mercoledì 2 dicembre 2015

Fuffa e rivoluzione. A Parigi vedremo la solita gran fumata di roboanti dichiarazioni, ma niente di più

di Jacopo Simonetta

Tra manifestazioni, tafferugli e mal riposte speranze, a Parigi va in scena l’ennesimo episodio di un serial che dovremmo conoscere già bene.   Ma se qualcuno si fosse perduto le puntate precedenti, basteranno le dichiarazioni iniziali dei principali leader mondiali ( per Obama qui e per Xi Jinping qui) per chiarire da subito che non ci sarà nessun accordo che possa, sia pur minimamente, influire positivamente sul clima.

Insomma, quello che vedremo sarà la solita gran fumata di roboanti dichiarazioni a copertura di un piccolissimo arrosto di incentivi a questa o quella lobby industriale.

Disfattismo?   Lo vedremo fra qualche giorno, nel frattempo vorrei ricordare che questa non è certo la prima volta che viene annunciato un “cambio di rotta epocale” in materia di clima o, più genericamente, di ambiente.   Questa è infatti una vecchia storia, cominciata una cinquantina di anni fa e culminata nell'ormai remoto 1992 fra grandi speranze e fuochi d’artificio. In realtà il “nonno di tutti i fiaschi” fu infatti proprio il “Summit mondiale dell’ambiente” del 1992 da cui questa e tante altre conferenze sono poi scaturite.   Fu un vero e proprio picco del movimento ambientalista: contemporaneamente zenit di influenza politica e mediatica, ma anche dimostrazione di incapacità ed inizio della sua ingloriosa fine.

Molti troveranno sbagliate, o perlomeno esagerate, queste affermazioni.   Prima di entrare in qualche dettaglio credo sia quindi opportuno inquadrare brevemente l’evento.

Che la crescita demografia ed economica stavano conducendo l’umanità verso il disastro divenne evidente nel corso degli anni ’70.   Non solo per la pubblicazione di “Limits to Growth”, ma per l’accumularsi di una impressionante mole di dati e conoscenze in tutti i campi scientifici che, nel loro insieme, non davano adito a dubbi (tranne che per la maggior parte degli economisti).   Ma eravamo in guerra, sia pure “fredda”;  una guerra mortale fra le due scuole (o sette) in cui si era diviso il mondo:   Capitalismo versus Socialismo.   Entrambi perseguivano lo stesso fine: il massimo del benessere possibile per un numero crescente di persone.   Ma erano molto diversi i metodi immaginati per raggiungere lo scopo, così come i criteri di selezione delle rispettive classi dirigenti.
In Russia il tema dell’insostenibilità della crescita non fu neanche preso in considerazione.   In occidente se ne parlò molto, ma si fece poco perché porre dei severi limiti alla crescita economica avrebbe ridotto il peso politico-economico e militare dei paesi che lo avessero fatto.   Col rischio molto concreto di essere sconfitti.

Dunque, dopo 10 anni circa di discussioni e parziali provvedimenti, fu deciso che era più urgente rilanciare la crescita.   Cosa che fu fatta  mediante una complessa strategia che comprendeva, fra l’altro, la trasformazione del denaro e della finanza in entità totalmente virtuali, oltre ad un insieme di provvedimenti che vanno sotto l’etichetta di “deregulation”.   In pratica, la progressiva rimozione dei vincoli precedentemente imposti alle attività economiche per fini di tutela ambientale o sociale.  Il risultato non si fece attendere e, nel 1989, l’Unione Sovietica fu sconfitta non già sul campo di battaglia, bensì sul piano puramente economico.

Il crollo del blocco sovietico convinse tutti della giustezza del modello capitalista e fu in questo clima euforico che fu indetto il summit Rio.   Finita la guerra, nessuno aveva più molto da temere e tutti i paesi del mondo potevano finalmente collaborare per risolvere i problemi del sottosviluppo e dell’ambientale una volta per tutte.  O perlomeno così sembrava.Parteciparono ben 172 governi, di cui 116 con le loro massime cariche istituzionali, mentre ad un parallelo forum consultivo partecipavano 17.000 persone in rappresentanza di 2.400 NGO (associazioni non governative).   In effetti, non si era mai visto un evento di questa portata dedicato all’ambiente, ma la montagna partorì un ben misero topolino.   O meglio, produsse un magnifico castello di cristallo, attraverso i cui muri iridescenti non era difficile vedere le solide strutture di cemento e di acciaio del “Business as usual”.

A parte migliaia di pagine di analisi e commenti che nessuno ha mai letto, la conferenza produsse infatti una serie di documenti potenzialmente importanti, ma che ebbero ben poco impatto reale: Dichiarazione di Rio sull'ambiente e sullo sviluppo; Agenda 21; Convenzione sulla diversità biologica; Principi sulle foreste; Convenzione sul cambiamento climatico.

Ognuno di questi meriterebbe un approfondimento, ma visti i limiti di un post, vorrei solamente chiosare il primo dei 27 principi che avrebbero dovuto guidare le nazioni verso lo “sviluppo sostenibile”.   Esattamente gli stessi principi, si noti, proclamati a chiusura del summit di Stoccolma, esattamente 20 anni prima (1972) in piena guerra fredda (mancava il blocco sovietico e la Cina era rappresentata da Taiwan).

Principio 1:  Gli esseri umani sono al centro della preoccupazione per uno sviluppo sostenibile.   Hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura.

