domenica 13 maggio 2018

Prodotti Sfusi: siamo sicuri che sia una buona idea? Ovvero: la maledizione del Colibrì colpisce ancora



Così, l'altro giorno mi sono fermato al supermercato per fare la spesa e ho trovato una sezione nuova nuova dove si potevano comprare le crocchette per cane sfuse. Bene, da buon ambientalista mi è parso il caso di provare e mi sono riempito un bel sacchetto di carta - molto ecologico - di crocchette e l'ho pesato. Lo vedete nella foto qui accanto. 5,09 euro per 1,72 kg di crocchette.

Poi, ho mosso il carrello di qualche metro e davanti a me ecco le crocchette per cani nel loro impacco tradizionale. Eccole qua:


E notate come, nel loro sacchettone-plasticone, le crocchette costano molto meno, poco più di 1 euro al kg, quasi un terzo di quelle sfuse. A un prezzo minore di quanto ho pagato per meno di due chili, me ne sarei potuti portare a casa quattro chili.

E allora? Come sta questa faccenda? Perché le crocchette sfuse costano così care? La prima impressione che ho avuto è di essere stato imbrogliato. Poi, però, ripensandoci, credo che la vicenda sia più complicata di così e che richieda un certo ragionamento.

Per prima cosa, non ho ragione di pensare che le crocchette sfuse siano vendute a un prezzo ingiustificatamente alto: più probabilmente, sono di qualità migliore. Come per tutti i prodotti, ci sono varie gradazioni di qualità sebbene, nel caso delle crocchette per cani, per noi umani è difficile giudicare. E' anche possibile che ci siano dei costi superiori per la gestione del complicato sistema di distribuzione ma, da quello che sono riuscito a trovare sul Web, non c'è evidenza che i prodotti sfusi debbano costare necessariamente di più di quelli impaccati in modo tradizionale.

Ne consegue che ci devono essere delle ragioni che hanno spinto i dirigenti della COOP a scegliere le crocchette - e un certo tipo di crocchette - come prodotto sfuso. Quali sono queste ragioni? Non ho trovato niente di scritto su questo argomento sui siti della COOP o altrove, a parte grandi lodi all'idea e discorsi su quanto sono bravi. Allora proviamo a usare la logica per cercare di capire come sta la faccenda.

Per prima cosa, perché i prodotti sfusi? Ci sono due ragioni: la prima è di evitare i contenitori, costosi e inquinanti, la seconda quella di permettere ai consumatori di calibrare i loro acquisti esattamente sulle loro necessità, evitando sprechi.

Tutte e due sono ragioni valide, ma valgono nel caso delle crocchette? In primo luogo, le crocchette vanno messe per forza dentro un sacchetto, sia che uno le compri sfuse oppure no. Le crocchette sfuse si mettono in un sacchetto di carta, quelle impacchettate arrivano in un sacchetto di plastica - ma nulla vieterebbe di confezionarle in un sacchetto di cartone. Se uno voleva semplicemente evitare un po' di plastica, c'erano modi più semplici di quello di creare tutto un ambaradan di tubi, bilance e sacchettini per l'operazione di fornitura, pesa e etichettatura.

Seconda cosa: evitare sprechi e consentire al consumatore di comprare esattamente quello che gli serve. Certamente questa è un'idea valida per alimenti deperibili, tipo per esempio il latte. Ma le crocchette per cane non sono certamente un prodotto deperibile. Vedo male una persona che va al supermercato apposta per comprare 50 centesimi di crocchette per la cena di Fido. Tanto vale che ne compri 4 kg - e non dimentichiamoci che ogni viaggio al supermercato ha un costo sia economico che ambientale.

C'è un altro fattore che si menziona più raramente ma che potrebbe avere un certo peso: le crescenti ristrettezze economiche di una fascia della popolazione. Mi diceva un mio amico che lavora nella grande distribuzione che hanno notato come verso fine mese aumentino le vendite di latte in confezione da mezzo litro a scapito di quelle da un litro. Lui ritiene che sia dovuto al fatto che molti hanno difficoltà ad arrivare a fine mese con ancora qualche soldo in tasca e tirano a risparmiare al massimo mentre aspettano il 27. Non ho trovato conferma di questa storia sul Web, ma non vedo motivo di ritenerla falsa. Anche qui, comunque, l'idea di vendere crocchette sfuse non aiuta molto chi è rimasto senza soldi al 26 del mese se queste crocchette costano quasi tre volte di più di quelle normali.

E allora? Perché le crocchette sfuse? Perché le crocchette sfuse ad alto costo? Io credo che non sia una cosa casuale. E' il risultato di una specifica strategia commerciale che i dirigenti della COOP hanno seguito.

In primo luogo, il problema dell'iperimballaggio comincia ad apparire chiaro a una certa fascia di consumatori e, di conseguenza, ogni catena di supermercato cerca di fare il possibile per darsi un'immagine "verde". Da qui, la decisione di vendere perlomeno qualcosa come prodotto sfuso. Si tratta allora di identificare il prodotto e i consumatori più adatti all'operazione. Ora, i consumatori più sensibili alla questione ecologica sono quelli della fascia medio-alta. Sono quelli, per intendersi, che comprano i prodotti "biologici" anche se sono più cari di quelli normali. Questa fascia di consumatori è sensibile al discorso della distribuzione sfusa che percepisce come più "ecologica" di quella normale. Può anche permettersi - anzi, probabilmente cerca attivamente - cibo di alta qualità per i propri animali domestici. E quindi, ecco la logica dell'operazione vendere crocchette "ecologiche" a chi si può permettere di comprarle. Come sempre, si vende uno specifico prodotto a uno specifico target. E' una mia interpretazione, ma mi sembra sensata.

Diciamo che, in fin dei conti, la Coop non imbroglia nessuno ma fa semplicemente un'operazione commerciale compatibile con le condizioni del mercato attuale. Rimane però la questione se questo tipo di piroette dimostrative abbia un vero impatto nel quadro di una seria politica di riduzione degli imballaggi. Forse anche si, la storia delle crocchette potrebbe essere considerata un buon esempio da sviluppare per altri prodotti. Ma è anche vero che siamo lontani anni luce da un vero "supermercato senza plastica" di cui si parla parecchio ma che per ora non esiste e potrebbe non esistere mai a meno che non si cambi totalmente il sistema di distribuzione. Ma chi è che vuol cambiare qualcosa in questo paese in cui si cantava (e si continua a cantare) "finché la barca va..."?

