prezzi bassi. Non sono riusciti a farlo per una ragione semplice. Nella corsa fra la geologia sempre più impegnativa e la localizzazione delle rimanenti risorse petrolifere del mondo e la tecnologia sempre in progresso dell'industria petrolifera, la geologia e la localizzazione stanno vincendo. E in realtà sembra che stiano vincendo da parecchio mentre le scoperte fanno fatica a compensare i consumi. Ciò significa che stiamo vivendo un tempo in prestito, usando riserve facili da ottenere scoperte molto tempo fa – e nella speranza, ma contro ogni speranza, che in qualche modo nuove tecnologie prenderanno il sopravvento prima che arrivi il vero declino della produzione. Ciò rende la politica energetica molto debole. Agli economisti di Harvard piacerebbe pensare che il mondo obbedisca a pochi principi semplici che si applicano sempre ed ovunque. Ma in realtà il mondo è di gran lunga più complesso di quanto qualsiasi economista possa immaginare. Visto che noi come esseri umani siamo a conoscenza di una percentuale molto piccola di quella complessità, l'umiltà e la prudenza dovrebbero essere le nostre parole d'ordine quando affrontiamo problemi epocali come la politica energetica.

Le grandi previsioni nell'anno 2000, da parte della EIA statunitense, della IEA e del National Intelligence Council (che serve le agenzie di intelligence degli Stati Uniti) hanno proclamato con fiducia che la produzione di petrolio poteva salire nel prossimo decennio per compensare l'aumento della domanda e che i prezzi sarebbero rimasti bassi. Incantati dalla logica semplice ma errata di Adelman e di altri, hanno malamente sbagliato i numeri della produzione – erano tutti troppo ottimistici – e ancora di più sui prezzi, prevedendo un prezzo medio di circa 28 dollari al barile nel 2010 quando i prezzi giornalieri sono stati in media di 80 dollari. Gli psicologi hanno imparato da studi che persino quando la gente sa che chi fa le previsioni con troppo confidenza ha in gran parte sbagliato sbagliato in passato, sceglieranno di creder loro a causa della loro presentazione sicura. E la gente, in generale, non crederà ai presentatori sperimentali anche se quella gente sa che i presentatori sperimentali sono stati più precisi in passato. Adelman ed i suoi accoliti hanno dato idee semplici ma fuorvianti con sicurezza – e idee che sono in linea con ciò che molta gente vuole credere. Non vedremo mai tali ideologi ritrattare le proprie idee quando i fatti dimostrano che sono sbagliate. Ignoreranno semplicemente i fatti. E sperano che anche voi lo facciate.

giovedì 26 giugno 2014

Dimostrazione rigorosa che la specie umana non ha speranza di sopravvivere



Leggete questo link, che comincia dicendo: "In molte piccole città americane, uomini maschilisti  stanno modificando i loro camioncini truccati in modo da emettere intenzionalmente gigantesche nuvole di fumo tossico ogni volta che accellerano il loro motore. Lo chiamanorollin’ coal,” 



(h/t Nate Hagens) 

Turiel: aggiornamenti sulla situazione petrolifera

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR
























Di Antonio Turiel

Cari lettori,

nelle ultime due settimane sono venute fuori diverse notizie di grande impatto nel mondo dell'energia, tutte meriterebbero di avere una posizione di rilievo sulla prima pagina dei quotidiani e alcuni minuti nei notiziari televisivi, cosa che naturalmente o non è successa o o è stata mascherata da qualcos'altro. Tutte queste notizie comportano una crescente angoscia e preoccupazione per il futuro, non tanto dell'energia quanto dell'economia mondiale, e anticipano che il declino energetico può entrare in una nuova fase più rapida, in una caduta più precipitosa. Facciamo una revisione di questi fatti:

