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lunedì 15 giugno 2015

Il futuro della razza umana: estinzione o alveare umano?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi

Questo post è il risultato di una discussione iniziata da RE di Doomstead diner 



“L'alveare di Hellstrom”, scritto da Frank Herbert nel 1973, è una delle poche disamine solide di come una società umana “eusociale” potrebbe  essere modellata sulla base dello stile di vita degli insetti sociali, come le api e le formiche. Potrebbe essere questo che il futuro remoto ha in serbo per la razza umana? E' impossibile dirlo ma io, per quanto mi riguarda, do il benvenuto ai nostri nuovi signori dell'alveare. 


Non ho dubbi sul fatto che siamo diretti a tutta velocità verso un grande collasso dell'ecosistema. Stiamo distruggendo il clima e la biosfera, avvelenando i mari, disperdendo metalli pesanti ovunque, creando isotopi radioattivi che non sono mai esistiti nei 4 miliardi di anni della storia della terra. Qualsiasi cosa accadrà, non sarà una bel vedere per coloro che saranno vivi per vederla.

Ma il collasso in arrivo significa la fine della specie umana? Questo non può essere escluso e il concetto di “Estinzione a Breve Termine” (Near Term Extinction -NTE) è persino diventato piuttosto popolare oggigiorno (*). Ma il problema rispetto all'estinzione umana non è quanto sia probabile. Il problema è che è noiosa. Ci estinguiamo ed è tutto, fine della storia. Potremmo persino distruggere l'ecosistema così gravemente da sterilizzare l'intero pianeta, facendo morire tutto il resto con noi. Ancora più noioso, non credete?

Eppure, il futuro rimane un soggetto affascinante e il futuro remoto (o “profondo”) è quello più affascinante. Supponiamo quindi che non muoiano tutti nel grande collasso; quale futuro è in serbo per l'Homo Sapiens? (**).

Come prima ipotesi, il grande collasso potrebbe non essere così grande, dopotutto. Potrebbe essere soltanto un sobbalzo nel cammino verso il futuro, più o meno come è stato il medioevo per l'Europa. Quindi gli esseri umani potrebbero riemergere nel dopo-collasso ancora come qualche miliardo di persone e avendo ancora gran parte delle tecnologie che abbiamo oggi. Potrebbero avere energia dalle rinnovabili a sufficienza per andare avanti sotto forma di società industriale. Ma ciò implicherebbe una capacità di pianificazione a lungo termine che non pare che abbiamo.

Più probabilmente, gli esseri umani riemergerebbero dalla grande transizione come pochi, poveri e malconci. Si ritroverebbero bloccati su un pianeta gravemente esaurito in quanto ad energia e risorse minerali rispetto a quelle che avevano prima del collasso. Cosa potrebbe accadere loro, quindi?

Molto dipende da quale sarà il clima del dopo-collasso. Dopo il grande “impulso” di riscaldamento generato dalla combustione di combustibili fossili, la Terra rimarrà molto calda per un lungo periodo – perlomeno per qualche migliaio di anni. Gradualmente, si raffredderà ma mano che il biossido di carbonio atmosferico creato dalla rivoluzione industriale verrà riassorbito – molto gradualmente – nella crosta terrestre. Potrebbero anche volerci centinaia di migliaia di anni per tornare alla concentrazione di CO2 preindustriali. Solo a quel punto potremmo avere le condizioni climatiche che erano tipiche di una Terra imperturbata dalle attività umane; forse con un ritorno alla serie di ere glaciali del “Pleistocene”, che erano state la regola per circa 2,5 milioni di anni.

Quindi possiamo dire che i nostri discendenti del dopo-collasso (se ce ne saranno) vivranno in un clima caldo, probabilmente estremamente caldo. Ma la Terra è grande, quindi sarebbe possibile che trovino delle aree sufficientemente fresche in cui potrebbero sopravvivere, forse nell'estremo nord o persino in Antartide. Nel complesso, possiamo aspettarci che, dopo il grande collasso l'umanità potrebbe affrontare diverse decine di migliaia di anni di condizioni in cui si può sopravvivere, forse anche qualche centinaio di migliaia di anni.

Possono succedere molte cose in diverse decine di migliaia di anni, ma possiamo essere ragionevolmente certi di una: gli esseri umani non vedranno un'altra rivoluzione industriale. I combustibili fossili saranno un ricordo e ci vorranno milioni di anni, come minimo, perché l'ecosistema li ricrei. Il mondo del dopo-collasso sarà quindi gravemente esaurito in quanto a risorse minerali. I nostri discendenti non avranno miniere, anche se potranno recuperare ciò che i loro predecessori hanno lasciato fra le rovine delle loro città. Avranno moltissimo ferro proveniente dagli scheletri dei vecchi ponti ed edifici, forse potranno mettere le mani su qualche antico caveau pieno di lingotti d'oro. Il loro limite sarà il carbone vegetale che servirà loro per lavorare il metallo che recuperano. Per loro, i metalli saranno sempre rari e costosi.

