mercoledì 2 marzo 2016

Male, malissimo, sempre peggio

2050: Odissea sulla Terra

di Stefano Ceccarelli

Da Stop Fonti Fossili

Il tempo degli umani è scandito dal susseguirsi delle generazioni. L’arco temporale fra una generazione e la successiva, convenzionalmente fissato in 35 anni, dà la misura di come è cambiato il mondo da quando i nostri genitori avevano la nostra età ad oggi. Allo stesso modo siamo portati a guardare al futuro immaginando le vite dei nostri figli quando essi avranno l’età che noi abbiamo oggi. Mi è sembrato allora interessante provare a rivolgere uno sguardo all’anno 2050, cioè ad una generazione da oggi, tentando di estrapolare alcuni dei trend che oggi osserviamo a livello globale in materia di economia, energia ed emissioni di gas serra, con l'obiettivo di prefigurare l'entità delle trasformazioni necessarie a scongiurare gli impatti più gravi dei cambiamenti climatici.

Partiamo dall’economia. E’ notizia recente che la Banca Mondiale ha rivisto al ribasso le stime per la crescita economica globale del 2016, portandola al 2,9% rispetto al 3,4% previsto in precedenza. Le ragioni di una revisione al negativo delle previsioni sono note e non mi soffermerò su questo. Faccio solo notare che una crescita di questa entità del PIL mondiale è la media fra gli aumenti dei paesi emergenti – che seppure in forte difficoltà crescono del 5-7% – e quelli non lontani dallo zero dei paesi sviluppati. Supponendo che questo tasso di crescita annuale si mantenga invariato per i prossimi 34 anni (la qual cosa suona tutt’altro che entusiasmante per il mainstream economico-finanziario e per i leader politici, che si ostinano a sognare crescite ben più sostenute), nel 2050 la ricchezza complessiva delle economie mondiali sarà aumentata di 2,6 volte rispetto ad oggi. Se consideriamo che la popolazione mondiale sarà di circa 9 miliardi di persone rispetto agli attuali 7,3, questo dato si traduce in un aumento medio pro-capite di 2,1 volte. E’ ovviamente del tutto verosimile che, per quanto lo scandaloso divario fra una esigua minoranza di superricchi e una maggioranza di poveri possa ancora aumentare, gran parte della nuova ricchezza generata sarà destinata ai paesi in via di sviluppo.

Passiamo ora all’energia. Può un simile aumento di ricchezza avvenire senza una crescita parallela dei consumi di energia? Ovviamente no, e neanche su questo mi dilungo. Osservo solo che, visti i miglioramenti da attendersi in tema di efficienza energetica, i tassi di crescita dell’energia primaria globale saranno con ogni probabilità sensibilmente inferiori all’aumento del PIL immaginato prima. Nell’ultimo decennio l'energia consumata nel mondo è cresciuta in media del 2,1% l’anno, nonostante la profonda recessione che ha colpito l’economia mondiale. Ipotizzando dunque una leggera ripresa dei consumi combinata ad ulteriori progressi nell’uso efficiente dell’energia, ho voluto tentativamente immaginare una crescita dell’energia primaria mondiale del 2% l’anno fino al 2050, anche in questo caso a quasi esclusivo beneficio dei popoli in via di sviluppo la cui popolazione aumenterà rapidamente. Ne risulta al 2050 un raddoppio del fabbisogno di energia rispetto ad oggi.

Con mia sorpresa, ho scoperto che questa grossolana previsione è perfettamente in linea con lo scenario dipinto da Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani in una loro pregevole rassegna appena pubblicata, nella quale viene considerato ottimale un consumo medio pro-capite annuo al 2050 pari a 2,8 tonnellate equivalenti di petrolio (tep) contro il valore di 1,8 registrato nel 2014. I due studiosi argomentano che il valore di 2,8 tep pro-capite deve ritenersi adeguato sulla base di indicatori che correlano il livello di sviluppo umano di una data popolazione con il suo consumo di energia. Si è visto, ad esempio, che paesi come la Nigeria o il Ciad, che presentano elevati tassi di mortalità infantile, hanno un consumo pro-capite di soli 0,1 tep, e che la mortalità diminuisce con l’aumentare della disponibilità di energia fino ad un livello approssimativamente pari a 3 tep, oltre il quale non vi sono ulteriori apprezzabili miglioramenti. Si deve rimarcare come il valore di 2,8 tep considerato desiderabile è comunque largamente inferiore agli attuali consumi pro-capite di paesi come gli USA o il Canada, pari rispettivamente a 7,2 e 9,4 tep.

