mercoledì 31 agosto 2011

Il messaggio in bottiglia di Antonio Turiel


Guest post di Antonio Turiel (da “The Oil crash” il 25 Agosto 2011) Traduzione dallo Spagnolo di Massimiliano Rupalti



Caro lettore,

Mi dispiace veramente che tu debba leggere queste righe. Sei arrivato qui perché disperato e perché hai bisogno di capire. Capire cos'è successo. Capire per quale motivo la tua vita è andata alla deriva e perché tutti sembrano impazzire. Probabilmente, oltre ad una spiegazione cerchi una consolazione e forse anche una soluzione. Io non potrò darti nessuna di queste cose o forse sì, però non nel modo che immagini. E comunque sono l'ultima cosa che ti resta. Sono la tua ultima speranza. Ma sono ben poca cosa in realtà.

Per prima cosa dovremmo capire cos'è successo. Perché il tuo mondo si è sbriciolato. Sì, già lo sappiamo, l'economia va male, la disoccupazione aumenta, c'è agitazione nelle strade e ci sono sempre più tagli e meno servizi da parte delle sempre più inefficaci e vuote istituzioni; ma questo è ciò che gli economisti chiamano “il quadro macroeconomico”. Siamo sinceri, a te quello che ti interessa è il quadro tuo: cosa ne sarà di te e della tua famiglia. Il quadro microeconomico. Ed hai ragione; tutte queste sciocchezze piene di sigle (PIL, MIB, MIB30...) e di espressioni strane (tipo di interesse, debito sovrano, fare default, sospensione dei pagamenti...) non hanno, in realtà, nessuna importanza. Sono nomi coi quali la gente importante ed i telegiornali vogliono fare la mappa del disastro.

Però, in realtà, per quanto riempiano il telegiornale di ripresa, avversione al rischio dell'investitore, riduzione del deficit, bilancio dei pagamenti o altre cose esoteriche, la cosa certa è che quelli che ne parlaono sono come te. Non hanno idea di quello che sta accadendo. Siamo tutti su una nave che affonda e il capitano è terrorizzato quanto lo siamo noi. Cosicché la prima cosa e la più giusta è quella di spiegarti perché sta accadendo quello che sta accadendo, con parole semplici, senza entrare in grandi spiegazioni teoriche né fare indigeste insalate di dati.

Non posso darti i dettagli esatti sull'evoluzione delle cose perché non le ho e non credo le si possa avere, però posso darti la linea generale di come sono andate ed andranno le cose e, credimi, fino a questo momento le previsioni che alcuni di noi avevano fatte si stanno avverando molto bene. In realtà il corso generale degli avvenimenti è molto semplice. E' tanto semplice che i bambini ed vecchi lo intendono con due o tre frasi. Il problema siamo noi, il resto della popolazione, noi che siamo nell'età adulta e con la responsabilità di farci carico della società; e siccome presumo che ti trovi lì, dovrò usare qualcosa di più di due o tre frasi. Alcune in più, di fatto.

La cosa è evidente, però siamo stati educati in modo che il concetto sia inaccettabile, così come un computer che si blocca, ci riavviamo continuamente alla ricerca di un'altra spiegazione, di qualcosa che coincida con i nostri schemi mentali. Perché la pura e semplice verità è inaccettabile. E questa pura e semplice verità è che la crescita, la crescita in generale, dell'economia, della popolazione, del benessere, ecc non è più possibile. Non solo non è più possibile, ma siamo condannati a decrescere per un po', per una luuunga stagione. Non per elezione, non per coscienza e tutte queste cose che dicono i gruppi ecologisti, no. Decresciamo perché non c'è più alcun rimedio. Per forza. Obtorto collo.

Ti sei mai chiesto perché cresciamo? Perché l'economia cresceva – il PIL aumentava ogni anno, come dicevano? Perché la popolazione cresceva? Perché il nostro livello di vita migliorava? Tutto questo succedeva perché avevamo molte risorse; non solo molte, ma ogni anno di più. Abbiamo avuto più cibo, più acqua, più energia, più macchine, più elettrodomestici, … Non solo più, ma ogni volta migliori e sono apparse cose nuove e meravigliose: computer potentissimi che entrano in una valigia, telefoni intelligenti che stanno nelle nostre tasche e ci indicano con una mappa dove ci troviamo e dove andiamo, medicinali che curano malattie prima incurabili, aerei che ci trasportano da una parte all'altra del mondo, pomodori in inverno e arance d'estate... Bene, è vero che una parte dell'Umanità, la maggioranza di fatto, non ha mai avuto accesso a tali meraviglie, però per noi che siamo vissuti qui è stato un tempo glorioso. Un sogno di rapido e continuo progresso che è durato molti decenni, fino al punto che quasi è scomparsa la memoria di un mondo passato dove le cose andavano più lentamente e la vita era più difficile. Crescevamo, eravamo sempre più potenti, la gente aveva lavoro, si compravano case (a volte con piscina), due auto, vari computer e si andava alla Riviera Maya in estate e a Praga per la Settimana Santa. Arrivò un momento in cui abbiamo pensato che tutto questo fosse il frutto della nostra intelligenza e del nostro sforzo e pensavamo che ci fosse garantita la continuità di queste cose, che ne avessimo diritto.

Però non prestammo attenzione a un dettaglio fondamentale. Mentre il nostro progresso materiale accelerava, lo faceva anche il nostro consumo di materie prime, di tutte le materie prime: petrolio, carbone, gas, uranio, ferro, rame, alluminio, oro, argento, stagno, litio, cobalto, fosfati... Perché il nostro progresso era materiale e si basava sulla materia; avevamo bisogno di più materiali per costruire sempre più cose, sempre migliori. Eravamo tanto sicuri che avremmo sempre migliorato che costruimmo un sistema economico e finanziario basato sul credito.

Credito viene dal latino credere, (appunto) credere; chi concede credito crede che chi lo contrae potrà restituirlo. Non solo, ma che potrà restituirne di più di quanto riceve, che potrà restituire un interesse. Vale a dire che non solo potrà generare la ricchezza sufficiente in futuro, ma che addirittura lo farà a ritmo crescente, crescente in modo molto veloce (i matematici direbbero esponenziale), una percentuale ogni anno. Il problema è che quando il debito è molto grande, fino ad una piccola percentuale, implica di dover incrementare di molti milioni il debito totale. Però, alla fine, il nostro sistema economico ha funzionato così per più di un secolo e, occasionalmente, facendo tabula rasa – le crisi – per poi re-iniziare e tornare a funzionare. Ma questa volta no.

Cos'è mancato? Sono mancate le risorse. Il pianeta è finito; grande, però finito, cosi che la quantità di materiali che contiene è finita. Questo problema non è tanto grave rispetto ai metalli, se si usassero in modo da poterli riciclare (anche se non si può riciclare mai al 100% e ci saranno problemi a lungo termine), però è critico per le materie energetiche perché si bruciano usandole, si consumano e non si possono più utilizzare: restano solo ceneri. Questo significa che in questo modo si possono fare le cose solo per un tempo limitato, fino a che si esaurisca il petrolio, il gas, il carbone e l'uranio che forniscono più del 90% di tutta l'energia che si consuma nel pianeta Terra. Così, all'inizio del xxi secolo, con le riserve di questi combustibili per vari decenni, dicevano, dovevamo cominciare a pensare verde e passare a poco a poco alle energie rinnovabili.