Possiamo quindi immaginare che gli esseri umani futuri dovranno stabilire stili di vita semplici. Forse dovranno tornare ad essere cacciatori-raccoglitori, ma potrebbero anche essere in grado di coltivare la terra, anche se non possiamo essere certi che il clima futuro sarà sufficientemente stabile per farlo. Qualsiasi cosa accadrà sarà un mondo a bassa tecnologia. Non sembra un futuro molto stimolante. La caccia-raccolta da parte degli ominidi è andata avanti per milioni di anni, sempre più o meno uguale, E le società agricole sono statiche, gerarchiche, oppressive e sono sempre state descritte come “contadini governati da briganti” (attribuito ad Alfred Duggan). E' questo che dobbiamo aspettarci nei prossimi 100.000 anni? Non necessariamente.

Il fatto è che gli esseri umani possono evolvere. E  possono evolvere velocemente, cambiando in modo sostanziale in poche migliaia di anni. I risultati della ricerca genomica hanno aperto un vaso di Pandora di scoperte. I nostri antenati si sono evoluti, oh sì, lo hanno fatto! L'idea che siamo ancora gli stessi tipi che cacciavano i mammut durante l'era glaciale richiede urgentemente un aggiornamento. Siamo simili a loro, ma non gli stessi, niente affatto. Sono successe molte cose agli esseri umani durante la transizione da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori ed allevatori. Abbiamo perso un buon 3-4% di capacità cranica, molti di noi sono diventati capaci di digerire il latte, abbiamo sviluppato una resistenza a molte malattie e la capacità di vivere di una dieta che è stata molto diversa e molto più povera di quella dei cacciatori-raccoglitori. Questi cambiamenti sono stati genetici, risultato della necessità di adattarsi a diversi stili di vita ed a società più complesse.

Quindi, se gli esseri umani possono sopravvivere al grande collasso ed andare avanti per altri millenni – forse molti più millenni – c'è un sacco di tempo per altri cambiamenti. Infatti gli esseri umani cambieranno tanto in un lasso di tempo così lungo. Come cambieranno? Naturalmente, è una domanda difficile, ma possiamo identificare almeno qualche tendenza. In particolare, possiamo immaginare che alcune tendenze presenti, che oggi siamo portati a vedere come principalmente culturali, alla fine potrebbero diventare inscritti al genoma umano.

Una cosa che potrebbe succedere è che la razza umana possa speciare. Vale a dire, potrebbe gradualmente suddividersi in due o più specie, talmente diverse che i membri di una potrebbero non essere in grado di procreare con quelli dell'altra. Abbiamo già visto specializzazioni considerevolmente divergenti fra almeno tre diversi gruppi umani: cacciatori-raccoglitori, allevatori e agricoltori. Ognuna di  quete tre branche sfrutta diverse nicchie ecologiche/economiche ed ha sviluppato adattamenti culturali (in parte anche genetici) ai diversi stili di vita. Estrapolate questa tendenza nel lontano futuro ed avete due (o anche tre) specie di ominidi coesistenti sul nostro pianeta, ripetendo la situazione che era comune molto tempo fa, quando diversi ominidi coesistevano. I Neanderthal e i Sapiens, infatti, hanno vissuto in tempi sovrapposti ed avevano capacità limitate (anche se non nulle) di riprodursi fra loro.

Se il futuro vedrà più di una specie di “homo”, allora ognuna si specializzerà indipendentemente e si adatterà al suo ambiente. I cacciatori-raccoglitori probabilmente torneranno ad essere i già ottimizzati costruttori di attrezzi del Pleistocene. Gli allevatori diventeranno sempre più esperti delle loro vite da nomadi in aree che sono poco produttive per l'agricoltura. Gli agricoltori continueranno a vivere in villaggi e città con alte densità di popolazione. Costruiranno città, templi e palazzi. Creeranno eserciti, si combatteranno fra loro e costruiranno regni ed imperi. Ed è qui che le cose hanno una possibilità di farsi interessanti.

L'evoluzione genetica e culturale passata degli esseri umani agricoli è stata per tutto il tempo lo sviluppo di caratteristiche più “sociali”: un aumento della capacità di vivere in grandi gruppi di categorie molto differenziate (agricoltori, soldati, artigiani, preti...). Se la tendenza continua, potremmo vedere alcune caratteristiche culturali diventare sempre più incorporate nel genoma della specie. Sul (molto) lungo termine, potremmo assistere alla nascita di una razza umana “eusociale”, lo stesso tipo di struttura sociale di api, formiche e termiti. Vale a dire, una società di lavoratori e soldati sterili, “regine” che generano gran parte degli individui e maschi stupidi (in quanto a quest'ultima caratteristica, siamo già piuttosto avanti). Non è impossibile. Esistono già dei mammiferi la cui organizzazione sociale è eusociale, uno è la talpa nuda dell'Africa Centrale. Quindi, forse il futuro degli esseri umani non comporterà aggeggi tecnologici avanzati (di cui siamo così appassionati) ma, piuttosto, comporterà ingegneria sociale avanzata, con lo sviluppo di società sempre più efficienti e stratificate.

Il futuro dell'umanità è un alveare? Non possiamo dirlo, ma sembra sempre più probabile che alcuni dei vecchi modi di vedere il futuro ora siano del tutto obsoleti. Probabilmente, i nostri discendenti non avranno macchine volanti, niente navi spaziali, niente maggiordomi robot che portano loro dei cocktail mentre si rilassano ai bordi della piscina. Ma i poteri di un alveare umano potrebbero essere comunque impressionanti anche senza i gadget dei nostri tempi. Forse la “superintelligenza” che alcuni vedono svilupparsi nei nostri computer potrebbe in realtà apparire in una organizzazione umana eusociale (questo è uno dei temi del racconto di Frank Herbert “L'alveare di Hellstrom”). Queste entità superintelligenti eviteranno gli errori che abbiamo fatto noi? Non possiamo dirlo. Naturalmente questa è una cosa che nessuno di noi vedrà mai, ma l'interesse per il futuro è parte del fatto di essere umani e, forse, i nostri discendenti dell'alveare avranno a loro volta questa caratteristica.

