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venerdì 21 gennaio 2022

I comportamenti umani spiegati (anche) dalla prospettiva sociobiologica


Konrad Lorenz non è di solito associato al concetto di "sociobiologia," un termine posteriore ai suoi lavori principali. Ma i suoi studi sul comportamento animale sono stati alla base dello studio del comportamente umano inteso come creatura biologica -- la base della sociobiologia. 


Di Fabio Vomiero

Con il termine "sociobiologia" (detta anche "psicologia evoluzionistica"), ci si riferisce oggi ad un intero programma di ricerca a forte vocazione multidisciplinare che ha come scopo principale lo studio comparato del comportamento animale e umano dal punto di vista bioevoluzionistico. Una multidisciplinarità data dal fatto che effettivamente a questo filone di ricerca contribuiscono numerose scienze come l'antropologia, la genetica evoluzionistica, la fisiologia comparata, l'etologia, le neuroscienze, l'ecologia comportamentale, per esempio, ed è noto che quando le direzioni della ricerca tendono a sovrapporsi e a contaminarsi vicendevolmente si possono poi generare delle raffinate forme di interazione metodologica in grado di innescare solitamente un evidente aumento esponenziale delle conoscenze.

Tuttavia, nonostante gli enormi successi conseguiti in termini di risultati sia teorici che sperimentali, la teoria sociobiologica, che rivendica sostanzialmente una certa importanza delle basi genetiche e biologiche nel determinare in parte molti comportamenti umani, non è ancora riuscita a trovare, prevedibilmente, molta confidenza a livello sociale, generalmente per ragioni e resistenze che hanno a che fare più che altro con dimensioni di carattere ideologico, storico e culturale. Cosa che non deve sorprendere più di tanto se si pensa soltanto alla difficoltà con cui ancora oggi, per esempio, viene compreso e accettato lo straordinario e rivoluzionario lavoro di Darwin, successivamente rivisitato e integrato nella più complessa teoria sintetica dell'evoluzione biologica.

Senza però dilungarci ad approfondire questo aspetto certamente molto interessante dal punto di vista psico-sociologico, passiamo piuttosto a trattare un paio di necessarie precisazioni utili per tentare di stroncare sul nascere i soliti fraintendimenti. Primo, quando parliamo di basi genetiche e biologiche del comportamento umano non significa affatto affermare che le nostre personalità o identità umane siano interamente governate dal nostro patrimonio genetico e secondo, quando diciamo che un tale comportamento ricorrente umano può essere spiegato da un certo processo di selezione evolutiva non significa voler giustificare allora l'espressione individuale di tale comportamento.

Ma è l'intera impostazione del dibattito volgare sulla questione sociobiologica ad essere messa finalmente in discussione. Per lungo tempo, infatti, tale dibattito è stato più che altro semplificato e centrato sulla fuorviante dicotomia tra Natura e Cultura, in cui si tenta di contrapporre da una parte una sorta di "determinismo biologico" proposto da una scienza genocentrica pericolosamente fredda ed ingenua e dall'altra invece un "determinismo culturale" filosofico in cui gli individui, che alla nascita dovrebbero essere tutti uguali nelle loro proprietà e potenzialità di espressione, sarebbero poi plasmati soltanto dalle esperienze sociali e culturali (teoria della tabula rasa).

In realtà nella teoria sociobiologica le componenti biologiche e quelle culturali non sono affatto contrapposte e mutualmente esclusive, ma sono piuttosto integrate tra di loro in un gioco reciproco di relazioni in cui le une permettono lo sviluppo delle altre e queste a loro volta condizionano l'espressione delle prime. La nostra cultura, infatti, fa parte comunque della nostra evoluzione e sarebbe pertanto un grossolano errore concettuale cercare di separarle.

D'altra parte, se avessero ragione certi filosofi della scuola di John Locke, l'autore della teoria della tabula rasa, non si spiegherebbe allora come possano esistere invece decine di tendenze comportamentali universali presenti praticamente in tutte le culture, oltre che in molte società animali: la cura della prole, l'egoismo, la competizione, ma anche la cooperazione e l'altruismo, la suddivisione dei compiti, le differenze tra i sessi, il pianto, la danza, il rito, la cultura, l'apprendimento, il gioco, l'abbraccio, l'aggressività, la violenza, l'inganno, la gelosia, la gerarchia, lo stupro, l'omicidio, le forme di comunicazione, per esempio. Gli antropologi sono riusciti a riconoscere in tutte le culture umane fino a una settantina di caratteristiche comuni che fanno parte anche dei repertori sociali di altri mammiferi, inclusi i primati. Persino il linguaggio umano, nonostante le seimila lingue viventi, sarebbe, secondo il linguista Noam Chomsky, costruito per lo più su una grammatica di base di carattere universale.