La Panoramica sull'Investimento Energetico Mondiale della IEA: Come 11 anni fa, l'Agenzia ha pubblicato un rapporto sulle necessità di finanziamento e sulle opportunità per gli investitori nel settore dell'energia globale. Il rapporto ha causato grande agitazione nella comunità delle persone consapevoli della crisi energetica per due motivi: perché indica che servirebbero 48 trilioni di dollari di investimento in energia da qui al 2035 e perché dice che il sistema europeo dei prezzi per l'elettricità garantiscono il fatto che la rete elettrica europea non è sostenibile. Rispetto alla prima delle minacce, bisogna contestualizzarla: 48 trilioni di dollari da spendere in 22 anni comportano una spesa media di 2,18 trilioni all'anno (cominciando da 1,5 trilioni quest'anno per finire con 2,5 trilioni nel 2035). Intendo dire che tutte queste cifre vengono fornite in dollari costanti. In confronto al PIL attuale (2012) del pianeta Terra (circa 71,8 trilioni di dollari) questa spesa media annuale rappresenta un 3% del PIL. Significativo ma non impressionante. Anche i 2,5 trilioni del 2035 rappresenterebbero solo il 3,5% del PIL di oggi. Il problema, come osserva Gail Tverberg, è che la IEA sta dando per scontata una crescita dell'economia mondiale del 3,6% all'anno, cosa che vedendo l'attuale rallentamento economico sembra sempre più difficile e, ciò che è peggio, tenendo conto dell'ormai indissimulabile tramonto del petrolio che comporta che questa crisi non finirà mai, in questo periodo tanto dilatato di tempo il PIL del pianeta comincerà a contrarsi. Il che è grave perché, a parte che le previsioni delle necessità di investimento della IEA sono sicuramente ottimistiche, in una situazione di PIL in declino il peso del costo energetico sarà sempre maggiore. Ricordiamo che, come indica James Hamilton, quando il costo finale dell'energia supera il 10% del PIL, un'economia entra in recessione. E i 48 trilioni che indica la IEA non sono il costo energetico, ma solo l'investimento totale necessario (secondo loro) perché continui a fluire (e questo assumendo che l'OPEC raccoglierà il gioco della avventura americana fallita del fracking, che il rapporto stesso mostra che ha le ali molto piccole). Per questo è facile supporre che il prezzo dell'energia sia una percentuale maggiore del PIL globale di quel 3% di costi di produzione e in una economia che non cresce sarà molto facile superare questa soglia del dolore del 10% del PIL, a partire dalla quale l'economia entrerà in una coclea irrecuperabile, visto che la recessione implicherà meno investimento in energia ed un aumento del prezzo della stessa che affonderà ancora di più l'economia in una spirale mortale e, per la prima volta, globale. Rispetto al secondo rischio che indica la IEA, non c'è molto da dire: il settore elettrico europeo (ricordiamo, tuttavia, che l'elettricità rappresenta una percentuale minoritaria e solo un 10% su scala globale) è in crisi e le compagnie elettriche non hanno troppo interesse ad investire nel loro mantenimento ed espansione. Sembra pertanto che i blackout saranno inevitabili nei prossimi decenni. Per un'analisi più approfondita consiglio l'eccellente articolo di Gail Tverberg su Our Finite Worldanche questo di Richard Heinberg.

Il documento sulla Strategia Europea di Sicurezza Energetica: Due settimane fa la Commissione Europea ha pubblicato un documento di strategia energetica il cui obbiettivo è quello di preparare l'Unione ad una possibile interruzione improvvisa della fornitura di gas naturale all'Europa. Anche se non viene detto apertamente, dietro a questa impostazione strategica c'è lo scontro fra Occidente e Russia per il caso Ucraina. La Commissione considera verosimile che ci possano essere problemi questo stesso inverno ed ha disposto che si facciano dele prove di stress (stress test) al più presto per verificare la capacità del sistema europeo di resistere a questa interruzione. Si parla anche molto di gas naturale, non si parla poco di petrolio, e in linea di principio le prove di stress sono per tutto il sistema energetico, cioè che si contempla anche un'interruzione della fornitura di petrolio: Anche se viene molto enfatizzato quanto l'Europa dipenda dal petrolio russo, viene data poca importanza a questa possibilità, chiarendo che finora la Russia è dipesa molto dai prodotti raffinati che le inviamo da qui – ma, è chiaro, oggigiorno i movimenti dei paesi sono sempre più imprevedibili. Per combattere questi rischi e nel breve periodo che rimane – mesi, da qui al prossimo inverno – i mezzi sono di favorire le interconnessioni, appellarsi alla solidarietà fra stati membri ed appoggiare la produzione energetica autoctona mediante rinnovabili (ignorando tutti i limiti di queste ultime e che di fatto non stanno funzionando troppo bene a livello europeo, non tanto nel caso molto particolare della Spagna, ma in Germania).

La produzione di petrolio greggio e di condensati vegetali, a parte il tight oil da fracking, sta già diminuendo: Matthieu Auzanneau si fa eco di questo fatto nell'ultimo articolo del suo blog, da dove ho preso questo grafico:


Come fa notare Matthieu nel grafico sopra, la diminuzione non si giustifica né togliendo i paesi dove si stanno osservando problemi seri (ora peleremo di quei paesi), per cui la conclusione è che davvero l'OPEC non ce la fa già più (cosa che viene mascherata dicendo che “il mondo è ben rifornito” nonostante l'abbondanza di prove del contrario). In particolare, l'Arabia Saudita ha messo in piena produzione il giacimento di Manifa, il cui petrolio fortemente contaminato da vanadio e molto solforoso è molto difficile da raffinare e colloca questo cattivo prodotto in miscele di prezzo più conveniente. Era la sua ultima pallottola, non le resta altro. Mal ipotizzato, il rapporto della IEA che abbiamo commentato all'inizio faceva poggiare sulle spalle finora grandi dell'OPEC la responsabilità di sostenere (a livello petrolifero) il mondo.