Dunque, a meno di incrementi strepitosi nell'efficienza energetica (su cui comunque si deve continuare ad investire) o di un collasso dell'economia globale, si può ipotizzare un consumo mondiale di energia al 2050 pari a 25.200 Mtep (2,8 tep x 9 miliardi), che è appunto circa il doppio di quello, pari a 12.928 Mtep, calcolato al 2014 dalla BP Statistical Review of World Energy 2015. Quale potrà essere il mix delle fonti energetiche a quella data? Non certo quello attuale che vede le fonti fossili giocare un ruolo del tutto predominante. Come sottolineato fino alla noia in questo blog, se vogliamo avere delle chances di contenere a livelli ancora accettabili il riscaldamento globale dobbiamo accelerare la transizione già in atto dalle fonti fossili alle rinnovabili. Pertanto mi sono chiesto quale dovrà essere l’entità dell’incremento annuo da qui al 2050 della quota di energia primaria proveniente dalle rinnovabili non idroelettriche, ed ho provato a fase dei semplici conti.

Ipotizzando che l’apporto percentuale di energia idroelettrica e nucleare, attualmente pari rispettivamente al 7% e al 4%, rimanga invariato (il che vuol dire prevedere comunque un raddoppio del loro contributo in valore assoluto, cosa per nulla scontata considerando per un verso i programmi di smantellamento di molte centrali nucleari nei prossimi vent'anni e per l’altro i limiti alla crescita dell’idroelettrico dovuti alla crescente penuria di acqua in vaste aree del pianeta causata proprio dai cambiamenti climatici), otteniamo gli scenari illustrati nella Tabella 1.



Come si vede, per ribaltare l’attuale egemonia delle fonti fossili non è sufficiente neanche un incremento annuo delle rinnovabili del 10%, che lascerebbe ancora una quota maggioritaria a petrolio, gas e carbone. La situazione invece si ribalterebbe con un aumento annuo del 12%, che farebbe lievitare le rinnovabili ai 2/3 del totale. La conferma che, nelle ipotesi date, il tasso di aumento del 10% è insufficiente a contenere il riscaldamento globale viene dall’elaborazione riassunta nella Tabella 2, nella quale sono riportate le presumibili variazioni delle emissioni di CO2 in funzione dei diversi tassi di crescita delle rinnovabili.


Secondo questo calcolo approssimativo, solo un incremento ininterrotto non inferiore al 12% annuo fino al 2050 può garantire una consistente riduzione delle emissioni in linea con quanto stimato nello scenario RCP2.6 dell’IPCC (quello che dà buone probabilità di contenere l’aumento delle temperature al 2100 sotto i 2°C), che infatti stima al 60% la quota necessaria di energia “low-carbon” al 2050.

Dobbiamo a questo punto interrogarci sulla reale fattibilità di un aumento, anno dopo anno per 35 anni, del 12% della quota rinnovabili non idroelettriche. Per la verità, il 12% è proprio l’aumento complessivo registrato nel 2014 rispetto al 2013 secondo le statistiche BP. E' possibile mantenere per tanto tempo un incremento così sostenuto? E’ facile comprendere che si tratta di un’impresa immane, che in assenza di innovazioni tecnologiche dirompenti richiederebbe la produzione e l’installazione forsennata di moduli fotovoltaici, pale eoliche e centrali solari termodinamiche per molti anni e in ogni angolo del globo (compatibilmente con l'insolazione e la ventosità). Anche con il massimo supporto politico possibile, che peraltro oggi non c'è, una crescita impetuosa di un singolo comparto industriale per un tempo così lungo presenta enormi ostacoli. Secondo l’ultimo rapporto della International Energy Agency (IEA), in assenza di forti stimoli politici ed economici è da attendersi un rallentamento dell’attuale trend di crescita delle rinnovabili sia nei paesi sviluppati che in quelli emergenti, a causa di persistenti barriere di accesso ai mercati, difficoltà di integrazione nelle reti elettriche, mancanza di incentivi adeguati e persistenza di sussidi alle fonti fossili. Va poi ricordato che quasi tutta l’espansione delle rinnovabili registrata finora si riferisce alla produzione di elettricità: i settori dei trasporti e del riscaldamento continuano ad essere dominati dalle fonti fossili, e tutto lascia pensare che lo saranno ancora per parecchi anni.

