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lunedì 20 giugno 2016

Niente spiritello nella macchina: l'umanità soffre di un'epidemia globale di Alzheimer?

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR



Il cervello umano è la cosa più complessa conosciuta in tutto l'universo. Così complesso e così delicato e fragile! (fonte dell'immagine)

I miei genitori erano sposati da 58 anni quando è morta mia madre. E' stata una perdita terribile per mio padre, che allora aveva 86 anni ed io ero molto preoccupato per la sua salute. Ma mi sono sentito sollevato quando ho visto che, dopo pochi mesi, sembrava essersi ripreso dallo shock. E' rimasto attivo e poteva gestire la sua vita quotidiana senza un aiuto particolare. Poteva prendere l'autobus, da solo, e camminare da solo nel vicinato. Si era persino fatto dei nuovi amici e passava del tempo con loro. Tuttavia, c'era qualcosa di sbagliato in lui. Di terribilmente sbagliato.

lunedì 30 marzo 2015

Persefone e Thanatos: la morte nell'era post-picco

di Jacopo Simonetta

Pochi giorni fa, scorrendo un notiziario, sono stato colpito da questa frase:

“L’86 per cento dei decessi è provocato da malattie croniche, che colpiscono più dell’80 per cento delle persone oltre i 65 anni. Una vera piaga, che costa alla sanità 700 miliardi di euro all'anno” (cioè poco meno dell’80% del budget sanitario UE ).

A me non manca molto alla fatidica soglia dei 65 anni, ma ricordo bene che, quando ero bambino, lo stesso concetto sarebbe stato espresso nei seguenti termini: "l’86% delle persone muore di vecchiaia; siamo una comunità pacifica e prospera.”

In fondo, contrarre una malattia cronica a 65 anni, in mancanza di cure adeguate, significa morire intorno ai 70.   Grosso modo l’età a cui sono defunti  la stragrande maggioranza dei nostri antenati che non lo hanno fatto prima. Non per nulla Dante stesso definisce “il mezzo del cammin di nostra vita” i suoi 35 anni.

Che cosa è cambiato di così radicale in così poco tempo?    Non la paura della Morte, ché c’è sempre stata.   La mia ipotesi è che sia cambiato molto profondamente il nostro atteggiamento verso il limiti che le leggi della natura (od il volere divino che dir si voglia) ci impongono.   La morte essendo il supremo fra questi limiti.

Chi sostiene che l’Uomo (astrazione collettiva di noi stessi) abbia sempre cercato di superare i suoi limiti ha probabilmente ragione, ma solo in parte.   Da un lato, effettivamente, la storia ci insegna che le società umane hanno sempre tentato, con maggiore o minore successo, di crescere  superando i limiti ecologici imposti dal loro ambiente.    Le armi, l’agricoltura, le costruzioni, il disboscamento, la medicina e la magia sono solo alcuni fra gli innumerevoli esempi possibili.

Tuttavia, è anche vero che tutte le culture, meno la nostra, hanno sempre posto l’accento sul fatto che l’uomo saggio è colui che conosce e rispetta i limiti.   La morale popolare, non meno delle scuole filosofiche, incoraggiava la gente ad accettare il mondo com'è.   Il cercare di soverchiare le forze che si oppongono ai nostri desideri era visto come un fatto quanto meno imprudente, se non decisamente riprovevole; finanche blasfemo.  

Chi si ribella al volere Divino,  di solito viene duramente punito.

L’idea che, al contrario, sia eroico infrangere i ceppi imposti da tanto vecchiume intellettuale, asservendo all'Uomo le leggi stesse della natura è, credo, un concetto presente sotto traccia fin dall'antichità, ma diventato dominante solo con l’Illuminismo.   E solo nel corso del XX secolo ha guadagnato le masse popolari, almeno in occidente.  

Penso che la ragione di questa radicale trasformazione sia, in gran parte, connessa con quella che potremmo chiamare la “rivoluzione petrolifera” che, per quasi un centinaio d’anni, ci ha permesso di infrangere quasi tutti i limiti che la storia ci aveva insegnato a considerare invalicabili.    Per fare un solo esempio, abbiamo potuto volare e ben più in alto degli uccelli, fin sulla Luna.  Ed abbiamo potuto curare la maggior parte delle malattie ereditate dal nostro passato.   Certo, nel frattempo ne abbiamo create di nuove, ma comunque l’industria sanitaria globale è in grado di assicurarci oggi 10 anni buoni di vita in più rispetto ai nostri bisnonni.

Naturalmente a patto di poter disporre di cure adeguate che, per l’appunto, hanno un prezzo di circa 700 miliardi di euro l’anno.   Pari a circa 1400 euro l’anno a cittadino europeo, bambini compresi.   Chi potrebbe dire di no?
Ma si tratta solo della classica “punta dell’iceberg”.   In ogni aspetto della nostra vita attuale, gli anziani gravano sulle spalle dei giovani in un’infinità di modi.    Dalla competizione per il lavoro, al fatto che i giovani devono oggi versare circa 1/3 dei loro proventi per pagare, a persone che nella vita hanno guadagnato molto più di loro, delle pensioni che loro avranno mai.   O che, nella migliore delle ipotesi, avranno molto più tardi e molto più misere.

