venerdì 28 febbraio 2014

Guerre in prestito

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

di Antonio Turiel




Cari lettori,

Sembra che questo 2014 degeneri rapidamente verso una situazione di conflitto e violenza generalizzati in tutto il globo. Disgraziatamente, la violenza è una cosa molto comune nel nostro mondo nelle sue molteplici manifestazioni, da quelle più individuali a quelle più collettive. La cosa grave è che si sta allargando a paesi dove da tempo non si vedeva (anche se non è mai stata dimenticata).

Proprio adesso uno dei fuochi più caldi dell'attenzione occidentale si trova in Ucraina, dove la reiterata occupazione delle strade da parte di un movimento che brandisce la bandiera della UE, pro occidentale e che esige un cambiamento di governo, è finito per portare ad una sanguinosa repressione da parte della polizia e la logica escalation di violenza che, negli ultimi giorni, ha portato il presidente del paese a scappare verso la regione orientale del paese con simpatie per la Russia. Molti livelli si sovrappongono nel conflitto in Ucraina, alcuni interni (la crisi economica, la disoccupazione, l'insoddisfazione per la mancanza di riforme dalla Rivoluzione Arancione) ed altre esterne, con una forte presenza della partita a scacchi geopolitica fra Russia e Stati Uniti (la Russia vede con enorme sospetto la presenza di un paese pro-occidentale proprio alla sua frontiera, mentre l'Europa vede una grande opportunità di allargarsi verso est e per gli Stati Uniti qualsiasi iniziativa che limiti il potere russo è benvenuta). Non è estranea alla crisi in Ucraina l'entrata in funzione del gasdotto Nordstream lo scorso dicembre. Se avete memoria, ricorderete che durante gli ultimi inverni la Russia ha minacciato di tagliare la fornitura di gas naturale all'Ucraina, poiché questo paese non pagava i prezzi che volevano i russi e alla fine gli avrebbe tagliato la fornitura per qualche giorno, ma in seguito ha dovuto tornare sui suoi passi visto che quello stesso gasdotto, che attraversa il territorio ucraino, è lo stesso che porta a un buon cliente: la Germania. E tendere troppo quella corda porterebbe la nazione teutonica a cercare altre modalità di approvvigionamento, forse più care, ma più sicure. Tutto ciò è finito col nuovo gasdotto, che attraversa il mar Baltico e va direttamente dalla Russia alla Germania. Pertanto non è casuale che quest'anno non sia stata messa in scena la minaccia del taglio della fornitura, visto che i russi possono chiudere tranquillamente il rubinetto e il governo ucraino ha dovuto gestire la scarsità come ha potuto, nonostante la crisi e lo scontento popolare. Significativo è anche che proprio una delle contropartite offerte dalla Russia durante queste settimane confuse è la fornitura di gas all'Ucraina a buon prezzo.

Ma tornando agli avvenimenti sulle strade di Kiev e di altre città ucraine, è difficile sapere con precisione cosa succede, perché l'informazione diffusa dai media occidentali e estremamente di parte. Sembra che una parte dei manifestanti del Majdán sia equipaggiata quasi militarmente, in mezzo ad una massa di innocenti cittadini che vogliono solo esprimere la loro stanchezza per una situazione che non migliora (e che alla fine si ritirano all'aumentare della violenza). Il conflitto sembra degenerare verso una guerra civile più o meno aperta, in modo analoga a quanto è avvenuto in Siria, di cui è altrettanto impossibile avere una visione affidabile di ciò che succede in questo momento (vi sarete resi conto che ultimamente di Siria non si parla quasi più nei media: praticamente è diventato un non-tema, nonostante che, ovviamente, in quel paese la guerra civile continua).

Sembra che anche in Venezuela l'agitazione aumenti, anche se, di nuovo, è molto difficile in Occidente (è ironico chiamare Occidente paesi che si trovano più a est o a nord del Venezuela) accedere a informazioni affidabili su ciò che sta realmente avvenendo. A margine dei dettagli, praticamente inafferrabili da qui, di nuovo si intuisce una situazione simile a quella dell'Ucraina: da un lato c'è un governo emerso dalle urne che si confronta con una situazione interna molto complicata che porta spesso a fughe in avanti e a misure di carattere autoritario, dall'altro un certo livello di protesta dei cittadini istigata dallo scontento, in mezzo alla quale si nasconde una forza emergente, di dimensione molto inferiore ma sempre meglio armata, con la pretesa di deporre il governo con qualsiasi mezzo. Se si tratta di un processo completamente interno o istigato dall'esterno è complicato da sapere, anche se sicuramente c'è un mix di entrambe le cose: problemi interni di cui agenti esterni (e di nuovo molte dita indicano gli Stati Uniti) tentano di approfittarne.

Tra i vari fattori interni che contribuiscono al malessere in Venezuela è importante sottolineare la sempre meno dissimulata diminuzione della produzione di petrolio e delle sue esportazioni, come mostra il grafico seguente (preso come al solito dal sito di Flujos de Energía); tenete conto che arriva solo fino al 2012, quindi la situazione adesso potrebbe essere sensibilmente peggiore:


































Se confrontate questo grafico con quello di altri paesi che si sono visti coinvolti in processi simili (e che abbiamo commentato nel post corrispondente) si direbbe che al Venezuela restino per lo meno cinque anni prima che comincino i problemi gravi col crollo dei proventi petroliferi. Tuttavia, circa un terzo del petrolio prodotto dal Venezuela in questo momento è greggio extra pesante, dall'EROEI molto basso, il che significa che l'energia netta proveniente dal petrolio venezuelano è abbastanza inferiore rispetto a quanto indicato dal volume lordo e questo in particolare implica che il rendimento economico è abbastanza inferiore di quanto ci si aspetterebbe. Questo fatto probabilmente influisce sui problemi della nazione caraibica. Non a caso, gli Stati Uniti importano petrolio dal Venezuela ed hanno grande interesse a che il petrolio continui a fluire (nonostante i canti della sirena che parlano di una finta indipendenza energetica degli Stati Uniti). Pertanto non sorprende che, in mezzo alla confusione regnante e forse in parte provocandola, alcune personalità politiche statunitensi stiano chiedendo già adesso ad Obama di invadere il Venezuela.

Nel frattempo, lo Yemen, paese nel mirino, si avvicina con passo fermo al suo collasso finale; in quel paese sono frequenti gli attentati, mentre il potere politico cerca di frenare la sua inevitabile decomposizione, con una misura di decentralizzazione (dividere il paese in sei stati confederati, nonostante la sua piccola estensione). Dato il rapidissimo crollo delle esportazioni petrolifere di un paese tanto dipendente dall'esterno, il disastro è più che prevedibile: è una certezza. Essendo un paese confinante con la decisiva Arabia Saudita, è ovvio che non sarà permesso che il paese esploda incontrollatamente e a un certo punto le truppe saudite, appoggiate direttamente o indirettamente dagli Stati Uniti, entreranno nel paese in modo simile a come hanno già fatto in Bahrein nel 2011 (proprio in tempo perché si potesse correre il Gran Premio di Formula 1 di quell'anno, BAU a oltranza).