L'interruzione delle esportazioni del petrolio libico: Giorni fa è trapelata la notizia secondo la quale la Libia smetterebbe di esportare gli esigui 200.000 barili di petrolio al giorno che era ancora in grado di produrre per soddisfare le proprie necessità nazionali. La cosa certa è che dopo la guerra lampo di quasi 3 anni fa il paese non si è stabilizzato ma è andato progressivamente collassando, trasformandosi in un regno di Taifa, come evidenzia il seguente grafico di produzione petrolifera (quasi l'unica esportazione del paese), preso a sua volta dall'articolo di Matthieu Auzanneau:


Prima della guerra, il paese era in grado di produrre più di 1,6 milioni di barili di petrolio al giorno (Mb/g), ora praticamente niente. Le potenze occidentali non hanno la capacità di imporre la propria volontà su un tavolo di gioco sempre più grande e complesso e i paesi, anziché essere controllati, collassano. E in una situazione in cui la produzione di petrolio si trova alla sua capacità massima e sta diminuendo, gli 1,6 Mb/g della Libia non sono per nulla disprezzabili. O non lo erano.

La guerra civile in Iraq: Il paradigma del collasso incontrollato sta venendo dal paese che si trovava da più tempo sotto il nuovo ordine mondiale petrolifero: l'Iraq. L'eterno Eldorado del petrolio la cui produzione doveva passare dai 3 Mb/g attuali a 6 Mb/g in qualche anno e addirittura giungere a 12 Mb/g in futuro, risulta che stia a sua volta collassando. La guerra civile non è mai finita del tutto e col ritiro delle truppe degli Stati Uniti si è andata aggravando. Il conflitto civile nella vicina Siria ha favorito il fatto che un movimento jihadista che si muove fra i due paesi abbia preso forza, fino a conquistare la città di Mosul, città chiave per il controllo del petrolio del Kurdistan per la sua raffineria e per il passaggio dell'oleodotto Mosul-Haifa (situato piuttosto più a sud). Se il gruppo armato continua ad avanzare potrà prendere il controllo di una delle zone più produttive dell'Iraq ed il sogno di un'abbondanza petrolifera nel paese finirebbe per sempre. Come dimostra il caso della Libia e la storia dello stesso Iraq, ci vogliono decenni per cancellare le impronte della guerra in un'industria tanto delicata come quella petrolifera.

L'instabilità generale di alcuni produttori: La produzione continua a diminuire in Angola e in Venezuela (in quest'ultima, spinta dalle proteste e dagli scioperi); il disastro ecologico del Delta del Niger ha molto a che fare con la sollevazione dei gruppi come Boko Haram e fa scappare alcuni investitori dal paese, mettendo ancora di più a rischio la produzione. Lo Yemen è sul punto di collassare, Egitto e Siria lo hanno già fatto... l'elenco potrebbe diventare molto più lunga, ma credo che vi siate già fatti un'idea.

Il riconoscimento sempre più forte del fatto che gli sfruttamenti di gas di scisto e petrolio di scisto con la tecnica del fracking sono completamente rovinosi economicamente: Poco più di un anno fa qui abbiamo affrontato il tema del rendimento scarso (o negativo) del fracking e sette mesi fa circa, nel momento in cui cominciavano a manifestarsi i sintomi del crollo di questa bolla finanziaria. Bene: sembra che cominci ad essere una verità detta ad alta voce. Ora è la stessa Bloomberg che ha fatto un'analisi approfondita delle perdite delle imprese del settore, giungendo alla conclusione che molte di esse spariranno. Non ci sarà, pertanto, una soluzione del problema petrolifero da questa parte, anche se fosse provvisoria (fino al 2020, come ha riconosciuto la stessa IEA). Il modello di importazione di energia ed esportazione di miseria, propiziato dalla condizione di moneta di riserva del dollaro, non si sostiene più e il fatto è che le compagnie petrolifere non possono continuare ad investire in affari di rendimento dubbio si sono lanciati in un disinvestimento aggressivo con conseguenze nefaste per il nostro futuro immediato. Questo provocherà non l'aumento della produzione di petrolio in un futuro immediato, ma che il il tampone che ci garantiva attualmente il fracking svanisca nel giro di qualche mese. Sommato a tutto quanto abbiamo detto sopra, questo mette in una prospettiva nuova e più inquietante il rapporto della IEA e fa comprendere che il suo linguaggio moderato nasconde una realtà sempre più inquietante.

