lunedì 5 gennaio 2015

Il mistero del metano marino

Da “Scientific American”. Traduzione di MR









Misterioso metano sul fondo del mare al largo della costa di Washington  comincia a fondersi

Gli scienziati sondano gli oceani al largo della Costa Ocidentale e vedono segni di una fusione di metano ghiacciato di dimensioni analoghe a quella della perdita di petrolio della BP

Di Gayathri Vaidyanathan e ClimateWire





Il riscaldamento dell'Oceano al largo dello Stato di Washington potrebbe destabilizzare i depositi di metano sul fondo dell'oceano e innescare un rilascio del gas serra in atmosfera. Foto: Sam Beebe via Flickr

Il riscaldamento dell'Oceano Pacifico al largo dello Stato di Washington potrebbe destabilizzare i depositi di metano sul fondo del mare ed innescare un rilascio di gas serra in atmosfera, secondo un nuovo studio pubblicato su Geophysical Research Letters. Nello scenario peggiore, se gli oceani si scaldano fino a 2,4°C per il 2100, il volume di metano rilasciato ogni anno per il 2100 quadruplicherebbe la quantità della perdita di petrolio della Deepwater Horizon, stima lo studio. In gioco ci sono gli idrati di metano, che sono complessi di metano intrappolati nel ghiaccio sepolti sotto i fondali dell'oceano. Gli idrati si trovano in tutti gli oceani del mondo e vengono conservati da acqua fredda e da immense pressioni. Ma quando gli oceani si scaldano, gli idrati vengono destabilizzati e il metano liberato.

Il metano è un gas serra significativo, con un potenziale di riscaldamento globale di 86 volte quello del CO2 su una scala temporale di 20 anni. Alcuni scienziati temono che un rilascio significativo dagli oceani possa inasprire il cambiamento climatico. “Gli idrati di metano sono delle riserva molto grandi e fragili di carbonio che può essere rilasciato se cambiano le temperature”, ha detto in una dichiarazione Evan Soloman, un ricercatore  dell'Università di Washington. “All'inizio ero scettico, ma quando abbiamo visto le quantità, la cosa è significativa”. Altri studi hanno osservato un potenziale rilascio di metano nell'Oceano Artico, ma questo è il primo a studiare il rilascio a latitudini più basse.

Bolle di gas risalgono dalle profondità

Lo studio si concentra sulla pendice continentale superiore al largo di Washington in una regione della piattaforma chiamata “margine di Cascadia”. Lì l'oceano si è riscaldato, probabilmente a causa a causa di una corrente che porta acqua dal Mare di Okhotsk che si trova fra Russia e Giappone. Il mare si è riscaldato nell'ultimo mezzo secolo. Usando le temperature dell'oceano fino ad una profondità di 200 metri registrate fra il 1970e il 2013, gli scienziati hanno modellato la quantità di metano che è stato rilasciato storicamente. Le stime preliminari hanno suggerito potrebbero essere stati rilasciati 4,35 teragrammi (4,35 miliardi di kg) di metano all'anno, lungo il margine di Cascadia. Ciò eguaglia il rilascio della perdita di petrolio della Deepwater Horizon del 2010, scopre il rapporto. Gli scienziati hanno anche proiettato il rilascio di metano in futuro ipotizzando che l'oceano si riscaldi da 0,88 a 2,4°C per il 2100. Mentre l'oceano si scalda, il rilascio di metano quadruplicherebbe, suggerisce lo studio. Il metano rilasciato potrebbe essere ingerito da batteri, ma parte di esso potrebbe finire in atmosfera ed accelerare il cambiamento climatico. Gli scienziati avvertono che le loro stime sono preliminari, perché si sa ancora poco sul volume di idrati di metano e la loro densità a Cascadia. Serve ulteriore ricerca per capire meglio la portata del problema, dichiara lo studio.

Il picco dell'unica risorsa della quale non possiamo assolutamente fare a meno (e non è il petrolio)

Da “trust.org”. Traduzione di MR

Rimangono solo 60 anni di agricoltura se il degrado del suolo continua
 
Di Chris Arsenault



I funzionari del locale Ufficio per la Conservazione dell'Acqua camminano ai margini di un deserto in cui è stata piantata erba per prevenire la desertificazione. Contea di Mingin, nordest della provincia Gansu  in Cina, 8 dicembre 2010. REUTERS/Stringer

Roma (Thomson Reuters Foundation) – Generare tre centimetri di suolo richiede 1.000 anni e se gli attuali tassi di degrado continuano, tutto il suolo mondiale potrebbe scomparire entro 60 anni, ha detto venerdì un alto funzionario dell'ONU. Circa un terzo del suolo mondiale è stato già degradato, ha detto Maria-Helena Semedo della FAO ad un forum che contrassegnava la Giornata Mondiale del Suolo. Le cause della distruzione del suolo comprendono le pesanti tecniche di agricoltura chimica, la deforestazione che aumenta l'erosione e il riscaldamento globale. La Terra sotto i nostri piedi viene troppo spesso ignorata dai politici, dicono gli esperti.