Ebbene, l'esistenza di questi pattern comportamentali ubiquitari che ognuno di noi se libero da pregiudizi ideologici può tranquillamente cercare di rintracciare nelle normali vicende umane, storiche o quotidiane, ci suggerisce che allora possano esistere veramente dei vincoli biologici che influenzano in qualche modo l'ambivalenza della nostra "natura umana" e che soltanto con una serie di "provvedimenti" più o meno consapevoli che sono stati sviluppati e diffusi grazie alla cultura riusciamo poi di fatto a gestire e a controllare.

In effetti, anche le recenti acquisizioni della biologia molecolare, della genetica e della genomica, insieme ai nuovi risultati ottenuti dagli studi di imaging funzionale del cervello, hanno iniziato a produrre nuove conoscenze sulle relazioni che intercorrono per esempio tra varianti specifiche di geni coinvolti nella sintesi e nel metabolismo dei neurotrasmettitori da un lato e caratteristiche comportamentali dall'altro.

Si fa sempre più strada l'ipotesi, dunque, che anche molte predisposizioni comportamentali umane, esattamente come accade nel caso dei tratti morfologici e fisiologici, facciano parte di quel set di "caratteri" ereditabili adattativi sui quali poi possono agire i meccanismi evolutivi e in particolare la selezione naturale.

Ragionando in termini evoluzionistici si possono pertanto spiegare in parte moltissime caratteristiche umane di tipo "animalesco", che nonostante l'efficace ammortizzatore fornito dalla cultura, tendono comunque ad emergere insistentemente e frequentemente, dalla gelosia (in prevalenza maschile) allo stupro, dalle diversità individuali o di gruppo a quelle tra i sessi, dalla diffidenza verso il diverso alla competizione per il territorio, le risorse, il potere, il partner, dall'aggressività all'infanticidio, dall'egoismo all'altruismo quando è conveniente, come per esempio nel caso dell'altruismo reciproco proposto dal biologo americano Robert Trivers, oppure dell'altruismo indiretto basato invece sul desiderio di una buona reputazione all'interno della società.

Ci sarebbero quindi delle precise ragioni biologiche ed evoluzionistiche se molto spesso, nonostante tutti quei bei proclami culturali di uguaglianza, di solidarietà tra i popoli e di amore romantico nei confronti del prossimo, alla fine le cose, se analizzate in profondità, stanno spesso in maniera evidentemente un po' diversa. Questo perchè se è vero che anche la nostra società, come quella di molti altri animali, sembra essere apparentemente basata sull'altruismo, in realtà quest'ultimo è un altruismo prevalentemente di convenienza e quasi mai di carattere gratuito, se non all'interno di quella ristretta cerchia di parenti e "amici" in cui è giustificato dal grado di parentela, ovvero reso conveniente in termini genetici dalla salvaguardia della propria fitness inclusiva (kin selection e group selection).

Del resto, provate soltanto a toccare le persone nel loro portafoglio oppure nella violazione della loro libertà personale, per esempio, vediamo poi che gran bell'altruismo. Pertanto, il motivo per cui generalmente non si osservano le conseguenze estreme della competizione tra individui o gruppi almeno nelle nostre società occidentali, non è tanto dovuto al fatto che noi siamo fatti così perchè siamo umanisticamente umani, ma piuttosto perchè viviamo in società culturali fortunatamente ricche e organizzate in cui esistono delle regole da rispettare, pena la punizione, e dove tutti o quasi, per fortuna, possono avere almeno il necessario per poter vivere decentemente.

Insomma, non saremo certamente dei semplici burattini manovrati solamente dai geni egoisti come sostenuto dal biologo Richard Dawkins, ma se pensate, in barba a tutte le evidenze scientifiche, che il nostro essere culturalmente umani significhi allora collocarsi completamente al di fuori della logica evoluzionistica di un continuum biologico che di fatto unisce tutte le specie, allora siete davvero fuori strada.



sabato 21 maggio 2016

Il grande dolore: come affrontare il collasso del nostro mondo

Da “Common Dreams”. Traduzione di MR (via Bodhi Paul Chefurka)

Per rispondere adeguatamente, prima potremmo aver bisogno di elaborare il lutto

Di Per Espen Stoknes


'Affrontare la perdita del nostro mondo', dice Stoknes, 'ci impone di scendere nella rabbia, nel pianto e nella tristezza, non di aggirarli per saltare sul carro dell'ottimismo o scappare nell'indifferenza' (Foto: Nikola Jones/flickr/cc)