Oltre ad una certa stabilità economica (tutt’altro che garantita in tempi nei quali la volatilità dei mercati la fa da padrona e il rischio di un nuovo shock globale è dietro l'angolo), all'assenza di conflitti su vasta scala e ad una sufficiente tenuta degli equilibri ecologici fondamentali, il prerequisito fondamentale perché una scommessa così azzardata possa essere vinta è la disponibilità ancora per parecchi anni di energia a basso costo (per uscire dalle fonti fossili abbiamo bisogno delle fonti fossili, come è stato già spiegato in un precedente post), necessaria per la produzione di una mole imponente di dispositivi e impianti di energia rinnovabile e relative infrastrutture di supporto. L’attuale congiuntura che vede le quotazioni del greggio ai minimi da molti anni è una preziosa opportunità e deve costituire uno stimolo a potenziare gli sforzi produttivi. Lo scenario potrebbe mutare in peggio nel giro di pochi anni man mano che la disponibilità di giacimenti ad alto ERoEI andrà a scemare, e a quel punto tutto sarà più difficile e imprevedibile.

Lo sforzo collettivo della nuova generazione di giovani può cambiare il mondo. E’ già accaduto in passato e può accadere ancora. La missione assomiglia ad una nuova odissea, non nello spazio ma sulla Terra, dove però non ci sarà nessun misterioso monolite nero a guidarci. Se fallirà, sarà soprattutto a causa delle scelte sbagliate della nostra generazione, che non potrà mai perdonarsi di aver lasciato un pianeta così malridotto ai nostri figli.


lunedì 29 febbraio 2016

Una Rispostina a Rubbia


Questo articolo di Claudio della Volpe è una risposta ("rispostina") a un intervento di Carlo Rubbia dove, dispiace dirlo, il nostro premio nobel per la fisica si è trovato a tirar fuori una serie di affermazioni del tutto slegate da ogni realtà fattuale e basate su una serie di leggende, tipo quella che gli elefanti di Annibale avrebbero potuto passare le Alpi dato che il clima, a quel tempo, era molto più caldo di oggi. Purtroppo, la realtà è un altra cosa, come si può vedere nella figura qui sopra, da un articolo recente di Buentgen et al. discusso anche in un post precedente. Insomma, la lotta al cambiamento climatico non si fa con le leggende urbane, come ci spiega qui Claudio della Volpe

Una Rispostina a Rubbia


Di Claudio della Volpe


la chimica e l’industria | anno XCVIII n° 1 | GENNAIO/FEBBRAIO 2016, 63

Wilhelm Ostwald è uno di quei nomi che tornano ripetutamente nella nostra vita di chimici, non solo perché sviluppò alcune teorie od equazioni ancor oggi valide, dopo oltre un secolo, ma anche perché svolse un ruolo fondamentale nello sviluppo della “cultura” chimica e, più in generale, scientifica nel suo Paese e in tutto il mondo.

Ostwald vinse il Nobel per la Chimica nel 1909; eppure ancora pochi anni prima era un convinto assertore di una teoria energetica ed “anti-atomica” che aveva esposto e difeso a partire a  lmeno dalla famosa conferenza di Lubecca degli scienziati e medici tedeschi del 1895. Si convinse ad abbandonare quelle posizioni solo dopo gli esperimenti di J. Perrin, anch’egli Nobel nel 1926 per il suo lavoro sulla struttura discontinua della materia; aveva determinato fra l’altro il numero di Avogadro e la dimensione degli atomi.

