mercoledì 14 gennaio 2015

Collasso del prezzo del petrolio: i sauditi hanno fatto una scelta intelligente?

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Dati della produzione petrolifera dell'Arabia Saudita (tutti i liquidi). Fonte: EIA



Arthur Berman di recente ha scritto questo sul collasso del prezzo del petrolio:

In quanto all'Arabia Saudita e a suoi motivi, è a sua volta molto semplice. I sauditi sono bravi coi soldi e l'aritmetica. Di fronte alla dolorosa scelta fra perdere soldi mantenendo l'attuale produzione a 60 dollari al barile e togliere 2 milioni di barili dal mercato perdendo molti più soldi, la scelta è facile: prendere la strada meno dolorosa. Se ci sono ragioni recondite come danneggiare i produttori statunitensi di petrolio di scisto, l'Iran o la Russia, benissimo, ma si tratta solo di una questione di soldi.

Penso che Berman potrebbe aver ragione, i sauditi hanno ragionato in questi termini. Volevano ridurre le loro perdite e mantenere la quota di mercato.

Ma pensateci un momento: è stata davvero una mossa intelligente per i sauditi?

L'Arabia Saudita produce poco oltre al petrolio. La sua economia è pesantemente basata sul petrolio. Ed anche per il cibo, l'Arabia Saudita deve affidarsi agli introiti del petrolio per importarlo. E persino per la grande Arabia Saudita, le risorse petrolifere non sono infinite.

Quindi, ipotizzate di avere il potere di regolare la produzione di petrolio in Arabia Saudita, cosa fareste? Logicamente, pensereste che sia stupido continuare a pompare petrolio a tutta velocità se è diventato così a buon mercato. Pensereste che è una buona idea tenerne il più possibile nel sottosuolo, da usare quando sarà davvero raro e costoso. In aggiunta, i vostri concorrenti finiranno il petrolio mentre voi ne avrete un sacco; non sarebbe bello?

Logico? Certo, ma solo se pensate a lungo termine. Se pensate solo al profitto a breve termine, allora ha senso vendere ciò che avete, quando lo avete. E il futuro?, be', quello sarà il problema di qualcun altro.

Sfortunatamente, non è solo in Arabia Saudita che la pensano in questo modo.



martedì 13 gennaio 2015

La crisi del picco del petrolio

DaResilience”. Traduzione di MR

Di Tom Whipple

Lo so che è sempre più difficile credere che ci sia una “crisi del picco del petrolio” in agguato la fuori in attesa di ingolfare la nostra civiltà e creare ogni sorta di devastazione. Quasi ogni giorni ora i prezzi del petrolio e della benzina stanno crollando. Ci viene sempre detto che l'America è prossima all'indipendenza energetica dalle fonti energetiche straniere, che il mondo ha ancora decenni di roba da bruciare, di qualsiasi cosa stiamo bruciando, e il cambiamento climatico è una cosa di cui si preoccuperanno i nostri bis-bis-bisnipoti. Negli ultimi 5 mesi, i prezzi del petrolio sono crollati di 40 dollari al barile, cosicché noi americani ora abbiamo circa 800 milioni di dollari in più da spendere ogni giorno in qualcosa che non siano prodotti petroliferi. A coronamento di tutto ciò, quei popoli i cui governi non ci amano granché – Russia, Iran e Venezuela, per esempio – sono davvero nei guai mentre scivolano in problemi economici più profondi.

Lasciando da parte per il momento la possibilità che qualche fonte di energia esotica e non ancora pienamente compresa emergerà nel prossimo futuro, salvandoci dal cambiamento climatico, ravvivando l'economia globale e permettendoci di volare più lontano nello spazio, le prove che ci troviamo ancora sull'orlo di una crisi sono molto forti. Di fatto probabilmente ci siamo già dentro, semplicemente non la riconosciamo per quella che è. E' molto più facile dare la colpa dei problemi alle tasse alte o alle regole di governo che ammettere che le carenze di risorse naturali stanno facendo salire i prezzi e/o tagliando la crescita.

Che succede se smettiamo di bruciare i fossili?