Questo dicevano. Ma era una menzogna. Per ragioni profonde che hanno le loro radici nella Geologia e nella Fisica, risulta che non si possa estrarre il petrolio, il carbone, il gas e l'uranio alla velocità che desideriamo. Certo, si che si può, però facendo le cose in modo talmente brutale e sprecando tanta energia che alla fine il combustibile estratto non ci restituirebbe l'energia spesa e quindi non ha senso fare estrazioni di questo tipo. Pertanto, se vogliamo ottenere energia nell'estrazione, estrarre più energia di quella che impieghiamo nelle nostre miniere e perforazioni, dobbiamo accettare che non sempre ne uscirà lo stesso, non sempre avremo la stessa quantità di energia.

Un geologo molto stimato, tal Marion King Hubbert, studiò questo negli anni 50 del secolo scorso ed arrivò ad una conclusione: qualunque pozzo o miniera segue una certa curva di produzione; all'inizio si estrae poco ogni anno; poi negli anni va ad aumentare fino ad arrivare al suo massimo o picco; poi, inesorabilmente, diminuisce. Con più tecnologia si può migliorare l'efficienza ed aumentare il ritmo di salita per un po', però al prezzo di aumentare il ritmo della discesa in seguito.

Il fatto è che la produzione di materie prime non è costante. All'inizio sale e sale rapidamente, esponenzialmente, proprio come gli interessi del nostro debito, come il nostro PIL. Però prima o poi arriva al suo tetto, al suo massimo, al suo picco. E una cattiva notizia: anche se varia da un materiale all'altro, ciò accade tipicamente quando si raggiunge l'estrazione più o meno della metà della risorsa. A partire dal picco la produzione comincia a diminuire, all'inizio lentamente, fino al punto che la produzione sembra che, semplicemente, stia stagnando; in seguito però la caduta accelera e la produzione decade molto rapidamente, esponenzialmente. E sebbene non arrivi mai a scomparire del tutto, in pratica nel giro di pochi anni, pochi decenni al massimo, la produzione è tanto marginale che praticamente non ci possiamo contare, soprattutto se vogliamo conservare quello che abbiamo. La nostra economia che deve crescere esponenzialmente per poter pagare i nostri debiti che crescono esponenzialmente.

Questo è quello che è successo, caro lettore. Il picco della produzione di petrolio è stato nel 2005, quello del carbone nel 2011, quello dell'uranio nel 2015 e quello del gas naturale nel 2025. Questo blog è pieno di dati e riferimenti che avallano quello che dico, non devi prendere le mie parole per certe. Verificalo. Probabilmente quando leggerai questo articolo saranno passati alcuni anni e se le informazioni saranno ancora accessibili potrai verificarlo. Forse le date finali variano di qualche anno, ma questo non cambia nulla. Quando ho scritto questo pezzo, il 25 agosto del 2011, le principali fonti di energia del pianeta stavano mostrando sintomi di esaurimento, di fine di un ciclo. Della fine della crescita.

In fin dei conti, lo smettere di crescere non è parte di un processo naturale? Quando siamo bambini cresciamo fino a diventare adulti e lì smettiamo di crescere. E questo è sano e salutare; che succederebbe se crescessimo per sempre? Nella nostra società succede la stessa cosa; di fatto è simile ad un essere vivente. All'inizio ci regolavamo con la legge del cowboy che davanti a sé vedeva solo estese praterie da attraversare e conquistare. Ma ora siamo molti, siamo 7 miliardi di abitanti in questo pianeta e ci resta un solo fazzoletto di terra coltivabile, un quadrato di 40 o 50 metri di lato a persona in questa pietra isolata in mezzo allo spazio. Non possiamo più avere l'economia del cowboy che non riesce a vedere i limiti con il suo sguardo, ma quella della nave spaziale Terra, in cui tutto si ricicla e si regola per garantire la sopravvivenza del suo equipaggio.

Lo abbiamo fatto? Abbiamo cambiato dal modo “verdi praterie” a quello “nave spaziale”? No, certo che no. Decenni di insegnamenti economici nelle grandi facoltà non hanno permesso che i nostri esperti economici, gli operatori delle grandi corporazioni ed i governi potessero capire un concetto di fondo tanto semplice ed evidente. Soprattutto, le complesse e grandi istituzioni che abbiamo creato hanno molta inerzia e c'erano, come dimenticarlo, questi debiti che avevamo, questi crediti che si basavano sul fatto che credevamo che potessimo generare ricchezza e, non solo, che potessimo crescere per poter pagare gli interessi. Così che, intorno al 2005, cominciò ad essere chiaro che nel nostro gigantismo stavamo cominciando comprimerci sotto la volta celeste del Pianeta Terra, stavamo barando e giocando a fare qualcosa mentre perdevamo il tempo fingendo di guadagnarlo. Nel 2008 la compressione fu talmente forte che il sistema giunse al crack e per un po' si parlò di rifondare il capitalismo, di cambiare le regole, di ripensare tutto; per un momento si ebbe paura che tutto sprofondasse e per questo si parlò di cambiare tutto. Però l'inerzia mentale, l'impossibilità di accettare che non potevamo continuare a crescere, la falsa identificazione della crescita economica con il proprio benessere, fece sì che creassimo ancora più debito per uscire dal buco del 2008. Vale a dire, credemmo che in futuro avremmo generato più ricchezza e la prendemmo in prestito per tappare i buchi di oggi. Senza renderci conto di rendere più grandi i buchi di domani.

Caro lettore, se sei arrivato sin qui probabilmente hai perso il tuo lavoro o hai paura di perderlo tra poco. Se lo conservi ancora con una certa sicurezza, di sicuro ti hanno ridotto lo stipendio; se è passato del tempo probabilmente te lo avranno abbassato varie volte mentre i prezzi salivano. Il fatto è che non stai passando un buon momento e nella tua famiglia le cose non sono messe meglio. Quando scrivo questo, nell'agosto del 2011, anticipo che questo autunno sarà complicato, sarà un autunno nero: si faranno ancora più tagli, vedremo ancora le borse in caduta, la recessione delle grandi economie sarà imminente e ci saranno più tensioni sulle strade. Stiamo aspettando la nuova tormenta e i danni che si lascerà dietro. Per te, caro lettore, questo forse sarà parte del tuo passato e tu già saprai com'è finito tutto quanto... se si può dire che sia mai finito. Perché la realtà è che questa crisi economica non può finire; cerca nel blog, leggi i dati. Non finirà, finché non troveremo un nuovo suolo fermo sul quale appoggiarci, potremo solo continuare a cadere e cadere.