Ma nessuno di noi si sentirebbe di criticare banalmente le asserzioni di Ostwald o di considerarlo “in ritardo” rispetto alle concezioni atomistiche moderne; era un periodo di grande fermento spirituale e scientifico in cui si gettarono le basi della meccanica quantistica e della scienza moderna e queste contraddizioni c’erano tutte: Boltzmann si era suicidato nel 1906 a Duino e non vinse mai il Nobel (come non lo vinse Poincaré, che pare non avesse scoperto nulla di cruciale); una veneziana come Agnes Pockels  ancora nel 1891 dovette rivolgersi a Lord Kelvin per pubblicare su Nature le prime misure di tensione superficiale fatte con l’antenato del trough di Langmuir e degne di questo nome (Fig. 1). Da allora ne è passata acqua sotto i ponti se per esempio oggi abbiamo come presidenti, attuale della Società Italiana di Fisica e prossima ventura di quella di Chimica, due donne.

Perché vi racconto questa storia? Perché anche  oggi abbiamo scienziati di indubbio valore, anche loro premi Nobel o comunque molto famosi, che però criticano alcuni dei risultati fondamentali della ricerca moderna; il 26 novembre 2014 per esempio Carlo Rubbia, Nobel per la Fisica nel 1984 per aver contribuito alla scoperta dei portatori della cosiddetta “interazione debole” e nominato successivamente Senatore a Vita della Repubblica, ha sostenuto in un intervento in Senato (http://www.senato. it/service/PDF/PDFServer/DF/309730.pdf) che

“Ai tempi dei Romani, ad esempio, Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani. Quindi, oggi gli elefanti non potrebbero attraversare la zona dove sono passati inizialmente. C’è stato il periodo, nel Medioevo, in cui si è verificata una piccola glaciazione; intorno all’anno 1000 c’è stato un aumento di temperatura simile a quello dei tempi dei Romani. Ricordiamo che ai tempi dei Romani la temperatura era più alta di quella di oggi; poi c’è stata una mini-glaciazione, durante il periodo del 1500-1600. Ad esempio, i Vichinghi hanno avuto degli enormi problemi di sopravvivenza a causa di questa miniglaciazione, che si è sviluppata con cambiamenti di temperatura sostanziali.”

Ora a parte le testimonianze di livello liceale di Polibio e Livio sulla neve incontrata da Annibale sulle Alpi, i dati climatologici (fra gli altri la famosa mummia del Similaun o i dati glaciologici di Gabrielli) raccontano storie del tutto diverse. La temperatura al tempo dei Romani non era assolutamente maggiore che nel nostro periodo, anzi era inferiore (un solo elefante dei 37 di Annibale sopravvisse all’inverno padano) ma soprattutto il periodo caldo medioevale e la cosiddetta piccola età glaciale difficilmente avrebbero potuto dare fastidio ai Vichinghi, la cui epopea si situa tutta fra l’800 e il 1066 [U. Büntgen et al., 2500 Years of European Climate Variability and Human Susceptibility, Science, 2011, 331, 579] (Fig. 2).

Dice ancora Rubbia “Vorrei ricordare ad esempio- chiedo al Ministro conferma di questo - che dal 2000 al 2014, la temperatura della Terra non è aumentata: essa è diminuita di -0,2 °C e noi non abbiamo osservato negli ultimi 15 anni alcun cambiamento climatico di una certa dimensione. Questo è un fatto di cui tutti voi dovete rendervi conto, perché non siamo di fronte ad un’esplosione esplosiva della temperatura: la temperatura è montata fino al 2000: da quel momento siamo rimasti costanti, anzi siamo scesi di 0,2 °C. È giusto, Ministro?”.

Nessun climatologo si arrischierebbe a definire “climatico” un trend di soli 14 anni, per altro riportato in modo sbagliato: la temperatura media della Terra, secondo i dati più accettati (http://data.giss.nasa.gov/gistemp/graphs_v3/Fig.A.txt) nel 2000 era superiore di 0,57 °C alla media 1951-1980 mentre nel 2014 lo era di 0,89 °C, ossia 0,32 °C IN PIÙ.