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L'opinione di Geroge Mobus sull'evoluzione futura della razza umana

George Mobus  ha contribuito alla discussione iniziata da RE di doomstead diner con queste considerazioni che riproduco qui col suo permesso. 

Rispetto alle idee sull'estinzione come possibile risultato, vorrei ripetere che l'estinzione di specie apparentemente è inevitabile. Circa il 99% di tutte le specie che sono mai esistite (si stima) che si siano estinte e che l'attuale lotto di biodiversità non ha probabilmente più di un milioni di anni, in media.

Ma ci sono percorsi alternativi all'estinzione e dei conseguenti risultati alternativi. Molto ha a che fare con “l'evolvibilità” della riserva di specie. Ho postato un pezzo su quest'idea qualche tempo fa.

L'evoluzione umana è ancora in corso, ma è strettamente legata all'evoluzione culturale, cioè la co-evoluzione sta guidando la selezione reciproca sia nel mondo della specie biologica che in quello del mondo artefatto costruito dagli esseri umani. L'evoluzione biologica è ancora molto più lenta dell'innovazione culturale a causa di una minore produzione di tasso di novità (vedi mutazione genetica). Ciononostante, noi umani stiamo ancora attraversando adattamenti biologici (non adattamenti individuali) alle influenze culturali.

La capacità di evolvibilità, tuttavia, si permette molti tipi di opportunità che le specie si diffondano anche quando occupano lo stesso ambiente geografico ed ecologico (vedi: http://en.wikipedia.org/wiki/Sympatric_speciation ed un articolo su Scientific American, vol. 312, numero 4 su “La straordinaria evoluzione dei Ciclidi”.

Tutto questo mi porta ad aspettarmi (e sperare) che una qualche forma di ominide, specificamente derivata dal nostro attuale genoma, sopravviverà al quasi certo cambiamento nella devoluzione dovuta al declino dell'energia ed agli stress ambientali dovuti al cambiamento climatico e, col tempo necessario, produrrà una nuova specie di Homo, di fatto forse diverse nuove specie, nei prossimi milioni di anni. Tecnicamente, quindi, l'Homo Sapiens, per come capiamo ora la nostra specie, si estinguerà anche mentre nuove specie continueranno sotto le future condizioni di selezione che ci saranno.

Anche se è speculativo (cercare predire la natura è sempre uno sparo nel buio!), ho usato alcuni schemi evolutivi storici dell'emersione della cooperazione nella storia della vita (dalle origini della vita all'eusocializzazione fra gli esseri umani) per visualizzare alcune possibilità future. Vedete qui. Tutto questo è buono e bello e stimola a pensarci. Ma penso comunque che la preoccupazione immediata sia per le dinamiche del collasso. Il collasso può essere “gestito” in modo da minimizzare, in qualche modo concreto, la sofferenza che ne deriverà?

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(*) Le ragioni della popolarità del concetto di NTE (estinzione a breve termine) sono un tema affascinante in sé stesse. Una ragione potrebbe essere che molti di noi vengono realmente stanchi delle tante cose orribili che stiamo facendo a questo pianeta (e a noi stessi). Così tanto che l'estinzione umana non sembra così terribile, di fatto diventa quasi un sollievo. Ma l'estinzione a breve termine potrebbe essere vista come una forma estrema di BAU. Vale a dire, alcune persone sembrano incapaci di concepire che possa esserci vita per la razza umana in forme diverse da quella attuale. Alcune di queste persone si rifugiano nel BAU tecnologico, nella speranza che l'attuale società possa essere conservata per sempre per mezzo del progresso. Altri sembrano rendersi conto dell'impossibilità del sogno tecnologico e si rifugiano quindi nel nichilismo. E' un po' come i molti cittadini giapponesi che si sono suicidati dopo la resa del Giappone alla fine della seconda Guerra Mondiale. Non potevano concepire un mondo in cui il Giappone era stato sconfitto ed hanno deciso di lasciarlo. 

(**) Le considerazioni qui fatte sulla specie Homo Sapiens sono abbastanza a lungo termine da poter essere applicabili ad altre specie simili. Quindi se gli esseri umani si estinguono, la strada verso l'eusocialità potrebbe essere intrapresa da altri primati, come gli scimpanzé e i bonobo (i secondi potrebbero essere ben più avanzati di noi nelle tecnologie sociali). Anche qualche specie non-primate, le iene per esempio, sono molto avanzate in termini di organizzazione sociale. Poi, ci sono mammiferi che sono già eusociali. Le talpe nude possono conquistare il pianeta? Perché no? 



lunedì 21 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 4 – Spes, ultima Dea.

Parte quarta (e conclusiva) della serie di Jacopo Simonetta sul destino della specie umana


Prima parte.
Seconda parte.