Per parte sua, l'Egitto non si è stabilizzato dopo le rivolte della fame del 2011 (cinicamente battezzate “primavera araba”) e l'esercito resiste nel cedere il potere alla società civile di un paese sovrappopolato (85 milioni di abitanti) e impoverito. Per finirlo, i piani dell'Etiopia, altro paese sovrappopolato (92 milioni) e impoverito, di fare una diga nell'Alto Nilo minaccia di scatenare una vera e propria guerra per l'acqua (come abbiamo già spiegato, un'ulteriore forma delle guerre della fame) mentre in Egitto si privatizza l'accesso all'acqua e si da un accesso preferenziale alle classi benestanti: una forma ancora più vile della Grande Esclusione in un paese assetato e affollato. Tanti problemi possono finire soltanto in disastro. Ma l'Egitto è una enclave strategica per la presenza del Canale di Suez, quindi c'è aspettarsi che o prima o dopo le truppe straniere facciano la loro apparizione, perlomeno nella fascia del canale, mentre il resto del paese si unisce nel caos e nella miseria.

Tutti gli esempi sopra mostrano casi di paesi con gravi problemi interni tutti acutizzati dal proprio declino energetico (con l'eccezione dell'Ucraina, tutti sono o erano fino a poco fa esportatori di petrolio) e in tutti grandi potenze straniere svolgono o finiranno per svolgere un ruolo primario, a volte lottando fra loro per mezzo di bande locali. Sono le nuove Proxy Wars o guerre sussidiarie: guerre scatenate da altri a beneficio non dichiarato (e a volte sconosciuto agli stessi combattenti) di interessi delle grandi potenze, una tradizione che data all'inizio del capitalismo e che ha raggiunto il suo apice nel ventesimo secolo. Sono le nuove guerre in prestito che disgraziatamente pare che caratterizzeranno il nostro declino energetico.

Ma il problema non sono solo queste guerre in prestito che si scateneranno nel territorio dei principali produttori di petrolio e di altre risorse. Anche senza arrivare all'intensità di una guerra, l'instabilità cresce su scala mondiale. Per esempio, la popolazione di un paese amante del calcio come il Brasile si ribella contro le spese del Mondiale di Calcio, odiose in un paese sottomesso a molte restrizioni e tagli (di nuovo, la parabola del lago risulta opportuna). Ricordate come anche in Argentina ci sono state rivolte e saccheggi solo un paio di mesi fa. Intanto, l'economia della Cina sta rallentando e cresce lo scontento popolare, visto che viene sovvertito il contratto sociale implicito (non richiedete democrazia e vi lasceremo prosperare e anche arricchire, se lavorate duro). E' questione di tempo che anche lì scoppi una rivolta.

E cosa succede nell'Europa occidentale? La Grecia soffre, il Portogallo subisce, l'Italia delira, l'Irlanda sembra abbastanza tranquilla, la Francia langue e la Germania spera... E in quanto alla Spagna, certi giorni ho l'impressione che stiamo facendo un conto alla rovescia collettivo, silenzioso, che non so bene dove ci porterà.

Saluti.
AMT




giovedì 27 febbraio 2014

Big Oil scommette; noi tutti perdiamo

Da “Recharge” (pdf non in rete). Traduzione di MR


Di Jeremy Leggett

“Stiamo scommettendo la nostra intera vita economica nazionale nella speranza – di fatto nell'aspettativa – che il boom del fracking continuerà fino agli anni 20 inoltrati del 2000 e che, a un tasso e ad un costo che desideriamo, quantità significative di petrolio “ancora da scoprire” saranno in qualche modo trovate per soddisfare la domanda. Se una qualsiasi di queste cose si dimostra sbagliata non abbiamo un piano, nessuna alternativa e non abbiamo pensato per niente a come risponderemmo in un caso simile”.

Chi parla è l'esperto di sicurezza nazionale il Tenente Colonnello Daniel Davis, il veterano di 4 turni di servizio in Iraq e Afghanistan. Non sono un militare, ma ma mi preoccupo della sicurezza energetica del mio paese allo stesso modo in cui lui lo fa del suo. Nel Regno Unito, il governo, il servizio civile e gran parte delle grandi aziende energetiche sembrano perfettamente soddisfatti di replicare il grande azzardo in corso negli Stati Uniti. Il 10 dicembre, il Tenente Comandante Davis ed io abbiamo convocato a Washington e Londra, in collegamento video, incontri di persone che condividono le nostre preoccupazioni sul rischio di una crisi petrolifera globale.

Abbiamo anche invitato persone chiave che non lo sono, ma che erano interessate a provare, al di là della propaganda, che il dibattito sulla politica energetica sembra attrarre in questi giorni. Fra coloro che si sono uniti a noi c'erano militari in pensione, ufficiali militari, esperti di sicurezza, alti dirigenti di un'ampia gamma di industrie e politici di tutti i principali partiti, compresi due ex ministri britannici. Abbiamo cominciato con una presentazione di Mark Lewis, un ex capo della ricerca energetica della Deutsche Bank. Con questo retroterra, ci si potrebbe aspettare che Lewis sia un discepolo della narrazione convenzionale dell'abbondanza di petrolio nei mercati. Molti dei suoi pari lo sono. Ma lui ha suggerito tre grandi segni di avvertimento nell'industria petrolifera che puntano ad una narrazione contraria di problemi incombenti per l'offerta: alti tassi di declino, impennata della spesa di capitale e crollo delle esportazioni. I tassi di declino di tutti i giacimenti di petrolio greggio convenzionale in produzione oggi sono spettacolari; la IEA prevede un crollo della produzione da 69 Mb/g di oggi a soli 28 Mb/g nel 2035. L'attuale produzione totale globale di tutti i tipi di petrolio è di circa 91 Mb/g.

Considerate la spesa necessaria per cercare di compensare quel divario. Gli investimenti per lo sviluppo di giacimenti petroliferi e per l'esplorazione sono quasi triplicati in termini reali dal 2000: da 250 miliardi di dollari a 700 miliardi di dollari nel 2012. L'industria sta spendendo sempre di più per sostenere la produzione e la sua redditività riflette questa tendenza, nonostante il perdurare del prezzo del petrolio alto. Nel frattempo, il consumo vola nei paesi del OPEC. Di conseguenza, le esportazioni globali di petrolio greggio sono declinate dal 2005. E' difficile confondere questi dati e non vedere una crisi petrolifera in arrivo, conclude Lewis. Che dire della recente aggiunta di 2 Mb/g di nuova produzione di petrolio, del boom che è stato lanciato come “ciò che cambia i giochi” e la strada verso“l'Arabia Saudita" da parte dei tifosi dell'industria? Il veterano di Geological Survey of Canada, David Hughes, che ha condotto l'analisi più dettagliata dello scisto Nord Americano al di fuori delle aziende di petrolio e gas, ha offerto alcuni punti di vista che fanno riflettere su questo. I suoi dati mostrano i tassi di declino prematuro spettacolarmente alti nei pozzi di gas e petrolio di scisto (più correttamente conosciuto come tight oil) significano che servono alti ritmi di trivellazione solo per mantenere la produzione. Questo problema è aggravato dal fatto che i “sweet spots” si esauriscono prima nello sviluppo dei giacimenti. Di conseguenza, la produzione di gas di scisto sta già calando in diverse regioni chiave di trivellazione e la produzione del tight oli nelle due regioni principali è probabile che raggiunga il picco fra il 2016 e il 2017. Queste due regioni, in Texas e Nord Dakota, permettono il 74% della produzione totale di tight oil statunitense.