Questo post affronta una questione molto importante e spesso trascurata. Ridurre le emissioni è assolutamente necessario per la nostra sopravvivenza, ma se non stiamo attenti a come lo facciamo, rischiamo un collasso economico. Come succede sempre, ci siamo messi nei guai da soli: avremmo dovuto pensarci prima. (UB)



Da “The Guardian”. Traduzione di MR


La Banca d'Inghilterra indaga i rischi di una “bolla del carbonio”

Inchiesta per valutare le possibilità di un collasso economico se le regolamentazioni per il cambiamento climatico rendessero i beni di carbone, petrolio e gas privi di valore




Vista aerea delle sabbie bituminose a Fort McMurray, Alberta, Canada. Se viene raggiunto un accordo globale per limitare le emissioni di carbonio per i 2°C, le riserve di carbone, petrolio e gas non potrebbero essere bruciate. Foto: Alamy

Di Damian Carrington

La Banca d'Inghilterra sta per condurre un'indagine sul rischio che le società di combustibili fossili causino un grande collasso economico se le future regolamentazioni sul cambiamento climatico rendessero i beni di carbone, petrolio e gas privi di valore. Il concetto di "bolla del carbonio" si è guadagnato un rapido riconoscimento dal 2013 e viene preso in considerazione sempre più seriamente dalle grandi società finanziarie, comprese Citi bank, HSBC e Moody’s, ma l'indagine bancaria è finora il riconoscimento più significativo da parte di un istituto regolatore. La preoccupazione è che se i governi del mondo adempiono ai loro obbiettivi accordati di limitazione del riscaldamento globale a +2°C tagliando le emissioni di carbonio, allora circa 2/3 delle riserve provate di carbone, petrolio e gas non possono essere bruciate. Essendo le società di combustibili fossili fra le più grandi del mondo, forti perdite del loro valore potrebbero indurre una nuova crisi economica.

Mark Carney, il governatore della banca, ha rivelato l'indagine in una lettera al comitato per il controllo dell'ambiente (EAC) della House of Commons, che sta conducendo la sua propria indagine. Carney ha detto che c'è stata una discussione iniziale all'interno della banche sui beni di combustibili fossili “immobilizzati”. “Alla luce di queste discussioni, approfondiremo ed amplieremo la nostra indagine sull'argomento”, ha detto, coinvolgendo il comitato di politica finanziaria che ha l'incarico di identificare i rischi economici sistemici. Carney ha sollevato il problema ad un seminario alla Banca Mondiale in ottobre. La notizia dell'indagine della banca giunge nel giorno in cui si aprono i negoziati per l'azione sul cambiamento climatico a Lima, in Perù, e mentre una delle società energetiche europee più grandi, la E.ON, ha annunciato che stava per scorporare gli affari legati ai combustibili fossili per concentrarsi sulle rinnovabili e sulle reti. L'IPCC dell'ONU ha recentemente avvertito che il limite di emissioni di carbonio coerente con i +2°C si stava avvicinando e che l'energia rinnovabile dev'essere perlomeno triplicata.

“I politici ed ora le banche centrali si stanno svegliando rispetto al fatto che gran parte del petrolio, carbone e gas delle riserve mondiali dovrà rimanere nel sottosuolo, a meno che la cattura del carbonio e le tecnologie di stoccaggio non possano venire sviluppate più rapidamente, ha detto Joan Walley MP, che presiede la EAC. “E' tempo che gli investitore riconoscano anche questo e mettano in conto l'azione per il cambiamento climatico nelle loro decisioni sugli investimenti in combustibili fossili”, ha detto la Walley al Financial Times. Anthony Hobley, amministratore delegato del thinktank Carbon Tracker, che è stato importante nell'analisi della bolla del carbonio, ha detto che l'ultima mossa della banca potrebbe portare a cambiamenti importanti. “Le società di combustibili fossili dovrebbero rivelare ora quante emissioni di carbonio sono racchiuse nelle loro riserve”, ha detto. “Al momento non c'è alcuna coerenza nei rapporti, quindi è difficile per gli investitori prendere delle decisioni informate”. ExxonMobil e Shell hanno detto all'inizio del 2014 che non credevano che le loro riserve di combustibili fossili sarebbero state immobilizzate. A maggio, Carbon Tracker ha riportato che oltre 1 trilione di dollari viene attualmente scommesso in progetti petroliferi ad alto costo che non vedranno mai un ritorno se i governi del mondo adempiono ai loro impegni sul cambiamento climatico.


lunedì 12 gennaio 2015

Si incolpa la Russia e si mettono i contribuenti statunitensi alle corde, mentre il boom del fracking collassa

Da “Truthout”. Traduzione di MR

Di Ben Ptashnik 


Vladimir Putin all'incontro annuale del World Economic Forum di Davos nel 2009. (Foto: World Economic Forum)

Mentre il congresso rimuove le restrizioni sulla possibilità che i contribuenti salvino le banche “troppo grandi per fallire”, la destra incolpa gli ambientalisti e la Russia per la morte del boom del fracking. In realtà, i titoli spazzatura delle banche e i derivati hanno inondato Wall Street ed ora la bolla del fracking minaccia un'altra crisi finanziaria.