Rubbia non è un caso isolato; sono sulla stessa linea parecchi colleghi fisici o chimici famosi, alcuni dei quali scrivono comunemente su questa rivista; ma anche la presidente della SIF, Luisa Cifarelli, allieva di Zichichi, che recentemente si è rifiutata di sottoscrivere un documento che dichiarava che è certo che l’umanità abbia un effetto sul clima e che è estremamente probabile che sia essa all’origine dell’attuale riscaldamento globale. Ora, mi dirà qualcuno che conosco, dove è la differenza fra il diritto di Ostwald di rifiutare la teoria atomica e quello della Cifarelli di rifiutare la teoria climatologica attuale o di Rubbia di stravolgere la storia del clima?

Beh, è presto detto. Ostwald era uno dei protagonisti della chimica e della fisica della sua epoca, era uno che pubblicava cose che sono rimaste dopo più di 100 anni proprio nel settore in cui esprimeva poi dissenso e la scienza del primo Novecento viveva grandi contrasti. Oggi, viceversa, non ci sono climatologi attivi che neghino l’evidenza del ruolo umano sul clima o che neghino almeno la possibilità che il ruolo dell’uomo sia decisivo; viceversa nessuno dei colleghi italiani che negano tale ruolo pubblica attivamente nel settore climatologico; anzi, a dire il vero, la cultura italiana del settore è abbastanza indietro; basti pensare che in Italia, unico Paese in Europa, non c’è una laurea in meteorologia o in climatologia, le previsioni e perfino i dati meteo passano ancora obbligatoriamente per l’aeronautica militare; si tratta di una situazione di arretratezza culturale che si paga duramente e che è alla base di polemiche così prive di fondamento.

Anche noi chimici non abbiamo fatto un gran figurone sul tema della COP21 durante la sua preparazione; comunque la SCI nel Consiglio Direttivo del 12 dicembre ha deliberato di costituire un gruppo di lavoro allo scopo di redigere un documento sul tema dei cambiamenti climatici che possa rappresentare la posizione ufficiale della SCI.

E questa decisione mi fa piacere! In attesa di leggere il documento, voi che ne pensate?

La caduta dell'Impero Romano d'Occidente: un effetto del cambiamento climatico?

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Immagine dall'articolo di Buentgen et al., pubblicato su  "Nature Geoscience" l'8 febbraio 2016. Le curve rosse sono i cambiamenti di temperatura ricostruiti dagli anelli degli alberi nell'Altai russo (curva in alto) e della Alpi europee (curva in basso). Osservate il notevole crollo delle temperature che ha avuto luogo a partire dal sesto secolo D.C.. Ma, a quel punto, l'Impero Romano d'Occidente è bello che andato. Il suo collasso NON è stato causato dal cambiamento climatico. 

Il rapporto fra clima e collasso delle civiltà è un tema molto discusso. Dal recente collasso dello stato Siriano a quello molto più antico della civiltà dell'Età del Bronzo, i cambiamenti climatici sono stati visti come i colpevoli di diversi disastri successi alle società umane. Tuttavia, un punto di vista alternativo del collasso della società lo vede come il risultato naturale (“sistemico”) dei ritorni decrescenti che una società ottiene dalle risorse che sfrutta. E' il concetto definito “ritorni decrescenti della complessità” da Joseph A. Tainter. Su questo punto, potremmo dire che potrebbero benissimo esserci diverse cause del collasso di una società. Cambiamento climatico ed esaurimento delle risorse possono indebolire sufficientemente le strutture di controllo di qualsiasi civiltà da piegarla e farla scomparire. Nel caso dell'Impero Romano d'Occidente, tuttavia, i dati pubblicati da Buentgen et al. confermano totalmente l'interpretazione di Tainter del collasso dell'Impero Romano: è stato un collasso sistemico, NON è stato causato dal cambiamento climatico.