L’allungamento della aspettativa media di vita è senz'altro la più popolare delle conquiste della modernità e quella a cui siamo meno disposti a rinunciare.   Possiamo tollerare tagli drastici a qualunque aspetto della nostra vita: dall'occupazione agli stipendi, dalla difesa alla tutela dell’ambiente in cui viviamo; ma non ai servizi sanitari.   E ciò malgrado gli ultimi anni dei malati cronici non siano certamente “rose e fiori”; anzi somiglino spesso ad un autentico calvario, sia per i malati che per le loro famiglie.

Certamente abbandonare i vecchi nella sofferenza sarebbe infame.   Ma è giusto che chi si è mangiato la mela dei migliori 50 anni dell’intera storia dell’umanità si mangi adesso anche il torsolo?   E' possibile e legittimo cercare un compromesso fra questi due estremi?   Chi deve decidere quando è il momento di “staccare la spina”?

Questioni estremamente delicate che hanno a che fare con il nebuloso confine fra cura ed accanimento terapeutico, fra sostegno al trapasso ed eliminazione; e molto altro ancora.

Non mi sentirei di dare un giudizio etico di questo genere, ma di sicuro, una società che intende sopravvivere non destina ai vecchi più risorse di quelle che destina ai giovani.   Non lo hanno mai fatto le società che sono sopravvissute a lungo.

E questo ci riporta al nostro rapporto con i limiti in generale e con la Morte in particolare.

La Morte è un fatto estremamente semplice, ma un concetto estremamente complesso che, nelle culture politeiste, si riverbera sull'esistenza di una nutrita schiera di divinità connesse con questo semplice evento.   Qui vorrei ricordarne solo due, fra le tante: Thanatos e Persefone.

Thanatos impersona la Morte come annientamento dell’individuo che, semplicemente, cessa di esistere.   Un aspetto certamente reale della Morte e l’unico che interessi noi oggi.
Persefone rappresenta invece la Morte nel suo aspetto soccorrevole e consolatorio.   E’ colei che sottrae i malati, i vecchi ed i feriti al dolore ed alla paura, per dar loro pace e riposo.   Un aspetto non meno reale del primo, ma che noi abbiamo dimenticato.  

Un fatto singolare questo, giacché fra la civiltà classica e la civiltà illuminista ci sono oltre 1.000 anni di civiltà cristiana.    Apparentemente, la fede in una vita eterna dopo la morte del corpo avrebbe dovuto sviluppare un buon rapporto con la Morte, mentre è proprio alla fantasia medioevale che dobbiamo l’immagine attuale dello scheletro con la falce.    A dire il vero, in molte rappresentazioni di età feudale, non mancava una vena di ironia o di polemica sociale; ma forse per effetto della Peste Nera, la “danza macabra” è diventar sempre più macabra, fino a raggiungere l’apoteosi della tetraggine ossessiva del XVII secolo.

Forse, ma è un’ipotesi personale, un simile sviluppo è dipeso dal fatto che la paura dell’inferno ha prevalso sulla speranza nel Paradiso.

Comunque sia, per noi oggi la Morte è annientamento e nessuno è disposto a subirla senza combattere.   Anche per i parenti e gli amici, lasciar morire qualcuno è spesso avvertito come un tradimento.  

Una cosa che ci tocca molto profondamente, eppure ancora oltre questo livello ce n’è un altro, che tocca direttamente l’archetipo su cui si fonda la nostra, attuale, visione del mondo: il Progresso.  

Per oltre un secolo abbiamo faticosamente guadagnato anni di vita.   Da quando siamo nati, abbiamo vissuto nella certezza che il progresso avrebbe ricacciato lo spettro della morte sempre più lontano nel tempo.     Possiamo ora comprendere che morire ad un’età ragionevole è la miglior cosa che possiamo fare per aiutare il nostro prossimo?    Tornare ad accettare  il limite supremo rischierebbe di spalancare la porta all'accettazione di tutti gli altri limiti che abbiamo tanto orgogliosamente infranto e questo significherebbe rinunciare a tutto ciò in cui abbiamo creduto e crediamo.   Non lo faremo.

Una ventina d’anni fa battevo le scuole e le riunioni dicendo che ridurre i consumi  non era una scelta, perché si sarebbero ridotti comunque.   La scelta, sostenevo, era tra ridurli subito diventando più furbi, oppure aspettare che si riducessero da soli, diventando più poveri.    Abbiamo scelto la seconda opzione e stiamo cominciando a vedere quali ne siano le conseguenze.

Con l’accorciamento della vita media è un poco la stessa storia.    Possiamo scegliere se farlo oggi che siamo ancora in grado di alleviare le sofferenze e facilitare il trapasso, oppure aspettare che accada come conseguenza di un tracollo economico.    In altri termini, non possiamo evitare di morire, ma possiamo scegliere fra Persefone e Thanatos.    L’accettazione ci porta in grembo alla prima, l’ostinazione ci consegna al secondo.  

Vorrei qui concludere con tre citazioni: una di un filosofo antico, una di un sapiente moderno, una di un vecchio minatore francese:

“La morte, il più atroce di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la Morte non c'è, quando c'è Lei non ci siamo noi.”
Epicuro

“La morte è l’artificio tramite il quale si tramanda la Vita”
Johann Wolfgang von Goethe

“Mah, io credo che bisogna anche andarsene, se vogliamo lasciare qualcosa agli altri.”
Le père Fargeix