Come Lewis, Hughes crede che l'industria del petrolio e del gas stia tirando per il naso il mondo verso una crisi energetica. Nel mio libro The Energy of Nations, descrivo come i think tank militari hanno avuto la tendenza di fiancheggiare l'industria, come Lewis e Hughes, che diffidano della narrazione cornucopiana della permanenza del petrolio. Uno studio del 2008 dell'esercito tedesco, la mette così: “Le barriere psicologiche fanno sì che fatti incontestabili vengano oscurati e portano quasi istintivamente al rifiuto di guardare in dettaglio all'interno di questo tema difficile. Il picco del petrolio, tuttavia, è inevitabile”. Questo oscuramento si estende ai media mainstream, che hanno entusiasticamente fatto eco ai mantra delle aziende petrolifere, fino al punto che le stesse parole “picco del petrolio” sono state ridotte a simbolo di un allarmismo senza fondamento. Non dovremmo mai dimenticare che nella corsa al collasso del credito, l'incombenza finanziaria ha schierato le stesse tattiche di pubbliche relazioni contro coloro che avvertivano sulla fragilità dei titoli garantiti da ipoteca.


Jeremy Leggett è il fondatore e presidente non esecutivo dell'azienda internazionale di fotovoltaico SolarcenturyIl suo nuovo libro, The Energy of Nations: Risk Blindness and the Road to Renaissanceè pubblicato da Routledge

Il grande caldo che ci aspetta: più grave del previsto

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Un nuovo modello climatico che considera maggiormente i cambiamenti delle nuvole indica che il riscaldamento sarà più alto rispetto alle aspettative fino ad ora.


Il ruolo giocato dalle nuvole nel cambiamento climatico è stato in qualche modo un mistero – fino adesso. Foto: Frank Rumpenhorst/ Frank Rumpenhorst/dpa/Corbis

Gli aumenti di temperature risultanti dal cambiamento climatico incontrollato saranno più gravi, secondo un nuovo studio scientifico. Lo scienziato che ha condotto la ricerca ha detto che a meno che non si taglino le emissioni di gas serra, il pianeta si scalderà di un minimo di 4°C, il doppio del livello che i governi mondiali ritengono pericoloso. La ricerca indica che si formano meno nuvole allo scaldarsi del pianeta, il che significa che viene riflessa meno luce solare nello spazio, portando le temperature a salire ulteriormente. Il modo in cui le nuvole condizionano il riscaldamento globale è stato il più grande mistero che circonda il cambiamento climatico futuro. Il professor Steven Sherwood, dell'Università del Nuovo Galles del Sud, che ha condotto il lavoro ha detto: “Questo studio apre nuovi orizzonti in due sensi: per prima cosa identificando cosa controlla i cambiamenti delle nuvole e per seconda attualizzando fortemente le stime più basse del futuro riscaldamento globale in favore di quelle più alte e più dannose”. “4°C sarebbero probabilmente catastrofici piuttosto che semplicemente pericolosi”, ha detto Sgerwood al Guardian. “Per esempio, renderebbe la vita difficile, se non impossibile, in gran parte dei tropici e garantirebbe la fusione definitiva della calotta glaciale della Groenlandia e di parte della calotta glaciale dell'Antartico”, con il risultato di un aumento del livello del mare di diversi metri.

La ricerca è un “grande miglioramento” che dimezza l'incertezza su quanto riscaldamento sia causato dall'aumento delle emissioni di carbonio, secondo gli scienziati che commentano lo studio, pubblicato sulla rivista Nature. Hideo Shiogama e Tomoo Ogura, dell'Istituto Nazionale Giapponese per gli Studi Ambientali, hanno detto che la spiegazione del fatto che si formino meno nuvole mentre il mondo si riscalda è stata “convincente” e sono stati d'accordo sul fatto che questo indicasse che il cambiamento climatico futuro sarebbe stato più ampio di quanto previsto. Ma hanno detto che ci sono altre sfide di fronte a noi che restringono ulteriormente le proiezioni delle temperature future. Gli scienziati misurano la sensitività del clima terrestre ai gas serra stimando l'aumento di temperatura che verrebbe causato da un raddoppio di CO2 nell'atmosfera in confronto ai livelli preindustriali – come è probabile che accada entro 50 anni, sulla base delle attuali tendenze. Per due decenni, quelle stime sono passate da 1,5 a 5°C, una gamma ampia; la nuova ricerca ha ristretto quella gamma a 3-5°C, esaminando da vicino la causa di incertezza più grande: le nuvole. La chiave è stata assicurarsi che il modo in cui si formano le nuvole nel mondo reale fosse rappresentato accuratamente nei modelli climatici computerizzati, che sono il solo strumento che i ricercatori hanno per prevedere le temperature future. Quando l'acqua evapora dagli oceani, il vapore può salire di oltre 9 miglia per formare nuvole di pioggia che riflettono la luce del Sole. Oppure potrebbe salire solo di poche miglia e tornare indietro senza formare nuvole. In realtà, avvengono entrambi i processi e i modelli climatici che includono questa complessità hanno previsto temperature future significativamente più alte di quelle dei modelli che includono solo le nuvole delle nove miglia.

“Agli scettici del clima piace criticare i modelli climatici perché interpretano male le cose e noi siamo i primi ad ammettere che non sono perfetti”, ha detto Sherwood. “Ma ciò che stiamo scoprendo è che gli errori vengono fatti dai modelli che prevedono meno riscaldamento, non da quelli che ne prevedono di più”. Ed ha aggiunto: “Gli scettici potrebbero anche indicare lo 'iato' delle temperature dalla fine del 20° secolo, ma ci sono prove sempre più forti che questo impropriamente chiamato iato non è riscontrabile in altre misure del sistema climatico ed è quasi certamente temporaneo”. Le temperature media globale dell'aria sono aumentate in modo relativamente lento da un punto elevato nel 1998 causato dal fenomeno oceanico de El Niño, ma le osservazioni mostrano che il calore continua ad essere intrappolato in quantità sempre maggiori dai gas serra ed oltre il 90% di questo calore scompare negli oceani. Inoltre, uno studio a novembre suggeriva che la "pausa" potrebbe essere in gran parte un'illusione, risultato della mancanza di letture di temperatura nelle regioni polari, dove il riscaldamento è maggiore. Sherwood accetta che il lavoro della sua squadra sul ruolo delle nuvole non può escludere che i futuri aumenti di temperatura si troveranno nella parte bassa delle proiezioni. “Ma”, ha detto, perché sia così, “si dovrebbe invocare una qualche nuova dimensione del problema che coinvolgerebbe un qualche ingrediente mancante di cui attualmente non abbiamo prove. Una cosa simile non è inammissibile ma richiede un bel po' di fede”. E ha aggiunto: “Aumenti delle temperature medie globali di [almeno 4°C per il 2100] avranno profondi impatti sul mondo e le economie di molti paesi se non cominciamo urgentemente a frenare le nostre emissioni”.