Suona bene.   Effettivamente nel 1972, con un’impronta ecologica globale vicino ad 1, poteva essere sottoscrivibile.   Ma nel 1992, con una popolazione di 5,5 miliardi crescenti ad un tasso senza precedenti, magari qualcuno avrebbe dovuto porsi qualche qualche domanda.

Per esempio, cosa vuol dire “sviluppo sostenibile,?   Perché se voleva dire sviluppare società più parsimoniose e giuste era fattibile.   Ma se si intendeva che era ancora possibile una crescita demografica e/o economica senza scatenare catastrofi era semplicemente falso.   La capacità di carico del pianeta era già stata superata da un pezzo.

Seconda domanda: E’ bello avere dei diritti, ma siamo sicuri che questi non comportino dei doveri di cui non si parla mai?   Ad esempio, avere diritto ad una vita sana ed operosa non potrebbe presupporre il dovere di limitare la propria discendenza?   Oppure il diritto all'acqua potabile, non potrebbe avere a che fare con il dovere di razionarne l’uso in rapporto alla disponibilità? Sempre in tema di diritti, per essere sani e produttivi sono necessari una serie non indifferente di presupposti, a cominciare da cibo, acqua, energia, alloggi, cure mediche, e molto altro ancora.   Per quanta gente tutto questo può essere reso disponibile senza distruggere il pianeta?

Sulla base della situazione e delle conoscenze del 1972 si poteva ancora pensare che per circa 4 miliardi di persone fosse possibile.   Ma nel 1992 era già chiaro che il recupero di condizioni di sostenibilità sarebbe necessariamente passato attraverso una netta riduzione sia della popolazione umana, sia dello standard di vita medio.  Cosa che per europei, americani e giapponesi già allora avrebbe significato dei sacrifici assolutamente traumatici.   Mentre per tutti gli altri avrebbe significato rinunciare definitivamente alla speranza di accedere anche loro al tanto agognato Paese di Bengodi.   Per tutti voleva dire accettare di avere non più di due figli e morire possibilmente intorno ai 70 anni, come ai tempi di Dante Alighieri.

Molto "politicamente scorretto".  E difatti in tutti i 26 punti seguenti si continua a fingere che il numero di persone sia una variabile indipendente e che gli occidentali possano mantenere il loro tenore di vita principesco, mentre tutti gli altri hanno il diritto di raggiungerlo.   Ma, naturalmente, in modo “sostenibile”.
 
Insomma, da parte di chi capiva di cosa si stava parlando, il tentativo fu di contrabbandare alcuni principi assolutamente giusti, come quello di precauzione e quello di responsabilità, in mezzo ad un denso fumo di fuffa in cui ognuno avrebbe potuto trovare quel che più gli piaceva.   Ma mescolati alla fuffa, anche i principi seri divennero parole vuote.

Insomma, la filosofia generale che emerse fu che, OK, salvaguardare l’ambiente era bello ed importante, ma ad alcune condizioni.   In particolare che: a) ogni stato ha il diritto di fare quello che gli pare sul suo territorio; b) i paesi ricchi hanno il diritto di restare tali, semmai devono aiutare gli altri a diventare ricchi anche loro; c) i paesi poveri hanno diritto a diventare ricchi; d) la questione demografica è assolutamente marginale; h) nessuno si deve azzardare a porre dei limiti alla libertà di commercio; i) lo sviluppo economico e la protezione ambientale non sono in contrasto, anzi sono sinergici.

Difficile assemblare una collezione di ossimori più raffinata di questa.   Ma la misura del fallimento non fu tanto un documento pieno di vuotame che, in casa ONU, è normale.   La vera Caporetto fu che, con poche ed isolate eccezioni, il movimento ambientalista non denunciò il fallimento della conferenza.   Al contrario, si unì al coro di quanti dicevano che, ancorché non perfetto, il risultato era un eccellente compromesso ed un punto di partenza per nuove ed efficaci politiche ecc. ecc.

Insomma, il BAU aveva vinto non solo sul piano politico e diplomatico, ma anche e soprattutto su quello culturale.   Non a caso, nei decenni seguenti le parole d’ordine ed i concetti che erano stati elaborati per modificare alla radice l’impostazione sociale ed economica del mondo divennero gli slogan delle più spudorate campagne commerciali.   E perfino entrarono nella retorica elettorale di tutti i partiti, qualunque ne fosse il programma politico.

Purtroppo, la percezione della realtà dipende in grandissima misura dalla frequenza ed intensità con cui riceviamo i messaggi.   Così, in pochi anni, lo stesso movimento ambientalista finì col perdere la strada, ammesso che mai ne avesse avuta una, finendo col balbettare un guazzabuglio di luoghi comuni, privo di ogni coerenza esterna ed interna.
 
Rio non fu solo la tomba in cui finì ogni speranza di cambiare la rotta suicida del nostro mondo.   Fu anche la tomba del movimento ambientalista e perfino dalla sua cultura, divenuta pudebonda foglia di fico per imbellettare ogni nequizia.   Esattamente quello che in questi giorni sta accadendo a Parigi.
In quest’ottica il ricorso alla violenza è sicuramente una forte tentazione soprattutto per chi, essendo giovane, si rende conto che sarà abbandonato in un mondo che è stato saccheggiato in ogni suo anfratto dai suoi stessi nonni e genitori.