Per concludere, sulla questione delle crocchette vorrei citare qualcosa che ho definito "La maledizione del colibrì" in un post precedente. Il fatto è che tutti ci sentiamo un po' colpevoli per i vari danni che stiamo facendo all'ecosistema e a noi stessi. E ci impegnamo in piccoli sacrifici rituali che consistono nel "fare qualcosa," seppur sapendo benissimo che quello che facciamo non è sufficiente. Il colibrì della storia porta una goccia d'acqua nel becco, pur sapendo che non servirà a spendere l'incendio della foresta. Allo stesso modo, c'è chi compra crocchette più care ma "sostenibili," sentendosi un bravo ecologista per poi tornarsene a casa con il suo SUV da tre tonnellate. E' l'essenza di quello che chiamiamo il "greenwashing"






martedì 8 maggio 2018

Ma quanta gente ci può stare su questo c***o di pianeta?

Immagine dal film "The Population Bomb" di Werner Boote. Forse il più brutto film mai fatto sulla questione della popolazione, tutto basato sull'idea che "più siamo, più siamo contenti."


Qual è la dimensione ottimale sostenibile della popolazione umana?


Da “The Overpopulation Project”. Traduzione di MR

Di Patrícia Dérer

E’ possibile stimare una dimensione ottimale della popolazione umana sulla base di diversi criteri ed ipotesi. Qui non ci occupiamo del limite inferiore della popolazione umana (la popolazione minima praticabile) in quanto ci troviamo sicuramente ben al di sopra di quel limite. Riguardo al limite superiore, dobbiamo considerare la capacità di carico della Terra per quanto riguarda l’Homo sapiens. La capacità di carico di qualsiasi specie è il numero massimo di individui che possono essere sostenuti a tempo indeterminato ad un dato livello di consumo per ogni dato ambiente. Per gli esseri umani, le stime differiscono in modo sostanziale, partendo da meno di un miliardo a più di 1.000 miliardi di persone, a seconda del consumo medio, della tecnologia e di altri fattori. Circa due terzi delle stime ricadono nella fascia da 4 a 16 miliardi di persone e il valore medio è di circa 10 miliardi 1,2 – la dimensione che si aspetta l’ONU per il 2055 nella sua variante di proiezione mediana.

Tuttavia, “minimo” non equivale ad “ottimale”. A parte le limitazioni dovute alla capacità di carico, dovrebbero essere considerati altri criteri. Possiamo definire la dimensione ottimale della popolazione come la dimensione che produce i risultati migliori secondo obbiettivi e traguardi espliciti. I traguardi scelti nel celebre studio di Daily et al. 3 includono ricchezza sufficiente, diritti umani universali, preservazione della biodiversità e della diversità culturale e sostegno alla creatività intellettuale, artistica e tecnologica. Per stimare la quantità di energia per soddisfare questi bisogni umani mentre si conservano ecosistemi e risorse intatti, hanno calcolato la dimensione ottimale della popolazione in prossimità dei 1,5-2 miliardi di persone.

Un altro studio ha stimato la dimensione ottimale della popolazione sulla base della quantità minima di terreno necessario per la produzione di cibo (0,5 ettari a persona) e la conservazione del suolo – portando ad una dimensione della popolazione di 3 miliardi di persone 4. Naturalmente, questi risultati dipendono fortemente dal consumo pro capite ipotizzato per soddisfare i bisogni di ciascuno. In un terzo studio, Pimentel et al. Hanno considerato un consumo comodo sulla base dello standard di vita europeo ed un uso sostenibile delle risorse naturali, suggerendo solo 2 miliardi di persone come dimensione appropriata 5.

In un recente articolo, “Benessere sostenibile e dimensione ottimale della popolazione6, Lianos e Pseiridis cercano di stimare la dimensione ottimale della popolazione usando un criterio oggettivo pensato per assicurare che l’uso di risorse da parte degli esseri umani non esaurisca il capitale naturale della Terra. Si tratta del valore unitario del rapporto fra impronta ecologica e biocapacità (L). L’impronta ecologica misura la domanda costituita dal consumo umano sulla biosfera. La biocapacità rappresenta la capacità rigenerativa della biosfera; per esempio, misura la produttività di diversi ecosistemi. Fra il 1961 e il 2009, il loro rapporto L è aumentato drasticamente. All’inizio di questo periodo, il mondo aveva una consistente riserva ecologica. Questa è scomparsa dopo 10 anni e da allora abbiamo operato in deficit. Oggi la domanda di risorse supera la fornitura disponibile del 50% (L=1.5). (Fig.1)

Fig 1. Rapporto impronta ecologica/biocapacità dal 1960 al 2010, basato su due fonti. (Lianos e Pseiridis, 2016)

Gli autori calcolano il prodotto lordo mondiale massimo (PLM, il PIL di tutti i paesi del mondo), la produzione del quale lascerebbe il capitale naturale della Terra e le popolazioni di altre specie intatte (L01). Per non superare questo PLM massimo, ma mantenere un confortevole livello pro capite da media europea (11.000 dollari), dovremmo ridurre la popolazione a 3,1 miliardi. Se volessimo mantenere la popolazione a 7 miliardi, il prodotto pro capite deve essere ridotto drasticamente a 4.950 dollari, dagli attuali 16.100 7. Da ciò risulta chiaro che l’attuale situazione non può essere sostenuta sul lungo periodo e, in un modo o nell’altro, è necessario un ulteriore declino del rapporto impronta ecologica/biocapacità. (Fig. 2)

Fig 2. Il confine (linea rossa) che mostra le scelte che abbiamo se vogliamo preservare la natura – passando da ‘C’ a ‘B’ riducendo il consumo, o ad ‘A’ riducendo la popolazione. (Lianos e Pseiridis, 2016)


Gli autori stimano anche la dimensione massima sostenibile della popolazione dei 50 paesi più popolati, sulla base della capacità di ogni paese di alimentare la propria popolazione. Hanno scoperto che alcuni paesi sono sottopopolati sulla base di questo criterio (fra questi: Argentina, Canada e Russia) e molti sovrappopolati, fra questi: Repubblica di Corea, Giappone, Egitto, Bangladesh, Yemen, Colombia, Nepal, Regno Unito, Venezuela, Vietnam, Filippine e Pakistan. I paesi più pesantemente popolati in termini assoluti sono di gran lunga Cina ed India. Le loro terre coltivabili sono complessivamente solo il 19% del totale globale, tuttavia, ospitano il 37% della popolazione mondiale. Pertanto, gli autori suggeriscono che la popolazione di questi paesi deve diminuire di 1,9 miliardi. Gli autori credono che ciò sia raggiungibile con programmi di pianificazione famigliare efficaci, forti politiche etiche ed incentivi governativi.