domenica 28 febbraio 2016

Riforestare contro il riscaldamento globale? Come sempre, i sistemi complessi ti prendono di sorpresa

Da “Reuters”, Traduzione di MR (via Alexander Ač)

Di Alister Doyle


Due persone camminano lungo una foresta mentre il sole splende oltre la nebbia vicino la passo montano di Albis, in Svizzera, lo scorso 12 novembre 2015. REUTERS/ARND WIEGMANN/FILES

Questo articolo potrebbe essere facilmente capito male. Non va inteso nel senso che riforestare il pianeta fa danni, ma piuttosto che, come tutte le cose che si fanno con un sistema complesso, i risultati possono essere il contrario di quello che uno si aspetterebbe. In sostanza, lo studio dice che la quantità di CO2 che si può assorbire per riforestazione è piccola in confronto alla quantità emessa dalla combustione dei fossili. E che questo modesto risultato può facilmente essere annullato dall'effetto del colore scuro delle foreste. Particolarmente interessante è il risultato che il passaggio da foreste "naturali" a foreste "gestite" causa la rimozione e la combustione di una gran quantità di legna secca dai boschi che agiva prima come riserva di carbonio e che invece va a finire nell'atmosfera come CO2. Alla faccia della biomassa intesa come una tecnologia benigna per l'ambiente! Insomma, leggetevi questo articolo di Reuters, ma, se avete tempo, date un'occhiata all'articolo originale potete trovare a questo link. E' veramente molto interessante (UB)


Un'espansione delle foreste di conifere verde scuro ha alimentato il riscaldamento globale, secondo uno studio pubblicato giovedì che contrasta con un punto di vista diffuso secondo il quale piantare alberi aiuterebbe i tentativi umani di rallentare l'aumento delle temperature. I cambiamenti delle foreste hanno spinto verso l'alto le temperature estive europee fino a 0,12°C dal 1750, in gran parte perché molte nazioni hanno piantato conifere come pini ed abeti il cui colore scuro intrappola il calore del sole, hanno detto gli scienziati. Gli alberi latifoglie di colore più chiaro, come le querce e le betulle, riflettono più raggi del sole verso lo spazio, ma hanno perso terreno a favore delle conifere che crescono rapidamente, usate per tutto, dai materiali di costruzione alla pasta di legno. In generale, l'area boschiva europea si è estesa del 10% dal 1750. “Due secoli e mezzo di gestione forestale in Europa non hanno rinfrescato il clima”, ha scritto la squadra condotta dal France's Laboratoire des Sciences du Climat et de l'Environnement sulla rivista Science. I ricercatori hanno detto che i cambiamenti nella composizione delle foreste europee ha sopravvalutato il ruolo degli alberi nel frenare il riscaldamento globale. Gli alberi assorbono biossido di carbonio, il principale gas serra proveniente dai combustibili fossili, dall'aria man mano che crescono. “Non si tratta solo di carbonio”, ha detto alla Reuters l'autrice principale Kim Naudts, dicendo che le politiche governative per favorire le foreste dovrebbero essere ripensate per tenere conto di fattori come il colore ed i cambiamenti di umidità nei suoli.

Un accordo di Parigi fra 195 nazioni a dicembre, inteso come punto di svolta dai combustibili fossili, promuove le foreste per aiutare a limitare un aumento delle temperature, incolpate di causare più alluvioni, ondate di calore ed aumento dei livelli del mare. Le temperature medie mondiali sono aumentate di 0,9°C dall'inizio della Rivoluzione Industriale. Dal 1750, le foreste europee hanno guadagnato 196.000 kmq – un'area più grande della Grecia – per raggiungere i 2,13 milioni di kmq nel 2010, ha detto lo studio. Nello stesso periodo, le foreste di conifere si sono estese di 633.000 kmq, mentre le foreste di latifoglie si sono ridotte di 436.000 kmq. In quel periodo, gli europei hanno raccolto sempre più legno dalle foreste, riducendo il loro ruolo nello stoccaggio del carbonio. Lo studio uscito giovedì era limitato all'Europa ma ha detto che effetti analoghi sono probabili in altre parti del mondo con grandi programmi di riforestazione come Cina, stati Uniti e Russia. Un altro studio di Science, condotto da esperti di un centro di ricerca della Commissione Europea dell'Ispra, in Italia, hanno anche collegato una perdita di foreste in tutto il mondo ad un aumento medio e massimo delle temperature, specialmente in regioni aride e tropicali.