Gli scienziati del clima dicono in modo schiacciante che affronteremo un riscaldamento senza precedenti nei prossimi decenni. Quegli stessi scienziati, proprio come voi e me, lottano con le emozioni che vengono evocate da questi fatti e da queste terribili previsioni. I miei figli – che ora hanno 12 e 16 anni – potrebbero vivere in un mondo più caldo che in qualsiasi altro momento nei precedenti 3 milioni di anni e potrebbero affrontare sfide che stiamo appena cominciando a contemplare e in molti modi potrebbero venire privati del mondo ricco e variegato nel quale siamo cresciuti. Come ci relazioniamo – e come conviviamo – con questa triste consapevolezza?
Fra diverse popolazioni, i ricercatori di psicologia hanno documentato un lungo elenco di conseguenze per la saluta mentale del cambiamento climatico: traumi, shock, stress, ansia, depressione, lutto complicato, tensioni sulle relazioni sociali, abuso di sostanze, senso di disperazione, fatalismo, rassegnazione, perdita di autonomia e senso del controllo, così come perdita di identità personale ed occupazionale.

lunedì 4 aprile 2016

Angoscia da cambiamento climatico

Gli effetti psicologici della percezione della gravità del cambiamento climatico sono sicuramente importanti, ma se ne sa poco e se ne parla anche poco. Ma come spiegare il diniego, e financo il disprezzo, di tanta gente di fronte al disastro che ci troviamo davanti? Forse, molte posizioni estreme sono semplicemente il risultato della paura. Troppo grande è l'impatto di quello che abbiamo di fronte, troppo spaventose le sue conseguenze. E allora, meglio negare, negare con forza, piuttosto che guardare in faccia gli eventi. Finché possiamo.

Su questo punto, ci racconta qualcosa il Dr. Outcherlony che ha lavorato per anni con l'accettazione della morte per i pazienti terminali. Non è una cosa tranquillizzante accostare il cambiamento climatico planetario alla morte fisica individuale, ma è inevitabile arrivati a un certo livello. E così, ecco queste riflessioni, intitolate

Il viaggio di un medico dalle cure palliative alla disperazione climatica  

Da “the star”. Traduzione di MR (via Bodhi Paul Chefurka)

David Ouchterlony ha passato anni ad affrontare con calma la morte. La lezione di quella esperienza può aiutare a smorzare l'angoscia che prova adesso per il cambiamento climatico?

Cortesia di  David Ouchterlony Nonostante il suo lavoro come coroner e nelle cure palliative, David Ouchterlony deve lavorare per non cadere nel pessimismo impresso dalla sua angoscia per il cambiamento climatico.

Di Tyrel Hamilton

Speciale di David Ouchterlony per “the Star”.

David Ouchterlony è un coroner (ufficiale medico legale) che ha passato 10 anni come medico per cure palliative al Centro Temmy Latner Centre per le Cure Palliative dell'Ospedale Mount Sinai. Qui mette a confronto la sua esperienza quotidiana con la sofferenza degli altri con lo stress emotivo che prova quando pensa al cambiamento climatico.

E' difficile per me separare i miei sentimenti su cattive notizie, sofferenza e morte che ho sviluppato nelle cure palliative da quelle che ho sviluppato come coroner. Ci sono medici che fanno seminari di divulgazione per identificare ed affrontare lo stress del mestiere medico. Non ho mai sentito il bisogno di iscrivermi ad uno di quei seminari. Non ho mai sentito che la mia esperienza coi pazienti morenti e il lutto delle famiglie mi abbia causato angoscia tale da trascinarla con me nella vita.


Dormo bene, mi tengo in forma, ho amici ed un matrimonio felice e rido un po' tutti i giorni. D'altra parte, devo riconoscere quasi ogni giorno che la morte è sempre intorno a me. Vedo corpi morti, parlo a membri di famiglie scioccate e/o in lutto sulla scena della morte o per telefono e scrivo i rapporti delle mie investigazioni. Quindi o molti più promemoria della morte della maggior parte delle persone, persino più della maggior parte dei medici. Come mi condiziona questo? E' difficile dirlo. Mi servirebbe un gemello per fare un confronto. Di sicuro ci sono momenti tristi e non di rado mi commuovo fino quasi a piangere, specialmente quando parlo coi genitori e sento espressioni di amore mentre affrontano la merte di neonati e bambini. Tuttavia questi momenti sono brevi e spesso dimenticati nell'impegno dell'investigazione. I cambiamenti che vedo in me stesso che potrebbero essere attribuiti a questo lavoro medico sono diversi. Mi viene più spesso ricordato il fatto che la morte è inevitabile, rispetto alla maggior parte della gente. Rimane da vedere accetterò di più la morte quando arriva la mia ora.