Dopo tale rassegna di notizie nefaste, con cattivi presagi per il nostro futuro, cose vediamo? Anziché suonare i logici segnali d'allarme, la sola cosa di cui si sente parlare da queste parti e da molte altre sono i clacson dei tifosi di calcio, che si godono come mai prima uno degli ultimi mondiali di questo sport. Essendoci il calcio, a chi interessa vedere che il mondo so sbriciola? E tuttavia, una parte della popolazione molto tifosa degli ospiti del campionato, il Brasile, scende in strada a dire che no, non va bene...


Non ci serve la coppa del mondo. Ci servono i soldi per gli ospedali e per l'educazione

Forse sono loro l'ultima speranza che non tutto è perduto.

Saluti.
AMT

mercoledì 25 giugno 2014

Come il governo Renzi vuol distruggere l'energia rinnovabile in Italia


Fotovoltaico: la vera speculazione arriva adesso, grazie al governo

Oltre all'effetto nefasto sull'affidabilità economico finanziaria, lo spalma-incentivi ha altre conseguenze negative. Con lo spettro del default che si aggira nel settore del fotovoltaico italiano, questo governo che ha accusato le fonti rinnovabili di speculazione ora favorirà quella vera, di rapina, dei "vulture funds". 


«Don't come knocking on my door». Non bussate alla mia porta. Si chiude così l'articolo pubblicato sul Wall Street Journal a firma di Bonte-Friedheim il CEO di NextEnergy Capital Group che commenta il provvedimento spalma-incentivi sul fotovoltaico varato dal Governo. Ma piuttosto che investitori esteri, saranno ben altri i soggetti attratti, come mosche al miele, in Italia dal default di parecchi impianti fotovoltaici che seguiranno i provvedimenti degli ultimi giorni e che potranno acquistarli a prezzi di saldo, mentre continueranno a ricevere incentivi, anche se ridotti o spalmati.

Si chiamano "Vulture funds" e sono i fondi "avvoltoio" specializzati nell'accaparrarsi, a prezzi da saldi, ciò che rimane della crisi una volta raschiato il fondo del barile, per poi magari rivendere, dopo poco tempo a prezzi migliori, o magari, come nel nostro caso a godersi gli incentivi ridotti o spalmati perché di una cosa siamo certi: gli 11 GW, su 17,7 (altro che una piccola parte che coinvolge 8.600 soggetti come sostenuto dal ministro Guidi) interessati dal provvedimento continueranno a produrre elettricità anche quando passeranno in mano alla speculazione, quella vera, a causa dei default indotti dallo spalma-incentivi che saranno più probabili di quanto non si pensi.

"I continui cambiamenti nel settore stanno spaventando gli investitori e saranno parecchi quelli che si tireranno indietro.- commenta GB Zorzoli, presidente del Coordinamento Free - E ci sarà anche lo spettro del rientro immediato richiesto dalle parte delle banche per il cambiamento delle posizioni". E le banche a loro volta dovranno rivendere, tentando di realizzare; ed ecco che con ogni probabilità saranno i raiders dei 'vulture founds' ad entrare in azione come sta succedendo in Spagna per le rinnovabili e in tutta l'Europa colpita dalla crisi, per quanto riguarda il mercato immobiliare, dove acquisiscono immobili al 20% del loro valore di dieci anni fa.

Ma è sul serio reale il rischio dei default a fronte di incentivi, come vuole la vulgata, 'ricchi'? Sì, perché una consistente parte degli impianti fotovoltaici della 'migliore generazione' sono già passati di mano, anche per via dell'incertezza italiana, nel cosiddetto mercato secondario, perdendo di valore, mentre sono più bassi i margini sulle ultime edizioni del Conto Energia. Per questa ragione se iniziamo a ragionare in termini squisitamente industriali, e non ideologici, ci si accorge che potrebbero essere non pochi i business plan a rischio.

"Con la struttura che si è impostata attraverso lo spalma-incentivi è abbastanza matematico il fatto che molti non potranno coprire le rate. - ci spiega Piero Pacchione, di Green Utility - E oltre a ciò c'è da dire che le banche non sono strutturate per gestire gli impianti e potrebbero rivenderli anche con ribassi del 50% al netto degli ammortamenti". Inoltre, c'è anche il fatto che: "far iniziare il periodo di decurtazione dell'8% al primo luglio 2014, in estate, periodo nel quale si concentra il 60% del fatturato annuo del fotovoltaico, significa voler provocare dei seri problemi fin da settembre". Secondo Pacchione il problema non riguarda investitori esteri oppure quelli italiani, ma gli investitori e basta.