sabato 27 febbraio 2016

La sinistra di fronte al collasso della civiltà

Nota: in questo elenco su come prepararsi ad un futuro postpetrolio mancano molte cose, in particolar modo l'implementazione di una rete di energie rinnovabili che faccia da cuscinetto nel passaggio da una società industrializzata in ogni suo aspetto ad una che, in un prevedibile futuro, potrebbe essere anche completamente deindustrializzata o ad una con una struttura industriale molto ridotta. E non si fa accenno al problema climatico e a quello dell'eccessiva popolazione, per esempio. Tuttavia l'elenco, pur parziale, potrebbe servire come base di discussione su quanto le amministrazioni pubbliche ed i governi potrebbero (e dovrebbero) fare per favorire la transizione. Spesso chiediamo cose ai governi/amministrazioni e lo facciamo con atteggiamenti rivendicativi, ma sono persuaso che nemmeno noi, "la gente", abbiamo le idee poi così chiare. Aggiungete i vostri punti/suggerimenti fra i commenti, magari questo potrebbe essere un primo tentativo di visualizzazione collettiva di quanto ci serve per il futuro. Buona lettura. Massimiliano.

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Cari lettori,

per i lettori di questo blog che vivono in Galizia, da quelle parti sapranno già della recente pubblicazione del libro “A esquerda ante o colapso da civilización industrial – La sinistra di fronte al collasso della civiltà industriale”, un saggio di Manuel Casal Lodeiro, attivista e mebro attivo di un'associazione molto conosciuta in queste pagine, Véspera de nada. Inoltre, Manuel è anche il coordinatore della rivista post-collassista “per una nuova civiltà” 15/15\15.


"A esquerda ante o colapso da civilización industrial” è, in un certo senso, la continuazione della “Guida per la discesa energetica” che ha pubblicato Véspera de nada due anni fa, ma in questo caso il libro è concentrato direttamente sul terreno politico. Come sta reagendo la sinistra di fronte al collasso che sta cominciando? Come, e perché, dovrebbe reagire? Queste sono le domande alle quali cerca di rispondere l'autore, soffermandosi soprattutto sul panorama politico galiziano, ma guardando anche la Catalogna, i Paesi Baschi e il resto dello stato spagnolo o persino alla Grecia di Syriza. Il libro offre alcuni materiali aggiuntivi sotto forma di allegato che sono particolarmente interessanti. Uno di questi consiste in un gruppo di misure che qualsiasi governo dovrebbe affrontare per cominciare la “transizione” necessaria verso un mondo in declino energetico e che Pau Valverde Ferreiro, uno dei lettori-mecenati del libro, ha tradotto in castigliano per ampliarne la diffusione. Mentre attendiamo l'edizione spagnola di “La sinistra...” (che proprio adesso è in discussione, anche quella portoghese), d'accordo con Manuel abbiamo deciso di condividere l'allegato da questo blog. Allo stesso tempo, vi invitiamo a conoscere gli altri contenuti che l'autore sta pubblicando nel sito web esquerda.colapso.info.

Saluti.
AMT

venerdì 26 febbraio 2016

Lupi, mannari ed il vangelo di Filippo


Di Jacopo Simonetta.

In questi giorni sta circolando una petizione in favore dei lupi, forse mille in tutta Italia, ma c'è chi dice che siano troppi.   Forse lo stato, le regioni ed i bracconieri riusciranno a distruggere i lupi, ma non sono qualche centinaio di cani selvatici a minacciare la nostra civiltà, bensì quasi 8 miliardi di esseri umani.   E’ così difficile da capire?   Pare di si.