mercoledì 26 febbraio 2014

Ucraina: il grande pasticcio

Da “Club Orlov”. Traduzione di MR

Pawel Kuczyński
[Aggiornamento: sto mettendo questo post on line con un paio di giorni di anticipo, perché la situazione ucraina si evolve molto rapidamente. Un soggetto politico (Yanukovych) è fuori gioco; sembra che sia scappato in Russia. Un altro soggetto politico (Tymoshenko) è stata frettolosamente riabilitata ed è pronta ad essere messa sulla scheda elettorale per le elezioni di maggio. Ci sarà ancora un paese da (fingere di) governare per lei? Le riserve finanziarie scese a pochi giorni, le strutture federali sono state smantellate in tutto il paese, i governatori regionali sono in fuga e un default di circa 60 milioni di euro di bond ucraini, molti in mano alla banche russe, sembra probabile. Potrebbe essere questo il tipo di contagio finanziario necessario a far scoppiare le ridicole bolle azionarie statunitensi? Almeno due provincie ucraine parlano apertamente di secessione; una (la Crimea) vuole immediatamente unirsi alla Federazione Russa. Una domanda ai tirapiedi del Dipartimento di Stato statunitense e ai funzionari della UE: questa faccenda cosa comporta per i vostri calcoli geopolitici? A rischio ci sono 5 centrali nucleari e un sacco di gas che transita in Ucraina nel suo percorso verso occidente. L'Ucraina sta assumendo molto l'aspetto della Yugoslavia, eccetto il fatto che ha più del doppio degli abitanti, molti combattenti da strada folli che pensano di essere padroni della situazione e il fatto di avere un ruolo critico per la sicurezza energetica europea. Se non siete sotto shock per questo, allora non avete fatto attenzione a quello che sta succedendo.]

Ho ricevuto parecchie e-mail che mi chiedono cosa penso che stia succedendo in Ucraina. Mi ci è voluto un po' per formulare un'opinione, ma è questo ciò che credo stia accadendo: un completo e totale fallimento della politica ad ogni livello. Tutti hanno fallito: i rappresentanti della UE, il Dipartimento di Stato statunitense con la sua Victoria “Fanculo all'Unione Europea” Nuland, il governo Yanukovych, i suoi oppositori politici e il Cremlino. Ed ora sono tutti sotto shock e non sanno cosa fare. Eccetto i manifestanti, che sanno cosa fare: continuare a protestare. Gran parte di loro non sanno nemmeno per cosa protestano ma, essenzialmente, protestano contro l'esistenza stessa del loro paese, che costituita da due parti: la Polonia orientale, che parla ucraino e prevalentemente cattolica, e la Russia occidentale, che parla ucraino ed è prevalentemente ortodossa. I “russi” superano in numero gli “ucraini” di due a uno. La soluzione finale alla crisi sta nel dividere il paese. Nessuno ha lo stomaco persino di parlare di questo – finora. Ma finché questo non succede continueremo ad essere sottoposti a questo strano spettacolo, in cui ogni singolo attore in Ucraina fa il possibile per minare il sistema politico del paese. In fondo, gli ucraini non vogliono che ci sia un diverso governo a Kiev – non vogliono che ci sia affatto un governo a Kiev.

Ora mi affido a Andrey Tymofeiuk, una persona che risiede a Kiev e che ha postato quanto segue sulla sua pagina Facebook, in un russo tempestato di oscenità. (La lingua russa è notevolmente ricca di termini osceni che costituiscono un enorme potere espressivo, ma che è intraducibile in inglese, con la sua misera collezione di parole di 4 lettere). Penso che abbia fornito un riassunto buono e ricco di informazioni della situazione da tutte le angolazioni, nonostante il suo linguaggio da scaricatore di porto, quindi dategli appoggio. La traduzione e le correzioni sono mie.

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Penso che l'attuale situazione sia tale che tutti sono sotto shock per quanto sta accadendo. I rappresentanti della UE sono i più scioccati di tutti. Stavano giocando a fare i diplomatici abili, che si sono piegati a lavorare col barbaro dittatore di un paese del terzo mondo. Egli avrebbe dovuto tremare con ansia riguardo al suo sussidio, sotto forma di accordo UE-Ucraina, cosa che gli avrebbe permesso di indossare i panni del grande fautore dell'integrazione con l'Europa e di vincere le elezioni del 2015.

Guardando dall'alto del loro trespolo diplomatico, questi esperti sono stati accecati quando il barbaro dittatore ha improvvisamente deciso di fare un po' di aritmetica, ha evidenziato un errore nel contratto (la bancarotta nazionale dell'Ucraina) ed ha rapidamente deciso tenere i suoi 46 milioni di schiavi lontani dalla UE e di darli invece a Mosca. E allora, a causa della loro ridicola burocrazia e alla loro completa mancanza di comprensione della realtà Ucraina, hanno permesso che una iniziale protesta pacifica diventasse come una guerra civile.

I rappresentanti della UE non hanno davvero bisogno di un bagno di sangue con una crisi umanitaria, centinaia di migliaia di rifugiati, attacchi terroristici, carri armati nelle strade e altre piacevolezze del genere, e cercheranno di fare tutto ciò che possono per evitarlo, anche se questo significa che il barbaro e ottuso dittatore deve rimanere in carica. Ma il problema è che il barbaro dittatore sembra aver perso la testa.

Ora i rappresentanti della UE dovranno rispondere ad alcune domande molto difficili da parte dei telespettatori di casa propria. Tipo: “Perché la gente che agita le bandiere della UE indossano emblemi nazisti? Sosteniamo i nazisti?” o “Se sono pacifici, allora perché tirano bombe molotov agli uomini della polizia e li prendono in ostaggio?” Questo solo per cominciare. Ecco una domanda più seria: “Vogliamo davvero che 46 milioni di questi barbari violenti si uniscano alla UE?” E che ne pensate di questa: “Cosa vi fa pensare che 5 centrali nucleari ucraine saranno al sicuro se il paese precipita nel caos?” Ancora un'altra, ma è una eccellente: “Se l'Ucraina diventa ingovernabile, come faremo ad avere la nostra quota di gas naturale russo il prossimo inverno? Moriremo congelati?” Ma i rappresentanti della UE non dovranno far scendere in campo tali domande tanto a lungo, perché le loro carriere diplomatiche potrebbero essere giunte alla fine. Dopo tutto, non sono stati così efficaci, non è vero? Trasformare una protesta del tutto pacifica in un sanguinoso casino non è esattamente il massimo della diplomazia europea. Pochi attivisti di medio livello di Al Qaeda avrebbero potuto gestire la situazione altrettanto bene.

La questione minerale: come energia e tecnologia determineranno il futuro dell'estrazione mineraria





Questa è una traduzione di un articolo di Ugo Bardi recentemente apparso sulla rivista "Frontiers in Energy Systems and Policy". L'articolo originale e di libero accesso è si può scaricare a questo link.