“I suoli sono la base della vita”, ha detto Semedo, vice direttore generale della FAO delle risorse naturali. “Il 95% del nostro cibo proviene dal suolo”. A meno che non vengano adottati nuovi approcci, la quantità globale di terra coltivabile e produttiva per persona nel 2050 sarà solo un quarto del livello del 1960, ha detto la FAO, a causa della crescita delle popolazioni e del degrado del suolo. I suoli giocano un ruolo chiave nell'assorbire carbonio e nel filtrare l'acqua, ha detto la FAO. La distruzione del suolo crea un circolo vizioso, in cui viene immagazzinato meno carbonio, il mondo si riscalda e la terra si degrada ulteriormente. “Stiamo perdendo 30 campi di calcio al minuto di suolo, principalmente a causa dell'agricoltura intensiva”, ha detto Volkert Engelsman, un attivista della Federazione Internazionale dei Movimenti per l'Agricoltura Biologica al forum nel quartier generale della FAO a Roma. “L'agricoltura biologica potrebbe non essere la sola soluzione, ma è la migliore opzione a cui possa pensare”.

domenica 4 gennaio 2015

L'effetto dei vulcani sul clima

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

I vulcani potrebbero essere responsabili di gran parte del rallentamento del riscaldamento della temperatura di superficie



Di Dana Nuccitelli

Un nuovo studio stima il raffreddamento della temperatura di superficie dovuta ai vulcani fra 0,05 e 0,12°C dal 2000




Eruzione vulcanica vista da lontano il 12 settembre 2014 a Holuhraun, Irlanda. Un nuovo studio conclude che le piccole eruzioni vulcaniche sono state un contributo significativo al rallentamento del riscaldamento globale della superficie. Foto:   Einar Gudmann / Barcroft Media/Einar Gudmann / Barcroft Media

Un nuovo studio ha scoperto che quando il particolato di una piccola eruzione vulcanica viene adeguatamente tenuto in considerazione, i vulcani potrebbero essere responsabili di gran parte del rallentamento del riscaldamento globale delle superficie negli ultimi 15 anni. I particolati di aerosol di zolfo immessi in atmosfera da eruzioni vulcaniche causano raffreddamenti a breve termine bloccando la luce solare. Fino a poco tempo fa, gli scienziati del clima pensavano che solo le grandi eruzioni avessero un impatto significativo sulle temperature globali. Non ci sono state grandi eruzioni da quella del Monte Pinatubo nel 1991. Tuttavia, gli studi pubblicati negli ultimi anni hanno scoperto che anche eruzioni vulcaniche moderate possono immettere quantità significative di particolati di aerosol nell'atmosfera. Virtualmente ogni ricerca sull'influenza sul clima degli aerosol vulcanici ha usato misurazioni satellitari dei particolati nell'atmosfera superiore (la stratosfera). Queste misurazioni satellitari monitorano soltanto gli aerosol vulcanici ad altezze di 15 km ed oltre. Il nuovo saggio di David Ridley e dei suoi colleghi, ha studiato la quantità di aerosol vulcanici in parti della stratosfera che si trovano al di sotto dei 15 km.

Per fare questo, i ricercatori hanno unito i dati satellitari, dagli strumenti a terra del programma AERONET e dagli strumenti delle sonde meteorologiche. Lo studio ha avuto come coautori 17 scienziati climatici, compresi alcuni massimi esperti nella ricerca sugli aerosol. Unendo tutte queste misurazioni, gli scienziati hanno scoperto che c'è una quantità significativa di aerosol vulcanici anche in parti della stratosfera al di sotto dei 15 km. Hanno concluso che per le recenti eruzioni, fra il 30 e il 70% della quantità complessiva di aerosol vulcanici nella stratosfera proviene dalla parte al di sotto i 15 km. Dal 2000, lo studio stima che i vulcani abbiano avuto un'influenza raffreddante sulle temperature globali di superficie. La gamma probabile di questa influenza di raffreddamento dei vulcani si trova fra 0,05 e 0,12°C. Come osservano gli autori del saggio, questa influenza di raffreddamento non viene tenuta in considerazione nella simulazioni del modello climatico incorporate nell'ultimo rapporto del IPCC.

“Le simulazioni del modello climatico valutate nel quinto rapporto di valutazione del IPCC [Stocker et al., 2013] ipotizza aerosol stratosferici pari a zero dopo circa il 2000 e quindi trascura qualsiasi effetto raffreddante delle recenti eruzioni vulcaniche”

Anche se i dati della temperatura di superficie sono stati entro la gamma delle simulazioni del modello, sono stati verso l'estremo basso di quei run del modello negli ultimi 10-15 anni.


Figura 1.4 del AR5 del IPCC. Linee intere e quadretti rappresentano i cambiamenti della temperatura globale di superficie media misurati dalla NASA (blu), dal NOAA (giallo) e dall'Hadley Center del Regno Unito (verde). L'ombreggiatura colorata mostra la gamma prevista di riscaldamento di superficie nel primo rapporto di Valutazione del IPCC (FAR, giallo), del Secondo (SAR, verde), del Terzo (TAR, blue) e del Quarto (AR4, rosso).