Ma si sa, o si dovrebbe sapere, che le tentazioni sono mostri che apparentemente ti offrono una via d’uscita da situazioni tremende, mentre in realtà ti ci sprofondano ulteriormente.   Se lasciare scarpe in piazza serve solo a sentirsi meno soli, lanciare fumogeni e bruciare automobili serve a peggiorare ulteriormente la situazione, da tutti i punti di vista.   Ma se qualcuno volesse davvero “portare l’attacco al cuore del sistema” avrebbe un modo sicuro e perfino legale di farlo: comprare il meno possibile, spengere luci e termosifoni.   E via di seguito.   Nessun soldato vince la guerra da solo, ma è la sommatoria dei contributi di ognuno che vince.   E questa, udite udite, è una guerra che può solo essere vita.

La barca del capitalismo globale fa già acqua da tutte le parti e non può che affondare, anche senza l’aiuto di nessuno.   Il problema è che tutti noi siamo a bordo e non ci sono scialuppe, al massimo qualche ciambella gonfiabile.   Nessuno se la caverà a buon mercato e molti non se la caveranno affatto, sarebbe bene parlarne ed organizzarsi almeno per limitare
il panico, ma è molto più facile a dirsi che a farsi.



martedì 1 dicembre 2015

Clima 2015: le cose non sono messe bene!

Da “icelandmonitor”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)




Rax / Ragnar Axelsson

Il professor Kevin Anderson esorta i politici ad essere onesti e a riconoscere la scala della sfida della mitigazione e ad attenersi agli impegni internazionali che voi/noi abbiamo fatto ripetutamente per mantenere l'innalzamento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C. 

Di Orri Páll Ormarsson orri@mbl.is Fotografie: Ragnar Axelsson

“Ci troviamo nei 'minuti di recupero' per i 2°C – e le cose non sono messe bene. Tuttavia, il tempo andrà avanti imperterrito anche se superiamo il bilancio del carbonio dei 2°C, avremo anche bisogno di procedere con ancora maggiore difficoltà per una profonda e rapida mitigazione mentre ci prepariamo agli impatti locali di un futuro con 4, 5 o persino 6°C in più. Ma dobbiamo osservare che l'adattamento ad uno scenario futuro del genere non sarà mai sufficiente per i molti milioni di persone che soffriranno e moriranno in conseguenza dell'edonismo alimentato a combustibili fossili di cui godono relativamente pochi di noi – compreso me e molto probabilmente tutti coloro che stanno leggendo; siamo i più grandi emettitori, che hanno esplicitamente scelto di fregarsene”.

lunedì 30 novembre 2015

Alcuni fatterelli sulla CO2

di Bodhi Paul Chefurka
traduzione di Stefano Ceccarelli



Alcuni interessanti fatterelli (e qualche opinione) sulla CO2:
  • Per ogni 16 gigatonnellate (GT) di CO2 che emettiamo, la sua concentrazione atmosferica sale di 1 parte per milione (ppm).
  • L’umanità oggi emette circa 40 GT di CO2 l’anno, risultante dalla combinazione di combustibili fossili, produzione di cemento e modifiche dell’uso dei suoli (deforestazione).
  • Come conseguenza, le concentrazioni di CO2 stanno aumentando di circa 2,5 ppm l’anno.
  • Il lungo tempo di permanenza della CO2 in atmosfera fa sì che fintanto che emettiamo CO2, la sua concentrazione atmosferica continuerà a crescere.
  • Ogni dollaro di PIL mondiale prodotto negli ultimi 15 anni ha richiesto l’emissione di una media di 0,6 kg di CO2, anche con l’aumento nella produzione di energie rinnovabili.
  • Se vogliamo che la concentrazione atmosferica di CO2 smetta di crescere, dobbiamo fermare tutte le attività economiche.
  • Anche se cessassimo oggi tutte le emissioni di CO2 fermando tutte le attività economiche, avremmo ancora una quantità pericolosa di CO2 nell’atmosfera.
  • Nessuno ha sviluppato un metodo per portar via quantità industriali di CO2 dall’aria, eccetto (forse) con la riforestazione di vaste distese di quello che sono oggi le aree coltivate.
  • Il mondo non cesserà le sue attività economiche dalla sera alla mattina. Non riusciremo neanche a ridurle significativamente nei prossimi uno o due decenni, a meno che non si verifichi un collasso economico globale – nel qual caso cercheremmo disperatamente di ripristinarle.
  • I prossimi due decenni di emissioni generate dall’economia faranno salire la CO2 atmosferica a oltre 450 ppm.
  • Secondo Wasdell et al., l’aumento di temperatura all’equilibrio a lungo termine prodotto da 450 ppm di CO2 è di circa 5°C.
  • Non sappiamo quanto tempo ci vorrà per stabilizzarci a quell’aumento di temperatura, ma è lì che alla fine arriveremo.
  • Un tale aumento di temperatura non è favorevole alla sopravvivenza di molte specie di piante ed animali, compreso l’uomo. E’ del tutto incompatibile con la nostra attuale civilizzazione.
Ecco perché io credo che noi siamo oggi irreversibilmente fottuti.