Da “Frontiers in energy research”. Traduzione di MR

Ugo Bardi*
*Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Firenze.

Circa 150 anni fa, dopo che Jevons (1866) ha pubblicato il suo saggio “La questione del Carbone”, è in corso un dibattito sull'esaurimento fra due scuole di pensiero principali: una che vede l'esaurimento come un problema importante per il prossimo futuro e un'altra che vede la tecnologia e l'ingegno umano in grado di rendere quello dell'esaurimento un problema per un futuro remoto. Oggi, tuttavia, abbiamo creato strumenti intellettuali che ci permettono di inquadrare il problema sulla base di fattori fisici, in particolare sulla base della termodinamica. Il presente saggio esamina il problema dell'esaurimento di minerali da un punto di vista allargato, con una visione specifica sul ruolo dell'energia nei processi di estrazione e produzione. La conclusione è che l'energia è un fattore fondamentale nel determinare per quanto tempo possiamo aspettarci che duri la fornitura di risorse minerali coi prezzi e i livelli di produzione attuali. Il rapido esaurimento delle nostre risorse energetiche principali, i combustibili fossili, sta creando un grave problema di approvvigionamento che è già percepito in termini di alti costi dei beni minerali. La tecnologia può mitigare il problema, ma non risolverlo. In un futuro non lontano, il sistema industriale mondiale dovrà subire cambiamenti fondamentali per adattarsi ad una ridotta disponibilità di beni minerali.

Introduzione

La questione di quanto possa durare la fornitura di risorse minerali è stata sollevata a metà del diciannovesimo secolo (Jevons, 1866). Negli anni, si sono sviluppati due poli di pensiero. Uno enfatizza la limitata quantità di risorse minerali disponibili e propone che l'esaurimento porterà ad una riduzione della fornitura in tempi sufficientemente brevi da essere già oggi oggetto di preoccupazione (vedi per esempio Jevons, 1866; Meadows et al., 1972; Bardi e Pagani, 2007; Bardi, 2011; Mason et al., 2011). L'altro enfatizza la tecnologia e l'ingegno umano, sostenendo che l'esaurimento non è un problema fondamentale, almeno per il prossimo futuro (vedi per esempio Zimmermann, 1933; Lambert, 2001; Bradley, 2004, 2007). In questo secondo campo, alcuni autori sono giunti a dichiarazioni estremamente ottimiste, proponendo che le risorse minerali non si esauriranno mai o che dureranno per miliardi di anni (Simon, 1981).

Gran parte del dibattito è stato basato su stime contrastanti delle quantità di risorse minerali definite “estraibili”. Ma il dibattito spesso ignora un elemento cruciale: l'estrazione mineraria richiede energia. Tutti i processi che trasformano risorse minerali in beni minerali, dalla prospezione all'arricchimento, richiedono un costante apporto di energia abbondante e a buon mercato. Quindi, il problema dell'esaurimento minerale è strettamente collegato alla disponibilità di energia ed è qui che sta il problema. Per prima cosa, le principali fonti mondiali di energia primaria sono di origine minerale (combustibili fossili) e il loro graduale esaurimento sta rendendo l'energia più cara (vedi per esempio Odum, 1998; Jakobsson et al., 2012). Di conseguenza, l'estrazione mineraria diventa a sua volta più cara. Inoltre, l'estrazione mineraria richiede sempre più energia man mano che il graduale esaurimento dei minerali ad alta densità spingono l'industria a passare a risorse di sempre minore densità. Questi due effetti si uniscono e generano il problema: per quanto tempo possiamo continuare a produrre a costi ragionevoli le grandi quantità di beni minerali richiesti dall'economia industriale?

In linea di principio, se potessimo aumentare la fornitura di energia senza limiti, non ci sarebbero limiti all'estrazione mineraria, in quanto potremmo riciclare tutto ciò che usiamo (Bianciardi et al., 1993). Questo è il concetto della “macchina mineraria universale”, un termine che indica un ipotetico modo di lavorare la roccia della crosta o gli scarti industriali che, in linea di principio, renderebbe tutti gli elementi chimici necessari nelle quantità richieste (Bardi, 2008). Un concetto collegato è stato definito “Modello della Terra Thanatia” da Valero e Valero (2012) o il “Pianeta Crepuscolare” (Valero et al., 2011) in riferimento ad una Terra futura dove estrazione mineraria umana ha disperso tutti gli elementi chimici dalla concentrazione che avevano nei minerali ad una concentrazione media in tutta la crosta terrestre. Ma, ovviamente, estrarre dalla crosta indifferenziata richiederebbe quantità enormi di energia, ben al di sopra di qualsiasi cosa che possiamo permetterci oggi, per tacere della enorme devastazione del pianeta, già considerevolmente compromesso dalle attuali pratiche di estrazione mineraria (Prior et al., 2012). Quindi, i limiti dell'estrazione mineraria derivano principalmente dai limiti della quantità di energia che possiamo ipotizzare che sia disponibile in futuro. Visto sotto questa luce, il problema dell'esaurimento diventerà grave molto prima di “finire” realmente qualsiasi minerale, come già notato nei primi studi sull'esaurimento (Jevons, 1866Meadows et al., 1972).

Tuttavia, è anche vero che l'estrazione mineraria non è solo una questione di applicare energia ad una qualche parte della crosta terrestre. E' un processo complesso che dipende da molti fattori; tecnologici, economici ed ambientali. Quindi, come verrà condizionata la produzione nel futuro a breve e medio termine dall'aumento del fabbisogno di energia causato dall'esaurimento? Che ruolo ha il miglioramento tecnologico nella riduzione del fabbisogno energetico per rendere accessibili depositi altrimenti inaccessibili? In che modo l'inquinamento limiterà l'estrazione e quale ruolo può giocare la tecnologia nel ridurlo? Il presente saggio esamina questi interrogativi sulla base di dati e modelli teorici. La conclusione è che il problema energetico è un fattore fondamentale nel limitare la disponibilità di beni minerali per il sistema economico mondiale. La tecnologia certamente può giocare un ruolo nella mitigazione del problema, ma non può, da sola, sostituire l'energia. Al momento, il problema dell'esaurimento si sta già manifestando sotto forma prezzi alti dei beni minerali. E' probabile che questo problema diventi più grave in futuro.

martedì 25 febbraio 2014

Sbirciare il futuro





di Jacopo Simonetta


Molte volte, oramai, l’economia capitalista è stata data per spacciata, ed ogni volta i fatti hanno dimostrato il contrario; potrebbe questa volta essere diversa? Di fatto, i “G8”, i “G20”, i “G tutti”, gli eurogruppi, i summit ed i vertici di ogni tipo e qualità  si succedono da anni con un ritmo quasi frenetico; i “piani di salvataggio” si accavallano ai “decreti sviluppo” ed ai “Piani di aiuto”, riuscendo tuttalpiù a rimandare un “peggio” che resta tanto vago, quanto inquietante.   Intanto “la ripresa della crescita” continua a venir data per certa, ma il suo arrivo continua ad essere annunciato per l’anno venturo, da 6 anni oramai.   Oppure è legata a virtuosismi contabili.