In un Appennino in cui oramai tutti si lamentano, talvolta a proposito, dei troppi cinghiali e dei troppi caprioli, il lupo dovrebbe essere il beniamino di tutti.   Magari non dei pastori, ma certamente dei cacciatori e degli agricoltori.   E invece no.   Perché?

Forse lo possiamo capire considerando che quello materiale è solo uno dei molti piani di realtà in cui ci muoviamo.   Un altro è quello dei simboli ed è proprio qui che troviamo importanti tracce di lupo.   Il significato simbolico non è intrinseco, siamo noi che lo elaboriamo e lo attribuiamo a qualcosa.   Ma una volta creato, il simbolo esiste ed esercita un effetto potentissimo sulla realtà materiale, come testimoniato dai milioni di soldati morti seguendo una bandiera.   Oppure dai forse cento lupi annualmente uccisi perlopiù da gente che avrebbe tutto l’interesse a proteggerli.

Dunque la spiegazione di questa assurdità va cercata lontano dai testi di biologia; magari nelle favole di Esopo e di Fedro, dove i lupi non fanno mai bella figura.   Il lupo travestito da pecora, il lupo ladro ed assassino sono parte integrante della cultura dei popoli pastori.  Per questo il Cristianesimo, nato fra i pastori, basò da subito la sua narrativa sui simboli della pecorella smarrita e del Buon Pastore. Necessariamente il lupo doveva impersonare stupida ferocia, inganno e prevaricazione.

Più tardi, man mano che il nostro controllo sul mondo cresceva, il lupo è finito col diventare simbolo delle forze indomite della Natura, contrapposte alla nostra volontà ed al nostro diritto di controllo universale.

E’ di questi fantasmi che discute la conferenza stato-regione, non di gestione faunistica.   Ma anche coloro che si indignano per questo assurdo avvertono urgente il bisogno di difendere un simbolo, ancor prima di una sana gestione ambientale.   Un simbolo di cui troviamo traccia nella tradizione medioevale.

Tutti conoscono la leggenda di S. Francesco, che assai poco ha a che fare con questa storia.   Pochi invece conoscono quella di S. Galgano nel cui santuario ancora oggi sono conservate le ossa dei suoi nemici, sbranati dai lupi che proteggevano il santo.   Una traccia tenue, ma che ritroviamo nella letteratura dell’epoca e, secoli dopo, nei verbali dell’inquisizione.   Testi che certificano un rapporto molto profondo e complesso delle popolazioni rurali con questo animale e con la sua “elevazione a potenza”: il Lupo Mannaro.    Perlomeno in Europa occidentale, i Mannari erano uomini con il potere di trasformarsi in lupi e di andare in tal forma fino all'inferno a combattere contro il Diavolo per recuperare le promesse di raccolto che il Maligno rubava dai campi.   Se vincevano i lupi il raccolto era buono, se invece venivano sconfitti la carestia avrebbe colpito la regione.   Dunque dei difensori, ma come spesso accade ai difensori, anche dei predatori.   Durante le loro scorribande in cerca del Nemico, i mannari avevano infatti fame e divoravano qualunque animale gli si parasse dinnanzi: porco, vacca o uomo che fosse.

Quello che qui preme notare è che in questo contesto il Lupo è simbolo di una forza indispensabile alla vita umana, ma anche pericolosa ed alla quale è dovuto un tributo di sangue.   Erano lupi e corvi che seguivano Wotan nei suoi viaggi e tutta la tradizione indoeuropea è intrisa del concetto che gli Dei sono qualcosa al di sopra e al di fuori di ogni ragione o morale umana.   Elargiscono doni e protezione, ma anche uccidono e distruggono senza che noi possano capire, tanto meno esercitare un controllo sul loro operato.

Il ritorno dei lupi sulle montagne dove erano stati sterminati cento anni fa ridesta oggi un atavico scontro fra due diverse concezioni dell’uomo e del suo ruolo.   Cioè se ha il diritto di dominare il mondo, oppure il dovere di rispettare la Natura e le sue leggi.

Cosa c’entra tutto ciò con il Vangelo di Filippo?  Questa massima:

“La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta abbigliata di simboli ed immagini.”

Bentornati Lupi, simbolici e materiali.