Con questo voglio dire che non c'è speranza? No, ovviamente no. Però dobbiamo comprendere che dobbiamo cambiare. Tutta la società deve cambiare. Perché dobbiamo organizzarci in un altro modo, smetterla di vedere la coperta della nostra nave come la prateria senza fine che non è più da tempo. Ci sarà chi ti dirà che siamo condannati all'apocalisse ed alla distruzione totale. Non far loro caso. E' il tipico caso di profezia autorealizzata: se crediamo che tutto se ne andrà alla deriva, allora tutto se ne andrà alla deriva. Però se comprendiamo quello che succede, se capiamo che il problema non è il partito A o B, né il dirigente Pinco o Pallino, ma la concezione stessa del sistema economico, siamo in tempo ad invertire la situazione. Essenzialmente il nostro problema è di credenza, di credere in una determinata cosa. Molto bene, crediamo in un'altra, un'altra molto differente. Abbiamo i mezzi tecnici per fornire energia senza basarci sui combustibili fossili e l'uranio. Non potremo produrre tanta energia in modo sostenibile (le grandi installazioni da oggi in poi potranno mantenersi solo grazie ai combustibili fossili), sicuramente a lungo termine non potremo produrre nemmeno il 10% di tutto quello che consumiamo oggi, ma probabilmente questo è più che sufficiente. Però dobbiamo prepararci con ordine per questo, dobbiamo organizzarci.

E prima di pensare a produrre energia, pensa a quella di cui hai veramente bisogno tu e la tua famiglia, caro lettore. Intanto acqua, cibo e dove ripararti. Avere un lavoro, un lavoro degno col quale mantenerti e contribuire alla tua sussistenza ed a quella della tua comunità. E parlando della comunità, e del tuo stesso interesse in realtà, dobbiamo mantenere pulite le nostre strade e la nostra acqua per evitare che proliferino le infezioni. Dobbiamo essere capaci di produrre medicine semplici, come gli antibiotici, per poter curare le malattie più comuni; alcune le potremo ricavare direttamente dalle piante, come facevamo un tempo. Dobbiamo preservare l'energia in primo luogo per meccanizzare i campi ed aumentare la loro produttività, però dobbiamo coltivare in modo sostenibile, senza distruggere i terreni. Dobbiamo organizzare la produzione dei beni necessari ma senza sprecare nulla, né materiali né energia. Dobbiamo mantenere le case calde in inverno e fresche in estate però senza intossicarle di fumi tossici. Dobbiamo mandare i nostri figli a scuola perché imparino a vivere in un mondo diverso da quello attuale e ai nostri malati in ospedali più degni ed adeguati che possiamo.

Abbiamo molto lavoro da fare. Abbiamo bisogno di molte mani. Smetti di lamentarti per ciò che hai perduto e lavora per quello che abbiamo bisogno di ottenere insieme agli altri.

Forse ti chiederai cos'è stato di me in particolare. Se avremo fortuna, forse ci riusciremo, io insieme ad altri pazzi abbiamo provato a far prendere coscienza alla società che molta gente, quella sufficiente, leggerà questo messaggio, lo capirà ed agirà di conseguenza. So che è poco probabile, però è logico che ci provassi: per questo ho inviato questo messaggio in bottiglia. Forse non potevamo evitare che il degrado economico e sociale continuasse, ma nonostante questo ebbi fortuna, in questo caso specifico, e riuscii ad adattarmi al mio ambiente e sopravvivere. Forse no e sono morto da tempo; spero di no, veramente, perché vorrei conoscere i miei nipoti. In ogni caso poco importa quello che è successo o succederà a me. Ora si tratta di sapere cosa succederà a te, caro lettore, e alla tua famiglia.

Sii coraggioso e scrivi tu stesso la tua storia.

Antonio Turiel

(su “The Oil crash” il 25 Agosto 2011) Trad. Massimiliano Rupalti

lunedì 29 agosto 2011

Effetto Seneca: quando le cose vanno male, vanno male alla svelta


Vi siete mai chiesti come mai, quando le cose vanno male, vanno male così alla svelta? Beh, adesso potete attribuirlo all' "Effetto Seneca". E' tutto spiegato sulla base di modelli matematici che sviluppo in un post su "Cassandra's Legacy".

Cosa c'entra Seneca? Beh, era lui che aveva detto: "La crescita è lenta ma la rovina è rapida" in una delle sue lettere al suo amico Lucilio. Mi domando cosa penserebbe Seneca se potesse vedere come stiamo mettendo in pratica questa sua idea a livello planetario. Immagino che la prenderebbe con un certo stoicismo.


mercoledì 24 agosto 2011

Io e il Dr. Zarro


Il Dr. Zarro si costruisce in cantina un astronave per raggiungere il pianeta Mongo (dai fumetti di Flash Gordon di Alex Raymond). Va da se che la vita del ricercatore nel mondo reale non è esattamente così.


Una delle cose che fai come ricercatore è di fare il "referee" degli articoli degli altri. Funziona così; quando un ricercatore manda un articolo a una rivista scientifica, l'editore lo sottopone al giudizio di alcuni colleghi. Si chiama "peer review", ovvero "valutazione fra pari".

E' una cosa un po' noiosa e per la quale non si è pagati. Vi posso dire che certe volte è veramente noiosa; come l'ultima volta che mi è arrivato un lavoro scritto da dei cinesi in un inglese assolutamente misterioso che ho dovuto decifrare con grande fatica. Tuttavia, si fa; un po' per senso del dovere, un po' perché ci rendiamo tutti conto che è su questo tipo di cose che si basa la scienza. Il tuo mestiere è di trovare errori nel lavoro degli altri. Nel complesso, è un buon sistema; ha i suoi lati negativi, ma è un filtro che elimina la robaccia peggiore che altrimenti infesterebbe le riviste scientifiche.

In effetti, ci stavo pensando proprio in questi giorni: la scienza è costruita proprio intorno a un "servizio antibufala" tipo quello che fa Paolo Attivissimo sulle leggende che girano sul web e che, anch'io, nel mio piccolo, cerco di fare in questo blog e nel blog "Nuove Tecnologie Energetiche". Insomma, il mestiere del "debunker" i ricercatori ce l'hanno nel sangue.

Va da se che i criticati non sono mai troppo contenti di esserlo ma, nella scienza, vige un certo "gentlemen's agreement" su queste cose. Soprattutto, comunque, per evitare che qualcuno dei criticati abbia qualche caduta di stile, vige l'anonimità del referee. Ovvero, se fai il referee per una rivista scientifica, sei anonimo - puoi criticare senza che il criticato se la possa rifare con te. 

Se però uno si mette a fare il debunker sul web, c'è un piccolo problema: la situazione riguardo all'anonimità è esattamente opposta. Ovvero, ti trovi ad apparire con nome e cognome a criticare gente che, invece, appare soltanto con dei nick e non sai chi sono.

Da questo, deriva una situazione in cui far notare le fesserie che girano vuol dire tirarsi addosso insulti e maledizioni da parte di tutti quelli che si sentono offesi dalle tue deduzioni. L'ultima serie di accidenti che mi sono arrivati derivano dalla mia presa di posizione sulla storia dell "E-Cat" di Rossi e Focardi. Macchina che dovrebbe produrre energia dalla fusione nucleare ma che, a mio parere, si sta rivelando sempre di più una bella bufala.

Su questa faccenda della fusione E-Cat, c'è molta gente, evidentemente, che crede che gli scienziati siano un po' come il Dr. Zarro che, nei fumetti di Flash Gordon, si costruisce da solo un'astronave in cantina e poi ci viaggia fino al pianeta Mongo. Quando gli spieghi che non è proprio così, si arrabbiano come bambini ai quali hai rotto il giocattolo. Così, mi è arrivata addosso una scarica di insulti, in massima parte anonimi; alcuni anche molto fantasiosi. Ve ne passo soltanto uno: secondo un tale, io sono un "Barone d'Accademia con le labbra rigirate sotto le gengive" (non so cosa voglia dire, ma è curioso. Se cercate "E-Cat" e "Bardi" con google, ne trovate una bella serie).