sabato 19 marzo 2016

Carbone, guerre e belle donne: perché in Italia si parla italiano e non francese

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione, 1837-1899. Ritratto di Michele Gordigiani. Il testo che segue è parte di una conferenza che ho fatto a Parigi il 12 febbraio, al Momentum Institute  (h/t Yves Cochet, Agnes Sinaï e Mathilde Szuba)

Di Ugo Bardi


Nello studio della storia, è di moda usare dati quantitativi il più possibile. Parliamo di fattori finanziari ed economici, della competizione per le risorse naturali, degli squilibri della popolazione, degli effetti del clima ed altro. Eppure, a volte la storia procede secondo il capriccio di un sovrano o dell'altro che fanno errori colossali, da Napoleone a Saddam Hussein. In quel caso, i fattori umani diventano predominanti e solo in alcuni casi possiamo avere uno scorcio di quello che potrebbe essere passato nella mente delle persone al vertice. Un caso del genere potrebbe essere stato quello della contessa Virginia Oldoini, femme fatale del XIX secolo, amante dell'Imperatore Francese Napoleaone III e, forse, l'origine dell'unificazione italiana del 1860. Bella donna, in effetti, e difficile da modellizzare usando la dinamica dei sistemi!

Torniamo all'inizio del XIX secolo. A quel tempo, la rivoluzione industriale era in pieno svolgimento, alimentata dalle miniere di carbone dell'Europa settentrionale, principalmente Inghilterra, Francia e Germania. Questa rivoluzione aveva creato uno squilibrio economico, rendendo i paesi settentrionali molto più ricchi e più potenti di quelli del sud. Non era solo una questione di avere o non avere il carbone. Era questione di trasportarlo. Il carbone è pesante ed ingombrante e, a quel tempo, il solo modo pratico per trasportarlo su lunghe distanze era via mare. Le navi potevano portare il carbone ovunque nel mondo ma, quando si trattava di portarlo nell'entroterra, servivano fiumi navigabili. Niente fiumi navigabili, niente carbone. Niente carbone, niente rivoluzione industriale. E' stata questa la ragione dello squilibrio: i paesi dell'Europa meridionale, proprio come quelli nordafricani, non potevano avere fiumi navigabili a causa della mancanza d'acqua. Per cui, non si sono potuti industrializzare e sono rimasti economicamente e militarmente deboli.

Ecco com'era la situazione nel 1848.


A questa data, le sole regioni mediterranee che avevano fiumi navigabili e si sono potute industrializzare sono state Francia e Nord Italia, Piemonte in particolare. Delle due, la Francia è stata di gran lunga la più potente e, già nel 1848, potete vedere in che modo la Francia ha occupato l'Algeria, strappandola via all'Impero ottomano. Il resto della regione nordafricana era matura per essere sottomessa e persino il Regno di Napoli, nell'Italia meridionale, era militarmente ed industrialmente debole, una preda facile per qualsiasi paese industrializzato. Cosa poteva quindi fermare i francesi dal trasformare l'intero mare Mediterraneo in un lago francese? Questa, apparentemente, era stata l'idea di Napoleone quando ha invaso l'Egitto, nel 1798. Non ha funzionato quella volta, ma era stata un'intuizione strategica che in seguito i governi francesi avrebbero potuto portare avanti.

Ora, mettetevi nei panni dei britannici. Nel grande gioco strategico del XIX secolo, avevano adocchiato l'Egitto, che avrebbero poi occupato nel 1882, ma avrebbero potuto fare poco o niente per impedire alla Francia di occupare l'intera costa nordafricana, fino all'Egitto e forse oltre ad esso. Niente di diretto, cioè, ma se avessero potuto creare un contrappeso strategico per bilanciare il potere francese? E cosa poteva essere quel contrappeso? L'Italia, naturalmente, se poteva essere unificata e trasformata in un unico paese, dalla pletora di staterelli che era a quel tempo.

Così, a metà del XIX secolo, i pezzi strategici del gioco mediterraneo erano tutti al loro posto, come in una enorme scacchiera. L'obbiettivo britannico era condiviso dal Piemonte: unificare l'Italia il più presto possibile e fermare l'ulteriore espansione della Francia. Dall'altro lato della scacchiera, l'obbiettivo della Francia era altrettanto chiaro: evitare ad ogni costo l'unificazione dell'Italia e prendersi quanto più Nord Africa possibile, il più presto possibile.