Il riscaldamento di superficie misurato è stato di circa 0,13°C inferiore della media delle simulazioni del modello dal 2000. Il raffreddamento vulcanico stimato da questo nuovo saggio (0,05 – 0,12°C), non incluso in quei modelli climatici, potrebbe coprire gran parte di quella discrepanza. Unite questo ai circa 0,06°C di raffreddamento della superficie dovuti al maggiore calore immagazzinato negli oceani profondi e il rallentamento è pienamente spiegato e temporaneo. Gli scienziati del clima credono che i cicli oceanici passeranno presto ad uno stato in cui viene trasferito meno calore agli oceani profondi, lasciando più calore a riscaldare la superficie. Come cambierà in futuro l'attività vulcanica naturalmente non si sa, ma gli aerosol vulcanici hanno una vita relativamente breve nell'atmosfera. Se non ci sono altre eruzioni moderate nel prossimo futuro, la quantità di aerosol vulcanici nella stratosfera dovrebbe tornare ai valori di base entro pochi anni. Date le temperature globali record che abbiamo visto nel 2014, il rallentamento potrebbe già essere finito. In ogni caso, sembra che i modelli climatici abbiano difficoltà a valutare il rallentamento perché non hanno incluso né l'aumento di raffreddamento vulcanico né l'accumulo di calore nell'oceano profondo, nessuno dei quali condizionerà il riscaldamento globale a lungo termine. In breve, quando si tiene conto di questi cambiamenti degli aerosol vulcanici e dell'accumulo di calore nell'oceano, il clima si sta generalmente comportando come si aspettano gli scienziati. Abbiamo pochi motivi di mettere in dubbio le proiezioni molto preoccupanti del riscaldamento globale a lungo termine dei modelli climatici.

Riscaldamento globale: il passato rispecchia il presente.

Da “Phys.org”. Traduzione di MR


Carotaggi di sedimenti estratti dal Bacino di Bighorn in Wyoming e quindi sezionati per lo studio, vengono mostrati in un deposito all'Università di Brema, in Germania. Uno studio dei carotaggi condotto dal geochimico Gave Bowen dell'Università dello Utah ha scoperto che le emissioni di carbonio in atmosfera durante un periodo di riscaldamento globale di quasi 56 milioni di anni fa è stato più simile al cambiamento climatico antropogenico di oggi di quanto si credesse precedentemente. Foto: Bianca Maibauer, Università dello Utah.

Il tasso al quale le emissioni di carbonio hanno riscaldato il clima terrestre quasi 56 milioni di anni fa somiglia al riscaldamento globale moderno ed antropogenico molto di più di quanto si credesse precedentemente, ma ha coinvolto due inpulsi di carbonio in atmosfera, hanno scoperto i ricercatori dell'Università dello Utah ed i loro colleghi. Le scoperte significano che il cosiddetto Massimo Termico del Paleocene-Eocene (PETM)può fornire indizi sul futuro del moderno cambiamento climatico. La buona notizia è che la Terra e gran parte delle specie sono sopravvissute. La cattiva notizia è che ci sono voluti millenni per recuperare da quell'episodio, quando le temperature sono aumentate di 5-8°C. “C'è una nota positiva nel fatto che il mondo ha tenuto, non è finito in fiamme, ha sempre un modo per autocorreggersi e rimettersi in piedi”, dice la geochimica Gabe Bowen dell'Università dello Utah, autore principale dello studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience. “Tuttavia, in questo evento ci sono voluti quasi 200.000 anni perché le cose tornassero alla normalità”.

La Bowen e i suoi colleghi riportano che il carbonato o i noduli di calcare nei carotaggi dei sedimenti del Wyoming mostrano il l'episodio di riscaldamento globale di 55,5 milioni di anni fa hanno coinvolto un rilascio annuale medio di un minimo di 0,9 petagrammi (900 miliardi di kg) di carbonio in atmosfera e probabilmente molto di più su periodi  più brevi. Cioè, “entro un ordine di grandezza di (e forse gli si è avvicinato) dei 9,5 petagrammi (9,5 x 10+12 kg) all'anno associati alle emissioni di carbonio antropogenico moderne”, hanno scritto i ricercatori. Dal 1900, la combustione dei combustibili fossili da parte degli esseri umani ha emesso una media di 3 petagrammi all'anno – anche più prossima al tasso di 55,5 milioni di anni fa. Ogni impulso di emissioni di carbonio è durato non più di 1.500 anni. Le precedenti prove contrastanti indicavano che il rilascio di carbonio è durato un valore che va da meno di un anno decine di migliaia di anni. La nuova ricerca mostra che i livelli di carbonio atmosferico sono tornati alla normalità entro poche migliaia di anni dopo il primo impulso, probabilmente quando il carbonio si è dissolto nell'oceano. Ci sono voluti fino a 200.000 anni perché le condizioni si normalizzassero dopo il secondo impulso.