Bene, a tutto ci si abitua; anche a pagare le tasse. Quindi, ci si abitua anche a essere insultati da anonimi sul web. Ma, certe volte, mi verrebbe voglia veramente di costruirmi un'astronave in cantina e partire per il pianeta Mongo.....


lunedì 22 agosto 2011

Caldo, caldo, caldo


Va bene che un'ondata di calore, di per se, non è la stessa cosa del cambiamento climatico, ma che i media continuino a parlare allegramente di "bel tempo" quando qui stiamo soffocando, ci vuole veramente un bel coraggio. Insomma, le paroline magiche "riscaldamento globale" proprio non c'è verso di farle venir fuori.

Il termometro sulla terrazza di casa mia segna 38.2 gradi. Sono le 18 del 22 Agosto 2011. Si toccano i massimi che avevo misurato l'anno scorso.  Ieri, l'osservatorio Ximeniano di Firenze aveva segnato 40.75 gradi, che è il record assoluto delle temperature di Agosto misurate a Firenze dal 1813.

Vi faccio anche vedere una foto di oggi di Lina, la mia gallina



Notate le ali semiaperte e il becco, anche quello semiaperto. La povera bestia sta malissimo per il caldo. Mi hanno detto dei miei amici che stanno in Texas che laggiù molte galline stanno morendo per crisi cardiaca - non sono abituate a certe temperature. Questa è un'ovaiola robusta ma, se questo caldo non finisce, ho paura per la sua sopravvivenza.

Data la situazione, attenzione agli incendi. Sono stato a spasso nel bosco, ieri. E' tutto secco; aghi di pino sparpagliati ovunque. Basta nulla per dar fuoco alle polveri. Per ora, si segnalano solo piccoli incendi, ma potrebbe andare peggio. Stateci attenti!!

Per finire, ogni volta che mi trovo a ragionare di queste cose, mi viene da pensare a quelli che continuano a parlare di era glaciale imminente. Mi verrebbe voglia di chiuderli tutti dentro un frigorifero per un po'; così perlomeno si potrebbero ripetere fra di loro "hai visto che è arrivata l'era glaciale!!!" Cosa che gli piace fare moltissimo, dato che lo fanno tutto il tempo.... mah....?




sabato 20 agosto 2011

Clima: responsabilità e conversione


E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. »   (Atti 9,1-9)
(immagine: La conversione di San Paolo, di Caravaggio)


Il dibattito sul clima non è un dibattito. E' uno scontro di visioni del mondo. Non si può uscirne passo dopo passo, non c'è una posizione intermedia. O uno crede alla scienza, oppure crede che la scienza sia un imbroglio e gli scienziati dei criminali. E' possibile, però, "convertirsi," un po' come è successo a Paolo di Tarso, fulminato sulla via di Damasco. 

Negli ultimi tempi, ci sono state molteplici "conversioni" di persone abbastanza note che sono passate dallo scetticismo alla comprensione, fra gli altri Mitt Romney, possibile candidato repubblicano alle prossime elezioni presidenziali. Non pretendo di listarli tutti, vi cito solo un paio di esempi di persone che hanno descritto con qualche dettaglio il loro percorso per arrivare alla conversione.


Il primo esempio è D.R. Tucker, blogger repubblicano che ha descritta nel suo blog.

http://climatecrocks.com/2011/07/18/confessions-of-a-climate-change-convert/

e Michael Stafford, un altro blogger conservatore americano, che l'ha descritta qui.

http://www.townsquaredelaware.com/my-road-to-damascus-coming-to-terms-with-global-climate-change/

Tutti e due riferiscono di essere stati "sconfitti dai fatti", di essersi convinti leggendo il rapporto IPCC del 2007 (Tucker) e dal rapporto della NAS del 2010 (Stafford).

In realtà, questa è probabilmente una razionalizzazione a posteriori per entrambi. Nella maggior parte dei casi, i neghisti si chiudono a riccio nella loro visione e si rifiutano di considerare i fatti. Ma è anche vero che i fatti sono un po' come l'acqua che erode piano piano le fondamenta di un edificio; molte costruzioni anti-scientifiche sembrano solide viste dall'esterno, ma possono crollare all'improvviso.

Stafford, in effetti, menziona esplicitamente la conversione di San Paolo nel suo blog e parla del dovere morale di prendere una posizione a proposito del riscaldamento globale. Evidentemente una persona di fede, cita la posizione della chiesa cattolica sul problema e conclude dicendo:

Affrontare il riscaldamento globale antropogenico (AGW) oggi è un imperativo etico e morale. Non farlo vuol dire ripudiare le nostre responsabilità verso gli altri, verso i poveri e, soprattutto, verso le future generazioni. E' un fallimento di enorme portata della fede, della fiducia e del nostro dovere. 

Insomma, non è tanto una questione di dati, quanto una questione di responsabilità. E non c'è un uomo o una donna che sia così chiuso nella sua bolla di rifiuto della realtà da non riuscire a sentire questa responsabilità. Certo, è soffocata dall'infinito rumore delle sciocchezze che ci raccontano tutti i giorni. Ma, forse, basta stare in silenzio per un po' per ritrovare la strada giusta.

venerdì 19 agosto 2011

Heinberg sui "Limiti dello Sviluppo




Un video recente, sceneggiato e narrato da Richard Heinberg e basato sul suo libro "La fine della crescita"


La tesi di Heinberg è che la fine della crescita sia cominciata nel 2008 e che la cosiddetta "ripresa" sia solo un gioco di prestigio per mascherare, per un po', l'inevitabile declino. Tra le molte interessanti considerazioni, il video contiene un riferimento al libro del 1972 "I limiti dello sviluppo" (vedere al minuto 2.10) che viene definito essere stato "attaccato da economisti mainstream utilizzando sporchi trucchi retorici."

Sembra che, finalmente, stiamo assistendo alla graduale morte della vecchia leggenda che vuole che "I limiti dello sviluppo" sia stato solo un insieme di "predizioni sbagliate" inventate da un gruppo di scienziati pazzi. Stiamo cominciando a comprendere che lo studio non ha mai commesso gli errori che i critici gli attribuiscono; è solo il risultato di quegli "sporchi trucchi retorici" escogitati negli anni '70 e '80.

Ora, se la fine della crescita è iniziata nel 2008, come Heinberg dice, si tratta di un incredibile successo per lo studio de "I limiti dello sviluppo" e, in particolare, per lo scenario "caso base" che generò l'inizio del declino del sistema industriale entro i primi due decenni del 21 ° secolo. Le "predizioni" esatte non sono mai state l'obiettivo dello studio e la crisi in corso non deve necessariamente essere la fine del ciclo che iniziò con la rivoluzione industriale, più di due secoli fa. Nondimeno, è impressionante che gli autori dello studio avessero capito, già nel 1972, come una combinazione di esaurimento delle risorse e accumulo di inquinamento persistente stava per rallentare, e poi invertire, la crescita dell'economia mondiale. Si tratta, chiaramente, del fenomeno che stiamo vedendo oggi e che Heinberg descrive.