Chiaro, perfettamente chiaro. E facile per la Francia. Non dovevano fare quasi niente, solo tenere sotto controllo il Piemonte, cosa che potevano fare agevolmente. E' vero che il Piemonte era una piccola superpotenza industriale per i suoi tempi, ma non c'era partita per la più grande, molto più potente e vicina Francia. Ma il presidente francese ed imperatore di quel tempo, Luigi Napoleone, o “Napoleone III”, ha fatto esattamente l'opposto, anche impegnando l'esercito francese a sostegno dell'espansione del Piemonte nell'Italia del nord in una serie di battaglie sanguinose contro gli austriaci, nel 1859. Non che la Francia abbia aiutato il Piemonte per niente, naturalmente. In cambio, i francesi hanno ottenuto una fetta di terra sul lato occidentale delle Alpi, che prima faceva parte del Piemonte. E' stato un guadagno territoriale ma, in termini strategici, non era niente in confronto a quello che la Francia stava perdendo.

Un anno dopo aver sconfitto l'Austria con il sostegno della Francia, il Piemonte partiva per un'altra impresa strategica, questa volta con il sostegno dei britannici. Dal Piemonte, partiva un esercito condotto da Giuseppe Garibaldi ad invadere il Regno meridionale di Napoli. I napoletani hanno contrapposto una resistenza strenua ma, da soli, non potevano farcela e Napoleone III non ha mosso un dito per aiutarli. Col collasso del Regno Meridionale, la completa unificazione dell'Italia è diventata inevitabile, nonostante un ultimo disperato tentativo da parte di Napoleone III nel 1867, quando ha mandato truppe in Italia per impedire a Garibaldi di prendere Roma.

E quindi Italia fu. Ed è ancora. La cosa curiosa è che poteva non essere. Se Napoleone avesse fermato Garibaldi nel 1860 allo stesso modo in cui lo ha fatto nel 1867, probabilmente avremmo ancora un regno di Napoli e il paese che oggi chiamiamo “Italia” sarebbe più che altro un protettorato francese. E, molto probabilmente, il francese sarebbe la lingua dominante in gran parte del paese.

Invece, la Francia aveva perso un'occasione storica per diventare la potenza dominante nel Mediterraneo. In seguito, la Francia è riuscita comunque a ritagliarsi alcuni altri pezzi di Nord Africa, occupando la Tunisia nel 1881 e il Marocco nel 1904, ma tutti gli ulteriori avanzamenti nella regione mediterranea sono stati fermati quando, nel 1911, l'Italia  ha rivendicato ciò che gli italiani vedevano come la loro fetta legittima dell'Impero Ottomano in declino: la regione che oggi chiamiamo Libia.

Quindi, come mai Napoleone III ha fatto un errore strategico colossale del genere? In un certo senso, possiamo dire che è piuttosto normale: i sovrani degli stati spesso sono terribilmente incompetenti nel loro lavoro (pensate solo al nostro George W. Bush). Ma, per Napoleone III, potrebbe esserci stata una ragione che va oltre la semplice incompetenza.

I francesi hanno inventato la frase “Cherchez la femme” (cercate la donna) come spiegazione di molti eventi altrimenti inspiegabili. E, nella storia dell'unificazione dell'Italia, c'è coinvolta una donna: Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione. Era la cugina del Conte di Cavour, primo ministro del Piemonte a quel tempo, ed era stata mandata a Parigi da lui, pare, con l'idea specifica di influenzare Napoleone III. Lei era una fedele patriota italiana e capiva molto bene quello che sarebbe stato il suo ruolo come amante del presidente francese ed imperatore. Doveva convincerlo a fare qualcosa che i francesi non avrebbero mai dovuto permettere: aiutare il Piemonte ad invadere e conquistare il resto della penisola italiana. Secondo quello che si può spesso leggere sui libri di storia, ha adempiuto al suo ruolo e, dai ritratti e dalle fotografie che abbiamo di lei, forse possiamo anche capire come.

Naturalmente, possiamo legittimamente pensare che questa storia sia solo una leggenda. Ma potrebbe essere che Virginia Oldoini abbia davvero convinto Luigi Napoleone a fare quello che ha fatto? In questo caso, la Contessa dovrebbe essere considerata una delle donne più influenti della storia moderna. Ma non saremo mai in grado di saperlo. Ora, lei si trova dall'altra parte dello specchio, forse guardandoci da lì e ridendo di noi.