Nota di UB: questo pezzo di Chefurka è indubbiamente interessante e l'abbiamo pubblicato come stimolo alla discussione. Però è semplicemente falso dire che "Se vogliamo che la concentrazione atmosferica di CO2 smetta di crescere, dobbiamo fermare tutte le attività economiche." Può esistere un agricoltura sostenibile, e può anche esistere un'attività industriale sostenibile. Non sono magari facili da ottenere, ma sono tutte e due "attività economiche". Tutti abbiamo i nostri limiti, qui Chefurka si  fatto prendere un po' la mano dal pessimismo e non gli possiamo dare tutti i torti, visto quello che sta succedendo in giro.


venerdì 27 novembre 2015

Pericolo di esplosioni di metano nella Penisola di Yamal

Da “The Siberian Times”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron)

Di Anna Liesowska

Ci si aspetta che si formino altri crateri a causa di tali eruzioni, man mano che il permafrost fonde – e SONO causate dal riscaldamento globale che rilascia gas metano.


Gli scienziati del rispettato Istituto di Geologia e Geofisica Petrolifera Trofimuk insistono che il processo per cui si sono formati una serie di crateri è stato causato dalla fusione di idrati di gas e dalle emissioni di metano. Immagine: Vladimir Olenchenko/Trofimuk Institute of Petroleum Geology and Geophysics

Una nuova spedizione ad uno dei misteriosi buchi giganti siberiani scoperti negli ultimi anni ha concluso che è un segno di avvertimento di una minaccia mortale per le regioni settentrionali man mano che il clima si scalda. Gli scienziati del rispettato Istituto di Geologia e Geofisica Petrolifera Trofimuk insistono che il processo per cui si sono formati una serie di crateri è stato causato dalla fusione di idrati di gas e dalle emissioni di metano. Questo si accumula in un pingo – un tumulo di ghiaccio coperto di terra – che poi erutta causando la formazione di strani buchi che sono apparsi lungo i margini dell'Artico russo. Un pingo che si crede possa esplodere 'da un momento all'altro' ora viene costantemente monitorato da un satellite spaziale russo nel tentativo di cogliere il momento in cui avviene l'eruzione. Si crede che il processo sia simile al fenomeno del Triangolo delle Bermuda che ha visto la scomparsa di navi ed aerei. Questo è stato causato da una grande eruzione di metano al di sotto dell'Oceano Atlantico. Gli scienziati avvertono anche di una terribile minaccia alle città ed ai paesi nell'estremo nord, ed agli impianti di esplorazione del gas e relativi gasdotti.

mercoledì 25 novembre 2015

Ottobre 2015: superato il limite simbolico di 1 °C di riscaldamento

Da “mashable.com”. Traduzione di MR (via Post Carbon Institute)


Il pianeta non è stato solo caldo da record quest'anno, è stato così insolitamente caldo che le singole registrazioni delle temperature hanno stabilito nuovi record di per sé. E' il caso del mese di ottobre 2015, secondo i nuovi dati preliminari della NASA pubblicati giovedì. Le informazioni mostrano che ottobre 2015 è stato di gran lunga il mese di ottobre più caldo mai registrato a partire dal 1880. Non solo questo, ottobre ha avuto anche la più grande deviazione rispetto alla media di qualsiasi mese mai registrato. L'ottobre arroventato chiude i conti: è quasi sicuro che il 2015 diventerà l'anno più caldo della Terra da quando sono iniziate le letture strumentali nel 1880. Ciò significa che il 2015 batterà il 2014 e diventerà un ulteriore dato che mostra che il riscaldamento globale antropogenico, oltre alla variabilità climatica naturale, sta spingendo il clima in un nuovo territorio.

martedì 24 novembre 2015

Marketing e sangue: la strategia dell'ISIS



di Jacopo Simonetta

Sulla strategia dell’ISIL (o ISIS, o Daesh che dir si voglia) vengono quotidianamente scritti fiumi di parole.   Non ho la competenza per farne una rassegna critica, e troppo numerosi sono i fattori in gioco per discuterli in un post.   Vorrei però approfittare di questo spazio per porre in risalto un dettaglio che mi pare interessante: la strategia della comunicazione dello "Stato islamico".  Un dettaglio che credo abbia a che fare con gli attentati in Europa (compresa la Russia).

Secondo il  RSDH (Réseau syrien des droits de l’homme)  nella guerra civile siriana circa l'80% delle vittime civili e la quasi totalità delle distruzioni materiali sono responsabilità del regime di Assad.   ISIL avrebbe commesso circa il 10% dei massacri e tutti gli altri insieme altrettanto.   Altre fondi danno cifre analoghe. Probabilmente non dipende tanto da scelte strategiche, quanto dalla potenza di fuoco e dai mezzi disponibili.   Solo Assad dispone di artiglierie ed aviazione.   ISIL provò a far volare un paio di caccia, ma furono immediatamente abbattuti dagli americani.

Eppure il "califfo" si è fatto una solida fama di super-criminale, tanto che Putin lo ha paragonato a Hitler.   Non è certo la prima volta che in una guerra uno dei contendenti assurge a male assoluto, ma la cosa interessante è che questa tenebrosa reputazione non dipende tanto da una campagna mediatica condotta dai suoi nemici, quanto da una campagna mediatica condotta dallo stesso Deash.   Per essere chiari, mentre gli altri contendenti hanno evitato di coinvolgere gli stranieri ed hanno seguito la strategia classica di nascondere i propri crimini, ISIL ha fatto di questi l'asse portante della sua strategia di comunicazione.   Anzi, sono dell'idea che molti dei suoi delitti più efferati sono stati compiuti esclusivamente ad uso dei media e dei social network.