A questo punto, che ci sia una “crisi di fiducia” pare il minimo, mentre rivolte e tafferugli dilagano in molte parti del pianeta. Preso atto di ciò, la domanda è: Come mai, di fatto, tutti i governi e le istituzioni finanziarie del pianeta sembrano impotenti a fermare quello che Tremonti (oramai 5 anni fa) definì “una specie di videogame dove ad ogni passo sbuca fuori un nuovo mostro più brutto del precedente”?   Eppure tutti i massimi esperti del mondo sembrano d’accordo. Quasi unanimi, ci dicono che occorre “ridurre il debito e rilanciare la crescita economica”.   Il primo punto per evitare, nell’immediato, che l’intera economia globale vada in briciole come un castello di carte.   Il secondo perché, sui tempi medi e lunghi, la crescita è l’unica medicina in grado di riportare il debito sotto controllo e, contemporaneamente, riportare le vacche grasse, almeno nei paesi più importanti.   Me se sono tutti d’accordo, perché non funziona?

Una risposta argomentata occuperebbe un grosso volume, ma un’idea di larga massima potremmo forse farcela semplicemente spostando l’attenzione dall’oggi a quello che è avvenuto nel corso degli scorsi 70 anni circa.   Proviamo a riportare su di un grafico tre variabili semplicissime e ben conosciute: il PIL USA, l’indice Dow Jons ed il debito federale USA. L’andamento negli altri paesi occidentali è stato molto simile, mentre quelli degli altri paesi sono largamente dipendenti da quelli occidentali, cosicché possiamo, in prima e grossolana approssimazione, considerare che i dati americani siano indicatori significativi per l’economia globale e globalizzata.   Almeno fino ad oggi.



Già a colpo d’occhio, possiamo distinguere 4 periodi:

1- Dal 1950 circa al 1973 – Il PIL (verde) e la borsa (tratteggiato) salgono con relativa costanza, molto più rapidamente del debito (rosso), che sale pochissimo. L’economia reale cresce più rapidamente della borsa.

2 - Dal 1973 ai primi anni ’80 – PIL e borse hanno fluttuazioni non molto ampie, ma per un periodo prolungato, mentre la crescita del debito accelera sensibilmente.

3- Dai primi ’80 al 2000 – L’economia riparte, ma la borsa, molto, molto più rapidamente dell’economia reale, mentre il debito comincia a lievitare in modo allarmante.

4 -Dal 2000 ad oggi – Il PIL continua a crescere, ma rallenta sensibilmente, mentre le borse cominciano a fluttuare travolte da un’incalzare di crisi di panico e di euforia, mentre il debito, dopo un attimo di stasi, va completamente fuori controllo.

Questa, almeno, è la versione ufficiale dei fatti, già notevolmente allarmante per il nostro futuro. Si da però il caso che il governo USA (al pari di tutti gli altri) abbia progressivamente modificato i metodi di calcolo dell’inflazione. Se si rifanno i calcoli fino ad oggi, utilizzando i parametri precedenti il 1980, si ottiene una curva molto diversa, e molto più vicina all'esperienza personale di noi comuni cittadini (fonte John Williams,”Shadow Government Statistics”).


Se i calcoli sono corretti: Dal dopoguerra ai primi ’70, dal punto di vista economico, tutto è andato sostanzialmente bene (per noi).   Poi c’è stato un decennio circa di problemi finché, nei primi anni ’80, una serie di provvedimenti (deregulation della finanza, svuotamento delle norme ambientali, globalizzazione del commercio e, soprattutto, esplosione del debito a tutti i livelli pubblici e privati) hanno effettivamente rilanciato la crescita di PIL e, soprattutto, delle borse, in parallelo col debito (NB. Il grafico riporta solo il debito federale. Parallelamente ad esso crescevano i debiti di enti locali, aziende, banche e famiglie). Questa rincorsa è andata avanti per circa 10 anni per poi stemperarsi in un altro decennio circa di stagnazione economica, associata però ad un’ulteriore crescita del debito (molto rallentato fra il ’95 ed il 2000) e, fenomeno importantissimo, alla crescita senza precedenti della speculazione borsistica che ha drenato la maggior parte degli investimenti. Con lo scoppio della bolla della “new economy” (a cavallo del 2.000) il giocattolo si è definitivamente rotto. Nel vano tentativo di evitare una recessione globale, i governi hanno risposto aumentando le dosi di “deregulation” e di debito, con risultati però molto limitati o addirittura controproducenti sull’economia reale, mentre la finanza entrava nel più completo delirio, stirata fra la propria tendenza intrinseca alla crescita esponenziale e lo scontro con la dura realtà di un’economia reale in recessione.

 Una prima domanda legittima sarebbe quindi questa: Se 40 anni di “doping” della crescita a botte di debito non hanno potuto evitare la recessione, possiamo pensare di ridurre questo debito senza accelerare la recessione già in atto?  Evidentemente no, e la Grecia lo dimostra.  E difatti, la tragedia della Grecia sta portando molti economisti e governi a spingere anziché sul tasto del “risanamento”,  su quello della “crescita” che poi (fidatevi!) risolverà tutti i problemi. Vedi ultimo summit mondiale dei grandi dottori dell'economia mondiale.   Ipotesi seducente, ma è realistica? I   grafici sopra riportati sono già decisamente sconfortanti, ma il quadro si fa ancor più fosco (e realistico) se confrontiamo i dati già visti con altri, di natura non più solo economica e finanziaria, tornando ancora una volta al 1972, quando fu pubblicato il leggendario “Limits to growth”.   Lasciando ai lettori la cura di studiarsi Word3, possiamo qui dire che, purtroppo, 40 anni di verifiche su dati reali hanno confermato che l’affidabilità di questo modello è estremamente elevata (G. Turner A comparison of the limits to growth with thirty years of reality 2008). By G. Turner in Mark Strauss, Smithsonian magazine, April 2012)

Dunque proviamo a confrontare i soliti dati (PIL, DowJons e debito federale nella versione SDS) con le curve tracciate dallo scenario “business as usual” di Word3. Ed ecco che, certamente non per caso, le turbolenze degli anni ’70 sono avvenute mentre la curva delle risorse incrociava quella della popolazione (significa che è stata superata la capacità di carico del Pianeta), mentre le ben più importanti turbolenze degli ultimi 10 anni si sono verificate in concomitanza con il raggiungimento del picco storico delle curve di produzione agricola ed industriale. Un picco cui fatalmente deve seguire un declino, già iniziato in alcuni paesi ed incipiente in altri, più o meno rapido e profondo a seconda di tante cose. Ancora più significativo, certamente non per caso, la curva del PIL (corretto) segue in modo impressionante la curva delle risorse (la scala delle curve è diversa, ma quello che conta qui è la forma).