Il nuovo studio ha anche escluso come improbabili alcune cause teorizzate dell'episodio di riscaldamento, fra i quali l'impatto di un asteroide, la fusione del permafrost, la combustione di suoli ricchi di materia organica o il prosciugamento dei canali marittimi. Piuttosto, le scoperte suggeriscono, in termini di tempistica, che le cause più probabili abbiano compreso la fusione degli idrati di metano nel fondo del mare, conosciuti come clatrati, o l'attività vulcanica che ha riscaldato rocce ricche di materiale organico rilasciando metano. “Il PETM si è distinto come esempio lampante, anche se contestato, di come l'accumulo di biossido di carbonio atmosferico del 21° secolo possa alterare il clima, gli ambienti e gli ecosistemi in tutto il mondo”, dice la Bowen, professoressa associata di geologia e geofisica all'Università dello Utah. “Questo nuovo studio rafforza il collegamento”, aggiunge. “Il rilascio di carbonio di allora è stato molto simile alle emissioni umane da combustibili fossili di oggi, quindi potremmo imparare molto sul futuro dai cambiamenti nel clima, dalle piante e dalle comunità di animali di 55,5 milioni di anni fa”. La Bowen ha tuttavia avvertito che il clima globale era già molto più caldo di oggi quando è cominciato il riscaldamento del Paleocene-Eocene e che non c'erano calotte glaciali, “quindi il tutto si è svolto su un campo di gioco diverso di quello che abbiamo oggi”.



Questa immagine mostra la geochimica Gabe Bowen dell'Università dello Utah mentre lavora sui carotaggi dei sedimenti del Wyoming in un laboratorio in Germania per uno studio che ha mostrato che il riscaldamento globale di oggi è più simile all'episodio di cambiamento climatico di quasi 56 milioni di anni fa di quanto avessimo pensato. Foto: Gabe Bowen, Università dello Utah.


Il coautore dello studio Scott Wing, un paleobiologo della Smithsonian Institution a Washington, aggiunge: “Questo studio ci fornisce la migliore idea fino a questo momento di quanto rapidamente sia stata rilasciata questa grande quantità di carbonio all'inizio dell'evento di riscaldamento globale che chiamiamo PETM. La risposta è solo qualche migliaio di anni o meno. Ciò è importante perché significa che l'antico evento è avvenuto ad un tasso più simile a quello del riscaldamento globale antropogenico di quanto ci siamo mai resi conto”. La Bowen e Wing hanno condotto lo studio con dottoressa in geologia e geofisica dell'Università dello Utah Bianca Maibauer e con il tecnico Amy Steimke; con Mary Kraus dell'Università del Colorado, a Boulder; Ursula Rohl eThomas Westerhold dell'Università di Brema, in Germania; Philip Gingerich dell'Universita del Michigan e William Clyde dell'Università del New Hampshire. Lo studio è stato finanziato dalla Fondazione Nazionale delle Scienze e dalla Fondazione di Ricerca Tedesca.

Effetti del riscaldamento del Paleocene-Eocene

La Bowen dice che la ricerca precedente ha mostrato che durante il perido caldo del Paleocene-Eocene c'è stato “un aumento della tempestosità in alcune aree e di aridità in altre. Vediamo una migrazione su scala continentale di animali e piante, le gamme variano. Vediamo solo una piccola di estinzione – alcuni gruppi di foraminiferi delle profondità marine, organismi unicellulari che si estinguono all'inizio di questo evento. Non molto altro si è estinto. Vediamo emergere la prima ondata di mammiferi moderni, compresi gli antichi primati e gli ungulati”, aggiunge. Gli oceani sono diventati più acidi, come lo sono ora. “Abbiamo guardato attraverso il tempo registrato nelle rocce, e questo evento di riscaldamento spicca, e tutto accade contemporaneamente”, dice la Bowen. “Possiamo tornare indietro nella storia della Terra e dire com'era quel mondo, ed è del tutto coerente con l'aspettativa che il cambiamento climatico di oggi sarà associato con questi altri tipi di cambiamento”. Il PETM indica anche la possibilità di un cambiamento climatico fuori controllo peggiorato da retroazioni. “Il fatto che abbiamo due rilasci potrebbe suggerire che il secondo sia stato alimentato dal primo”, forse, per esempio, se il primo riscaldamento ha aumentato le temperature del mare a sufficienza da fondere enormi quantità di metano ghiacciato, dice la Bowen.

Trivellare nel passato della Terra

Il nuovo studio è parte di un grande progetto di trivellazioni per capire l'episodio di riscaldamento di 56 milioni di anni fa, che la Bowen dice essere stato scoperto per la prima volta nel 1991. I ricercatori hanno trivellato lunghi campioni di sedimento in forma cilindrica da due sondaggi a Polecat Bench nel bacino di Bighorn nel nord del Wyoming, ad est di Cody e appena a nord di Powell.


Un arcobaleno appare sul sito di trivellazione finanziato dalla Fondazione Nazionale delle Scienze nel bacino di Bighorn, in Wyoming. In uno studio condotto dalla geochimica dell'Università dello Utah Gabe Bowen, i carotaggi del sedimento trivellati nel sito hanno rilevato che un episodio di riscaldamento globale di quasi 56 milioni di anni fa somiglia a quello di oggi in termini di dimensione e durata di rilasci di carbonio in atmosfera. Foto: Elisabeth Denis, Università di Stato della Pennsylvania.