The Overpopulation Project sostiene la fine della crescita della popolazione e crede che il declino delle popolazioni dei paesi possa essere vantaggioso per l’ambiente e le persone. Inoltre, come molti altri ricercatori, sosteniamo anche la riduzione del consumo pro capite in paesi con forti consumi , la riduzione del rapporto impronta ecologica/biocapacità e il raggiungimento di società sostenibili a livello ambientale.

Riferimenti:

  1. United Nations. Department of Economic and Social Affairs. Population Division. World population monitoring, 2001 : population, environment and development. (United Nations, 2001).
  2. Cohen, J. E. How many people can the earth support? (Norton, 1995).
  3. Daily, G. C., Ehrlich, A. H. & Ehrlich, P. R. Optimum human population size. Popul. Environ. A J. Interdiscip. Stud. 15, 469–475 (1994).
  4. Pimentel, D., Harman, R., Pacenza, M., Pecarsky, J. & Pimentel, M. Pimentel, David, Natural Resources and an Optimum Human Population. Popul. Environ. 15, 347–369 (1994).
  5. Pimentel, D. et al. Will Limited Land, Water, and Energy Control Human Population Numbers in the Future? Hum. Ecol. 38, 599–611 (2010).
  6. Lianos, T. P. & Pseiridis, A. Sustainable welfare and optimum population size. Environ. Dev. Sustain. 18, 1679–1699 (2016).
  7. United States. Central Intelligence Agency. The CIA world factbook 2014. (Skyhorse Publishing, Inc, 2013).

mercoledì 2 maggio 2018

Dall'Economia alla Resilienza (è troppo tardi per lo sviluppo sostenibile)

(Pubblicato anche sul blog Appello per la Resilienza)
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Sono passati quasi cinquant’anni da quando è uscito il primo Rapporto sui Limiti dello sviluppo. Se si va a vedere che cosa da allora è stato fatto per invertire la nota rotta del Business As Usual (che secondo quel rapporto ci avrebbe portato sul baratro), che cosa si potrebbe dire?

Si potrebbe dire che la “consapevolezza” verso certi temi e problemi è aumentata. Per esempio oggi nei paesi ricchi c’è molta più attenzione sul tema dei rifiuti rispetto ad allora.

Si potrebbe ricordare di battaglie che sono state vinte, come quella di impedire la diffusione di gas che minacciano di creare il buco nell’ozono.

Bisogna ricordare che nell'ultimo decennio sono decollati progetti e investimenti in energie rinnovabili.

Si potrebbero anche elencare tutte le buone pratiche che sono state attivate; tutte le associazioni, gli enti, le istituzioni che sono state create a tutela dell’ambiente e che quotidianamente fanno qualcosa di utile. 

Molto è stato fatto (e l'elenco è insufficiente), ma è abbastanza per "invertire il BAU"? Come mai la sensazione che non stia cambiando nulla in fondo? Si può avere l’impressione che l’umanità non riesca in fondo a compiere sforzi davvero “significativi” per cambiare i suoi comportamenti a livello globale.

Ma chiediamoci, cosa significa invertire la tendenza al BAU? Prima di tutto cambiare modo di fare business. In secondo luogo, secondo il pensiero dominante significa rendere sostenibile lo sviluppo (1). In altri termini, rendere pulita la crescita, renderla “green”.

Ma si può veramente? Non è lecito, arrivati a questo punto, porsi la questione se tutto ciò non sia stato un errore o un abbaglio?

Il punto è: si possono cambiare i connotati all'economia? Ricordiamo dapprima in che cosa consiste la crescita economica. E’ semplice: ogni anno il Prodotto Interno Lordo di un paese deve aumentare in maniera esponenziale (si cade facilmente nella trappola di immaginarsi una crescita lineare, perché la nostra mente ragiona più arcaicamente quando non è allenata o costretta).

Questo implica che due elementi devono crescere a loro volta: la produzione (offerta) e il consumo (domanda). 

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 E’ come la doppia elica del DNA che sale, infatti qujando le due linee cominciano a divergere iniziano i problemi (crisi, recessioni, depressioni, ecc).

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In realtà è peggio ancora, perchè poi di fatto e per ragioni sistemiche vi sono molti altri fattori che crescono in correlazione.



Bene. C’è un modo di rendere sostenibile questo processo?

Vi è un filone del pensiero economico che sempre nei '70 si è sforzato in tal senso. I più famosi sono Georgescu-Roegen e poi Herman Daly. Avevano compreso che le componenti fisiche non potevano generare una crescita economica perpetua. Veniva ripresa l'idea dei neoclassici secondo cui il sistema avrebbe inevitabilmente raggiunto uno “stato stazionario” (Steady-State economy).

Ma la soluzione a questo punto, da buoni economisti, non poteva essere quella di rifiutare il concetto stesso di crescita – e dunque di economia! - bensì di “arrangiare” la crescita in qualche altro modo. 

Un'economia ecologica poteva fondarsi allora sulla crescita delle componenti non-fisiche, in quanto ritenute non soggette a vincoli materiali(1).

L’economia “ecologica” oggi ha preso il nome di economia circolare. La consapevolezza che non è possibile prendere dal mondo e poi gettare via in eterno i materiali ha creato il "mostro verde" di un’economia circolare in cui i rifiuti diventano risorse al fine di alimentare la crescita.

La sfida qui non si gioca solo dal lato del consumo (che il consumatore impari a riciclare meglio), ma nel migliorare a monte le catene di produzione. Così è possibile che gli infiniti oggetti e merci di cui è composta la nostra vita vengano creati già in modo che una volta consumati possano essere recuperati senza troppe perdite (2).

Ma come non vedere che il sistema economico è concepito per accelerare i tempi di consumo degli oggetti al fine di generare sempre nuovo valore (aumentare il PIL)? Come non vedere che affinché il sistema viva è necessario che gli oggetti muoiano e rinascano continuamente?(3) L’economia circolare si vuole fare furba nel cercare come di “ibernarli” e dargli nuova vita.

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Stiamo mettendo la polvere sotto al tappeto. Una cosa sembra chiara: non è possibile uno sviluppo che sia sostenibile per il Pianeta (e per noi). Non c'è modo di generare una crescita del PIL senza scatenare processi distruttivi.