E a una nostra domanda se ci sia stata volontà politica o incapacità, Pacchione risponde secco: "con lo spalma-incentivi forse c'è stata incapacità, ma sulla questione dei SEU (Sistemi efficienza d'utenza, ndr) la volontà politica di bloccarli è scientifica (si veda quanto scritto su questa pagine, ndr)». Il 5-10% di oneri di sistema sull'energia autconsumata, infatti, riduce la forbice di convenienza comune tra produttore e consumatore, ma soprattutto il fatto che siano previsti aumenti futuri della quota, peraltro solo a cairco dei nuovi impianti, aumenta l'incertezza, rendendo difficili investimenti in cui la stabilità del prezzo dell'energia elettrica è fondamentale.

"I contratti di project financing prevedono che il cambio tariffa possa essere un elemento per il default del progetto. - taglia corto Paolo Lugiato, consigliere di assoRinnovabili, responsabile per il settore fotovoltaico dell'associazione - Prima scatta il distribution lock, ossia il blocco dei dividendi per garantire il flusso di cassa verso gli istituti bancari, poi c'è il vero e proprio default del progetto che avviene quando il flusso di cassa è pari alla rata del mutuo". In pratica non è necessario "andare sotto" ma per gli istituti di credito il rischio diventa troppo grande anche quando si va alla pari.

Le ragioni sono chiare. Le rinnovabili sono intermittenti e anche se hanno un rendimento annuo medio, ci sono periodi poco produttivi, come quelli piovosi o poco ventosi, durante i quali hanno bisogno di una provvista. "E bisogna tenere conto anche del contesto nel quale questo provvedimento si inserisce. - prosegue Lugiato - Abbiamo avuto l'abbassamento del prezzo dell'elettricità, la robin tax, l'abolizione del prezzo minimo garantito, tutti elementi che hanno eroso la redditività degli impianti". Insomma, anche per Lugiato lo spettro del default per molti impianti non è una possibilità remota, come invece sostengono dalle parti del MiSE, dove arrivano ad affermare che il provvedimento potrebbe portare a una migliore gestione di parecchi impianti che sarebbero mal gestiti.

"La vera botta la vedremo il 1° gennaio 2015 quando gli impianti che avranno scelto l'autoriduzione dell'8% a cui si aggiunge il 10% di trattenuta da parte del GSE, si ritroveranno con il 18% in meno di flusso di cassa. - afferma Giovanni Simoni, amministratore delegato di Kenergia - Si tratta di una riduzione importante che metterà a massimo rischio gli impianti del secondo e terzo Conto energia".

Su quali possano essere le potenziali quotazioni del watt fotovoltaico in default a fronte dell'aggressione speculativa dei "vulture funds" non si possono fare ipotesi visto che il fenomeno da noi non è ancora definito, ma si possono fare ipotesi diverse su ciò che sta accadendo nel contesto elettrico. Di sicuro la manovra del Governo ha una portata epocale sul fronte dell'affidabilità economico finanziaria del mercato dell'energia poiché introduce il concetto di retroattività, cosa che minerà l'affidabilità dell'Italia circa gli investimenti in tutto il settore energetico, non solo nelle rinnovabili. Non a caso il Wall Street Journal apre il proprio pezzo affermando «A quanto pare il governo italiano ha un rapporto difficile con i capitali privati», ossia tutti i capitali privati, non solo quelli legati alle rinnovabili. E lo fa, come abbiamo visto, favorendo la speculazione, quella vera e rapace fatta di rapina, dopo aver urlato ai quattro venti di voler colpire la "speculazione" nelle rinnovabili che tra parentesi, è bene sempre ricordarlo, hanno agito sempre e comunque sotto le leggi e i regolamenti dello Stato.

Il boom dello scisto statunitense è finito, serve una rivoluzione energetica per evitare i blackout

DaThe Guardian”. Traduzione di MR

Di Nafeez Ahmed

Il cane da guardia dell'energia globale conferma che “la festa è finita” - riduce le proiezioni della produzione statunitense e richiede un investimento urgente



I funzionari del Regno Unito hanno dichiarato che la Gran Bretagna ha bisogno di frackin perchè l'industria 'prosperi' e 'l'economia cresca'. Sempre più dati contestano queste dichiarazioni. Foto: Brennan Linsley/AP

Odio dire ve lo avevo detto, ma...