“Questo sito è stato scavato per oltre 100 anni dai paleontologi che studiavano i fossili dei mammiferi”, dice la Bowen. “Esso documenta la transizione dai primi mammiferi che vediamo dopo l'estinzione dei dinosauri ai mammiferi dell'Eocene, che sono in gruppi oggi familiari. C'è una grande sequenza stratigrafica di più di 2 km di rocce, da 65 milioni a 52 milioni di anni fa”. Il riscaldamento del Paleocene-Eocene è registrato negli strati di suolo alluvionale di roccia rossa, marrone e ruggine della formazione di Willwood, specificatamente intorno ai noduli di carbonato grigi e grigio-marroni presenti in quelle rocce. Hanno un diametro che va da 5 a 0,25 cm. Misurando i rapporti degli isotopi di carbonio nei noduli, i ricercatori hanno scoperto che durante ognuno dei rilasci di carbonio di 1.500 anni, il rapporto del carbonio-13 rispetto al carbonio-12 nell'atmosfera è declinato, indicando due grandi rilasci di biossido di carbonio o metano, entrambi gas serra da materiale vegetale. Il declino è stato di tre parti per 1000 nel primo impulso e di 5,7 parti per 1000 nel secondo. Le prove precedenti provenienti dai sedimenti marini di altri siti sono coerenti coi due impulsi di carbonio dell Paleocene-Eocene, il che “significa che non pensiamo che sia qualcosa di specifico del Wyoming del nord”, dice la Bowen. “Pensiamo che rifletta un segnale globale”.

Cosa ha causato il riscaldamento preistorico?

Il doppio rilascio di carbonio al confine temporale del Paleocene-Eocene praticamente esclude l'impatto di un asteroide o di una cometa perché una tale catastrofe sarebbe stata “troppo rapida” per spiegare i 1.500 anni di durata di ognuno dei due impulsi di carbonio, dice la Bowen. Un'altra teoria è che l'ossidazione della materia organica – quando il permafrost si è fuso, quando i suoli torbosi sono bruciati o quando le vie marittime si sono prosciugate – possa aver causato il riscaldamento del Paleocene-Eocene. Ma ciò avrebbe impiegato decine di migliaia di anni, di gran lunga più lento di quanto abbia scoperto lo studio, aggiunge. I vulcani che rilasciano gas di carbonio sarebbero stati a loro volta troppo lenti. La Bowen dice che i due rilasci di carbonio relativamente rapidi (circa 1.500 anni) sono più coerenti con un riscaldamento dell'oceano o una sommovimento sottomarino che ha innescato la fusione del metano ghiacciato nel fondo dell'oceano e grandi emissioni in atmosfera, dove è diventato nei decenni biossido di carbonio. Un'altra possibilità è un'intrusione massiccia di roccia fusa che ha riscaldato le sottostanti rocce ricche di sostanza organica e rilasciato molto metano.

sabato 3 gennaio 2015

Clima: perché non si parla mai dell'Antartide?

C'è chi sostiene che i ghiacci antartici stanno aumentando e che questo è un argomento contro il concetto di riscaldamento globale. Non solo, ma sostengono che non se ne parla per evitare che vengano questi dubbi alla gente. Ma i ghiacci dell'antartide non stanno aumentando, stanno diminuendo sempre più in fretta. (UB)


Da “Nasa”. Traduzione di MR (h/t Maurizio Tron – Alexander Ač)

Il tasso di fusione dei ghiacci antartici è triplicato


Di Carol Rasmussen, del Team informativo sulle Scienze della Terra della NASA


I ghiacciai visti durante il volo per l'operazione di ricerca della NASA IceBridge sull'Antartide Occidentale il 29 ottobre 2014. Foto: NASA/Michael Studinger. Immagine più grande.

Un'analisi completa di 21 anni della regione dell'Antartide ha scoperto che il tasso di fusione dei ghiacciai è triplicato durante l'ultimo decennio. I ghiacciai nella Baia del Mare di Amundsen nell'Antartide Occidentale stanno perdendo ghiaccio più velocemente di ogni altra parte dell'Antartide e costituiscono il maggior contributo dell'Antartide all'aumento del livello del mare. Questo studio di scienziati dell'Università della California, ad Irvine (UCI), e della NASA è il primo che valuta e raccorda osservazioni provenienti da quattro diverse tecniche di misurazione per produrre una stima autorevole della quantità e del tasso di perdita durante gli ultimi due decenni. “La perdita di massa di questi ghiacciai sta aumentando ad un tasso impressionante”, ha detto la scienziata Isabella Velicogna, unitamente al UCI ed al Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, California. La Velicogna è una coautrice del  saggio sui risultati, che è stato accettato per la pubblicazione nella rivista Geophysical Research Letters.

La Baia del Mare di Amundsen 
nell'Antartide Occidentale
 Foto: NASA
L'autore principale Tyler Sutterley, un candidato al dottorato alla UCI e la sua squadra, hanno fatto l'analisi per verificare il fatto che la fusione in questa parte dell'Antartide stia accelerando. “Gli studi precedenti hanno suggerito che questa regione sta cominciando a cambiare molto drammaticamente dagli anni 90 e volevamo vedere come confrontare le varie tecniche”, ha detto Sutterley. “Il notevole accordo fra le tecniche ci ha dato la sicurezza che abbiamo capito bene”. I Ricercatori hanno raccordato le misurazioni del bilancio di massa dei ghiacciai che scivolano nella Baia del Mare di Amundsen. Il bilancio di massa è una misura di quanto ghiaccio, proveniente da neve accumulata o fusa, scarichi di ghiaccio ed iceberg ed altre cause, i ghiacciai acquisiscono o perdono nel tempo. Le misure provenienti da tutte e quattro le tecniche erano disponibili dal 2003 al 2009. Insieme, i quattro gruppi di dati coprono il lasso temporale dal 1992 al 2013.