Ad essere più precisi bisognerebbe dire che non è possibile uno sviluppo economico sostenibile, perché forse è concepibile che una società possa svilupparsi in maniera etica e giusta in altri modi. La faccenda allora riguarderebbe l’inerzia e la poca creatività che ha l'umanità nel trovare soluzioni ai suoi problemi. 

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Ugo ha scritto a settembre dopo l'incontro del Club di Roma che:

"[...] più si cerca di stare al di sopra del limite, più veloce e severo sarà il rientro. Quello che si deve fare è rendere più leggero il collasso, seguirlo, non cercare di fermarlo. Altrimenti sarà peggio"


Tutta questa retorica dello sviluppo sostenibile invece consiste nel crearci un “mito”, un'alibi che ce la faremo a mantenere questa stessa società ma più pulita, più green e forse anche più ricca. In fondo non siamo convinti che in un modo o nell'altro la svangheremo?


Che la società stia collassando significa che è anche e soprattutto il sistema economico che sta man mano cedendo e sostenere lo sviluppo sostenibile significa cercare di rallentarne l'inevitabile crollo - rendendolo così ancora peggiore! 

Questo non significa che bisogna rassegnarsi, ma che piuttosto bisogna rimboccarsi le maniche in direzioni nuove. Quali? Se l'economia non è concepita per durare (poiché l'obsolescenza programmata è la sua legge) dobbiamo puntare sul creare strutture capaci di durare e di sopravvivere, in altre parole reti e organizzazioni modulari e veramente resilienti (4). 

"E' troppo tardi per lo sviluppo sostenibile. Dobbiamo mettere più enfasi sulla resilienza del sistema" (Dennis Meadows a Pisa nel 2006)

Non bisogna chiedersi “Come possiamo tenere in piedi l'economia?” ma “Che cosa sopravviverà al crollo dell'economia?”: questa a me sembra la domanda e la sfida, entusiasmante e drammatica al tempo, che si dovrebbero porre oggi gli ambientalisti (5).


NOTE
(1) Era in quel periodo che cominciava l'era dei computer e la finanziarizzazione dell'economiache l'ha accompagnata. La “conoscenza”(nel senso del Terziario) diveniva quel serbatoio che avrebbe fatto decollare ancora l'economia e così è stato. Tuttavia la conoscenza era ed è ben lungi dall'essere svincolata dal legame con la Terra poichè è pur sempre una forma di “lavoro” e dunque richiede energia. La comunità scientifica tarda ad ammettere che il sistema economico richiede in primo luogo energia per essere mantenuto e crescere implica un ammontare esponenziale di energia
(2) Emanuele Bompan ha scritto un libretto semplice in cui spiega “che cos'è l'economia circolare?”.
(3) Jean Baudrillard aveva scritto di questo in particolare nel suo straordinario libro La società dei consumi.
(4)Penso in particolare ai tre lavori di Pablo Servigne e Raphael Stevens: Comment tout peut s'effondrer?; Nurrir l'Europe en temps de crises; Petit manual de resilience local
(5) Anche senza essere magari al corrente del tema del picco del petrolio, molti Comuni italiani, soprattutto al Sud, si stanno organizzando in “comunità di Autoproduzione” dell'energia elettrica rinnovabile in sistemi, mi par di capire, anche off-grid; fonte: Legambiente, comunirinnovabili.it

martedì 24 aprile 2018

Cos'è L' "Effetto Seneca" e Perché è Importante


Questo Post è apparso su "GreenReport" il 10 Aprile 2018

Sostenibilità e “Effetto Seneca”: un antico paradigma che vale anche per i nostri tempi

 O del perché l'ecosistema in cui viviamo non è un supermercato dal quale possiamo prendere quello che ci serve, senza nemmeno dover pagare

di Ugo Bardi

Circa 2.000 anni fa, il filosofo romano Lucio Anneo Seneca scrisse al suo amico Licilio notando che “la crescita è lenta, ma la rovina è rapida”. Era un’osservazione soltanto apparentemente ovvia. Per esempio, vi ricordate della mela di Newton? Tutti sanno che le mele cadono dagli alberi, ma ci è voluto Newton per tirar fuori da questa cosa ben nota una cosa che non era affatto ovvia: la legge della gravitazione universale.

È la stessa cosa per l’osservazione di Seneca che “la rovina è rapida”, che si rivela la chiave di volta per capire gli sviluppi di quello che oggi chiamiamo la “scienza della complessità.” Nell’arco di alcuni decenni, a partire dagli anni ’60 del XX secolo, lo sviluppo del calcolo digitale ha permesso di affrontare problemi che, ai tempi di Newton (per non dire di quelli di Seneca) non si potevano studiare se non in modo molto approssimato.

E così questa nuova scienza ci ha permesso di addentrarci in un mondo che in un certo senso ci era familiare: il mondo delle cose reali che nascono, crescono, e alle volte collassano in modo rovinoso. Ma era anche un mondo che gli scienziati di una volta, abituati a descrivere tutto con delle equazioni, trovavano difficile da capire e che – in pratica – ignoravano. Ma non ci sono equazioni per certi fenomeni naturali come i terremoti, gli uragani, le eruzioni vulcaniche e nemmeno per cose apparentemente semplici come lo scoppio di un palloncino. Nemmeno ci sono equazioni per fenomeni più virtuali, come il collasso degli imperi, i crolli del mercato azionario, la sparizione dei partiti politici, e tante altre cose.

Tutte queste cose, e molte di più, le ho messe insieme nel mio libro che ho intitolato “L’Effetto Seneca” in onore dell’antico filosofo romano. È una storia che racconto a partire da un esempio classico che, nel libro, ho chiamato “la madre di tutti i collassi,” quella dell’Impero Romano. Ma nel libro si parla di tantissime cose: la rottura di oggetti, il crollo degli edifici, la frequenza dei terremoti, la guerra, i mercati finanziari, le estinzioni di massa e tante altre cose. La tesi di fondo è che tutti questi fenomeni hanno molto in comune: il meccanismo del collasso avviene per quello che in inglese chiamiamo “feedback” e che in italiano definiamo come “retroazione”. Più figurativamente, potremmo chiamarlo “effetto valanga” (o anche, ovviamente, “effetto Seneca”).