Su questo punto, si può anche vedere il mio libro" The Limits to Growth Revisited".


Traduzione dal post originale su "Cassandra's Legacy" di Alessandro Corradini

domenica 14 agosto 2011

Le solite Cassandre



Grafico dalla copertina dell'edizione italiana del 1973 dei "Limiti dello Sviluppo." Illustra il "caso base", quello che gli autori ritenevano il più probabile secondo i dati disponibili allora. Notate come l'inizio del declino della produzione industriale e agricola abbia inizio approssimativamente per il 2010-2020. 

Quello che fa più impressione di quello che sta succedendo in questi giorni non è tanto il fatto che gli autori dei "Limiti dello Sviluppo" nel 1972 potevano aver azzeccato con una precisione strabiliante l'inizio della fine del nostro sistema industriale. Dopotutto, proponevano molteplici scenari e potrebbe essere soltanto un caso il fatto che stiamo seguendo quello che loro ritenevano il più probabile.

Non fa nemmeno tantissima impressione che il lavoro degli autori dei "Limiti dello Sviluppo" sia stato demonizzato, ridicolizzato e consegnato al bidone della spazzatura delle teorie stupide e sbagliate. In fondo, negli anni 1970 anni fa era difficile pensare di poter prevedere una crisi che si sarebbe verificata quaranta anni dopo.

No, quello che fa veramente impressione è come, oggi, nessuno, ne sui giornali, ne in televisione e neppure fra i discorsi di quelli che hanno il potere di prendere decisioni si chieda neppure vagamente cosa stia succedendo e perché.


(nota: la figura mostrata all'inizio ha valore più che altro di testimonianza storica, ma le scritte non sono facilmente leggibili. Se volete un'immagine a più alta risoluzione, cliccate sul thumbnail qui accanto)







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Sui "Limiti dello Sviluppo", vi passo anche una recensione del mio recente libro "I Limiti dello Sviluppo rivisitati" edito da Springer


Da "La Gazzetta del Mezzogiorno", mercoledì 8 agosto 2011
http://giorgio-nebbia.blogspot.com/2011/08/crescita-di-che-cosa.html


Crescita di che cosa ?

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Due vite parallele a migliaia di chilometri di distanza. Un ingegnere nordamericano, Jay Forrester (nato nel 1918), specializzato nella progettazione dei calcolatori elettronici, docente nel prestigioso Massachusetts Institute of Technology, stava utilizzando, già negli anni cinquanta, i calcolatori per risolvere dei problemi di previsione. Per esempio come cresce la produzione industriale in seguito alla crescita o alla diminuzione dei soldi disponibili; come la mobilità in una città è influenzata dalla crescita del numero degli abitanti, delle automobili o dei mezzi di trasporto pubblico. Forrester aveva chiamato “dinamica dei sistemi” lo studio dei rapporti fra fenomeni il cui cambiamento può essere previsto mediante equazioni matematiche differenziali. Per inciso, equazioni simili erano già state usate trent’anni prima, per descrivere come aumentano le popolazioni animali, dagli studiosi di ecologia, un esempio della unità dei fenomeni dell’economia e dell’ecologia. Forrester aveva pubblicato libri di grande successo come “Industrial dynamics” (1961) e “Urban dynamics” (1969).

Dall’altra parte del continente americano, in Argentina, un economista italiano, Aurelio Peccei (1908-1984), alto dirigente della Fiat e di imprese impegnate nella progettazione e costruzione di opere pubbliche nei paesi emergenti, aveva cominciato a chiedersi quale avrebbe potuto essere il futuro dell’umanità davanti ad una popolazione rapidamente crescente, ad una crescente richiesta di beni materiali e di risorse materiali; negli anni sessanta si cominciavano infatti a vedere i segni di quella che sarebbe stata chiamata la crisi ecologica. L’incontro fra Peccei e Forrester, nel 1968, è stata l’occasione per progettare una ricerca sul futuro dell’umanità. Peccei aveva creato da poco il “Club di Roma”, un circolo internazionale di intellettuali attenti al futuro, che dette incarico a Forrester di analizzare il sistema planetario globale con le sue tecniche. Il risultato fu rivoluzionario.

Nel 1971, quarant’anni fa, Forrester e i suoi collaboratori, i giovani coniugi Meadows, furono in grado di presentare al Club di Roma i risultati di uno studio che analizzava le conseguenze di una continua crescita della popolazione mondiale. Lo studio non faceva previsioni, ma indicava che la crescita della popolazione avrebbe richiesto una crescita della produzione industriale, della richiesta di prodotti agricoli alimentari e che di conseguenza si sarebbe verificata una crescita dell’inquinamento planetario e un impoverimento delle riserve di risorse non rinnovabili come petrolio, carbone, minerali, eccetera.

Le anticipazioni dello studio cominciarono ad arrivare anche in Italia; furono inviate nel 1971 da Aurelio Peccei, presidente del Club di Roma, al Senato dove era in corso una indagine sui problemi dell’ecologia; furono oggetto di uno speciale fascicolo della rivista inglese “Ecologist”, subito tradotto in italiano da Laterza col titolo: ”La morte ecologica”, e alla fine divennero un agile libretto, pubblicato in molte lingue contemporaneamente, intitolato “I limiti alla crescita” (ma l’edizione italiana fu pubblicata con un titolo ingannevole, “I limiti dello sviluppo”).

Nel libro erano contenuti alcuni grafici, ottenuti con i calcolatori elettronici, da cui appariva che se fosse continuata la crescita della popolazione mondiale ai ritmi che nel 1970 erano di 80 milioni di persone all’anno, un giorno non ci sarebbero state risorse e materie prime sufficienti e sarebbero scoppiati conflitti per la loro conquista, la scarsità di cibo avrebbe diffuso epidemie e morti per fame, l’inquinamento avrebbe diffuso malattie e le condizioni di vita della popolazione mondiale sarebbero peggiorate al punto da provocare un forzato declino del numero dei terrestri. Se ciò fosse avvenuto, la minore popolazione restante avrebbe potuto far fronte ai problemi di scarsità e di inquinamento. Altrimenti la crescita della popolazione e della produzione industriale e della pressione sull’ambiente sarebbero diventate un giorno insostenibili.

Il libro fu venduto nel mondo a milioni di copie, provocò innumerevoli dibattiti e critiche. Fu visto con interesse dal nascente movimento ambientalista (stiamo parlando del 1971-72); il mondo cattolico intravvide dietro le curve tracciate dai calcolatori lo spettro del detestato Thomas Malthus (1766-1843), l’economista inglese che per primo, nel 1799, aveva auspicato un controllo delle nascite; i comunisti sostennero che in una società socialista la pianificazione avrebbe risolto tutti i problemi. Ma soprattutto si arrabbiarono gli economisti che furono spietati nella critica di un testo che metteva in discussione il mito fondamentale della scienza economica, quello della crescita.

Dopo pochi anni, peraltro, l’interesse per i “Limiti alla crescita” declinò; due aggiornamenti a venti e trenta anni dalla prima edizione passarono quasi inosservati. Finalmente, proprio in questo periodo di disordine economico mondiale, il prof. Ugo Bardi dell’Università di Firenze ha ripreso in mano lo studio del Club di Roma, analizzandolo alla luce di quanto è avvenuto negli ultimi decenni in un libro, pubblicato nei giorni scorsi dall’editore internazionale Springer, col titolo, tradotto in italiano: “I limiti alla crescita rivisitati”. Il grande interesse del libro sta nella ricostruzione storica degli eventi che hanno portato alla pubblicazione, quarant’anni fa, del libro del Club di Roma, nella rassegna delle lodi e critiche che il libro ha suscitato nel mondo.