Il collasso dei prezzi del petrolio greggio dovuto all'eccesso di offerta stanno raggiungendo le proporzioni di uno tsunami, minacciando le banche di Wall Street, gli investitori e dozzine di paesi, principalmente Russia, Iran e Venezuela, dove le perdite di introiti hanno causato un grave degrado finanziario e le economie stanno per implodere. Mentre oggi gli americani si godono la benzina a 2 dollari a gallone, gli analisti di Wall Street prevedono che un collasso del mercato energetico imminente metterà in ginocchio le istituzioni finanziarie ancora una volta e i contribuenti sono candidati per un altro salvataggio obbligatorio. Al centro di questi movimenti tettonici nell'intero settore energetico c'è la recente espansione dell'industria della fratturazione idraulica (fracking), un ciclo di espansione che è iniziato sul serio quando il Congresso e l'amministrazione Bush hanno approvato la Legge sulla Politica Energetica del 2005, che ha esentato la nuova tecnologia della trivellazione orizzontale dalla Legge per l'Acqua Pulita, dalle Legge sull'Acqua Potabile Sicura e dalla Legge di Politica Ambientale Nazionale. Mettendo in produzione quantità considerevoli di nuove risorse di petrolio e gas dai depositi di scisto, il boom del fracking ha promesso l'indipendenza energetica degli Stati Uniti, ribaltando i paradigmi prevalenti a livello mondiale sull'energia rinnovabile e sulle aspettative relative al picco del petrolio. Gli ambientalisti hanno combattuto contro l'enorme infrastruttura dell'oleodotto di Keystone che consegnerebbe i combustibili fossili ai mercati esteri, temendo che estrarre quelle risorse minerebbe la lotta per frenare le emissioni di carbonio.

Il fracking ha anche minacciato il dominio della Russia e dell'arabia saudita come fornitori di combustibili fossili dell'Europa quando è divenuto evidente che gli Stati Uniti sarebbero presto diventati un esportatore netto. Negli Stati uniti, il fracking è stato pubblicizzato a Wall Street come un'opportunità per arricchirsi in fretta, attraendo enormi ingressi di capitale e creando una bolla di investimento. Bloomberg quest'anno ha riportato che il numero di obbligazioni emesse dalle società di petrolio e gas è cresciuto di un fattore di nove dal 2004. “In questo momento gli investitori si stanno ubriacando di Kool-Aid, ha detto a Bloomberg Tim Gramatovich, responsabile degli investimenti e fondatore della Peritus Asset Management LLC, in un articolo dell'aprile 2014. “Le persone smarriscono la propria disciplina. Smettono di fare i calcoli. Smettono di tenere la contabilità”, ha continuato. “Stanno solo vivendo il sogno ed è questo che sta accadendo col boom dello scisto”. Quando il gas da fracking si è affacciato per la prima volta sulla scena, sono state fatte dichiarazioni altisonanti sul fatto che gli Stati Uniti avevano 100 anni di fornitura di gas sotto forma di scisto, o 2.560 milioni di piedi cubici. E Wall Street ha cavalcato quella stima iniziale. Il solo lato negativo (oltre al disastro ambientale lasciato da questa industria tossica) era che, come la bolla dell'edilizia che dipendeva da un valore della case sempre in crescita per rimanere redditizia, i pozzi di gas di scisto dovevano distribuire fornire una produzione ed una redditività costante o crescente per ripagare il pesante debito in prestiti agevolati che grava sulle società di trivellazione: da 3 a 9 milioni di dollari per pozzo. I pozzi del fracking non richiedono solo la trivellazione, ma anche un'enorme iniezione di energia, acqua, sabbia e sostanze chimiche per fratturare le rocce che contengono i depositi di petrolio e gas.