Terza parte




         

di Jacopo Simonetta



Come reagiremo, collettivamente, alla situazione di carenza di risorse e crescita esplosiva della popopolazione - come delineato nei post precedenti?  In altri termini, come potranno quattro caratteristiche fondamentali della specie umana ci porteranno ad agire e con quali presumibili conseguenze?

Ricordiamole:


1 – Estrema polifagia.   Indubitabilmente continuerà lo sfruttamento di risorse qualitativamente peggiori, man mano che quelle migliori diverranno insufficienti. Già oggi lo vediamo, ad esempio,  con lo sfruttamento dei cosiddetti “petroli non convenzionali” e del carbone, oppure con l’allevamento industriale di insetti e batteri a scopo alimentare.   Sicuramente ciò sta contribuendo a posticipare il collasso globale che incombe, ma solo al prezzo di aggravarlo in quanto ogni giorno che passa la popolazione aumenta, mentre la capacità di carico globale diminuisce.   In pratica, è come ottenere una rateizzazione di un debito impagabile a fronte di un ulteriore incremento degli interessi passivi.

2 – Evoluzione culturale.   La totalità delle risorse disponibili è dedicata ad uno sforzo letteralmente titanico per sviluppare tecnologie più aggressive ed efficienti, ma sempre sulla base di scoperte e brevetti di base datati, perlomeno, di parecchi decenni.  Ad esempio, le tecnologie fondamentali per l'informatica contemporanea sono brevetti militari degli anni '50; il fracking deriva da un brevetto degli anni '40; l'Ucg (recupero di gas da carbone bruciato in posto) data addirittura dalla fine del XIX° secolo. Sembra che siamo in grado di perfezionare anche di molto quello che abbiamo, ma che non siamo capaci di inventare qualcosa di veramente innovativo come furono, ai loro tempi, il motore a vapore o quello a scoppio.   In parte, forse perché la scoperta “cornucopia” che cerchiamo non esiste, mentre la ricerca di un approccio radicalmente diverso alla situazione è lasciato a settori marginali della società.

In parte, certamente, perché il progresso tecnologico è in buona misura una funzione dell'energia disponibile al netto delle attività economiche vitali, in primis l'estazione e raffinazione dell'energia.   Un margine che si sta rapidamente erodendo con il peggioramento qualitativo delle fonti disponibili.
Inoltre, l’aumento vertiginoso dei volumi e della velocità di informazione pongono problemi crescenti di sintesi, di comprensione e di reazione anche a personale altamente qualificato.    Gran parte della classe dirigente (sia politica che economica) pare aver già raggiunto un livello di “overflow” oltre il quale prevalgono comportamenti istintuali e/o abituali sulla capacità di analisi razionale.   Questo potrebbe spiegare almeno in parte perché, pur essendo perfettamente informati dei danni, dei rischi e delle principali cause della crisi attuale da almeno 40 anni, non abbiamo intrapreso alcuna azione efficace per evitarla.   Di fatto, il comportamento complessivo dell’umanità non si sta dimostrando più “intelligente” di quello di una muffa; è  come se la sommatoria di 7 miliardi di cervelli pensanti fosse tendente a zero.

3 – Incremento della complessità.   Finora è stata una strategia vincente perché la disponibilità di risorse e la stabilità degli ecosistemi erano sufficienti a sostenere strutture progressivamente più costose in termini di risorse ed inquinamento.   Ma dal momento in cui la disponibilità di energia ha cominciato a declinare (perlomeno in termini qualitativi) la complessità ha cominciato a divenire sempre meno sostenibile.   D'altronde, la disarticolazione dei mega-sistemi in sub-sistemi  più semplici e meno interconnessi abbasserebbe drasticamente la capacità di fronteggiare problemi ordinari, come pure di estrarre ed utilizzare le risorse residue.   Si pensi, ad esempio alle capacità terapeutiche dei grandi ospedali universitari rispetto a quella degli ospedalini di provincia.   Oppure si pensi al livello iperbolico di complessità organizzativa necessario per costruire e mantenere operativa una piattaforma petrolifera artica e confrontiamolo con il livello organizzativo ed economico che permise al “colonnello” Drake di trivellare i suoi pozzi.

Inoltre, la complessità dei problemi da affrontare richiede oramai l’impiego di personale troppo specializzato per potersi efficacemente coordinare, col risultato che le risposte imbastite da governi e grandi organizzazioni in genere si stanno dimostrando frammentarie ed inefficaci,   spesso producendo danni imprevisti a latere di risultati deludenti. Un effetto probabilmente dovuto anche al fatto che la dimensione dei sistemi sociali è divenuta tale da impedire alle persone di riconoscervisi e, dunque, di collaborare efficacemente alla sopravvivenza collettiva.  In altre parole, pare che i livelli di complessità stiano raggiungendo livelli ingestibili.