 Ecco quindi la risposta: Ci saranno magari dei rimbalzi, più finanziari che economici, ma quello che stiamo vivendo sono le prime avvisaglie di una recessione che non potrà che peggiorare per tutti i prossimi 100 anni. Anzi, per il modo occidentale, la recessione è iniziata nel 2.000 (circa) e non ha poi fatto che peggiorare. Altri paesi, partiti dopo, hanno avuto tassi di crescita positiva fino ai giorni nostri, ma oramai si stanno adeguando all’andamento generale. Conclusioni analoghe si raggiungono studiando la situazione da altri punti di vista, anche molto diversi (andamento demografico, disponibilità di risorse insostituibili, degrado dei suoli, evoluzione socio-economica e politica, cultura dominante, ecc.). Purtroppo, quando dati di natura diversa, elaborati con metodi indipendenti, giungono a conclusioni simili, c’è poca speranza di sbagliare. A questo punto la risposta che di solito ricevo è di questo tipo: “Ma se fosse così vorrebbe dire che è finito tutto; che non si può far più nulla!”

Una reazione davvero strana perché, semmai, ciò che finisce è l’economia di mercato: una parentesi molto breve nella storia dell’umanità; una catastrofe devastante e puntiforme nella storia della biosfera.   Ci sono state grandi civiltà prima, perché non dovrebbero essercene altre dopo? Certamente prive delle tecnologie che ci sono care, ma nondimeno grandi civiltà; perché no?  E per chi è disposto ad archiviare l’ipotesi di mantenere in futuro un tenore di vita lontanamente simile a quello del recente passato, il daffare non manca; c’è molto più lavoro da fare su di una nave che affonda, rispetto ad una che procede spedita sulla sua rotta. La difficoltà è piuttosto che ci si addentra in un terreno storico totalmente inesplorato.   Nel giro di 10-20 anni al massimo anche le tracce che possono darci analisi come questa perderanno di significato.   Lo avevano detto chiaro Meadows e soci:  il loro modello è affidabile solo finché il sistema permane globalizzato: dal momento in cui comincerà a disgregarsi in sotto-sistemi, il destino di ognuno di questi potrà evolvere anche in modo molto diverso.




Il picco del petrolio è qui!

Da “The Guardian”. Traduzione di MR.

Un esperto dell'industria avverte rispetto ad un futuro torvo di “guerre per le risorse” guidate dalla “recessione” in una lezione al Collegio Universitario di Londra

Un ex geologo della BP si esprime sul pericolo del picco del petrolio. Foto: Ben Stansall/AFP/Getty Images

Un ex geologo della British Petroleum ha avvertito che l'era del petrolio a buon mercato è finita da un pezzo, portando con la sua partenza il pericolo di “recessione continua” e di aumento del rischio di conflitto e fame. In una lezione su “rischi geologici” all'inizio di questo mese, come parte del post-dottorato corso sui Rischi Naturali per Assicuratori al Collegio Universitario di Londra, il dottor Richard G. Miller, che ha lavorato per la BP dal 1985 prima di andare in pensione nel 2008, ha detto che la data ufficiale di Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA) , Amministrazione dell'Informazione sull'Energia degli Stati Uniti (EIA) e Fondo Monetario Internazionale (FMI), fra le altre fonti, ha mostrato che il petrolio convenzionale aveva molto probabilmente raggiunto il picco intorno al 2008. Il dottor Miller ha criticato la linea ufficiale dell'industria secondo la quale le riserve dureranno 53 anni al tasso attuale di consumo, sottolineando che “il picco è il risultato dei tassi di produzione in declino, non del declino delle riserve”. Nonostante nuove scoperte e un'aumentata dipendenza da petrolio e gas non convenzionale, 37 paesi sono già postpicco e la produzione globale di petrolio sta declinando di circa il 4,1% all'anno, o 3,5 milioni di barili al giorno (Mb/g) all'anno:

“Ci serve una nuova produzione pari ad una nuova Arabia Saudita ogni 3-4 anni per mantenere e aumentare la fornitura... Le nuove scoperte non hanno compensato il consumo dal 1986. Stiamo attingendo dalle nostre riserve, anche se le riserve stanno apparentemente aumentando ogni anno. Le riserve stanno aumentando grazie a migliori tecnologie nei pozzi petroliferi, aumentandone la quantità che possiamo recuperare – ma la produzione sta ancora diminuendo del 4,1% all'anno”.

Il dottor Miller, che ha preparato le proiezioni annuali interne di fornitura di petrolio della BP dal 2000 al 2007, si riferisce a questo come al “problema del bancomat” - “più soldi, ma prelievi quotidiani ancora limitati”. Di conseguenza, “la produzione di petrolio liquido convenzionale è stata piatta dal 2008. La crescita nella fornitura di liquidi da allora è stata in grandissima parte di liquidi del gas naturale [LGN] – etano, propano, butano, pentano – e di sabbie bituminose”.

Il dottor Miller è coeditore di una edizione speciale della prestigiosa rivista Transazioni Filosofiche della Società Reale A, che questo mese ha pubblicato sul futuro della fornitura di petrolio. In un saggio introduttivo scritto insieme al dottor Steve R. Sorrel, co-direttore del Sussex Energy Group all'Università del Sussex di Brighton, sostengono che fra gli esperti dell'industria “c'è un consenso crescente sul fatto che l'era del petrolio facile sia passata e che stiamo entrando in una fase molto diversa”. I due autori sostengono la conclusione prudente di un esteso studio precedente da parte del Centro per la Ricerca Energetica del Regno Unito finanziato dal governo:

“... un declino sostenuto nella produzione globale convenzionale appare probabile prima del 2030 e qui c'è un rischio significativo che questo abbia inizio prima del 2020... coi dati attuali, l'inclusione delle risorse di tight oil [petrolio di scisto] sembra improbabile che condizioni significativamente questa conclusione, in parte perché la risorsa di base appare relativamente modesta”. 

Infatti, la sempre maggiore dipendenza dallo scisto potrebbe peggiorare i tassi di declino sul lungo termine:
“Una maggiore dipendenza dalle risorse di tight oil prodotte usando la fratturazione idraulica (fracking) peggiorerà qualsiasi tendenza crescente nei tassi di declino medio globale, visto che quei pozzi non hanno plateau e declinano in modo estremamente veloce – per esempio, del 90% o più nei primi 5 anni”.

Le sabbie bituminose viaggeranno sullo stesso binario, concludono, notando che “le sabbie bituminose canadesi consegneranno solo 5 Mb/g nel 2030, che rappresenta meno del 6% della proiezione della IEA della produzione di tutti i liquidi per quella data”. Nonostante le proiezioni caute, il picco del petrolio “prima del 2020”, sottolineano anche che:

“La produzione di petrolio greggio è cresciuta di circa l'1,5% all'anno fra il 1995 ed il 2005, ma poi ha mantenuto un plateau, con aumenti più recenti nella fornitura di liquidi in gran parte derivati dai Liquidi del Gas Naturale, dalle sabbie bituminose e dal petrolio di scisto. Si prevede che queste tendenze continuino... La produzione di petrolio greggio è fortemente concentrata in pochi paesi e in pochi enormi giacimenti, con approssimativamente 100 giacimenti che producono la metà della fornitura globale, 25 che ne producono un quarto ed un singolo giacimento (Ghawar in Arabia Saudita) che ne produce circa il 7%. Gran parte di questi giacimenti giganti sono relativamente vecchi, molti hanno superato da un pezzo il loro picco di produzione, gran parte del resto sembra probabile che entrino in declino entro il prossimo decennio, più o meno, e ci si aspetta di trovare pochi nuovi giacimenti giganti”. 