I ghiacciai nella baia hanno perso massa durante l'intero periodo. I ricercatori hanno calcolato due quantità separate: la quantità totale di perdita e  i cambiamenti nel tasso di perdita. La quantità totale di perdita ha avuto una media di 83 gigatonnellate all'anno (91,5 miliardi di tonnellate statunitensi). In confronto, il monte Everest pesa circa 161 gigatonnellate, il che significa che i ghiacciai dell'Antartide hanno perso una quantità di peso in acqua equivalente al monte Everest ogni due anni per gli ultimi 21 anni. Il tasso di perdita ha accelerato in media di 6,1 gigatonnellate (6,7 miliardi di tonnellate statunitensi) all'anno dal 1992. Durante il periodo in cui le quattro tecniche di osservazione si sono sovrapposte, il tasso di fusione è aumentato in media di 16,3 gigatonnellate all'anno – quasi tre volte il tasso di aumento dell'intero periodo di 21 anni. La quantità totale di perdita è stata vicina alla media di 84 gigatonnellate. I quattro gruppi di osservazioni comprendono i satelliti della NASA 'Gravity Recovery' e 'Climate Experiment', l'altimetria laser della campagna aerea dell'Operazione IceBridge della NASA e l'analisi del bilancio della massa usando dei radar e il Modello Climatico Atmosferico regionale dell'Università di Utrecht. Gli scienziati hanno osservato che il comportamento dei ghiacciai e delle calotte glaciali in tutto il mondo è finora la più grande incertezza per prevedere  il futuro livello del mare. “Abbiamo un'eccellente rete di osservazione ora. E' cruciale che conserviamo questa rete per continuare a monitorare questi cambiamenti”, ha detto la Velicogna, “perché i cambiamenti stanno procedendo molto rapidamente”.


Grafico del giorno: impronta ecologica mondiale e consumo umano

Da “Desdemona Despair”. Traduzione di MR


(Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite - UNDP) – “Negli anni si è molto dibattuto del significato della sostenibilità e di quali misure possano tracciare il progresso sostenibile – o della loro mancanza. Nel 2012 la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile a Rio ha adottato una visione ampia per la quale il progresso sostenibile deve coprire tutte e tre le dimensioni che condizionano i cambiamenti di vita delle persone – sociale, economica ed ambientale. Proteggere l'ambiente può essere visto come buono in sé, ma Amartya Sen ed altri hanno obiettato che un approccio più fruttuoso è quello di concentrarsi sulla sostenibilità delle persone e delle loro scelte. Gli esseri umani sono stati sempre alle dipendenze della generosità e della resilienza del mondo naturale. Ma è chiaro che il futuro è precario, aumentando quindi la vulnerabilità delle persone. Il degrado ambientale e il cambiamento climatico minacciano la sopravvivenza a lungo termine dell'umanità. La sfida di sostenere il progresso riguarda quindi assicurarsi che le scelte presenti e le capacità non compromettano le scelte e le libertà disponibili per le future generazioni. Mentre la sostenibilità può essere tracciata attraverso gli adjusted net savings (ANS) e le impronte ecologiche, queste misure non riflettono adeguatamente la natura dinamica delle scelte a disposizione delle persone. Un aspetto importante di questo inquadramento è che, oltre a richiedere una maggiore attenzione alle tensioni che ci sono fra scelte presenti e future, evidenzia la necessità di proteggere i vantaggi dello sviluppo umano dagli shock negativi e dagli eventi avversi”.

“I Rapporti sullo Sviluppo Umano del 2011 e 2013 (RSU) hanno sostenuto che i disastri ambientali potrebbero non solo rallentare lo sviluppo umano, ma persino invertirlo. Il cambiamento climatico potrebbe diventare il maggiore ostacolo alle ambizioni degli obbiettivi di sviluppo sostenibile e dei programmi di sviluppo per dopo il 2015. Le minacce ambientali evidenziano potenziali contrasti fra il benessere delle generazioni attuali e future. Se l'attuale consumo supera i limiti imposti dal nostro pianeta, le scelte delle generazioni future e presenti verranno seriamente compromesse. Se un paese o una comunità si trova in un percorso di sviluppo sostenibile dipende dalla sua posizione in relazione alle soglie locali e globali. Una soglia locale è in relazione alle risorse disponibili all'interno dei confini di un paese, mentre un soglia globale abbraccia una prospettiva più ampia considerando i limiti planetari. Per esempio, il consumo di risorse naturali di un paese potrebbe essere al di sotto della propria soglia locale – a causa dell'abbondanza di risorse entro i propri confini – ma il suo consumo pro capite può avere conseguenze dannose entro ed oltre i confini, quindi è importante esaminare in che modo equilibrare i limiti locali e globali”.