4 – Costruzione sociale di modelli mentali di riferimento.    Il modello attualmente dominante e’ stato elaborato nel periodo in cui il tesoro nascosto delle energie fossili diventava disponibile e sembra incapace di adattarsi ad un contesto di progressiva carenza energetica, sia qualitativa che quantitativa.  Ma quando un modello ampiamente accettato e profondamente radicato viene posto sotto stress dalla forza di fatti che questo non è in grado di spiegare, si crea una situazione di grave sofferenza nei soggetti coinvolti.   Sofferenza tanto più forte quanto più brusco e profondo è il contrasto e, normalmente, la risposta alla sofferenza è la violenza.   Ne sono testimonianza il fiorire di movimenti integralisti in più meno tutte le grandi religioni, come il risorgere di ideologie già costate milioni di morti che rappresentano altrettanti tentativi di ricreare dei modelli mentali ad un tempo esplicativi della realtà ed identitari del gruppo.   Certo, è teoricamente possibile una revisione del modello o la sua sostituzione con uno più adeguato, ma questo tipo di processo richiede tempi relativamente lunghi che non abbiamo più a disposizione.    Di fatto, le classi dirigenti continuano a pensare sulla base di paradigmi elaborati in contesti completamente diversi dall'attuale e questo ne spiega il sistematico fallimento, anche a prescindere dai pur reali e diffusi fenomeni di stupidità, corruzione ed ignoranza.

E dunque?  Personalmente, ritengo che i livelli organizzativi superiori (organizzazioni internazionali, stati, grandi imprese, ecc.) non potranno materialmente elaborare alcuna strategia efficace e dunque si limiteranno a tamponare via via le falle maggiori, di solito aprendone altre.   Una cosa che potranno fare ancora per un periodo relativamente lungo (probabilmente un paio di decenni, forse di più) poiché la disponibilità di mezzi a loro disposizione è davvero molto elevata.   Il problema è che così facendo posticiperanno sì eventi particolarmente dolorosi come le carestie, ma eroderanno nel contempo le riserve ancora presenti in termini di risorse, di resilienza degli ecosistemi, di capacità di adattamento delle popolazioni.

Al momento, alcuni tentativi di elaborare strategie alternative si vedono a livelli organizzativi del tipo di piccole cittadine di provincia o piccole imprese, ma sono molto pochi, mentre molto più numerosi sono gli esempi di micro-comunità auto selezionate, oppure di singoli individui o famiglie.   Il problema è che tanto più basso è il livello organizzativo, tanto minori sono i mezzi a disposizione e le possibilità operative.
 
Inoltre, occorre tener presente che ogni tentativo di modificare la strategia ad un determinato livello organizzativo, sottrae risorse ai livelli superiori, una cosa autenticamente, profondamente sovversiva. Per adesso questo tipo di iniziative non provoca alcuna particolare reazione, se non un passivo boicottaggio derivante dall'incompatibilità di queste strategie con il sistema di norme e consuetudini esistenti.   Questa comoda situazione potrebbe però cambiare se iniziative di questo tipo si moltiplicassero, oppure se il degenerare della situazione sociale portasse a governi più autoritari.   Già in molti paesi del mondo le possibilità di scelta dei cittadini sono fortemente limitate non solo dai paradigmi mentali comuni e dalla propaganda, ma anche da apparati repressivi molto efficaci.   Ed anche nei paesi di tradizione più liberale, esigenze di ordine pubblico e fiscale stanno portando alla creazione di sistemi di spionaggio e controllo della popolazione assolutamente capillari.Se ne potrebbe trarre la facile conclusione che un Fato funesto attende la nostra specie e, probabilmente, l’intero pianeta. Effettivamente, in una prospettiva plurisecolare, questa è una possibilità concreta, ma assolutamente non una certezza.

A conclusione del suo ultimo (e più amaro) libro, “Il declino dell’uomo”, Konrad Lorenz illustra come il comportamento dell’uomo contemporaneo continui ad essere condizionato da paradigmi istintuali che per almeno 100.000 anni hanno fatto di noi la specie vincente in assoluto.   Questo li ha radicati profondamente nella nostra mente e, probabilmente, anche nei nostri geni, cosicché non riusciamo a liberarcene, malgrado nel contesto odierno siano diventati, a tutti gli effetti, degli istinti suicidi. Conclude, tuttavia, dicendo che una speranza comunque c'è e e risiede nel fatto che la caratteristica principale dei sistemi viventi rimane l’imprevedibilità.   E le società umane sono sistemi viventi estremamente complessi, all'interno delle quali evolvono contemporaneamente numerose tendenze diverse, talvolta contrastanti.  

In pratica, se il destino della società industriale globalizzata appare effettivamente segnato per motivi geologici, termodinamici ed ecologici, il futuro delle società che si formeranno dalla sua disintegrazione rimane del tutto imperscrutabile.  Curioso che dopo tanti sforzi per dominare e controllare  completamente la Natura, ci troviamo a riporre ogni nostra speranza nel fatto che non ci siamo riusciti.    

 “Sento dunque che l’improbabile al quale mi dedico rischia di diventare davvero impossibile.   Ma sento anche che, se il Titanic naufraga, forse una bottiglia gettata in mare giungerà sulla riva di un mondo in cui tutto sarebbe da ricominciare …    Non si sa mai se e quando è troppo tardi.”   (E. Morin, La via, 2012).




domenica 20 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 3 – Il presente.

Terza parte della serie di Jacopo Simonetta sull'origine e il destino degli esseri umani

Prima parte.
Seconda parte.




di Jacopo Simonetta.
        Ci sono volute circa 10.000 generazioni  perché la popolazione umana raggiungesse 1 miliardo nel 1800 circa ed altri 130 anni per raggiungere i 2 miliardi di individui verso il 1930; poi, nell’arco di una sola vita umana, siamo passati ad oltre 7 miliardi in ulteriore, rapido aumento.   E’ vero che il tasso di crescita sta diminuendo costantemente dalla metà degli anni ’60, ma il tasso record del 2,19% del 1963, applicato ad una popolazione di 3,2 miliardi di persone, comportò un aumento di poco più di 70 milioni di bocche da sfamare.    Nel 2013, un tasso di crescita pari a “solamente” 1,14 %, applicato ad una base di 7,16 miliardi, ha portato quasi 82 milioni di bocche in più attorno al desco globale.