Ovvero, i sistemi collassano quando uno degli elementi che li compongono cede, ma non soltanto: causa il cedimento degli elementi che lo circondano. Questi, a loro volta, causano il cedimento di altre cose e il crollo si propaga – spesso molto rapidamente: come diceva Seneca, “La rovina è rapida”. È una caratteristica dei sistemi che chiamiamo “network”, che hanno conosciuto uno sviluppo rapidissimo degli studi in proposito.

Ma tutto questo serve per prevedere il futuro? È la domanda che mi viene posta spesso a proposito di questo libro. La risposta è, per dirla con Mark Twain, che le previsioni sono sempre difficili, specialmente quando hanno a che vedere con il futuro. Ma, del resto, che cos’è il futuro se non un fascio di possibilità che noi stessi decidiamo se trasformare in realtà o no? Il futuro non si può prevedere, si può soltanto essere preparati per il futuro.

Seneca stesso sarebbe probabilmente stato d’accordo con questo concetto: era profondamente ingranato nella filosofia stoica (di cui Seneca era un esponente) che dobbiamo sempre essere preparati per il futuro, ben sapendo che la rovina ci può arrivare addosso in qualsiasi momento. Questo vale sia per gli individui come per un’intera società.

Così, i modelli matematici che descrivono “l’Effetto Seneca” sono una quantificazione di un’antica saggezza. Ci possono essere utili per tante cose, forse la principale per renderci conto che l’ecosistema in cui viviamo non è un supermercato dal quale possiamo prendere quello che ci serve – e senza nemmeno dover pagare. È un sistema complesso soggetto al collasso di Seneca. E siccome anche noi facciamo parte dell’ecosistema, il collasso ci può fare grossi danni, per esempio nella forma di cambiamento climatico con tutti gli annessi uragani, siccità, ondate di calore eccetera. Anche uno stoico come Seneca avrebbe detto che se si può cercare di evitare il collasso climatico e altri collassi ambientali, bisogna provarci. Proviamoci.



“The Seneca Effect” è edito in inglese da Springer, e in tedesco da Oekom Verlag. Per il momento non c’è una versione italiana. Ci stiamo lavorando sopra.

“The Seneca Effect” è un rapporto commissionato dal Club di Roma, il quarantaduesimo dopo il celebre rapporto sui limiti dello sviluppo (“The Limits to Growth”) commissionato al Massachussets Institute of Technology e pubblicato nel 1972. È stato presentato nei giorni scorsi nell’Aula magna dell’Università di Firenze.

venerdì 20 aprile 2018

Chi è l’ambiente?

Un post di Natan Feltrin


Chi è l’ambiente?

We are Earthlings first, humans second” (Stan Rowe)

Noi sapiens, come abbiamo avuto piacere a definirci, siamo delle entità biologiche immerse in quella condizione d’esistenza denominata ambiente che è stata l’incubatrice della nostra storia filogenetica ancora prima di accoglierci in quanto “uomini”. Essa, difatti, fu per noi la madre che ci portò in grembo prima di esporci alla luce e poi allattarci.

Solo retroattivamente, dall’alto delle nostre categorie ermeneutiche, abbiamo definito questo essere circondati attivamente, questo essere-parte-di, ambiente, ovvero “intorno dinamico”.  Quando diciamo di avere un ambiente siamo vittime di un délire, in realtà dovremmo asserire di  essere ambiente poiché esso è il punto di congiunzione tra ogni soggettività ed il suo spazio di manifestazione, esso è l’indifferenziazione già plurima. Ognuno ha il proprio ambiente solo nella condizione che l’ambiente abbia ognuno, poiché pulsa attraverso i nostri battiti e si misura attraverso i nostri sensi. In quanto viviamo, esso vive e danza una primordiale danza di creazione e caducità. Esso è dinamico, sempre in moto, poiché noi tutti lo siamo nella nostra irrequietezza di esistenti effimeri.

Questa breve cornice teorica, comune ad ogni entità discreta della zoé, nella quale panteismo ed ecologia sembrano fondersi e confondersi, deve essere tenuta a mente ogniqualvolta si discute di crisi ambientale. Se con l’ambiente siamo davvero in aperto conflitto è perché la parola che usiamo si è fatta muta, poiché di questa architettura di cui ci costituiamo materia abbiamo perso il progetto. Diciamo ambiente, ma immaginiamo sfondi e paesaggi passivi, distanti, reificati… Così si fa strada il pensiero merologico,  il grande mercificatore di valori, l’attitudine mentale che ha venduto in saldo ogni stupore e ha è fatto il mondo “cosa”. Quando ci rappresentiamo l’environment, dall’etimo francese en viron (stare attorno), lo facciamo prendendo distanza da esso, facendolo cosa.

Questo è il passo che l’uomo moderno compie nel descrivere il paesaggio ecologico come il teatro in cui ne va della vita stessa rendendo, però, questa con-partecipazione una recita umana tra infiniti oggetti d’uso nella loro differente utilità.

L’Umwelt scade e diviene cornice di possibilità tutte umane, possibilità che l’uomo fa del mondo e non più con il mondo. La Natura, in ciò, diviene natura morta.

Non è colpa della scienza e nemmeno di una certa filosofia, ma di un intrecciarsi storico di memi se ora siamo convinti di abitare in quadro di still life dove i viv-enti e gli enti appiano come funzioni (anche quelle biologiche non divengono che “funzioni biologiche”). Ed in questo immenso apparato di “mezzi per” quando la smania di manipolazione porta ad un guasto del sistema-mondo esso, heideggerianaménte, si palesa nel suo non essere strumento.

In questa brevissima fenomenologia di come l’ambiente è stato cosificato, e di conseguenza strumentalizzato, risiede il senso profondo dell’Antropo-Eremocene: di quella danza originaria spietata e mirabile non è rimasto che il solo “uomo” e i suoi strumenti. Con gli strumenti, però, non si ha più dialogo, essi non rispondono, non con-vivono, non ricambiano il nostro sguardo, semplicemente fungono da ingranaggi della macchina capitalistica.

Se, in ultima istanza, non capiamo il valore dell’ambiente e lo figuriamo come distante dai nostri più diretti interessi è perché, in fondo, anche in tempi di crisi ecologica speriamo che qualcuno aggiusti la macchina prima che essa ci lasci a terra.

In un’epoca di crescita smodata di biomassa umana e di consumi, la sinfonia vitale del mondo è stata silenziata,  e quel che resta dell’ambiente non è che una macchina difettosa che, purtroppo, impone limiti all’economia e alla smania di accumulazione infinita di alcuni. Per questo dire Gaia non piace all’uomo-dio, poiché tale modo dell’Anthropos il mondo lo vorrebbe calcolare, manipolare ed emendare tramite il potere promesso della geoingegneria.