Ma l’importanza del libro di Bardi sta soprattutto nell’esame di come sono cambiate, negli ultimi quarant’anni, le variabili allora considerate: il numero dei terrestri e le condizioni di benessere, la produzione di merci industriali e agricole, la disponibilità di risorse non rinnovabili e l’inquinamento ambientale. Purtroppo, al di là dei numeri assoluti, molte tendenze indicate nel libro si sono verificate: il prof. Bardi è il presidente della sezione italiana di una associazione internazionale per lo studio del “picco” del petrolio (ASPO) che analizza come nel mondo, a mano a mano che “cresce” la domanda di una risorse non rinnovabile (sia petrolio o zolfo, litio o la stessa fertilità del suolo) l’entità delle riserve residue diminuisce e crescono le tensioni e le guerre per conquistare quanto resta: nello stesso tempo cresce l’inquinamento ambientale e crescono i danni alla salute e al benessere delle persone sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri.

Il messaggio che emerge da una rilettura del libro sui “limiti alla crescita” non è di disperazione; niente a che fare con possibili “limiti dello sviluppo” umano, che dipende dalla libertà, dalle condizioni igieniche e alimentari, dalle conoscenze, e che può benissimo crescere anche in un mondo con meno e differenti merci e consumi e minore sfruttamento della natura. Il libro anzi stimolava a fare, come diceva Croce, “delle difficoltà sgabello” a condizione di riconoscere che la “crescita”, quel nome magico, che canoro discende dalle bocche di economisti, uomini politici e imprenditori, dipende dalle cose materiali, e che la crescita della produzione delle merci (siano acciaio per le navi o cemento per gli edifici, o occhiali, o conserva di pomodoro, o divani, o telefoni cellulari) comporta una inevitabile diminuzione delle risorse disponibili per le generazioni future e una inevitabile crescita della quantità di gas e di sostanze che inquinano l’aria e i fiumi e il suolo.

A questa realtà, alla necessità di scegliere, sotto questi vincoli naturali, che cosa produrre, la rilettura dei “Limiti alla crescita”, offerta dal libro di Bardi, richiama coloro che devono prendere delle decisioni per il futuro dei singoli paesi e dell’intera comunità umana. Non a caso i rapporti risorse-merci-ambiente (per citare il titolo di un dimenticato libro del 1966) sono l’oggetto degli studi universitari di Merceologia; non a caso il prof. Bardi è un chimico, docente delle disciplina che, per eccellenza, insegnano a fare i conti con i chili di materia e i chilowattora di energia.

domenica 7 agosto 2011

Il cuculo che non voleva cantare. Sostenibilità e cultura giapponese


Parecchi elementi della cultura giapponese ormai hanno fatto presa stabile in occidente. Uno è il Judo (la foto qui sopra raffigura Kano Jigoro, il fondatore del Judo moderno) ma ce ne sono molti ancora nelle arti figurative, in letteratura, in filosofia e in altri campi. In questo post discuto su cosa possiamo apprendere dalla cultura giapponese in termini di sostenibilità, con particolare riferimento al “periodo Edo” (più o meno dal 1600 d.C. a metà del 19° secolo). La società giapponese di quel periodo è uno dei pochi esempi storici che abbiamo di “economia di stato stazionario”. Come fecero i giapponesi a raggiungerlo? Qui suggerisco una spiegazione, basandomi sull’antico racconto giapponese del “cuculo che non voleva cantare”.

Questa è la versione di un discorso che ho tenuto al “Kosen Dojo” a Firenze il 26 marzo 2011. Non è una trascrizione letterale, piuttosto è un testo scritto a memoria in cui cerco di mantenere lo stile di una presentazione orale. Questo post è apparso in inglese su "Cassandra's Legacy" il 6 Aprile 2011. Traduzione in Italiano di Girolamo Dininno. 


Signore e signori, prima di tutto lasciatemi dire che nella mia carriera ho tenuto molte presentazioni su energia e sostenibilità, ma questa è la prima volta che mi capita di farlo seduto a gambe incrociate a terra su un tappeto giapponese, un tatami. Però, lasciatemi aggiungere che è un vero piacere farlo, ed è un piacere speciale farlo in un dojo, ai piedi del ritratto di Kano Jigoro, il fondatore del Judo moderno. Effettivamente sono stato anch’io un judoka, anche se devo dire che non pratico da un po’. Insomma questo posto mi ricorda moltissimo il Giappone, dove ho vissuto e sono stato molto bene, anni fa; e come sapete i recenti avvenimenti di Fukushima hanno sollevato il problema dell’energia e della sostenibilità in Giappone e nel mondo intero.

Il popolo giapponese ha subito più sofferenze di qualunque altro a causa della nostra cattiva gestione dell’energia atomica. Quella del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, è triste storia. Magari qualcuno di voi ha avuto la possibilità di visitare queste città – io le ho visitate entrambe, e vi posso dire che la memoria di quegli eventi non è qualcosa che si riesce a ignorare facilmente. Ovviamente, al confronto l’incidente nucleare di Fukushima è stato cosa da poco. Ma rimane che è difficile per noi – intendo noi umanità – gestire l’energia nucleare. Forse è semplicemente una cosa troppo grande e complessa.

Comunque, lasciamo perdere i pro e i contro dell’energia atomica; non è di questo che voglio discutere con voi oggi. Piuttosto, credo che possiate essere interessati a parlare un po’ della cultura giapponese. Il semplice fatto che siamo tutti seduti sul pavimento su un tatami giapponese vuol dire che la cultura del Giappone ha un’influenza su di noi, proprio come ha avuto influenza sulla cultura occidentale in molti campi – pensate solo ai manga! Perciò, quello che vorrei fare oggi è discutere di ciò che possiamo imparare dal Giappone in termini di sostenibilità.

Lasciatemi cominciare con qualche parola sulla storia del Giappone. Conoscete sicuramente il periodo “Heian” o “Imperiale”, iniziato tanto tempo fa: questo fu il periodo “classico” della storia giapponese. Il periodo Heian ha poi lasciato il campo a un’età di guerre civili: il sengoku jidai, l’epoca dei Samurai. Diversi film l’hanno dipinto come un’epoca romantica, ma sono sicuro che la gente che ci viveva non la trovava molto romantica; era un periodo di continue battaglie, e doveva essere parecchio dura per tutti. Ad ogni modo, questa fase storica finì quando Tokugawa Ieyasu emerse da vincitore delle guerre e divenne shogun, reggente di tutto il Giappone. Questo succedeva intorno all’anno 1600, e cominciò allora il periodo “Edo”, che fu molto più tranquillo. Il periodo Edo durò finché il Commodoro Perry non arrivò con le sue “navi nere” a metà del 19° secolo, il che diede inizio all’età moderna.