Nel 2012, la IEA prevede che gli Stati Uniti avrebbero superato l'Arabia Saudita nella produzione di petrolio grazie al boom dello shale nel 2020, diventando degli esportatori netti nel 2030. La previsione è stata vista da molti come la prova decisiva del rinnovamento dell'era del petrolio, mentre i detrattori informati venivano nel migliore dei casi ignorati, nel peggiore ridicolizzati.

Fra i miei molti rapporti che esponevano gli errori geologici ed economici dietro alla narrativa del boom dello scisto ci sono questo, questo, questo e questo. Anche qui al Guardian, un titolo ha dichiarato che il rapporto della IEA mostra dimostrava che “l'idea del picco del petrolio era andata in fumo”. Ma l'ultima valutazione della IEA ha provato che i detrattori avevano ragione su tutto. La Panoramica sull'Investimento Energetico Mondiale dell'Agenzia pubblicato questa settimana dice che la produzione di tight oil statunitense – che attinge in gran parte da Bakken, nel Nord Dakota e ad Eagle Ford in Texas – raggiungerà il picco intorno al 2020 prima di declinare.

La nuova analisi mette fine al mito dei '100 anni di fornitura' ampiamente diffuso dall'industria e si avvicina alla valutazione più scettica di un picco del tight oil statunitense entro questo decennio. Il rapporto della IEA dice:

“... la produzione da parte del Nord America raggiunge un plateau [circa dal 2020] e poi diminuisce da meta degli anni 20 del 2000 in poi”.

L'ammanco renderà gli Stati Uniti, e i paesi dell'Europa che pensano di importare dall'America, sempre più dipendenti dalle forniture dal Medio oriente:

“Tuttavia c'è un rischio che l'investimento in Medio oriente non riesca a salire in tempo da evitare un ammanco di fornitura, a causa di un clima di investimento incerto in alcuni paesi e della priorità data spesso a spese in altre aree”.

La IEA ha evidenziato che sulla scia della Primavera araba, gli stati petroliferi del Medio Oriente stanno sentendo la pressione di deviare massicci sussidi petroliferi che mantengono la produzione in più spese sociali per alleggerire l'instabilità. Se non lo fanno potrebbero essere rovesciati. Questi paesi versano 800 miliardi di dollari in introiti del petrolio in sussidi energetici – e se non riescono a coprire l'ammanco previsto a causa della caduto post picco della produzione statunitense, per il 2025 il costo medio di un barile di petrolio potrebbe salire di 15 dollari. Lo scorso marzo, quando ho affrontato il pericolo di uno shock petrolifero imminente, mi è stato detto confidenzialmente da un portavoce del Dipartimento dell'Energia e del Cambiamento Climatico del Regno Unito che non c'era rischio che si spegnessero le luci – la politica del regno Unito aveva sistemato tutto. Ora il capo economista della IEA, Fatih Birol dice:

“In Europa stiamo affrontando il rischio che si spengano le luci. Non è uno scherzo”.

Ci servono 48 trilioni di dollari di nuovo investimento per mantenere le luci accese – e non è per niente chiaro se investire in petrolio e gas non convenzionali sempre più costosi risolverà qualcosa senza impatti seri sull'economia globale. Attualmente, di già, il rapporto della IEA rivela che oltre l'80% dell'investimento delle compagnie petrolifere sta andando per compensare i giacimenti esauriti in cui la produzione è in declino. L'agenzia fa anche un appello ad aumentare gli investimenti in rinnovabili e per aumentare l'efficienza, insieme ad un riforma dei regolamenti per incentivare gli investimenti, come parte del pacchetto.

Mentre l'impero dei combustibili fossili si sta frantumando, il settore dell'energia rinnovabile ha ricevuto il 60% dell'investimento totale in impianti dal 200 al 2012. Coloro che continuano ad investire in combustibili fossili per risolvere i nostri guai energetici ed economici dovrebbero prendere nota: non sono la risposta. Il tempo di uscirne è stato ieri.

martedì 24 giugno 2014

Renzi continua a fare danni: spegnere le centrali fotovoltaiche per far posto al gas e al carbone




Lettera Aperta al presidente del Consiglio

Di Paolo Rocco Viscontini


Egr. Presidente del Consiglio,

il Suo governo rischia di distinguersi come il primo della Storia della Repubblica che è intervenuto con degli interventi retroattivi su delle leggi dello Stato. Mi riferisco ai tagli agli incentivi agli impianti fotovoltaici di potenza superiore a 200 kWp.