Aggiustare la macchina non ci aiuterà a curare la nostra ferita di specie, non ci ridarà quanto stiamo perdendo e non farà altro che renderci ancor più cosa tra le cose, merce tra le merci, sino a quando la nostra stella non smetterà di brillare.

Per muoversi fuori dalla palude di siffatto pensiero merologico, bisogna ricondurre la sensibilità verde, animalismo incluso, a interrogarsi profondamente non su cosa sia l’ambiente, ma su chi sia l’ambiente.

Al fondo di questa domanda troveremo innumerevoli ragioni per non smettere d lottare. 
                                                                                                                               (Natan Feltrin)

martedì 17 aprile 2018

Qualche osservazione sul libro di Ugo Bardi "The Seneca Effect," di Roberto Peccei (parte IV)

In questa quarta e ultima parte del suo intervento a Firenze, il 5 Aprile 2018, Roberto Peccei - vicepresidente del Club di Roma, discute alcune possibili linee per fronteggiare i cambiamenti che ci aspettano


Vorrei concludere discutendo brevemente tre diversi suggerimenti discussi nel rapporto Dai! per aumentare la resilienza della nostra società. Questi riguardano:
  1. la transizione alle energie rinnovabili;
  2. il disaccoppiamento  delle risorse dal benessere; e
  3. l’idea di un'economia circolare.
Se implementati ciascuno di questi suggerimenti dovrebbe almeno
 
"tirare le leve nella giusta direzione".
È chiaro che, a lungo termine, l'economia mondiale sarà alimentata da fonti di energia rinnovabile. Tuttavia, la questione cruciale per il futuro del pianeta è quanto durera` la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Attualmente si ritiene generalmente che le riserve mondiali di petrolio e gas siano suficientemente grandi da non aver bisogno di cercare di accelerare la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Ma, In ogni caso, per smorzare i cambiamenti climatici antropogenici e` importante fare questa transizione il più rapidamente possibile.

Vi è attualmente un acceso dibattito sulla velocità con cui il mondo può fare la transizione verso un'economia basata solo sulle risorse energetiche rinnovabili. Forse il pronostico più ottimistico che ho visto è quello di Mark Jacobsen e dei suoi colleghi a Stanford e UC Berkeley, che sostengono che è possibile per il mondo fare una transizione totale dai combustibili fossili entro il 2050. Il loro studio presenta tabelle di marcia tecniche che dimostrano che entro questa data il mondo può essere alimentato energeticamente esclusivamente da vento, acqua e luce solare. Secondo loro, nel 2050 il mondo sara’ alimentato dal 61,3% di energia solare (fotovoltaica e termica) e da 32,3% di energia eolica, con il rimanente 5,4% rappresentato da energia idroelettrica, marina e geotermica.

Le tabelle di marcia di Jacobsen e i suoi colleghi sono aggressive, ma non del tutto irrealistiche. Per esempio, uno studio del Department of Energy (DOE) negli Stati Uniti prevede la crescita dell'eolico negli Stati Uniti da 60 Giga Watts nel 2013 a 404 Giga Watts nel 2050, mentre lo studio di Stanford e Berkeley ipotizza che nel 2050 l'energia eolica negli Stati Uniti contribuira 795 Giga Watt, circa un fattore 2 maggiore.

In ogni caso, anche se la transizione verso l'energia rinnovabile non sara’ così veloce come e` suggerito in questo studio, c'è una questione importante da considerare che potrebbe rendere questa transizione più difficile da raggiungere. Una rapida transizione verso l'energia rinnovabile, o l’idea di astenersi dal bruciare alcune delle riserve di combustibili fossili conosciute per evitare cambiamenti climatici catastrofici, in pratica si tradurrà in non sfruttare del petrolio a cui è già stato dato un valore economico. Queste cosiddette risorse bloccate (stranded assets) sono state stimate dal Grantham Research Institute on Climate Change di essere del ordine di $ 6.000 miliardi. Ovviamente questi beni bloccati devono essere considerati parte del costo di una transizione da un'economia alimentata da combustibili fossili a un'economia alimentata da energia rinnovabile.

E’ chiaro che se vogliamo accelerare questa transizione bisogna:

  1. che tutti gli incentivi finanziari all'industria dei combustibili fossili (sia di proprietà privata che di proprietà statale) siano eliminate, e
  2. imporre una tassa sul carbonio che rifletta i costi reali associati all'estrazione e l’uso dei combustibili fossili.

Uno studio recente di Coady e colleghi nel Fondo Monetario Internazionale stima che gli incentivi dati all'industria dei combustibili fossili in tutto il mondo sia di circa $ 600 miliardi all'anno, mentre i danni ambientali non rimborsati, attualmente trattati come esternalità, sono stimati in circa $ 5.000 migliardi all'anno. Dato che la quantita di CO2 emessa a livello mondiale è di circa 36 Giga Tonnellate all’anno, una tassa sul carbonio di $ 100 per tonnellata di anidride carbonica genererebbe $ 3.600 miliardi, che è dell'ordine dei danni ambientali stimati. Per dirla in termini più umani, una tassa di $ 100 per tonnellata di CO2 emessa equivale ad aggiungere circa $ 1 dollaro per gallone di carburante negli Stati Uniti come tassa. In pratica, e` probabile che se il mondo si accorda su una minima tassa sul carbonio, questa tassa sara inferiore a $ 100 per tonnelata di CO2 emessa, ma con la speranza che col tempo la tassa salira` a questo livello.

Il secondo approccio che vorrei discutere brevemente per cercare di prevenire il collasso di Seneca del nostro sistema mondiale è quello di cercare di aumentare l'efficienza nel consumo delle risorse, in modo da "disaccoppiare" in modo efficace il consumo di risorse dal benessere economico. È abbastanza chiaro che, anche implementando una tale "strategia di disaccoppiamento", non si può davvero impedire al sistema di crollare. Tuttavia, si può guadagnare tempo e iniziare a incorporare politiche che potrebbero portare eventualmente alla quasi stabilità del sistema.