Come la aumentata inefficienza spiega il crollo dei prezzi del petrolio

DaOur Finite World”. Traduzione di MR

Gail utilizza qui l'espressione "aumentata inefficienza", ma, come lei stessa spiega nel testo, è la stessa cosa del termine più comune "ritorni decrescenti." E' una manifestazione del fatto che il graduale esaurimento delle risorse ne rende sempre più costosa l'estrazione. (UB)


Di Gail Tverberg

Circa dal 2001, diversi settori dell'economia sono diventati sempre più inefficienti, nel senso che servono più risorse per ottenere una data produzione, come 1.000 barili di petrolio. Credo che questo aumento dell'inefficienza spieghi sia il rallentamento della crescita economica sia il netto calo recente dei prezzi di molti beni, compreso il petrolio. Il meccanismo in atto è ciò che chiamerei l'effetto di spiazzamento. Se servono più risorse per settori sempre più inefficienti dell'economia, sono disponibili meno risorse per il resto dell'economia. Di conseguenza, i salari ristagnano o declinano. Le banche centrali trovano necessario abbassare i tassi di interesse, per mantenere in piedi l'economia. Sfortunatamente, con salari stagnanti o più bassi, i consumatori trovano che i beni provenienti dai settori sempre meno efficienti siano sempre più inaccessibili, specialmente se i prezzi salgono per coprire le necessità di questi settori inefficienti. Per gran parte dei periodi passati, i prezzi dei beni sono rimasti prossimi ai costi di produzione (almeno per il “produttore marginale”). Ciò cui sembra che stiamo assistendo di recente è una diminuzione del prezzo di ciò che i consumatori possono permettersi rispetto ad alcuni di questi settori sempre più inaccessibili. A meno che la situazione non possa essere ribaltata rapidamente, l'intero sistema rischia di collassare.

Settori dell'economia sempre più inefficienti

Possiamo pensare a diversi settori dell'economia sempre più inefficienti:

Petrolio. Il problema del petrolio è che gran parte di quello facile (e quindi economico) da estrarre è finito. Sembra che ci sia molto petrolio costoso da estrarre disponibile. Una parte si trova in fondo al mare, anche sotto strati di sale. Una parte di questo petrolio è molto pesante e deve essere “vaporizzato”. Una parte richiede il “fracking”. I passi estrattivi in più richiedono l'uso di maggiore lavoro umano e di maggiori risorse fisiche (petrolio e gas, tubi di metallo, acqua dolce), ma la produzione aumenta di pochissimo. I liquidi estensioni del petrolio, come biocombustibili e operazioni di estrazione di liquidi dal carbone, tendono a loro volta ad essere forti consumatori di risorse, esacerbando ulteriormente il problema dell'aumento del costo di produzione dei combustibili liquidi. Ho descritto il problema che sta dietro ai costi come sempre maggiore inefficienza di produzione. Il nome tecnico del nostro problema è ritorni decrescenti. Questa situazione si verifica quando un aumento di investimento offre ritorni sempre minori. I ritorni decrescenti tendono a verificarsi in qualche misura ogni qualvolta risorse di ogni tipo vengono estratte dal sottosuolo. Se la portata dei ritorni decrescenti è sufficientemente piccola, i costi totali possono essere mantenuti piatti con progressi tecnologici. Il nostro problema ora è che i ritorni decrescenti sono cresciuti in misura tale che i progressi tecnologici non tengono più il passo. Di conseguenza, il costo di produzione di molti tipi di beni e servizi sta crescendo più rapidamente dei salari.

domenica 11 gennaio 2015

Nonostante tutto, esiste ancora un mondo reale: la manifestazione per i Nidiaci di Firenze





In un mondo dominato dalla televisione, c'è ancora modo di trovarsi tutti insieme in carne ed osssa e all'aria aperta in un quartiere per difendere gli spazi pubblici che rimangono. Questo è quello che è successo ieri nel quartiere di San Frediano, a Firenze - uno dei più antichi della città.

Ecco qualche immagine della manifestazione in favore del mantenimento dello spazio pubblico del giardino dei "Nidiaci", donato al quartiere un secolo fa dal benefattore Carlo Matteo Girard, e ora acquisito per una speculazione edilizia.

Ci vogliono queste cose per ricordarci che il mondo è fatto di cose reali e non solo di immagini viste in TV.

h/t Kelebek


(Nota: l'autore di questo post note non risiede al momento a San Frediano, ma è nato in quella zona e tuttora "ci sente" parecchio)

Gli alberi ci salveranno! O forse no......

Da “Scientific American”. Traduzione di MR (h/t Paul Chefurka)

Il biossido di carbonio cresce, gli alberi tropicali no







Gli scienziati avevano ipotizzato che gli alberi avrebbero utilizzato l'aumento delle concentrazioni di CO2 per crescere di più, ma la ricerca mostra che non è così

Di Elizabeth Harball e ClimateWire


Una nuova ricerca suggerisce che le foreste potrebbero non essere utili quanto avevamo sperato. Foto: A. Duarte/Flickr