Un fatto che credo sia assolutamente nuovo nel vasto panorama bellico recente ed attuale.

Riassumendo molto per sommi capi, Daesh nasce nel caos provocato dall'invasione USA dell'Iraq, sostanzialmente per contrastare la crescente ingerenza iraniana in quel paese e, in una prima fase, ha agito in modo da dare nell'occhio il meno possibile.   Ovviamente gli addetti ai lavori lo conoscevano bene, ma l’opinione pubblica occidentale ne era completamente all'oscuro.  Al massimo qualcuno, di tanto in tanto, ci ricordava che c’era stata l’ennesima autobomba ad una moschea irachena od un massacro in Siria.   Ma da quelle parti sono parecchi soggetti adusi a queste cose.

Poi le bandiere nere sono arrivate nella periferia di Baghdad, dopo aver preso il controllo di gran parte delle aree petrolifere irachene e siriane.   Fulmine a ciel sereno!   Nessuno sembrava sapere da dove fosse saltato fuori un intero esercito, bene armato e combattivo.

La reazione iniziale degli americani e dei loro satelliti fu raffazzonata e ben poco efficace, mentre questo gruppo manteneva una vivace iniziativa sia sul campo, sia sui media, passando istantaneamente dai documenti riservati alle prime pagine del mondo intero.

In questa fase, diciamo di emersione di ISIS, furono decapitati alcuni prigionieri.   Perché usare un modo così poco pratico di ammazzare la gente in un’epoca in cui abbondano i fucili?   La mia ipotesi è perché una fucilazione avrebbe prodotto degli articoli in terza pagina e solo in alcuni paesi.   Una decapitazione filmata e postata su internet viene vista da centinaia di migliaia di persone ed assicura le prime pagine sui giornali del mondo intero per parecchi giorni. E tutto ciò a costo zero.

Non solo, ma questa che potrebbe essere semplicemente una strategia di marketing, si è rivelata particolarmente efficace negli effetti prodotti.   I balordi di banlieu hanno infatti letto l’azione omicida come un atto di forza e di coraggio, mentre hanno visto lo strepito dei media internazionali come uno starnazzare di vecchiette spaventate.

L’effetto galvanizzante è stato quindi particolarmente efficace proprio sul target principale: i giovani maschi della piccola borghesia nelle grandi città, sia arabe che europee.   Gente assolutamente normale, ma potenzialmente pericolosa per l’effetto combinato di sovrappopolazione, recessione economica ed una cultura fatta solo di slogan, videogames e propaganda.   Un ambiente in cui vittimismo a buon mercato, delusione e desiderio di rivolta si sposano bene con una situazione economica spesso modesta, ma sufficiente a garantire l’accesso ai gadget tecnologici necessari per seguire le “eroiche imprese del Califfato”.

Altra trovata pubblicitaria geniale.   Evocare il califfato significa immediatamente evocare i tempi in cui l’Islam era la potenza egemone ed il fulcro della civiltà.   Mentre l’Europa occidentale non era che un ricettacolo di banditi poveri ed ignoranti.   Che non fosse esattamente così lo sanno bene i professori di storia, ma non certo i balordi.   Del resto perché stupirsi, se anche fra gli europei d’antica data questa visione un tantino semplicistica passa per buona?   Non è certo una novità che la storia, come strumento politico, funziona tanto meglio quanto meno è conosciuta.

Dunque un grande successo di mercato, con i “Califfo fan club” che sbocciavano come margherite in buona parte del mondo islamico, comprese le comunità insediate in Europa da generazioni.
Nel bombardamento di immagini cui siamo stati sottoposti,  ogni dettaglio era evidentemente curato da professionisti: coreografi, costumisti, registi, eccetera.   Uno staff di professionisti dello spettacolo e della comunicazione che, chissà? Magari sono americani e francesi.  Perché no? Business is now.


E' però risaputo che l’esposizione ad un messaggio provoca un innalzamento della soglia di attenzione.   Dopo un poco, per mantenere la fatidica posizione fra i primi tre posti su Google fu quindi necessario rincarare la dose.   Così siamo passati dalle esecuzioni singole a quelle multiple, poi ai massacri delle minoranze.  

Come abbiamo visto, altri protagonisti della tragedia siriana hanno fatto cose simili ed anche peggiori, ma la differenza è che l'ISIL se ne è fatto un vanto di fronte al mondo.   Col risultato di diventare un polo d'attrazione planetario per una consistente minoranza di mussulmani nel mondo non solo arabo.

Evidentemente, risultati di questo genere non si ottengono da zero.   A monte di tutto ciò ci sono stati trenta anni di capillare diffusione  del wahhabismo a gran forza di petroldollari e, sopratutto, la massiccia presenza mediatica di questa setta capace di impersonare il ruolo di "Islam tadizionale" in tutti quegli ambienti in cui la storia dell'islam è del tutto ignota.   E fra questi anche gran parte delle nuove generazioni in seno alle famiglie mussulmane.    Un altro fattore che i comunicatori del Daesh hanno saputo magistralmente sfruttare sono gli effetti destabilizzanti della sovrappopolazione; oltre alla delusione per le mancate promesse del progresso all'occidentale.    E, soprattutto, la grave crisi economica generata dal globale impatto contro quei "Limiti dello Sviluppo" di cui tanto si parla su questo blog.