La densità di popolazione media mondiale oggi è all'incirca di una persona ogni 2 ettari, compresi i deserti e le alte montagne.   Se si considera la sola superficie agricola, le stime della FAO del 2006 davano una persona ogni 2.000 mq circa, altre fonti danno cifre un po’ diverse, ma poco importa la differenza, da momento che tutte concordano sul fatto che tale cifra si è dimezzata in 40 anni circa e che la tendenza è ad un’ulteriore, rapida, riduzione. In Italia, nel 2004 avevamo “ben” 2.280 mq di terra agricola a persona (ISTAT), ma considerando che diminuisce di circa 30 mq l’anno a causa dell’incremento demografico e dell’urbanizzazione; oggi dovremmo averne poco più di 2.000 mq con “rating” negativo. Eppure il costo medio del cibo nel corso degli ultimi 50 anni è diminuito, come è possibile un simile miracolo?

Figura 1
Semplicemente è stato reso possibile dal fatto che abbiamo trovato il modo di utilizzare petrolio e gas per produrre cibo. Chiunque pensi che l’attuale popolazione possa sopravvivere senza avere a disposizione combustibili fossili di alta qualità, in quantità praticamente illimitate ed a prezzo molto basso osservi bene questo grafico (fig.1):



Meccanizzazione, irrigazione e concimi sintetici hanno infatti consentito un aumento delle rese ad ettaro comprese fra il 50 ed il 200% a seconda delle colture e delle zone, ma tutto ciò è fattibile solo con grandi consumi di energia.   Oggi si stima che l’agricoltura consumi in media 4 joule fra petrolio e gas per produrre 1 joule sotto forma di cibo, ma le colture ad altissima produttività (quelle che fanno i 180-200 q/ha e che nutrono le megalopoli del mondo) consumano oltre 10-12 joule di energia fossile per ogni joule di granella raccolta.   E bisogna ancora trasportarla, macinarla, impacchettarla, cuocerla, ecc.   Stime ragionevoli valutano in una media globale di 40 joule di energia fossile consumata per mangiare un joule di cibo; che ci si trovi a New York, a San Paolo, a Shanghai  od al Cairo fa poca differenza.

Figura 2

In termini energetici, stiamo letteralmente mangiando petrolio condito con metano; tutto il resto serve sostanzialmente renderlo più gustoso e digeribile.

Niente di strano, dunque, che il prezzo del cibo segua quello del petrolio (fig.2).

Figura 3

Con tutto ciò, la produzione mondiale pro- capite di cereali  ha raggiunto un picco nel 1985 per poi declinare (fig.3). Le scorte strategiche mondiali sono ai minimi storici e non riescono a risollevarsi neppure nelle annate migliori, mentre abbiamo visto che ogni anno ci sono circa 80-90 milioni di bocche in più da sfamare.



Figura 4.
Parallelamente, la quantità di persone denutrite è andata diminuendo dal 1960 fino al 1995, per poi circa triplicare nei 20 anni successivi.(fig. 4).
Forse la resa agricola potrebbe ancora aumentare, ma anche in questo caso l’effetto della legge dei “ritorni decrescenti” è evidente (fig.5).   Quali sarebbero dunque i costi, quali conseguenze e con quali risultati? 

Figura 5
Sappiamo inoltre che il cambiamento climatico in corso già grava sulla produzione agricola mondiale e che sempre di più lo farà. In un disperato tentativo di compensazione, ogni anno circa 1.500.000 di ettari vengono annualmente messi a coltura mediante bonifiche e disboscamenti.   E’ impossibile sapere con esattezza di quanto annualmente diminuisca la superficie forestale sia per motivi politici (ovvi),  sia tecnici (cosa è classificato come “foresta” cambia a seconda degli autori).   Comunque, pare che dal 8.000 a.C. al 1.900 d.C (10.000 anni) siano state distrutte circa il 50% delle foreste originarie; fra il 1900 ed il 2.000 (100 anni) la metà di quelle rimaste; entro il 2020-30 (10-20 anni) la metà di quelle che rimangono oggi (anzi, ieri). Le conseguenze sui suoli, le acque, la biodiversità ed il clima sono semplicemente incalcolabili.
Eppure la superficie agricola continua a diminuire (dal 1980 al 2000 è calata dell’11%, pari a 80 milioni di ettari) in conseguenza di una serie di fenomeni, perlopiù dipendenti dall'eccessivo sfruttamento cui è sottoposta (desertificazione, erosione, edificazione, salinizzazione, ecc.). Oramai, questo immane sforzo produttivo fa si che praticamente tutti i suoli accessibili siano più o meno seriamente degradati, compresa la maggior parte di quelli forestali (fig. 6).   