Gli alberi sono assolutamente nostri alleati quando si tratta di catturare gas serra, aiutando così nella lotta contro il cambiamento climatico. Ma una nuova ricerca suggerisce che le foreste potrebbero non essere utili quanto avevamo sperato. I modelli computerizzati che prevedono come avverrà il cambiamento climatico ipotizzano che quando le concentrazioni di gas serra salgono, le foreste si avvantaggeranno del biossido di carbonio aggiuntivo e crescono un po' di più, aumentando la loro capacità di mitigare il riscaldamento globale. Ma dopo l'analisi di decine di migliaia di anelli degli alberi presi da foreste tropicali in Bolivia, Camerun e Thailandia, una squadra internazionale di scienziati sta mettendo in discussione questa ipotesi. La loro ricerca, pubblicata ieri nella rivista Nature Geoscience, non ha scoperto alcuna correlazione fra l'aumento delle concentrazioni di biossido di carbonio degli ultimi 150 anni e la crescita della foresta, come evidenziato dagli anelli degli alberi. Le foreste tropicali “sono riserve di cabonio molto importanti”, ha detto l'autore principale Peter van der Sleen Gruppo di Gestione ed Ecologia delle foreste dell'Università di Wageningen, in Olanda. Ma, ha detto van der Sleen, la sua ricerca mette in discussione la capacità delle foreste tropicali di mitigare il cambiamento climatico. Questa scoperta ha il potenziale di cambiare le nostre previsioni climatiche, ha spiegato Lucas Cernusak del College delle Scienze Marine ed Ambientali dell'Università James Cook a Cairns, in Australia. “Le attuali formulazioni del modello prevedono un aumento della biomassa tropicale in questo secolo”, ha scritto in una email Cernusak, che è stato coinvolto nello studio. “Se questo non avviene, il tasso di crescita del CO2 atmosferico aumenterà e il riscaldamento globale accelererà”.

Gli anelli degli alberi raccontano una storia 'sorprendente'

E' probabile che il nuovo studio sia giunto a conclusioni diverse a causa delle differenze nei metodi di ricerca. I primi studi erano basati sull'analisi della biomassa contenuta in piccoli lotti di foresta piuttosto che in una campionatura casuale di alberi sparsi in tutta una foresta come nello studio di van der Sleen. Inoltre, senza i dati a lungo termine forniti dagli anelli degli alberi, i primi esperimenti osservavano la crescita degli alberi su una scala temporale minore. Van der Sleen ed i suoi coautori hanno pensato che se gli alberi fossero effettivamente cresciuti di più con l'aumento del CO2 in atmosfera, i loro anelli si sarebbero ispessiti nel tempo. Ed hanno trovato prove che gli alberi hanno reagito al maggiore CO2 in atmosfera. Analizzando gli isotopi di carbonio nel legno, hanno scoperto che gli alberi avevano usato l'acqua in modo più efficiente e probabilmente sono diventati anche più efficienti nella fotosintesi, il processo in cui la luce viene trasformata in energia. Per una qualche ragione, però, nessuna di queste cose si è tradotta in anelli più spessi o alberi più grandi, come sospettano i ricercatori. “Un aumento nell'efficienza dell'uso dell'acqua è una delle risposte osservate più affidabili degli alberi all'aumento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera”, ha scritto Cernusak a in un pezzo di accompagnamento allo studio di van der Sleen su “News and Views”, pubblicato anche sulla rivista Nature Geoscience. “Ma l'aumento dell'efficienza nell'uso di acqua osservato nelle foreste rende ancora più sorprendente il fatto che i tassi di crescita stagnassero”.

Potrebbero esserci più alberi?

Perché mai dovrebbe essere così? Lo studio offre tre spunti. Il primo è che è possibile che un altro fattore di stress collegato al cambiamento climatico, come l'aumento delle temperature, stia impedendo agli alberi di crescere di più. La seconda teoria è che altre parti dell'albero, come i frutti o le radici, siano cresciute di più, ma non gli anelli. La terza teoria, che sia van der Sleen sia Cernusak indicano come quella preferita, è che la crescita degli alberi sia limitata da altre risorse che non hanno a che fare con CO2 o acqua, come la quantità di nutrienti nel suolo. Ma non è ancora il momento di abbandonare l'idea che le foreste potrebbero compensare l'aumento delle emissioni – van der Sleen ha avvertito che i suoi risultati “non sono definitivi”. Ha detto che è possibile che anche se i singoli alberi non stanno crescendo di più, il numero di alberi potrebbe essere in aumento in reazione al maggior CO2 in atmosfera. “Si può pensare che forse il CO2 non stia aumentando la crescita degli alberi, ma la crescita degli alberi non è la sola cosa che determina la biomassa”, ha detto van der Sleen.