A parte il fatto che quando ci si muove all’interno delle leggi dello Stato bisognerebbe sentirsi tranquilli perché si considera impossibile che qualcosa cambi, ma anche entrando nello specifico si scopre che tutte le motivazioni usate dal Ministero dello Sviluppo Economico per giustificare questo provvedimento sono palesemente infondate.

Sono stati usati termini inappropriati, a cominciare dalla parola “speculatori”: speculatore è “chi consegue un vantaggio personale sfruttando senza scrupoli una situazione a scapito di altri”. Non dimentichiamoci che l’obiettivo del Conto Energia era incentivare le installazioni di impianti fotovoltaici, garantendo equi rendimenti a chi avesse deciso di installarli.

Ora si sta facendo di tutta l’erba un fascio: si dichiara che tutte le installazioni sopra i 200 kWp hanno rendimenti altissimi, tanto da intervenire dicendo “togliamo a chi ha avuto troppo per dare a chi ha avuto meno”. Si dimentica che dal 2005 a oggi si sono susseguite più leggi del Conto Energia (ben 5!) e nella maggior parte dei casi le tariffe d’incentivazione erano tali da creare le condizioni per ottenere un rendimento equo e non certamente eccessivo. Solo chi è riuscito a ottenere un prezzo d’impianto basso in momenti di tariffe alte è riuscito a guadagnare di più, ma si tratta di casi numericamente molto inferiori e non si può certamente incolparli di un comportamento scorretto, perché han fatto quello che tutti, Lei incluso, avrebbe fatto: credo sia naturale cercare sul mercato un buon prezzo. Se poi la tariffa in quel periodo era più alta, tanto da generare un rendimento più alto, era ed è un problema di chi ha fatto la legge. Inoltre, se speculazioni ci sono state, sono da ricondursi ai cosiddetti “sviluppatori”, che vendevano a prezzi alti le autorizzazioni, approfittando della complicazione della burocrazia italiana. Intervenire ora sui proprietari degli impianti è solo inutile e profondamente sbagliato.

Si vuole denigrare chi ha semplicemente creduto in una legge dello Stato, nata per indirizzare degli investimenti, mirati, come voleva fare lo Stato italiano, a sviluppare il settore fotovoltaico. Era pure stato stabilito un budget, per legge. Ora, a posteriori, si vuole ridurre il budget di spesa, nonostante ci siano dei contratti tra Stato italiano (tramite il GSE) per oltre 12 mila impianti. Tra l’altro una gran parte di questi 12 mila impianti sono di IMPRESE MANIFATTURIERE e di AZIENDE AGRICOLE che li hanno realizzati sui propri tetti o nelle aree limitrofe alle unità produttive! Quelle stesse imprese che Lei continua a dire che vuole aiutare.

Cambiare ora le condizioni significa mettere in ginocchio migliaia di aziende! Una gran parte di loro non riuscirà più a pagare le rate del leasing o del finanziamento. Ci saranno miliardi di Euro di ulteriori sofferenze per le banche italiane, che avranno ancora più difficoltà a dar credito alle aziende italiane. Ricordo infatti che gli oltre 18.000 megawatt installati son stati realizzati grazie a circa 50 miliardi di Euro di prestiti bancari.

E per moltissime aziende e imprenditori l’impianto fotovoltaico, realizzato sul tetto della fabbrica o su un terreno, rappresenta ora l’unica risorsa che li aiuta a stare in piedi in questo durissimo periodo di crisi.

Con le loro scelte, i funzionari del Ministero dello Sviluppo Economico responsabili per i temi energetici, stanno facendo un danno enorme al Suo Governo e quel che più conta all’Italia.

Non caschi infatti nel tranello di chi Le vuol far credere che in questo modo si colpiscono solo gli investitori, pure stranieri. Mi chiedo come sia possibile fare discorsi in giro per il mondo volti ad attrarre capitali dall’estero e poi distruggere investimenti di investitori che hanno pensato che l’Italia fosse un paese affidabile.

Le ricordo che i fondi d’investimento che hanno investito negli impianti fotovoltaici sono gli stessi che investono in infrastrutture e in aziende italiane garantendo capitali per la ripresa. Già diversi fondi d’investimento stranieri han dichiarato il loro sbigottimento e hanno detto che se una tale norma passerà bloccheranno ogni altro tipo di investimento per l’Italia. In realtà un gran danno è già stato fatto, anche perché il solo sentirne parlare ha fatto capire che l’Italia non è più un paese affidabile (vedere articolo sul Wall Street Journal). Non penso sia felice di sentirsi dire che prima di Lei ci si sentiva sicuri di investire in Italia e ora non più.