Un racconto di fanta-storia di Ugo Bardi che descrive quello che sarebbe potuto succedere se Virginia Oldoini non fosse esistita

lunedì 6 aprile 2015

La ricerca del capro espiatorio

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

L'antropologo Ernest Becker (1924-1974) fornisce un punto di vista molto interessante sulle questioni di moralità e comportamento umano nel suo libro postumo “Fuga dal Male”. Becker ha usato un contesto psicoanalitico basato sul lavoro di Otto Rank e Norman O. Brown ed ha concluso che gli uomini fanno del male a causa delle, non nonostante le, buone intenzioni. La breve presentazione è una cosa del genere:

"Gli esseri umani sono i soli animali consapevoli della propria morte. Ciò è terrificante per noi e, per ridurre l'ansia, facciamo tutto ciò che possiamo per garantire la nostra sopravvivenza, come individui o come gruppi sociali in cui proiettiamo la nostra individualità collettiva. Questo impulso a trascendere la nostra morte, di cui abbiamo preso consapevolezza, ci porta a compiere atti eroici costruttivi nel tentativo di raggiungere un qualche tipo di immortalità. Ci porta anche a proiettare qualsiasi rischio percepito per la nostra sopravvivenza verso l'esterno, su altri gruppi o individui. Questi comportamenti di ricerca di un capro espiatorio e di sacrificio hanno l'intento inconscio di purificare l'ambiente fisico e psicologico in cui viviamo.  

Gli esempi di atti eroici costruttivi abbondano – la civiltà stessa ricade in questa categoria. Esempi recenti di ricerca del capro espiatorio comprendono i neri, gli ebrei, i musulmani e gli atei, la CIA, i socialisti, i capitalistivirtualmente ogni gruppo identificabile ha funto da capro espiatorio per qualche altro gruppo. Gli esempi indigeni di sacrificio includono il sacrificio umano rituale, i festeggiamenti ritualizzati, l'etica del “niente prigionieri” in combattimento e il Potlatch (sacrificio di cibo e beni)". 

Becker traccia questo effetto psicologico attraverso la storia e vede il suo zampino nella cultura militarista e del consumismo usa e getta così come nelle culture indigene. Mi attengo ancora al mio punto di vista per cui le origini della moralità, specialmente nelle sue specificità, si possono trovare nelle storie regionali e negli ambienti biofisici locali. Le scelte morali che la collettività allargata ritiene permissibili sembrano essere limitate da coloro che promuovono i sistemi di credenze eroiche che sconfiggono la morte come descritto da Becker. Questo dominio limitato del moralmente permissibile è intrecciato con la serie limitata di scelte orientate alla crescita che sono permissibili nei domini economico e sociale. I due sembrano sostenersi a vicenda. Tali scelte eroiche, morali ed economiche sembrano richiedere l'esistenza di un surplus di risorse nell'ambiente naturale come punto di partenza. La ricerca pubblicata nel 2003 da Dwight Read e Steven LeBlanc osserva che sia conflitto che crescita nelle società ad alta crescita sono bassi quando ci sono poche risorse disponibili, come affermato nella seguente citazione:

“I gruppi di cacciatori_raccoglitori che vivono in aree a bassa densità di risorse è più probabile che mostrino una stabilità demografica a lungo termine e più alta è la densità di risorse, più è probabile il verificarsi di conflitti fra gruppi o di limiti alla crescita malthusiani come malattie e fame”. 

Suggerirei anche che gli ambienti a basse risorse sono un fattore primario nello sviluppo di vari codici morali che riducono la crescita ed onorano la Terra. Ciò spiega la progressiva perdita di questo aspetto della nostra moralità man mano che il nostro accesso alle risorse della Terra è aumentato. Sfortunatamente, le conclusioni di Becker mi lasciano ancora più convinto che l'inizio dei limiti delle risorse globali si dimostrerà psicologicamente dannoso su una scala molto ampia, in quanto diventa impossibile negare la morte imminente del nostro gruppo di appartenenza primario, l'Homo Sapiens. Questa consapevolezza porterà probabilmente ad un'orgia di capri espiatori e le prime avvisaglie di quest'onda sono già visibili. Vedremo probabilmente un'orgia parallela di consumo sacrificale, identico nell'origine psicologica ma molto più ampio, su scala fisica, delle iconiche teste di pietra dell'Isola di Pasqua.

https://www.academia.edu/819616/Population_growth_carrying_capacity_and_conflict

giovedì 8 gennaio 2015

La mente dei negazionisti climatici

Da “eurekalert”. Traduzione di MR

Gli atteggiamenti nei confronti del cambiamento climatico dipendono dal senso di appartenenza delle persone al pianeta


Una nuova ricerca condotta dall'Università di Exeter ha scoperto che le persone che hanno una percezione dello spazio a livello globale più ampio del livello nazionale è più probabile che accettino che il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane. 