Tornando alla campagna mediatica che Daesh ha sviluppato sinergicamente a quella militare, un'altra fase fu caratterizzata dalla formale riduzione in schiavitù delle donne.   Totale o parziale a seconda del credo religioso, con tanto di annunci pubblicitari per la vendita all'asta di lotti di ragazze yazide e cose del genere.   Un altro successo mediatico anche se, bisogna dire, assai più banale.   Maltrattare le donne non è certo un’idea originale, ma come si dice in gergo, è un “evergreen”.   Una cosa che ti assicura comunque un buono share.

E quando anche questo filone ha cominciato a retrocedere verso la seconda pagina sui motori di ricerca, c’è stata la fase della distruzione delle opere d’arte.   Un’altra volta le prime pagine gratis ed una netta divisione fra una massa di persone sgomente ed una minoranza di balordi entusiasti.
Nel mezzo il grosso delle comunità islamiche europee, sempre più strette fra le reazioni dell’opinione pubblica ora buoniste, ora aggressive, ma in entrambi i casi utili alla propaganda jihadista.

Un altro effetto ottenuto con questa strategia è stato quello di contribuire a rivitalizzare in varie parti del mondo un senso di appartenenza basato su di un cristianesimo che, pur essendo perlopiù (ma non sempre) pacifista, sta minando quel laicismo che credevamo essere una conquista definitiva della nostra civiltà.

Ancora più importante è però il successo che l'ISIL sta avendo nel sostenere la crescita della destra xenofoba sia in Europa che in Russia e negli USA.    L'equazione mussulmano = arabo = terrorista (almeno potenziale) è stupida, ma anche rassicurante in quanto identifica un nemico  chiaramente circoscritto e facilmente riconoscibile.   E' bello pensare che hai un nemico, che lo puoi sconfiggere e che dopo andrà tutto bene. Niente di meglio per aumentare il disagio delle comunità islamiche fra cui si raccolgono fondi e si arruolano soldati.

In questo quadro, l’attacco a Charlie Hebdo assicurò daccapo una copertura mediatica globale praticamente gratis.   Ma forse qualcosa cominciò a cambiare nell'atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica europea, compresa quella mussulmana.   La partecipazione di 4 milioni di persone in tutt’Europa alla manifestazione che seguì può essere spiegata solo in parte con la propaganda.   Personalmente ho avuto modo di vedere palestinesi ed israeliani scambiarsi le bandiere ed ho udito importanti imam dire chiaro e tondo che l’integralismo islamico era un pericolo mortale prima di tutto per i mussulmani.   Più di una fatwa è stata formalmente lanciata contro il Daesh.   Per ora apparentemente senza risultato, ma l’evoluzione dei fenomeni storici non necessariamente rispetta il nostro infantile desiderio di veder risolti i problemi in un fiat.

Forse, dal loro punto di vista, fu un errore e forse no.   Ma sta di fatto che nei mesi precedenti il "califfo" aveva subito importanti rovesci ad opera di inedite alleanze, temporanee e parziali, ma efficaci.   Ad esempio la città strategica di Tikrit era stata riconquistata da truppe irregolari iraniane e milizie locali, sostenute dall'aviazione statunitense.

In Siria, sempre grazie agli americani, i Curdi avevano respinto l’ISIL a Kobane, per poi passare alla controffensiva anche in altri settori.   Più di recente, rinforzi iraniani e russi hanno rianimato  le sfinite truppe di Assad che hanno ripreso l’iniziativa in tutto l’ovest del paese.  Anche se l’ISIL non è il loro unico obbiettivo.

Per rilanciare l’immagine del "califfato" e portare nuova linfa alle sue fila occorreva qualcosa di sensazionale.   Purtroppo anche in questo campo vige l’implacabile legge dei ritorni decrescenti e, se un paio di anni fa bastava assassinare un prigioniero per ottenere un successo di pubblico planetario, man mano che la gente si abituava allo spettacolo della violenza gratuita, è stato necessario alzare il tiro.   Finché, forse, si è commesso un errore di valutazione.

Gli attentati in Turchia (Suruc in Luglio, circa 30 morti, ed Ankara in ottobre, 100 morti) sono di difficile lettura perché fra le loro conseguenze ci sono stati il rilancio delle ostilità contro il PKK e la vittoria elettorale di Erdogan che non nasconde le sue ambizioni.   Se non proprio califfo, almeno sultano lo vuole diventare di sicuro.

Poi ci sono stati i due attentati più sanguinosi: quello contro l’aereo russo e quello in centro a Parigi.
Sia la Russia che la Francia sono attori recenti nello scacchiere siriano.   Forse il doppio attentato aveva quindi lo scopo di intimidire questi governi ed indurli a ritirarsi, come era avvenuto con l’attentato di Madrid del 2004 (quasi 200 morti).   Se questo fosse il caso, il risultato ottenuto sembra essere stato quello opposto.

In alternativa, potrebbe essere stato un modo per rilanciare la consolidata strategia di marketing, con azioni tanto spettacolari da assicurare nuovamente uno share globale, provocare reazioni isteriche da parte occidentale, mettere ulteriormente nell'angolo le minoranze islamiche e ridare entusiasmo ai propri sostenitori.   Tutte cose puntualmente successe.

In questa seconda ipotesi, che Francesi e Russi bombardassero  alcuni palazzi ed installazioni a Racca era scontato e, forse, faceva parte della strategia di comunicazione.   Il fatto di resistere ad un attacco portato con mezzi strapotenti non può che convincere ulteriormente i balordi di periferia dell’indomito coraggio e dell’invincibilità dei combattenti del “califfo”.