“Il principio universalista fornisce un buon punto di partenza per mettere insieme equità nell'uso di risorse ambientali e di altro tipo all'interno e fra generazioni. La scienza fornisce un'idea delle soglie globali per risorse specifiche, mentre la giustizia sociale richiede che tutti abbiano eguale diritto alla risorsa disponibile all'uso da parte della generazione presente. Questo ci permette di identificare i paesi che si trovano su strade di sviluppo insostenibile, in particolare su certi indicatori ambientali. Anche se l'ambiente è una dimensione chiave che condiziona le scelte delle generazioni presenti e future, non è l'unica. Ciononostante, soglie della sostenibilità ambientali globali stabilite ragionevolmente bene permettono valutazioni più formali. Molti paesi, specialmente quelli che rientrano nei gruppi di alto sviluppo umano, ora seguono percorsi di sviluppo insostenibile. Dei 140 paesi dei quali si dispone di dati, 82 hanno impronte ecologiche al di sopra della capacità di carico globale. Di conseguenza, l'impronta mondiale pro capite è significativamente maggiore della soglia di sostenibilità globale. Le emissioni di biossido di carbonio di 90 di 185 paesi superano la soglia globale e le loro emissioni sono sufficientemente alte da spingere le emissioni globali pro capite oltre la sostenibilità globale. I prelievi di acqua potabile di 49 dei 172 paesi dei quali si dispone di dati a loro volta superano la soglia globale. Complessivamente, c'è una correlazione positiva fra i risultati dei RSU e le impronte ecologiche insostenibili e le emissioni, mentre il consumo d'acqua è insostenibile in tutti i paesi sviluppati e in via di sviluppo”.

“L'impronta ecologica mondiale del consumo è attualmente maggiore della sua biocapacità totale, cioè, la capacità della biosfera di soddisfare la domanda umana per il consumo materiale e lo smaltimento dei rifiuti (figura 2.8). Il gruppo di sviluppo umano molto alto, in particolare, ha un deficit ecologico molto alto – in quanto la sua impronta ecologica è significativamente maggiore della biocapacità disponibile. Mentre lo sviluppo umano richiede l'espansione delle scelte attualmente disponibili per le persone, è anche importante considerare l'impatto sulle scelte delle future generazioni – per un'equità intergenerazionale. Lo sviluppo umano non dovrebbe provenire a scapito delle future generazioni. Per garantire e sostenere lo sviluppo umano ed evitare ripercussioni locali e globali drammatiche, un'azione coraggiosa e urgente sulla sostenibilità ambientale è cruciale”.

Human Development Report 2014

Gli inverni freddi in Europa ed Asia sono collegati al declino del ghiaccio marino

Da “Climate Central”. Traduzione di MR

Di Andrea Thompson

Nell'ultimo studio rivolto alla possibile connessione fra il precipitoso declino del ghiaccio marino dell'Artico e il meteo estremo sull'Emisfero Nord, i ricercatori hanno scoperto che gli inverni freddi sull'Europa e l'Asia sono stati il doppio più probabili grazie al declino del ghiaccio marino in una zona specifica dell'Artico. La connessione proposta fra il precipitoso declino del ghiaccio marino dell'Artico il meteo estremo su Nord America, Europa ed Asia ha raccolto molta attenzione del
Un confronto del minimo di estensione del ghiaccio marino il 16 settembre 2012 
(in bianco) rispetto alla media minima degli ultimi 30 anni (linea gialla). 
Foto: NASA
pubblico negli ultimi anni, in particolare dopo che il vortice polare ha alimentato l'inverno rigido  che gli Stati Uniti orientali hanno appena avuto. Ma come il ghiaccio marino influenzi esattamente la più ampia atmosfera è stato difficile da districare e i modelli computerizzati non sono stati in grado di trovare un collegamento robusto. Il nuovo studio, spiegato nei dettagli online il 26 ottobre nella rivista Nature Geoscience, è stato capace di trovare un collegamento operando una grande quantità di simulazioni di modelli computerizzati e determinando che c'è un collegamento fra il declino del ghiaccio marino e gli inverni freddi perlomeno su Europa ed Asia.

Ghiaccio marino o variabilità naturale?

Inverni rigidi come quello che gli Stati Uniti orientali hanno sopportato lo scorso anno non sono avvenimenti nuovi (e quest'inverno è stato in realtà un inverno storicamente nella media). L'atmosfera al di fuori dei tropici è notoriamente volubile in inverno e le invasioni di aria artica (popolarmente chiamata vortice polare) su Nord America, Europa ed Asia non sono rare. Ma nell'ultimo decennio, più o meno, gli inverni rigidi si sono verificati con un regolarità che sfida le proiezioni dei modelli climatici, che hanno detto che l'inverno sarebbe stata la stagione che si riscaldava più rapidamente. Mentre alcuni scienziati hanno fatto risalire questo all'intrinseca variabilità naturale dell'atmosfera, altri sospettano un collegamento al rapido riscaldamento dell'Artico e al relativo precipitoso declino del ghiaccio marino dell'Artico alimentato, in ultima istanza, dall'accumulo di gas serra in atmosfera. Il nuovo studio, l'ultima bordata nel dibattito, si è concentrato sugli inverni freddi su Europa ed Asia e sul declino del ghiaccio marino nei mari di Barents e Kara, che si trovano proprio sopra il continente. Quest'area ha visto i cambiamenti maggiori del ghiaccio marino dal 2004 e quei cambiamenti coincidono con la valanga di inverni freddi.