Vorrei sottolineare che arrivare a un sistema economico più disaccoppiato generalmente richiede uno sforzo prolungato. Un esempio importante viene dalla California. Nel 1974 la Legislatura della California approvò il Warren Alquist Act, istituendo la California Energy Commission il cui scopo era di:

"Incoraggiare la diversità delle fonti energetiche attraverso il miglioramento dell'efficienza energetica e lo sviluppo delle risorse energetiche rinnovabili"
A quarant'anni di distanza, i risultati di questa azione lungimirante sono chiaramente visibili confrontando, per esempio, il consumo di energia in California e in Texas (dove non sono stati intrapresi tali sforzi). Ora in Texas, l'energia totale consumata pro capite in un anno è di 475 milioni di BTU, mentre in California questo consumo è di 228 milioni di BTU. Questo "disaccoppiamento" del consumo di energia di un fattore due tra il Texas e la California può essere chiaramente ricondotto alla costituzione della California Energy Commission. Se gli Stati Uniti avessero seguito l’esempio della California, il consumo totale di energia negli Stati Uniti oggi sarebbe il 75% di quello che è, e il mondo oggi consumerebbe 5% meno di energia!

Sebbene ci siano molti esempi di disaccoppiamento utili, per far veri progressi sono necessarie soluzioni scalabili a livello globale. Inoltre ciò che spesso manca sono politiche che favoriscono il disaccoppiamento. In ogni caso, e` importante capire cosa sia necessario fare per far si che il mondo non si trovi in una crisi di risorse nel 2050.

Questo e stato quantificato dal Gruppo Internazionale delle Risorse del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP). Nel 2000 il mondo ha consumato 49 miliardi di tonnellate di risorse all'anno, che corrisponde a 8 tonnellate pro capite all'anno. Se continuiamo con l'attuale livello di utilizzo delle risorse, nel 2050 consumeremo 141 miliardi di tonnellate all'anno. Tenendo in conto della crescita della popolazione, questo consumo corrisponde a 16 tonnellate pro capite all'anno. Se si potesse ottenere un disaccoppiamento moderato, in modo che il tasso pro-capite nel 2050 rimanga ancora a 8 tonnellate pro capite all'anno non 16, il livello del consumo mondiale nel 2050 sarebbe di 70 miliardi di tonnellate all'anno invece di 141 miliardi di tonnellate. Potremo veramente raggiungere questo fattore due nell'efficienza del uso delle risorse? L'esempio della California mostra che con sufficiente lungimiranza questo è possibile, ma bisogna agire subito!

La terza proposta di misure da adottare per prevenire il collasso del nostro sistema mondiale è molto in linea con il pensiero di Bardi. Il modo più efficace per evitare il collasso di un sistema dinamico è di modificare opportunamente il sistema stesso. Questa e` l’idea della economia circolare.

L'economia di oggi - l'economia lineare - si basa su un principio di “turn over” rapido, che spesso promuove l'obsolescenza precoce. Più velocemente sostituiamo i nostri gadget, meglio è, e questo vale per la maggior parte degli articoli che consumiamo. Chiaramente, il modo in cui gestiamo le risorse della terra è caratterizzato da enormi inefficienze. L'economia lineare si basa sul principio della massima velocità e volume dei flussi di risorse, portando a livelli di inquinamento in rapido aumento e la perdita di ecosistemi. In piu` abbiamo notevoli perdite di valore con ogni prodotto smaltito. Inoltre, l'attuale modello economico lineare è molto problematico se si vuole mitigare il cambiamento climatico, poiché la produzione di materiali di base rappresenta quasi il 20% delle emissioni globali di gas serra, mentre il settore dei rifiuti ne aggiunge un altro 3-4%.

Passare a un'economia molto più efficiente sotto il profilo dei materiali - un'economia circolare - avrebbe molti vantaggi. In un'economia circolare, i prodotti sono progettati ab initio per semplificare il riciclaggio, il riutilizzo, lo smontaggio e la rigenerazione. Per capire gli effetti di questo ripensamento, è necessario considerare l'intero ciclo di vita di un oggetto fabbricato. Ci sono guadagni di efficienza da ottenere nell'estrazione delle risorse che formano l'oggetto, così come guadagni nel modo in cui l'oggetto è prodotto. Inoltre, ci sono efficienze da realizzare nel modo in cui l'oggetto viene utilizzato e nel modo in cui viene finalmente scartato. L'efficacia totale è il prodotto di tutti questi fattori.

Esistono molte opzioni e investimenti politici che potrebbero contribuire a far passare da un’economia lineare a un'economia circolare. Questi includono il rafforzamento degli obiettivi di riciclaggio e riutilizzo per aiutare a ridurre e trattare rifiuti e residui; la introduzione di requisiti di progettazione per nuovi prodotti per facilitare la riparazione, manutenzione, e smantellamento; e un ripensamento della tassazione, abbassando le tasse sul lavoro e aumentando le tasse sull'uso della natura.

Naturalmente, la vera questione qui è se la società avrà la volontà di attuare politiche come queste che possono prevenire il suo collasso.

La mia impressione dopo aver letto il bellissimo libro di Bardi e che ci vorra molto di piu` che queste idee che vi ho brevemente illustrato per convincere Bardi che l'umanità sara’ veramente capace di muoversi lungo un sentiero piu saggio. Tuttavia nella conclusione del suo libro Bardi afferma che:

"Non è impossibile sperare in un mondo migliore. È una speranza, non necessariamente una predizione, ma l'unica cosa che è veramente inevitabile è il cambiamento ... Se accettiamo il cambiamento e non lo combattiamo, il futuro sarà nelle nostre mani "
Quindi c'è speranza alla fine, anche per uno stoico scettico come Ugo Bardi!


domenica 15 aprile 2018

Qualche osservazione in occasione della presentazione dell libro di Ugo Bardi "The Seneca Effect". Di Roberto Peccei, parte III


Parte III dell'intervento di Roberto Peccei a Firenze il 5 Aprile 2018 - questa sezione è dedicata alla resilienza dei sistemi



I migliori esempi di sistemi resilienti sono forniti da ecosistemi viventi, i i quali sono stati ottimizzati da milioni di anni di selezione naturale. Nel suo libro Bardi sottolinea che nel mondo non sembrano esserci molti esempi di sistemi sociali veramente resilienti, in particolare se questi sistemi coinvolgono grandi strutture sociali. Quindi Bardi è piuttosto scettico che l'umanità sarà in grado di incorporare abbastanza resilienza nel attuale sistema globale per evitare un rovinoso collasso sociale e politico. Teme che i governi e le società di fronte a circostanze difficili prenderanno provvedimenti, come scoraggiare il dissenso e la discussione aperta, che rendono il sistema sociale più rigido e aumentano il rischio di un collasso improvviso. Parafrasando Jay Forrester, Bardi chiama questa reazione

"tirare le leve nella direzione sbagliata".