Ma potrebbe anche darsi che le potenze grandi e piccole che svolazzano sui cieli siriani si siano stufate e trovino un accordo.   Magari parziale ed ingiusto, ma temporaneamente efficace.   Non sarebbe facile per l’intreccio mortale di interessi fra occidentali e Sauditi, ma potrebbe accadere e forse è già accaduto. Se fosse (o se sarà) così i giorni del “califfo” sarebbero contati.   E’ presto per saperlo, lo vedremo nel corso dei prossimo mesi, ma per adesso vediamo un’azione congiunta franco-russa.   Non si vedeva dal 1945 e sfido chiunque a dire che lo aveva previsto.

Ovviamente, l’eventuale fine del Daesh non significherebbe in alcun modo la fine del caos e della violenza in medio Oriente.   E nemmeno la fine dell’immigrazione di massa o degli attentati.
I balordi ad un tempo sfigati e viziati saranno ancora li, mussulmani e non.   Ci sarà ancora l'industria teologico-mediatica del wahhabismo, come saranno ancora li la recessione economica, la delegittimazione della classe politica, l’avidità senza fondo del mercato.   E ci saranno ancora il picco di tutto, la sovrappopolazione, il peggioramento del clima, la desertificazione dei suoli, la morte della Biosfera e molto altro ancora che nessuna alleanza militare, né alcun progetto di integrazione culturale può minimamente scalfire.

Ma se vogliamo essere ottimisti a tutti i costi, possiamo forse sperare che gli europei, di tutte le confessioni e colori, capiscano che l’unione non fa solo la forza per reagire agli attacchi criminali.   E’ anche l’unico strumento che abbiamo per mitigare gli effetti del rendiconto che il Pianeta ha appena cominciato a presentaci.




domenica 22 novembre 2015

Cambiamento climatico: una gran brutta figura dei chimici e dei fisici italiani



Galileo, Avogadro, Fermi e tanti altri si staranno rivoltando nelle loro tombe. 


Dal blog della società chimica italiana. 

Gli scienziati italiani sul clima ma senza la SCI e la SIF.