Figura 6

Forme più moderne di agricoltura (come la permacoltura, l’agricoltura biologica e biodinamica) hanno consumi energetici che sono circa la metà di quelli dell’agricoltura industriale e non danneggiano il suolo, ma comunque necessitano di petrolio sia per la meccanizzazione, sia per tutti i servizi collegati (consumi domestici degli agricoltori, trasporti, ecc.).    Sulle rese gli effetti sono diversi: in grossolana approssimazione si può ritenere che nei paesi temperati i raccolti diminuiscono leggermente, mentre nelle zone tropicali aumentano.   Nell'insieme, si può quindi ritenere che, passando a forme di agricoltura più sostenibili, la produzione mondiale di cibo potrebbe restare circa costante, a fronte di un netto rallentamento nel degrado dei suoli e nei consumi di energia.   Un vantaggio enorme, ma che da solo non sarebbe sufficiente a risolvere il problema della sovrappopolazione.   Anzi, potrebbe addirittura peggiorarlo consentendo un ulteriore aumento della popolazione, analogamente a quanto accaduto con la "rivoluzione verde".
Figura 7

L’impronta ecologica è un modello di valutazione della sostenibilità approssimativo, ma è comunque indicativo.   E’ interessante vedere che il numero di giorni in cui siamo andati in “debito ecologico” ha continuato ad aumentare di anno in anno, a partire dal 1976 quando, probabilmente, l’umanità superò per la prima volta la capacità di carico complessiva del pianeta (fig. 7).   Com'è possibile che la gente sopravviva?   Semplice: si stanno usando ed esaurendo le riserve di energia fossile, acqua, fertilità, biodiversità.   E man mano che le riserve si erodono, la capacità di carico del pianeta si riduce ed il debito ecologico si accumula, analogamente a quello finanziario di cui tanto si parla in questi anni.   Eppure, il debito ecologico, di cui non si parla, è molto più grave giacché non è possibile azzerarlo in altro modo che morendo in quantità sufficiente.   E quanto è sufficiente?   Nessuno può saperlo, ma sappiamo che ogni anno è un po’ di più del precedente.

Tuttavia da molte parti ci dicono di non preoccuparsi perché la natalità diminuisce spontaneamente con l’aumento del benessere, quindi la crescita economica ridurrà la natalità: è solo una questione di tempo e di sviluppo.  In realtà la natalità è correlata con la capacità di decisione autonoma delle donne e non con il reddito (anche se donne benestanti ed istruite sono spesso più autonome di donne povere ed analfabete, ma non sempre).   All'atto pratico, la cosiddetta “transizione demografica” rappresenta abbastanza bene quello che è accaduto nei paesi “occidentali” al netto dell’immigrazione, ma non nel resto del mondo (v. tabella).   Fra i paesi a crescita più rapida troviamo sia i poverissimi che i ricchissimi, mentre fra quelli a crescita negativa troviamo praticamente solo poveri (v. energia-e-crescita-demografica).  Questa  è una grossa fortuna perché il livello di benessere sta diminuendo per moltissima gente in tutto il mondo e molto di più diminuirà nei prossimi decenni senza che ciò, per ora, provochi una recrudescenza della natalità.   

 Al di là di imprevedibili fluttuazioni di dettaglio, sappiamo infatti che siamo attualmente in una fase di picco della  disponibilità energetica e che nel giro di 10-20 anni la disponibilità globale non potrà che diminuire (fig. 8), con quali conseguenze sulle economie e le popolazioni?  

Figura 8



venerdì 18 aprile 2014

L’UNICITA’ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Parte 1 – Premessa.

Il primo di una piccola serie di post di Jacopo Simonetta sul fato della specie umana



   
 Di Jacopo Simonetta


Desmond Morris, Konrad Lorenz e tanti altri hanno ampiamente illustrato quanto abbiamo in comune con i nostri cugini pelosi, eppure non c’è dubbio che il Fato della nostra specie sia molto diverso da quello delle altre grandi scimmie.  Perché?  Quali sono le caratteristiche a noi proprie che hanno determinato un tanto diverso destino? Senza pretesa di completezza, vediamo 4 caratteristiche, fra loro correlate, che con tutta probabilità hanno giocato (e giocheranno) un ruolo fondamentale nella nostra storia.

1 – L’uomo è una specie estremamente polifaga.   Esistono tantissime specie onnivore (ad es. quasi tutte le scimmie, cinghiali, cani, ratti, corvi, blatte, grilli, ecc.), ma nessuna riesce a ingerire e digerire una varietà di cibi che vanno dalla balena al lievito, passando per il sale ed i ravanelli.  Se poi consideriamo non solo il cibo, ma tutte le sostanze che vengono utilizzate per la produzione di beni e servizi, l’uomo da solo utilizza una gamma di risorse forse altrettanto vasta di quella utilizzata dalla Biosfera intera.  Questo ha delle conseguenze.   Sappiamo, infatti, che gli animali specializzati nello sfruttamento di risorse specifiche hanno un effetto stabilizzante sugli ecosistemi di cui fanno parte, mentre gli onnivori tendono a destabilizzare i loro ecosistemi. Ma sappiamo anche che ecosistemi stabili favoriscono gli “specialisti” (che sono più efficienti), mentre gli ecosistemi instabili favoriscono i “generalisti” (che sono più resilienti). Si formano quindi degli anelli a retroazione che tendono a mantenere determinate situazioni, ma è molto più facile e rapido passare dalla combinazione “ecosistema stabile-dominanza di specialisti” a “ecosistema instabile -dominanza di generalisti” piuttosto che il contrario e questo per ragioni termodinamiche complesse, ma ineludibili.  Essendo che l’uomo, tenuto conto dell'intera sua attività economica, è la specie più polifaga in assoluto, è anche quella che maggiormente destabilizza il proprio ambiente.