Recentemente un concetto importante è stato aggiunto alla discussione sul futuro dell'umanità nel nostro pianeta. Questa è la nozione di confini o limiti planetari, in inglese planetary boundaries, introdotta da Johan Rockstroem e Will Steffen e dai loro collaboratori. Mentre il primo rapporto del Club di Roma, The Limits to Growth, metteva in dubbio l'idea di una crescita perenne, l'idea dei confini planetari offre la possibilità di misurare con maggiore precisione lo stato del pianeta.

Secondo Rockstoem e Steffen la nostra società planetaria è in pericolo, se determinati parametri fisici, i confini planetari, vanno oltre certi limiti. Un esempio di limite planetario è la quantità di CO2 nell'atmosfera, e la scienza suggerisce che la terra potrebbe aver gia attraversato un limite planetario andando oltre i 400 ppm di CO2 nella atmosfera. Se questo parametro e altri simili rimangono entro certi limiti, l'umanità sulla terra può continuare a prosperare nel futuro. Quindi, stare all'interno di questi confini planetari è il modo per garantire la resilienza del nostro mondo. Andare oltre questi confini può portare a cambiamenti ambientali irreversibili.

In altre parole, attraversare un confine planetario rende il collasso molto più probabile. Nel linguaggio usato da Bardi nel suo libro, man mano che questi confini vengono attraversati, il sistema Terra rischia di lasciare il suo punto "attrattore" stabile e di muoversi verso un tipping point.

In un recente articolo su Science, Rockstroem, Steffen e i loro collaboratori indicano che quattro dei nove confini planetari da loro studiati sono gia stati incrociati a causa dell'attività umana. Quindi concludono che quando si parla di cambiamenti climatici, estinzione delle specie e perdita di biodiversità, deforestazione e altri cambiamenti del sistema terrestre, il degrado che ha già avuto luogo sta guidando il Sistema Terra, nel suo complesso, in un nuovo stato di squilibrio. Forse lo scetticismo di Bardi che non potremo evitare il collasso del nostro mondo globalizzato è davvero giustificato!

A peggiorare le cose, il forte aumento del consumo umano negli ultimi 50 anni ha causato non solo l'attraversamento dei confini planetari fisici. Ci sono stati cambiamenti sociali altrettanto significativi, tra cui l'aumento della povertà, della malnutrizione e della disuguaglianza dei redditi. Ad esempio, l'anno scorso Oxfam ha riferito che solo 8 uomini possiedono la stessa ricchezza di mezzo mondo! È probabile che questi cambiamenti sociali siano un'altra fonte di instabilità che puo far crollare il nostro attuale sistema planetario.

Questo mi porta a riflettere su quanto "mite" possiamo sperare di fare l’ inevitabile collasso di ciò che Bardi chiama l'impero globalizzato. Possiamo prendere dei provvedimenti per contribuire a rafforzare la capacità di recupero del sistema attuale? Un segnale di speranza in questo contesto è il tentativo delle Nazioni Unite di fornire degli obbietttivi volti a garantire la sopravvivenza dell'umanità nel futuro. Tipico di una grande organizzazione burocratica globale, non sorprendentemente, l’approccio delle Nazioni Unite consiste nel creare un accordo su una serie di obiettivi per raggiungere la sostenibilità: gli obiettivi di sviluppo sostenibile, in inglese Sustainable Development Goals (SDG). Le Nazioni Unite, attraverso gli SDG, hanno presentato una visione estremamente ambiziosa e trasformativa, che prevede nel futuro avere un mondo libero da povertà, fame e malattie, in cui tutti possono prosperare senza paura della violenza, e dove si rispettera la biodiversità e il clima.

Il fatto che tutti i paesi delle Nazioni Unite siano riusciti a raggiungere un accordo unanime su 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) e’ notevole. Questi SDGs vanno dall'eliminazione della povertà e della fame nel mondo, ad impegni per garantire la salute dei nostri oceani e la biodiversità del pianeta. Sebbene gli SDGs siano eccellenti, e chiaro che solo enunciarli veramente non basta per muovere il mondo verso la sostenibilità. La domanda chiave per me è in quali condizioni gli SDG sociali ed economici e gli SDG ambientali possono essere resi reciprocamente compatibili.

È chiaro che raggiungere gli obiettivi sociali ed economici - se fatti sulla base di politiche di crescita convenzionali - renderebbe praticamente impossibile ridurre il riscaldamento globale, fermare la pesca eccessiva negli oceani, arrestare il degrado della terra e fermare la perdita di biodiversità. Quindi, a meno che il mondo non cambi cammino, ci dovranno essere massicci compromessi tra gli SDG socio-economici e quelli ambientali.

Forse più diretto è l'approccio che il Club di Roma ha preso per cercare di aumentare la resilienza della nostra societa. Per un vero sviluppo sostenibile è necessario continuare a esaminare la tensione tra economia e popolazioni in crescita e i sistemi vitali di supporto planetario. Questo è precisamente il messaggio contenuto nell'enciclica di Papa Francesco, Laudato Si, che parla della progressiva distruzione della nostra "casa comune", il pianeta Terra. L'enciclica del Papa affronta il divario scandaloso tra ricchi e poveri e l'incapacità di quasi tutti i paesi di ridurre questo divario e sottolinea il problema centrale di perseguire obiettivi economici a breve termine, ignorando il costo reale dell'impatto a lungo termine sulla natura e società.

Per rendere il sistema globale più resiliente e smorzare la gravità di un futuro collasso, è importante agire subito, dal momento che procedere come facciamo al solito (il famoso business as usual) ci porterà alla rovina. Questo è il messaggio del rapporto al Club di Roma appena pubblicato dal titolo Dai! capitalismo, breve termismo, popolazione e la distruzione del pianeta che esamina vari approcci per aiutare il nostro pianeta a diventare più sostenibile. Pero’, come Ugo Bardi chiarisce nel suo libro, non sara` possibile avere successo al 100% in questi tentative, poiché i sistemi complessi hanno una direzione preferita nella quale fluiscono. Nel linguaggio colorato che Bardi spesso usa:

"non sara possibile far si che i conigli diano caccia alle volpi".

Tuttavia, bisogna agire, perche non agire certamente peggiorebbe le cose.