Una nuova ricerca condotta dall'Università di Exeter ha scoperto che le persone che hanno una percezione dello spazio a livello globale più ampio del livello nazionale è più probabile che accettino che il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane. Questa è la prima che viene mostrato volta che l'accettazione delle cause umane del cambiamento climatico è  collegato alla percezione dello spazio a livello globale. Le scoperte hanno delle implicazioni significative sia per la comunicazione del cambiamento climatico sia per la comprensione di spazio ed identità. Lo studio “Il mio paese o il mio pianeta?”, esplorando l'influenza degli attaccamenti ai luoghi e delle credenze ideologiche molteplici che pesano sugli atteggiamenti e le opinioni verso cambiamento climatico, ha scoperto che gli individui con attaccamenti globali più forti di quelli locali è più probabile che percepiscano il cambiamento climatico come un'opportunità piuttosto che una minaccia – per esempio, percependo gli impatti economici che emergono dalle risposte al cambiamento climatico ed il potenziale per costruire un senso della comunità più forte in tutto il mondo. Questi individui erano con più frequenza donne, più giovani e non si identificavano con nessuna religione, era più probabile che votassero verde e che fossero caratterizzati da livelli minori di credenze autoritarie a di dominio sociale di destra.

Il professor Patrick Devine-Wright di Geografia dell'Università di Exeter ha detto: “I risultati di questo studio suggeriscono che gli attaccamenti al locale non sono fortemente legati alle credenze sul cambiamento climatico. Coloro che hanno una più forte percezione del globale piuttosto che del nazionale è più probabile che accettino che il cambiamento climatico sia causato dalle azioni umane e possa essere un'opportunità, per la società, di unire le persone, non solo una minaccia all'economia”. Le persone di solito vedono il senso delllo spazio in termini puramente locali – l'area intorno a dove vivono. Lo studio amplia questa percezione in modi importanti per includere forme di appartenenza nazionali e globali – conosciuti come attaccamenti ai luoghi ed alle identità. La ricerca è stata condotta in Australia, in collaborazione con il Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO), usando un metodo di indagine con un campione che rappresenta una nazione. Il professor Devine-Wright ha detto: “Dato che lo studio è stato condotto in Australia, dobbiamo replicarlo in altri contesti nazionali, per esempio nel Regno Unito o negli Stati Uniti, per vedere se si troveranno risultati analoghi”.

Lo studio è pubblicato nella rivista Global Environmental Change: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0959378014001794 

domenica 16 novembre 2014

Stiamo diventando tutti psicopatici

Il nostro sistema economico del “io prima di tutto” ha cambiato la nostra etica e le nostre personalità.

DaAlternet”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron)




Foto: Shutterstock/TijanaM

Di Paul Verhaeghe

Tendiamo a percepire le nostre identità come stabili e fortemente separate dalle forze esterne. Ma in decenni di ricerca e pratica terapeutica, mi sono convinto che il cambiamento economico sta avendo un effetto profondo non solo sui nostri valori, ma anche sulle nostre personalità. Trent'anni di neoliberismo, forze di libero mercato e privatizzazione hanno lasciato il segno, mentre la spinta incessante al successo è diventata la norma. Se siete scettici, vi sottopongo questa semplice dichiarazione: il neoliberismo meritocratico favorisce certe personalità e ne penalizza altre.

Ci sono certe caratteristiche ideali per fare carriera oggi. La prima è l'eloquio, essendo l'obbiettivo quello di conquistare più gente possibile. Il contatto può essere superficiale, ma siccome ciò si applica oggigiorno alla maggior parte delle interazioni, in realtà questo non verrà notato.

E' importante essere bravi a ingigantire le proprie capacità il più possibile – conosco un sacco di gente, ho un sacco di esperienza alle mie spalle e di recente ho portato a termine un grande progetto. In seguito, la gente scoprirà che ciò era più che altro aria fritta, ma il fatto che inizialmente è stata ingannata indica un altro tratto della personalità: si può mentire in modo convincente e sentirsi poco in colpa. E' per questo che non ci si prende mai la responsabilità del proprio comportamento.

In cima a tutto questo, siamo flessibili ed impulsivi, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e sfide. In pratica, questo porta a un comportamento rischioso, ma non fateci caso, non sarete voi che dovrete raccogliere i cocci. La fonte di ispirazione di questa lista? L'elenco di controllo di Robert Hare, il più famoso specialista in psicopatia oggi.

Questa descrizione naturalmente è una caricatura portata agli estremi. Ciononostante, la crisi finanziaria ha illustrato a livello macro sociale (per esempio, nei conflitti fra i paesi dell'Eurozona) ciò che la meritocrazia neoliberale fa alla gente. La solidarietà diventa un lusso costoso e lascia spazio ad alleanze temporanee, essendo la preoccupazione principale quella di trarre più profitto dalla situazione che non dalla competizione. I legami sociali coi colleghi si indebolisce, così come l'impegno emotivo per l'impresa o l'organizzazione.