I suoi referenti al Ministero dello Sviluppo Economico l’hanno informata che già circa un mese fa addirittura le ambasciate degli Stati Uniti d’America e d’Inghilterra hanno inviato delle formali lettere di protesta al Ministero, spaventati dalle notizie che giravano circa questo paventato taglio retroattivo agli incentivi?

Le diranno che la legge è stata stilata in modo da dare la possibilità ai proprietari d’impianto di non soffrire particolari problemi (tariffe più basse per più anni per confermare il monte incentivi atteso). Non ci creda! I problemi sarebbero enormi. Non entro nei dettagli. Il panico che quello che state per fare sta creando dovrebbe bastare.

Non mancheranno i ricorsi contro questo cambio di regole, che è palesemente incostituzionale. Si avranno pertanto migliaia di cause che lo Stato perderà di certo, trovandosi a dover pagare i danni causati da un provvedimento fondamentalmente illegale, come sostiene il Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida: “Un simile provvedimento violerebbe sia le norme costituzionali in materia di retroattività e di tutela dell’affidamento, sia gli obblighi internazionali.” Purtroppo però i lunghi tempi della giustizia porteranno nel frattempo a default finanziari e conseguenti chiusure di aziende (non solo aziende del settore fotovoltaico).

Forse non sa che nell’ultimo anno si sono succeduti una serie di interventi che hanno già ridotto drasticamente i rendimenti degli impianti fotovoltaici.

Con la “rimodulazione” degli incentivi (che beffarda definizione) moltissimi impianti andranno in default finanziario, che vuol dire che non ci saranno neppure i soldi per garantirne la manutenzione. Risultato: non solo salteranno quelle poche aziende sopravvissute ai disastri causati dall’ex ministro Passera e dal suo Quinto Conto Energia, che si erano concentrate sulle manutenzioni degli impianti (perché purtroppo il settore del fotovoltaico era già stato colpito pesantemente portando alla chiusura migliaia di aziende e causando decine di migliaia di disoccupati, alla faccia delle belle parole sull’occupazione che sentiamo sempre alla televisione), ma addirittura molti impianti, a causa dell’assenza di assistenza tecnica, dovranno pure essere spenti!

Ma forse questo era proprio l’obiettivo finale: far spegnere gli impianti fotovoltaici per poter riaccendere le centrali a olio combustibile, carbone e gas che negli ultimi 2 anni hanno visto le loro ore di funzionamento crollare a causa dell’inaspettata e significativa crescita della produzione fotovoltaica.

Non penso possa essere orgoglioso di un simile risultato.

Infatti gli oltre 18 mila MWp di installazioni fotovoltaiche hanno permesso nel 2013 di coprire l’8% della produzione elettrica nazionale su base annuale e quote che vanno dal 20-25% nelle ore diurne dei giorni lavorativi a oltre il 50% nei giorni festivi. Sono risultati straordinari che hanno consentito di:
  • ridurre il prezzo dell’energia nella Borsa elettrica di quasi la metà, effetto positivo che però non passa all’utente finale! Il Ministero dello Sviluppo Economico dovrebbe concentrarsi su come risolvere questa questione invece che accanirsi contro il fotovoltaico. Qui sì che ci sono le vere speculazioni!
  • ridurre le spese di importazione PER combustibili fossili di diversi miliardi di euro all’anno (corrispondente miglioramento della bilancia dei pagamenti nazionale)
  • salvare centinaia se non migliaia di vite umane (meno emissioni dalle centrali a combustibile fossile significa molti meno tumori)
  • creare un’occupazione indotta importante e stabile grazie alle manutenzioni degli impianti
Il cambio retroattivo delle regole interessa ben 11 dei 18 mila MWp di impianti fotovoltaici installati in Italia. Vuol dire che si sta mettendo a rischio oltre il 60% della produzione di energia elettrica fotovoltaica italiana, pari a quasi il 5% della copertura della produzione elettrica nazionale. E ricordo che si tratta di una PRODUZIONE NAZIONALE, in quanto non dipende da alcuna fonte energetica estera. Mi sembra semplicemente assurdo sostituire questa produzione di energia PULITA e INESAURIBILE (ricordo che gli impianti funzionano ben oltre i 20 anni del Conto Energia) con energia FOSSILE inquinante e pure proveniente dall’estero.

Ora, stimato Presidente, ha forse ancora un’opportunità di correre ai ripari, dichiarando che non era stato correttamente informato e che non toccherà gli investimenti nel fotovoltaico.

E’ l’unico modo per uscire da questo impasse senza troppi danni. Mi creda, ci sono altri modi, più seri e onesti, per abbassare i costi dell’energia elettrica alle imprese italiane.

Cordiali saluti,
Ing. Paolo Rocco Viscontini (operatore del fotovoltaico)