Ora, i due secoli e mezzo del periodo Edo sono molto interessanti dal punto di vista della sostenibilità. Non fu solo un periodo di pace; fu anche un’epoca di economia stabile e popolazione stabile. In effetti, non è del tutto vero, perché la popolazione del Giappone aumentò nella prima parte del periodo Edo; ma arrivata a 30 milioni restò quasi costante per circa due secoli. Non ho notizia di altre società nella storia che hanno vissuto un simile periodo di stabilità. Era un esempio di quel che oggi chiamiamo “economia di stato stazionario”.

Il motivo per cui la maggior parte delle civiltà non riescono a raggiungere uno stato stazionario è che è troppo facile sovrasfruttare l’ambiente. E’ qualcosa che non ha a che fare solo con i combustibili fossili: è tipico anche delle società agricole. Se tagliate troppi alberi, il suolo fertile viene lavato via dalla pioggia. E poi, senza terra fertile da coltivare, la gente muore di fame. Il risultato è il collasso – una caratteristica comune di gran parte delle civiltà del passato. Qualche anno fa, sull’argomento Jared Diamond ha scritto un libro, intitolato proprio “Collasso”.

C’è un punto interessante di Diamond a riguardo delle isole. In un’isola, dice Diamond, ci sono risorse limitate – molto più limitate che sul continente – e le opzioni a disposizione sono limitate di conseguenza. Quando sei a corto di risorse, mettiamo di terreno fertile, non puoi emigrare e non puoi attaccare i vicini per ottenere risorse da loro. Puoi solo adattarti, o perire. Diamond cita diversi casi di piccole isole nell’oceano Pacifico in cui l’adattamento era molto difficile ed i risultati sono stati drammatici, come nel caso dell’isola di Pasqua. In alcune isole davvero piccole, adattarsi è risultato talmente difficile che gli esseri umani sono semplicemente scomparsi. Sono morti tutti, e basta.

Il che ci porta al caso del Giappone: che è un’isola, naturalmente, anche se grande. Ma alcuni dei problemi che si avevano con le risorse dovevano essere gli stessi di tutte le isole. Il Giappone non possiede molto in termini di risorse naturali. Moltissima pioggia, per lo più, ma poco altro, e la pioggia può fare molti danni se le foreste non sono ben amministrate. E ovviamente in Giappone lo spazio è limitato, il che significa che c’è un limite alla popolazione; almeno finché essa dipende dalle risorse locali. Io credo che a un certo punto nel corso della storia i giapponesi abbiano raggiunto il limite massimo di quel che potevano fare con lo spazio a disposizione. Ovviamente ci volle del tempo: il ciclo è stato molto più lungo che su una piccola isola come l’isola di Pasqua. Ma potrebbe perfettamente essere che le guerre civili furono una conseguenza del fatto che la società avesse raggiunto un limite. Quando non c’è abbastanza per tutti, le persone tendono a combattere fra di loro, ma è ovvio che non sia questo il modo migliore per gestire la scarsità di risorse. Perciò, a un certo punto i giapponesi dovettero smettere di lottare, dovevano adattarsi o morire – e si adattarono alle risorse che avevano. Era l’inizio del periodo Edo.

Per arrivare a uno stato stazionario, i giapponesi dovevano gestire al meglio le risorse a disposizione, ed evitare di sprecarle. Una cosa che fecero fu liberarsi degli eserciti del periodo delle guerre. La guerra è semplicemente troppo costosa per una società a stato stazionario. Poi, fecero grossi sforzi per mantenere le foreste ed incrementarle. Potete leggere qualcosa a riguardo nel libro di Diamond. Il carbone di Kyushu forse aiutò un po’ a risparmiare gli alberi, ma il carbone da solo non sarebbe stato abbastanza – fu la gestione delle foreste a fare la differenza. Il governo amministrava i boschi a livello di singola pianta: un’impresa notevole. Infine, i giapponesi riuscirono a gestire la popolazione. Probabilmente fu questa la parte più difficile, in un tempo che non conosceva contraccettivi. Da quel che ho letto, ho capito che i poveri erano obbligati a praticare più che altro l’infanticidio, e questo doveva essere atroce per i giapponesi, come sarebbe per noi oggi. Ma le conseguenze del lasciar crescere la popolazione senza controllo sarebbero state terribili: per cui, erano costretti a farlo.

Noi tendiamo a vedere l’economia a stato stazionario come qualcosa di molto simile alla nostra società, solo un po’ più tranquilla. Ma il periodo Edo del Giappone era molto diverso. Di certo non era il paradiso in terra. Era una società estremamente regolata e gerarchica, in cui sarebbe stato difficile trovare – o anche solo immaginare – qualcosa come “la democrazia” o “i diritti umani”. Nonostante ciò, il periodo Edo fu una realizzazione notevole, una società molto raffinata e ricchissima di cultura. Una civiltà di artigiani, poeti, artisti e filosofi. Creò alcuni dei tesori d’arte che possiamo ammirare ancora oggi, dalle spade katana alla poesia di Basho.

Insomma, i giapponesi ce la fecero a creare una società estremamente raffinata che riuscì a esistere in uno stato stabile per più di due secoli. Non credo che nella storia ci siano molti casi paragonabili. Perché il Giappone ebbe successo dove molte altre civiltà nella storia avevano fallito? Be’, penso che il fatto di essere un’isola fosse un enorme vantaggio. Questo proteggeva da gran parte delle ambizioni dei popoli confinanti, e anche dalla tentazione che potevano avere gli stessi giapponesi di invadere i loro vicini. E se non hai una terribile paura di essere invaso (e non hai intenzioni di invadere nessuno), allora non hai motivo di mantenere un grosso esercito, né di far crescere la popolazione. Puoi concentrarti sulla sostenibilità e sulla gestione di quel che hai a disposizione. Poi, naturalmente, quando il Commodoro Perry e le sue navi nere arrivarono, il Giappone non fu più un’isola, nel senso che smise di essere isolato dal resto del mondo. Così la crescita ripartì. Ma, finché il Giappone restò isolato, l’economia rimase in uno stato stazionario e, come ho detto, questa era una conquista straordinaria.

Però non credo che il fatto di essere un’isola spieghi tutto del periodo Edo. Io penso che esso non sarebbe stato possibile senza un certo grado di saggezza. O forse un termine più corretto in questo caso è “sapienza”.

La saggezza o la sapienza non sono cose che si possano quantificare o attribuire a persone specifiche. Ma io ritengo che il Giappone, nella sua interezza, aveva raggiunto un certo livello di – diciamo così – “illuminazione”. Comprendetemi: mi riferisco al periodo Edo. So bene che oggi il Giappone è pieno di posti orribili come la maggior parte dei luoghi del mondo occidentale: inquinato, sovraffollato e pieno di costruzioni bruttissime. Però nel periodo Edo si era sviluppato un modo di guardare il mondo che ancora ammiriamo oggi, e che è secondo me ben rappresentato dalla poesia giapponese: un prodigio di luminosità, di percezione dei dettagli, di amore per le piccole e delicate cose del mondo càduco. Ma non è solo la poesia: pensate al Judo secondo il maestro Kano. E’ un modo di vivere: una filosofia, una maniera di acquisire saggezza. Il Judo è un’idea moderna, ovviamente, ma ha le sue origini nel periodo Edo. Per quello che posso capire, l’approccio giapponese di quell’epoca era quanto di più lontano può esserci dall’atteggiamento orrendo che abbiamo noi oggi, quello del golem chiamato homo economicus che pensa seriamente che un albero non abbia valore a meno che non sia abbattuto. Se è questo il modo con cui guardiamo il mondo, allora meritiamo di collassare e scomparire. La saggezza probabilmente non è una risorsa non rinnovabile, ma sembra che siamo comunque riusciti a restarne senza.