Il bullismo che era confinato alle scuole, ora è una caratteristica comune del luogo di lavoro. Questo è un sintomo tipico dell'impotente che sfoga la propria frustrazione sul debole; in psicologia è conosciuta come aggressione trasposta. C'è un senso di paura celato, che va dall'ansia di prestazione ad una più ampia paura della minaccia dell'altro.

Le prove continue al lavoro causano un declino dell'autonomia ed una dipendenza crescente da norme esterne, spesso mutevoli. Ciò risulta in quello che il sociologo Richard Sennett ha opportunamente descritto come “l'infantilizzazione dei lavoratori”. Gli adulti mostrano scoppi di collera infantili e sono gelosi di banalità (“Lei ha avuto una sedia da ufficio nuova ed io no”), raccontano bugie a fin di bene, ricorrono all'inganno, provano piacere per le sfortune altrui e nutrono meschini sentimenti di vendetta. Questa è la conseguenza di un sistema che impedisce alle persone di pensare in modo indipendente e che non tratta gli impiegati da adulti.

E' più importante, però, il grave danno al rispetto per sé stessi fatto alle persone. Il rispetto per sé stessi dipende grandemente dal riconoscimento che riceviamo dagli altri, come pensatori che vanno da Hegel a Lacan hanno mostrato. Sennett giunge ad una conclusione analoga quando riconosce che la domanda principale dei dipendenti di oggi è “Chi ha bisogno di me?”. Per un gruppo di persone sempre più grande, la risposta è: nessuno.

La nostra società proclama in continuazione che tutti possono farcela se si impegnano abbastanza, il tutto mentre rafforza il privilegio e mette sempre più pressione sui propri cittadini oberati ed esausti. Un numero sempre maggiore di persone non ce la fa, si sente umiliata, colpevole e si vergogna. Ci dicono da sempre che siamo più liberi di scegliere il corso delle nostre vite di quanto lo siamo mai stati prima, ma la libertà di scegliere al di fuori della narrativa di successo è limitata. Inoltre, coloro che non ce la fanno sono ritenuti dei perdenti o dei parassiti che approfittano del nostro sistema di sicurezza sociale.

Una meritocrazia neoliberista vorrebbe farci credere che il successo dipende dallo sforzo individuale e dai talenti, intendendo che la responsabilità sta interamente nell'individuo e le autorità dovrebbero dare alle persone quanta più libertà possibile per raggiungere i loro obbiettivi. Per coloro che credono alle favole della scelta libera, l'autogoverno e l'autogestione sono i messaggi politici preminenti, specialmente se appaiono promettere libertà. Insieme all'idea dell'individuo perfettibile, la libertà che percepiamo di avere in occidente è la più grande falsità di questa epoca.

Il sociologo Zygmunt Bauman ha riassunto perfettamente il paradosso della nostra epoca così: “Non siamo mai stati così liberi. Non ci siamo mai sentiti così impotenti”. Infatti siamo più liberi che in passato, nel senso che possiamo criticare la religione, approfittare del nuovo atteggiamento libertario verso il sesso e sostenere qualsiasi movimento politico ci piaccia. Possiamo fare tutte queste cose perché non hanno più significato – la libertà di questo tipo è indotta dall'indifferenza. Tuttavia, dall'altra parte, le nostre vite quotidiane sono diventate una battaglia continua contro la burocrazia che farebbe impallidire Kafka. Ci sono regole su tutto, dal contenuto di sale del pane alla possibilità di tenere pollame nelle aree urbane.

La nostra presunta libertà è legata ad una condizione centrale: dobbiamo avere successo – cioè “fare” di noi stessi qualcosa. Non c'è bisogno di cercare lontano per degli esempi. Un individuo altamente qualificato che pone la famiglia davanti alla carriera è oggetto di critiche. Una persona con un buon lavoro che rifiuta una promozione per investire più tempo in altre cose viene vista come pazza – a meno che quelle altre cose non assicurino successo. Una giovane donna che voglia diventare un'insegnante elementare si vede consigliare dai propri genitori di prendersi un master in economia – un'insegnante elementare, ma a cosa stava pensando?

C'è un continuo lamentarsi della cosiddetta perdita di norme e valori nella nostra cultura. Eppure le nostre norme e valori sono parte integrante della nostra identità. Quindi non possono essere perse, solo cambiate. Ed è esattamente ciò che è successo: un'economia cambiata riflette un'etica cambiata e determina una identità cambiata. L'attuale sistema economico sta facendo emergere il peggio di noi.