22 giugno 2016
«In caso di Brexit c’è una notizia buona e una cattiva. La
cattiva è che la Germania si rafforza e diventa l’unica potenza al
comando in Europa. Quella buona più che altro è una speranza: Italia,
Francia, Spagna e Irlanda potrebbero iniziare chiedersi se convenga
rimanere…». Non si direbbe, ma chi parla è un europeista convinto, anche
se difficilmente etichettabile. Gaël Giraud ha alle spalle una
brillante carriera come consulente di banche d’investimento parigine,
mentre oggi concilia due vite: quella di chief economist dell’Agence
française de développement e quella di prete gesuita.
Nemico della finanziarizzazione dell’economia, ma contrario alla
demonizzazione della finanza, quando non dice messa siede al tavolo di
Francois Hollande e lo turba con le sue teorie rivoluzionarie che si
possono ritrovare nel libro
Transizione Ecologica, scovato in Francia dalla casa editrice dei missionari italiani (EMI).
Professor Giraud, si può davvero essere europeisti e augurarsi la Brexit?
Prima bisogna capire che il progetto europeo, nato sulle ceneri della
Seconda guerra mondiale, è stato completamente tradito. Dagli anni
Ottanta si è scelto di imboccare la strada senza ritorno della
finanziarizzazione della società, compiutasi nel 1992 con il Trattato di
Maastricht. Il risultato? La mobilità dei capitali è diventata
prioritaria su quella delle persone.
Il disegno originario va ripensato perché l’Europa odierna è destinata a
distruggere le economie del Sud e a riaccendere l’odio tra i popoli. Se
la Brexit è l’occasione giusta, ben venga.
Sperando in una sorta di effetto domino?
Nonostante le apparenze anche chi chiede alla Gran Bretagna di
rimanere si è già attrezzato. Sono a conoscenza di un “Piano B” dei
governi del Nord Europa (Germania, Austria, Olanda, Finlandia, e
probabilmente Lussemburgo) per costruire una “zona marco” autonoma. Nel
caso mi auguro solo che la Francia rimanga fuori dal club perché insieme
all’Italia rappresenta la leadership naturale dell’Europa del Sud.
Questi due paesi hanno le carte in regola per costruire un nuovo sistema
politico che veda alla guida i cittadini e non i banchieri.
Nel suo libro, al di là dell’ipotesi Brexit, già li invitava a
fare il primo passo: sfidare la Germania e le istituzioni europee
stampando moneta. Ma quali sarebbero i rischi?
Se nascesse un’eurozona del Sud, la nuova moneta, che potremmo
chiamare Euro 2.0, rischierebbe di crollare sui mercati finanziari
mentre la bilancia commerciale potrebbe andare in deficit. L’inflazione a
quel punto sarebbe una conseguenza inevitabile. Tenga conto però che
questa è una buona notizia, dato che oggi siamo nella trappola molto più
pericolosa della deflazione.
Ma continuiamo pure l’elenco dei guai possibili: potremmo avere problemi
di accesso ai mercati finanziari per finanziare i debiti sovrani e gli
spread italiani e francesi non tarderebbero ad esplodere.
E quali sarebbero le possibili contromosse?
Stampare la nuova moneta comune in modo da avere nella nuova eurozona
diverse denominazioni nazionali il cui tasso di cambio verrebbe deciso a
livello politico, senza tenere conto della schizofrenia dei mercati
finanziari.
In questo modo potremmo ad esempio svalutare la valuta greca del 50% per
le sole transazioni interne all’eurozona del Sud – in modo da dare
ossigeno a un Paese messo in ginocchio dall’austerity – e allo stesso
tempo, all’esterno, mantenere una valuta forte per poter comprare
petrolio.
Fin qui tutto bene, anche se bisogna aspettarsi l’opposizione di qualcuno.
A chi si riferisce?
Alle banche. Se decidessimo ad esempio di procedere con una
svalutazione in Italia molti istituti bancari del vostro Paese
andrebbero in bancarotta, avendo molto debito privato denominato in
altre monete.
Anche in questo caso però non vedo grossi problemi: basta
nazionalizzarle e forzarle a fare il loro mestiere: lavorare per
l’economia reale e non per le speculazioni finanziarie.
A quel punto questa nuova eurozona, liberata dai vincoli
attuali, potrebbe realizzare quella che lei chiama la “transizione
ecologica”?
Esattamente. Occorre affrontare al più presto la questione energetica
e quella ambientale, rinnovando gli edifici dal punto di vista termico,
ripensando la mobilità, liberandoci dalla dipendenza dal petrolio.
D’altronde siamo costretti ad andare verso un’economia post-carbone,
basta non chiudere gli occhi davanti ai dati allarmanti
dell’inquinamento e del surriscaldamento globale. Si tratta di un
programma costoso, ma in grado di creare milioni di posti di lavoro.
Portare avanti un programma del genere al di fuori di uno scenario in cui l’Europa si divida in due non è possibile?
Purtroppo no. Se oggi un governo democratico volesse sposare la
transizione ecologica la Bce e le banche private glielo impedirebbero.
Chiuderebbero i rubinetti dicendo che non produce profitti a breve
termine. La colpa, come spiegavo prima, è antica: abbiamo scelto di
privatizzare la moneta e di incatenare gli Stati.
Oggi occorre solo essere coscienti della situazione e attrezzarsi a ciò
che prima o poi accadrà. Mi auguro per l’Italia che Renzi abbia imparato
la “lezione greca” e lo stia facendo. Altrimenti continuerà a puntare
tutto su una ripresa che purtroppo però non può arrivare…