(di  Claudio Della Volpe)
Si è tenuta a Roma la conferenza “ROME2015 – SCIENCE SYMPOSIUM on CLIMATE”, che per la prima volta in Italia è una conferenza organizzata  dalle più importanti Società e Associazioni Scientifiche Nazionali per avere una unica voce sulla scienza dei cambiamenti climatici e i suoi vari aspetti.
Le Società e Associazioni Scientifiche Nazionali che hanno partecipato all’organizzazione dell’evento sono:
  1.  SISC – Società Italiana per le Scienze del Clima,
  2.  AGI – Associazione Geofisica Italiana,
  3.  AIAM – Associazione Italiana di AgroMeteorologia,
  4.  AIEAR – Associazione Italiana degli Economisti dell’Ambiente e delle Risorse naturali,
  5.  ATIt – Associazione Teriologica Italiana,
  6.  CATAP – Coordinamento delle Associazioni Tecnico-scientifiche per l’Ambiente ed il Paesaggio,
  7.  COI – Commissione Oceanografica Italiana,
  8.  FLA – Fondazione Lombardia Ambiente,
  9.  GII – Gruppo italiano di Idraulica,
  10. HOS – Historical Oceanography Society,
  11. SIDEA – Società Italiana di Economia Agraria,
  12. SIF – Società Italiana di Fisica,
  13. SMI – Società Meteorologica Italiana,
  14. UNASA – Unione delle Accademie di Agricoltura.
Il comitato scientifico di questa conferenza, che ha incluso i rappresentanti di tutte queste societa ha preparato la “Dichiarazione scientifica sui cambiamenti climatici“, che vi allego in fondo.
La SIF in questa conferenza è stata rappresentata dalla sua presidente: prof.ssa Luisa Cifarelli. Alla fine non ha firmato il testo finale insieme con UNASA ed HOS.
Ma ancor più brilla per la sua assenza perfino ai lavori la Società Chimica Italiana.
Sarebbe bello sapere dal Presidente Riccio la ragione di questa assenza anche ai lavori preparativi; come mai non ci siamo andati? C’è un motivo specifico? Siamo stati invitati o consultati? Non sappiamo I dettagli per cui alcune società scientifiche non hanno frmato, ma rimane che apparentemente la SCI è fuori da queste iniziative.
Cosa ne pensano I due candidati alla presidenza? Continueremo così o cercheremo di partecipare anche noi al generale movimento di iniziative scientifiche e comunicative sul cambiamento climatico, rinunciando a farci rappresentare presso il grande pubblico essenzialmente da posizioni “personali” ed essenzialmente critico-neghiste come quelle presenti sull’ultimo numero de La Chimica e l’industria (Carrà e Mazzullo)?
 Clima: l’appello degli scienziati italiani
dichiarazione che, nell’ambito della conferenza SISC 2015, le società e le associazioni scientifiche italiane hanno sottoscritto per inviare alla COP21 di Parigi un messaggio chiaro dall’Italia: un messaggio di collaborazione e di integrazione transdisciplinare
I cambiamenti climatici costituiscono per la comunità internazionale una delle sfide più complesse e importanti, le cui conseguenze negative hanno un’elevata rilevanza per economie e società, non solo per l’ambiente. Allo stesso tempo, rappresentano anche un’opportunità per rinnovare i sistemi economici e introdurre innovazioni tecnologiche e sociali.
Il Quinto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici dell’IPCC, la più esaustiva e aggiornata raccolta delle conoscenze scientifiche sul clima, contiene un’ampia collezione di dati, informazioni e risultati sui quali converge un consenso condiviso all’interno della comunità scientifica.
I principali risultati possono essere riassunti nel modo seguente:
  • l’influenza umana sul sistema climatico è inequivocabile ed è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo. Il continuo riscaldamento del pianeta aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico;
  • gli impatti dei cambiamenti climatici si stanno già manifestando e interessano sia i Paesi in via di sviluppo che i Paesi più sviluppati. Le comunità più deboli da un punto di vista sociale, economico, culturale, politico, istituzionale sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici;
  • dal 1950 ad oggi sono aumentati gli eventi climatici estremi (ad esempio ondate di calore, innalzamento del livello del mare, precipitazioni violente, gravi siccità) e molti di questi sono attribuibili all’influenza delle attività umane;
  • l’esposizione e la vulnerabilità ai cambiamenti climatici e agli eventi estremi, insieme ad eventi pericolosi connessi al clima, costituiscono componenti cruciali per la valutazione e la gestione del rischio di ogni attività economica o sociale.
La comunità internazionale ha incluso i cambiamenti climatici tra i Sustainable Development Goals, l’insieme di obiettivi universalmente riconosciuti per bilanciare le dimensioni ambientale, sociale ed economica dello sviluppo sostenibile. Affrontare i cambiamenti climatici è quindi uno degli obiettivi definiti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite in cui si esprime chiaramente l’urgenza di ridurre le emissioni di gas serra e di affrontare il tema dell’adattamento agli impatti negativi dei cambiamenti climatici.
Le scelte che adottiamo oggi e nel prossimo futuro risulteranno decisive: i rischi legati ai cambiamenti climatici per i sistemi umani e naturali dipendono dalle emissioni complessive di gas serra, che a loro volta dipendono dalle emissioni annuali dei prossimi decenni. Maggiori emissioni di gas serra condurranno a un maggior riscaldamento che amplificherà i rischi esistenti per i sistemi umani e naturali e ne creerà di nuovi.
Strategie di mitigazione e di adattamento sono necessarie per affrontare gli impatti negativi dei cambiamenti climatici, e dovranno necessariamente essere parte di un processo decisionale che prenda in considerazione la percezione del rischio e i bisogni di specifici territori, bilanciando costi e benefici. Il coinvolgimento di governi nazionali e regionali, così come dei settori privati, è indispensabile al fine di sviluppare e implementare politiche climatiche adeguate.
Le società e le associazioni scientifiche che sottoscrivono questo documento richiamano:
  • i decisori politici, a livello nazionale e internazionale, ad assumere la guida delle iniziative sul clima e ad adottare misure efficaci per limitare le emissioni di gas serra. Le scelte politiche dovrebbero definire e realizzare risposte di mitigazione e di adattamento su scale diverse, necessarie ad affrontare i cambiamenti climatici;
  • le istituzioni nazionali e internazionali a sostenere l’impegno della ricerca nell’ambito delle scienze del clima, degli impatti e delle tecnologie, lo sviluppo istituzionale di discipline convergenti sul piano scientifico e tecnologico, e specifici programmi di training e di alta formazione sulle scienze e sull’economia del clima;
  • la comunità internazionale a trovare un accordo alla COP21 di Parigi su efficaci ed equi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, sui meccanismi per la misurazione e la verifica dei progressi verso gli obiettivi definiti, sulle risorse finanziarie necessarie a sostenere la transizione dei Paesi in via di sviluppo verso un’economia “zero carbon”;
  • il settore privato a ridurre il consumo di carburanti derivanti da fonti fossili, ad incrementare l’efficienza energetica in tutte le attività e tutti i settori, ad adottare velocemente tecnologie e processi organizzativi a basso contenuto di carbonio;
  • i settori finanziari a potenziare il sostegno a investimenti in energie rinnovabili e ad integrare i rischi connessi ai cambiamenti climatici nelle proprie strategie di investimento;
  • tutti i cittadini a migliorare la consapevolezza dei rischi derivanti dai cambiamenti climatici per le nostre società e ad accrescere la pressione sui decisori politici e sugli elettori per una rapida ed efficace azione volta alla riduzione delle emissioni di gas serra e a limitarne gli impatti più disastrosi.
Le Società e Associazioni Scientifiche che hanno espresso la loro dichiarazione a ROME2015 – SCIENCE SYMPOSIUM ON CLIMATE sono: SISC – Società Italiana per le Scienze del Clima, AGI – Associazione Geofisica Italiana, AIAM – Associazione Italiana di AgroMeteorologia, AIEAR – Associazione Italiana degli Economisti dell’Ambiente e delle Risorse naturali, ATIt – Associazione Teriologica Italiana, CATAP – Coordinamento delle Associazioni Tecnico-scientifiche per l’Ambiente ed il Paesaggio, COI – Commissione Oceanografica Italiana, FLA – Fondazione Lombardia Ambiente, GII – Gruppo italiano di Idraulica, SIDEA – Società Italiana di Economia Agraria, SMI – Società Meteorologica Italiana.