2 – L’uomo evolve soprattutto sul piano culturale. Nella nostra specie, le competenze acquisite durante la vita dei singoli individui possono essere trasmesse ad altri individui, anche in gran numero e non necessariamente discendenti, senza neppure un’interazione diretta.  Questo consente una rapidissima diffusione delle innovazioni e delle conoscenze. E poiché l’effetto di una popolazione in seno ad un ecosistema dipende da come questa si comporta e con quali mezzi si procura il fabbisogno, un uomo munito di zappa e lo stesso identico individuo alla guida di un trattore sono entità ecologicamente altrettanto diverse che un topo ed un elefante; con la differenza che il passaggio da zappa a trattore può avvenire in una sola generazione od anche meno. Questa straordinaria velocità evolutiva impedisce alle altre specie (legate ai ben diversi tempi dell’evoluzione biologica) di adattarsi a noi,  con l’ eccezione di quelle che, non per caso, sono divenute i nostri parassiti. Un aspetto particolarmente rilevante connesso con l’evoluzione tecnologica è che questa consente alla nostra specie di continuare ad estendere la gamma delle risorse che può sfruttare, oppure di accaparrarsene in misura maggiore.   Di fatto, l’uomo è dunque un “invasore biologico permanente” in quasi tutti i luoghi dove si trovi.

3 – L’uomo tende a formare strutture super-individuali di tipo quasi coloniale, sempre più complesse ed interconnesse.   In effetti, l’unità evolutiva e funzionale dell’uomo moderno non è l’individuo, bensì la società di cui ognuno fa parte.   Il nostro grado di integrazione non ha raggiunto i livelli di alcuni insetti, ma, in compenso, costituisce strutture di vastità e complessità senza paragoni possibili nel resto della Biosfera.   La tendenza alla complessità è probabilmente molto più antica della nostra specie, ma in noi ha raggiunto livelli senza precedenti.   Questo comporta dei vantaggi notevoli in quanto livelli organizzativi superiori ci consentono  di superare i fattori che limitano la crescita dei livelli inferiori.   Si pensi, ad esempio, all'immensa rete del commercio mondiale, od al funzionamento del sistema sanitario. Ma la complessità è anch'essa soggetta alla nota legge dei “ritorni decrescenti”, cosicché ogni ulteriore incremento comporta vantaggi minori rispetto al precedente, mentre aumentano i consumi unitari e globali di energia e risorse. Vi è dunque un limite oltre il quale lo sviluppo del sistema diventa controproducente, senza che questo perda però la sua incoercibile tendenza alla crescita.   La burocrazia di qualunque paese moderno è un eccellente esempio di questo fenomeno. Inoltre, l’aumento della complessità comporta un parallelo incremento della specializzazione dei singoli elementi che, complessivamente, diventano più efficienti, ma meno resilienti. Parallelamente, si sviluppano difficoltà crescenti di dialogo e reciproca comprensione fra i soggetti specializzati in materie e ruoli diversi, fino a minare la capacità stessa di reazione coordinata del sistema complessivo.  

4 – L’uomo elabora dei modelli mentali che descrivono la realtà ed il suo funzionamento.    Salvo il caso di reazioni puramente istintuali, usiamo questi modelli come chiavi di lettura per  capire la realtà, interpretare le informazioni che ci giungono dal mondo, elaborare le risposte.   Questi modelli sono sempre fortemente identitari perché sono una creazione collettiva dei gruppi che li elaborano e condividono. Ciò costituisce quel fenomeno unico nel  mondo biologico che è la costruzione sociale della percezione della realtà.   Percezione che, a tutti gli effetti pratici, sostituisce la realtà stessa, tanto che vi è chi parla di “costruzione sociale della realtà”.

L’insieme di queste quattro caratteristiche ci ha permesso di diventare la specie dominante del  pianeta in una misura difficile da capire e da credere.   Se   moltiplichiamo il numero delle persone per i consumi energetici pro-capite medi, abbiamo un indice dell'impatto termodinamico che abbiamo sul pianeta (human equivalent).   Considerando 1 l'impatto del terrestre medio nel 1800, troviamo che i sette miliardi di umani attuali consumano ed inquinano quanto 140 miliardi dei nostri bisnonni.

Ma l'enorme disponibilità di energia fossile ci ha permesso di accaparrarci anche una quota sempre maggiore di energia solare fissata dalla fotosintesi, passata da meno del 5 al 50% circa, mentre l’umanità con i suoi animali domestici (praticamente meno di una decina di specie in tutto) costituisce il 97% circa della biomassa di vertebrati terrestri oggi viventi.  Tanto quanto, ai loro tempi, tutte le centinaia di specie di dinosauri messe insieme.  
Il primo di una piccola serie di post di Jacopo Simonetta

E’ la prima volta che nella storia del Pianeta un solo animale assurge a tale importanza e ciò sembra giustificare il termine di “Antropocene” proposto per definire il periodo geologico attuale.   Resta però da vedere se si tratta dell’inizio di un’era, oppure della catastrofe che porrà termine all'era precedente.