Vorrei raccontarvi una storia proveniente dalla saggezza giapponese; ha a che fare con l’epoca delle guerre civili ma fu sicuramente inventata durante il più tranquillo periodo Edo. Probabilmente conoscete i nomi dei principali condottieri dell’ultima fase delle guerre civili in Giappone: Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu. Alla fine, fu Ieyasu a diventare shogun e guida dell’intero paese. Sul come ci riuscì, c’è questa storiella che esiste in forma di senryu, una poesia breve. Racconta che un giorno Nobunaga, Hideyoshi e Ieyasu si incontrarono e videro un cuculo che non cantava. Nobunaga disse: “Se non canta, lo uccido”. Hideyoshi disse: “No, io lo convincerò a cantare”. E Ieyasu disse: “Io aspetterò, finché non canterà”.

Penso che questo racconto sia un’ottima rappresentazione di come la gente del periodo Edo razionalizzava gli eventi che portarono alla loro età. Ci dice che la strategia vincente non è la violenza, e nemmeno la furbizia: bensì è l’adattamento. I giapponesi avevano capito che non potevano forzare o persuadere la loro isola a comportarsi come essi desideravano, proprio come non si può forzare o convincere un cuculo a cantare. Dovevano adattarsi, e lo fecero. Questa, io credo, è saggezza.

Ora, una caratteristica della saggezza è che si può applicare a diverse situazioni, diversi luoghi, diversi tempi. Vediamo un po’ come possiamo interpretare il racconto nella nostra epoca. Abbiamo enormi problemi ovviamente: non abbiamo abbastanza petrolio, non abbiamo abbastanza risorse minerali, né abbastanza acqua, né atmosfera per assorbire i residui della combustione. Come reagiamo allora? Be’, un po’ come Nobunaga. Siamo propensi a usare la violenza, non solo in termini di “guerre per il petrolio”. Cerchiamo di forzare il pianeta a produrre quel che desideriamo. In un certo senso, è come dire all’uccello “canta, o ti ammazzo”. Insomma, è il “drill, baby drill!”, è la volontà di fare di tutto e con qualunque mezzo per produrre i combustibili liquidi di cui siamo convinti di avere assoluto bisogno, anche se così distruggeremo la terra e l’atmosfera. Vogliamo costruire centrali atomiche, incuranti dei rischi connessi, e fare un mucchio di altre cose per forzare il pianeta a produrre ciò di cui crediamo avere la necessità.

Poi c’è un diverso atteggiamento in apparenza più civile: è l’efficienza. Esso dice che, se riusciamo a convincere la gente ad usare le risorse in maniera più efficiente, possiamo continuare ad avere tutto quello cui siamo abituati ed in più salvare il pianeta. Le lampade a risparmio energetico e le auto di dimensioni più piccole di certo appaiono molto meglio, come idea, del “drill, baby, drill”; ma in fondo il concetto non è tanto diverso, nel senso che non vogliamo cambiare rispetto a ciò che pensiamo sia per noi indispensabile. Il modello di vita americano resta apparentemente non negoziabile: solo il modo di ottenerlo potrebbe forse esserlo. Questa strategia potrebbe addirittura funzionare – almeno per un po’. Ma riusciremo davvero a trovare delle soluzioni tecnologiche per avere, tutti, tutto quello cui siamo abituati? Il recente disastro di Fukushima dovrebbe averci insegnato che non siamo così furbi come possiamo pensare.

Non siamo ancora giunti al punto in cui scopriremo che la strategia vincente non è forzare né persuadere la Terra a dare più di quanto possa. La strategia vincente consiste nell’adattamento. Abbiamo la necessità di ritarare i nostri bisogni in base a quanto il pianeta può offrire. E’ quello che i giapponesi fecero sulla loro isola; e in fondo tutti noi viviamo su un’isola, un’isola gigante, sferica e blu che vaga nell’oscurità dello spazio. Sta a noi gestire i doni che riceviamo dalla Terra e creare qualcosa di bello come la civiltà Edo in Giappone; certamente con metodi migliori e più dolci per il controllo della popolazione.

Se l’esempio storico del Giappone conta qualcosa, forse siamo nella giusta direzione, e l’età delle guerre civili planetarie potrà finire prima o poi. Allora, se riusciamo ad aspettare abbastanza, un giorno anche noi potremo sentire il cuculo cantare.



Ringraziamenti: grazie a Jacopo Visani e Niccolò Giannetti per l’organizzazione dell’incontro al Kosen Dojo dove ho tenuto questo discorso.

mercoledì 3 agosto 2011

Milleristi e glacialisti

Immagine da Roy Spencer


Racconta Leon Festinger nel suo libro "Quando la profezia fallisce" di come un certo William Miller, un agricoltore del New England, si era convinto da certi suoi studi biblici che la fine del mondo sarebbe arrivata nel 1843. A partire dal 1831, si era guadagnato un buon numero di seguaci, detti "Milleriti" o "Milleristi".

Via via che ci si avvicinava alla data fatidica, la previsione di Miller si faceva più dettagliata. Inizialmente, parlò del 21 Marzo 1843, poi del 23 Aprile 1843. Quando non successe niente né a Marzo né ad Aprile, sposto la data di un anno, al 21 Marzo del 1844. Poi, dopo che anche allora non era successo nulla, introdusse una nuova correzione, spostando la data ulteriormente in avanti.

Ad ogni fine del mondo mancata, curiosamente, i milleristi non si perdevano d'animo. Anzi si facevano sempre più attivi e vocali nel propagandare le profezie del loro leader spirituale che, sicuramente, si sarebbero avverate come previsto, salvo alcune piccole correzioni.

Alla data del 22 Ottobre 1844, ultima profezia di Miller, la fine del mondo rifiutò di nuovo di verificarsi. Pare che i milleristi abbiano cercato di convincersi che la fine era solo da rimandare a nuova data ma il loro capo, stavolta, si rifiutò di fare altre profezie. Presi in giro da tutti quanti, finirono per sbandarsi e sparire dalla circolazione. Dal 1845 in poi, non se ne sentì più parlare.

Una bella storia questa, che ci dice che c'è speranza che anche i più duri di cranio riescano a lungo andare a rendersi conto che esiste la realtà e non solo le fesserie che si raccontano. Ora, a proposito dell'era glaciale imminente, i relativi profeti glacialisti sono stati più furbi di Miller nel non fornire date precise. Tuttavia, ogni volta che arrivano nuovi dati, i glacialisti vengono sbugiardati. Gli ultimi dati disponibili indicano una perdita record dei volumi di ghiaccio artici (*) e il Luglio del 2011 segna un nuovo balzo in avanti delle temperature atmosferiche (vedi sopra).

Allora, ai Milleristi ci sono volute quattro profezie sbagliate per capire come stavano le cose. Quante ce ne vorranno ai glacialisti?







* E non tirate fuori la storia dell'estensione dei ghiacci antartici: in questo caso poggio e buca non fa pari.