Per cercare un collegamento Masato Mori, dell'Istituto per la Ricerca sull'Oceano e l'Atmosfera all'Università di Tokyo, e i suoi colleghi, hanno provato delle simulazioni con modelli computerizzati confrontando cosa succede quando il ghiaccio è basso nell'area di Barents-Kara e quando è alto, usando i livelli di ghiaccio marino sulla base delle osservazioni reali. Hanno scoperto che i declini in questa regione hanno portato ad un raddoppio delle possibilità di inverni freddi su Europa ed Asia. Le simulazioni dei modelli suggeriscono che il ghiaccio marino ridotto porta ad un più  grande assorbimento del calore solare in entrata attraverso le acque oceaniche libere, il che porta a cambiamenti di pressione nell'atmosfera. Nello specifico, sembra che intensifichi una caratteristica chiamata Anticiclone Russo Siberiano su Europa ed Asia e porti ad un aumento di quelli che vengono chiamati modelli di blocco, dove l'atmosfera effettivamente viene bloccata in un modello specifico per giorni o persino settimane. Nel caso dello studio, la caratteristica porta a maggiori rotture dell'aria artica sulle masse continentali unite di Europa ed Asia.

C'è ancora del lavoro da fare

Una delle chiavi del successo dello studio nel vedere lo schema nei modelli è stata semplicemente in virtù del gran numero di prove coi modelli, che ha permesso al segnale alimentato dal ghiaccio marino di emergere dal rumore di fondo della variabilità naturale, ha detto Mori a Climate Central. I risultati sono perfettamente in linea con un altro studio recente che si è concentrato sull'area dei mari di  Barents-Kara Sea, ha detto Jennifer Francis, una ricercatrice all'Università di Rutgers che è stata la
Il modo in cui le temperature hanno differito nel mondo da una media di 30 anni da gennaio 
a marzo del 2012, comprese le temperature basse su parti di Europa ed Asia. Foto: NOAA
prima a proporre un collegamento fra i cambiamenti del ghiaccio marino e il meteo estremo alle latitudini più basse. “Questo è un saggio molto solido che sostiene il meccanismo identificato in altri saggi recenti che collegano la perdita di ghiaccio marino nell'area dell'Oceano Artico a nord della Scandinavia alle condizioni persistenti di freddo invernale nell'Asia centrale”, ha detto la Francis in una e-mail.

Questi studi mostrano che l'area di Barents-Kara sembra essere un “punto caldo” di questo segnale, ha detto Judah Cohen, uno scienziato dell'atmosfera presso la società di Ricerca Atmosferica ed Ambientale. Il nuovo rapporto fornisce “più prove del fatto che quest'area è quella su cui concentrarsi”, ha detto a Climate Central. Eppure, ancora non sono tutti convinti. “L'analisi delle osservazioni risuona e il risultato delle modellazioni mi risulta essere dinamicamente plausibile, anche se trovo ancora difficile credere che le anomalie del ghiaccio marino su una parte così piccola di oceano... possano avere un'influenza su una così grande estensione dell'Eurasia”, ha detto Mike Wallace, uno scienziato dell'atmosfera all'Università di Washington e coautore di una lettera alla rivista Science all'inizio dell'anno in cui si sostiene che mentre il collegamento fra il declino del ghiaccio artico ed il meteo estremo valeva la pena di essere esaminato, questo stava ricevendo troppa attenzione nel dibattito pubblico di quanto le prove che lo sostengono dovrebbero permettere. Ha aggiunto che c'è un po' il problema di chi sia venuto prima, se l'uovo o la gallina, quando si esamina questo collegamento: i cambiamenti del ghiaccio marino causano i cambiamenti degli schemi atmosferici o il contrario?


Mori ha detto che il fatto che il declino del ghiaccio marino possa o meno questi schemi di irruzione di freddo varia di anno in anno – in alcuni anni, la variabilità naturale è il fattore predominante che influenza l'atmosfera (come l'inverno del 2009-2010). In altri anni, come dal 2005-2006, è in gioco una combinazione dei due, ha detto. Inoltre, gli autori dello studio hanno fatto un numero minore di simulazioni ed hanno scoperto che verso la fine del secolo, il segnale più ampio di riscaldamento globale travolgerebbe lo schema ghiaccio marino-inverno freddo, dando come risultato un generale aumento della temperatura su Europa ed Asia. Mentre lo studio rafforza l'idea che il ghiaccio marino possa influenzare gli eventi meteorologici estremi alle latitudini più basse, è ben lungi dall'essere l'ultima parola sull'argomento. C'è ancora molto altro lavoro da fare per esaminare ulteriormente e spiegare cosa potrebbe accadere nell'atmosfera fra i poli e i continenti, così come per verificare il potenziale collegamento con altri eventi estremi, come i percorsi tenuti da tempeste come l'Uragano Sandy. La possibilità di tali collegamenti ha “ricevuto molta attenzione e la scienza non può essere fatta in un giorno”, ha detto Cohen.