“Il picco finale sarà deciso dai prezzi – quanto possiamo permetterci di pagare?” mi ha detto il dottor Miller in un'intervista sul suo lavoro. “Se ci possiamo permettere di pagare 150 dollari al barile, potremmo certamente produrre di più, a parte alcuni anni per l'attivazione di nuovi sviluppi, ma distruggerebbe comunque le economie”. Miller sostiene che per tutti gli intenti e gli scopi, il picco del petrolio è arrivato in quanto le condizioni sono tali che nonostante la volatilità, i prezzi non possono più tornare ai livelli di prima del 2004:

“Il prezzo del petrolio è salito quasi di continuo dal 2004 ad oggi, partendo da 30 dollari. C'è stato un grande picco a 150 dollari e poi un collasso nel 2008/2009, ma da allora è risalito a 110 dollari e si è mantenuto lì. L'aumento del prezzo ha portato molte nuove esplorazioni e sviluppo, ma questi nuovi giacimenti non hanno di fatto aumentato la produzione di molto, a causa del declino degli altri giacimenti. Questo è compatibile con l'idea che siamo oggi praticamente al picco. Questa recessione è il modo in cui si manifesta il picco”. 

Anche se taglia corto sulla capacità del petrolio e del gas di scisto di evitare un picco ed un successivo lungo declino della produzione globale di petrolio, Miller riconosce che c'è ancora qualche margine che potrebbe portare dividendi significativi, se temporanei, per la crescita economica degli Stati Uniti – anche se solo come “un fenomeno dalla vita relativamente breve”:

“Siamo come una gabbia di topi da laboratorio che ha mangiato tutti i fiocchi di mais ed ha scoperto che si può mangiare anche la scatola. Sì, possiamo, ma... Il tight oil potrebbe raggiungere 5 o anche 6 Mb/g negli Stati Uniti, il che aiuterà enormemente l'economia statunitense, insieme al gas di scisto. Le risorse di scisto, comunque, sono inappropriate per paesi più densamente popolati come il Regno Unito, perché l'industrializzazione della campagna colpisce molta più gente (con molto meno accesso a spazio naturale alternativo) e i benefici economici sono diffusi in modo più fine fra più persone. La produzione di tight oil negli Stati Uniti è probabile che raggiunga il picco prima del 2020. Non ci sarà assolutamente sufficiente produzione di tight oil per rimpiazzare gli attuali 9 Mb/g di importazioni degli Stati Uniti”.

A sua volta, prolungando la recessione economica globale, gli alti prezzi del petrolio potrebbero ridurre la domanda. Il picco della domanda a sua volta potrebbe mantenere un plateau produttivo più a lungo:

“Probabilmente ci troviamo nel picco del petrolio già oggi, o perlomeno lì vicono. La produzione potrebbe aumentare un po' ancora per qualche anno, ma non abbastanza da far scendere i prezzi; in alternativa, la recessione continua in gran parte del mondo potrebbe mantenere la domanda essenzialmente piatta per anni al prezzo di 110 dollari al barile che abbiamo oggi. Ma non possiamo aumentare la fornitura ai tassi medi del passato di circa l'1,5% all'anno ai prezzi di oggi”. 

La dipendenza fondamentale della crescita economica globale dalle forniture di petrolio a buon mercato suggerisce che mentre procediamo nell'era del petrolio e del gas costosi, senza sforzi appropriati per mitigare gli impatti e transitare ad un nuovo sistema energetico, il mondo affronta un futuro di turbolenza economica e geopolitica:

"Negli Stati Uniti, gli alti prezzi del petrolio sono collegati alla recessione”, anche se non tutte le recessioni sono collegate ai prezzi del petrolio. Questo non prova la causalità. Ma è altamente probabile che quando gli Stati Uniti pagano più del 4% del proprio PIL per il petrolio, o più del 10% del PIL per l'energia primaria, l'economia declina, in quanto il denaro viene risucchiato dall'acquisto di carburante anziché di altri beni e servizi... Una scarsità di petrolio colpirà tutto nell'economia. Mi aspetto più carestia, più siccità, più guerre per le risorse ed un'inflazione stabile del costo energetico dei beni”. 

Secondo un altro studio sull'edizione speciale della rivista della Royal Society del professor David J. Murphy dell'Università dell'Illinois del Nord, un esperto del ruolo dell'energia nella crescita economica, il ritorno energetico sull'investimento (EROEI) per la produzione globale di petrolio e gas – la quantità di energia prodotta in confronto alla quantità di energia investita per ottenere, consegnare ed usare quell'energia – è approssimativamente di 15 ed in declino. Per gli Stati Uniti, l'EROEI della produzione di petrolio e gas è di 11 e in declino. E per il petrolio non convenzionale e i biocombustibili è di gran lunga inferiore a 10. Il problema è che mentre l'EROEI diminuisce, i prezzi dell'energia aumentano. Così, Murphy conclude:

“... il prezzo minimo del petrolio necessario per aumentare la fornitura di petrolio sul breve termine è a livelli coerenti coi livelli che hanno indotto recessioni economiche in passato. Da questi punti, concludo che, mentre l'EROEI del barile medio di petrolio declina, la crescita economica a lungo termine diventerà più difficile da ottenere e viene ad un costo finanziario, energetico ed ambientale sempre più alto”.

L'attuale EROEI negli Stati Uniti, ha detto Miller, semplicemente “non è sufficiente per sostenere l'infrastruttura statunitense, anche se l'America fosse autosufficiente, senza aumentare la produzione anche oltre l'attuale consumo”. Nella loro introduzione alla collezione di saggi nella rivista della Royal Society, Miller e Sorrel indicano che “gran parte degli autori” dell'edizione speciale “accettano che le risorse di petrolio convenzionale sono in uno stadio avanzato di esaurimento e che i combustibili liquidi diventeranno più costosi e sempre più scarsi”. La rivoluzione dello scisto può fornire solo “un sollievo a breve termine”, ma è “improbabile che faccia una differenza significativa sul lungo termine”. Chiedono una “risposta coordinata” a questa sfida per mitigare l'impatto, compresi “cambiamenti lungimiranti nel sistema globale di trasporti”.

Mentre “le soluzioni amiche del clima al 'picco del petrolio' sono disponibili”, avvertono, queste non saranno né “facili” né “veloci” ed implicano un modello di sviluppo economico che accetti livelli più bassi di consumo e mobilità. Nella sua intervista con me, Richard Miller è stato particolarmente critico con le politiche del governo del Regno Unito, compreso l'abbandono dei progetti su larga scala di eolico, la riduzione delle tariffe incentivanti per l'energia rinnovabile e il sostegno al gas di scisto. “Il governo farà qualsiasi cosa per tenere in movimento l'economia a breve termine”, ha detto, “ma le conseguenza saranno che il Regno Unito viene legato in modo più stretto ad un futuro basato sul petrolio, e pagheremo caro per questo”.