mercoledì 12 ottobre 2011

La maledizione di Cassandra: come sono stati demonizzati “I Limiti dello Sviluppo”

 

Come parte di una mini-serie sui “Limiti dello Sviluppo” (i post precedenti qui , qui e qui ) ripropongo (con qualche lieve modifica) un post che ho pubblicato su “The Oil Drum” nel marzo 2008. Sopra: un'immagine da un vaso rosso di Atene del quinto secolo avanti Cristo dove vediamo la profetessa Cassandra mentre cade vittima del normale destino di coloro che dicono verità scomode. (Traduzione dall'inglese di Massimiliano Rupalti)


Nel 1972, lo studio “I Limiti dello Sviluppo” è arrivato in un mondo che aveva conosciuto più di due decenni di crescita ininterrotta dopo la fine della seconda guerra mondiale. Era un periodo di ottimismo e fede nel progresso tecnologico che, forse, non è mai stato così forte nella storia dell'umanità. Con l'energia nucleare in espansione, senza nessun segno di scarsità delle risorse minerali e con la popolazione in crescita rapida, sembrava che i limiti dello sviluppo, se mai fossero esistiti, erano così lontani nel futuro che non c'era alcun motivo di preoccuparsene. E, anche se questi limiti erano più vicini di quanto si credesse generalmente, non avevamo forse la tecnologia che ci avrebbe salvati? Se potevamo raggiungere la Luna, come abbiamo fatto nel 1968, quale problema potevano essere inezie come l'esaurimento delle risorse e l'inquinamento? Il futuro non poteva che essere per sempre splendente.

In contrasto con questo sentimento generale, i risultati de “I Limiti dello Sviluppo” sono stati uno shock. Il futuro non era affatto splendente come si riteneva. Gli autori avevano sviluppato un modello che poteva tener conto di un grande numero di variabili e delle loro interazioni quando il sistema cambiava con il tempo. Scoprirono che l'economia mondiale tendeva al collasso per il 21° secolo. Il collasso era causato da una combinazione di esaurimento di risorse, sovrappopolazione e crescente inquinamento (quest'ultimo elemento lo possiamo oggi vedere in relazione al riscaldamento globale). Solo misure specifiche volte ad arginare la crescita e a limitare la popolazione potevano evitare il collasso.

C'è una leggenda persistente sul primo libro dei “Limiti” che vuole che sia stato ridicolizzato come un'ovvia ciarlataneria subito dopo la sua pubblicazione. Non è vero. Lo studio è stato dibattuto e criticato, com'è normale per una nuova teoria o idea. Ma provocò un'enorme interesse e ne sono state vendute milioni di copie. Evidentemente, nonostante il generale ottimismo del tempo, lo studio aveva dato visibilità ad un sentire che non veniva espresso spesso ma che era nella mente di tutti. Possiamo veramente crescere per sempre? E se non possiamo, quanto a lungo durerà la crescita? Lo studio forniva una risposta a queste domande; una risposta non piacevole, ma tuttavia una risposta.

Lo studio I Limiti dello Sviluppo aveva tutto il necessario per diventare un grande passo avanti nella scienza. Proveniva da un'istituzione prestigiosa come l'MIT; era sponsorizzata da un gruppo di intellettuali influenti e brillanti, il Club di Roma; usava le più moderne ed avanzate tecniche di computazione e, infine, gli eventi che hanno avuto luogo pochi anni dopo la pubblicazione, la grande crisi petrolifera degli anni 70, sembravano confermare la visione degli autori. Tuttavia, lo studio non generò ulteriori ricerche e, un paio di decenni dopo la pubblicazione, l'opinione generale sul libro era completamente cambiata. Lontano dall'essere considerato la rivoluzione scientifica del secolo, negli anni 90 i Limiti dello Sviluppo erano diventati lo zimbello di tutti: niente di più che il ruminare di un gruppo di eccentrici (e probabilmente un po' toccati) professori che avevano realmente pensato che la fine del mondo fosse vicina. Per farla breve, dei menagramo con un computer.

Il rovesciarsi delle fortune de “I Limiti dello Sviluppo” è stato graduale ed ha innescato un dibattito durato decenni. All'inizio, i critici reagirono con poco più che una serie di dichiarazioni di discredito. Solo pochi scritti iniziali hanno portato le critiche ad un livello più profondo, in particolare da William Nordhaus e da un gruppo di ricercatori dell'università del Sussex che andava sotto il nome di “Gruppo del Sussex” (Cole, 1973). Entrambi gli studi hanno sollevato un numero di punti interessanti ma hanno fallito nel loro tentativo di dimostrare che lo studio dei Limiti fosse viziato nei suoi presupposti di base. Già questi primi testi di Nordhaus e del Gruppo del Sussex, mostravano una vena di astio che è diventata comune nel dibattito da parte dei critici. Le critiche politiche, gli attacchi personali e gli insulti, così come la rottura delle regole di base del dibattito scientifico. Per esempio, l'editore della rivista che aveva pubblicato il saggio di Nordhaus che attaccava i “Limiti”, rifiutò di pubblicare una smentita.

Col tempo, il dibattito sul libro virava sempre di più su un piano politico, Nel 1997, l'economista italiano Giorgio Nebbia notava che la reazione contro lo studio stava arrivando da almeno quattro fronti diversi. Uno era costituito da coloro che vedevano il libro come una minaccia alla crescita dei loro affari e industrie. Un secondo da economisti professionisti, che lo vedevano come minaccia al loro predominio come consulenti in materie economiche. La Chiesa Cattolica forniva ulteriori munizioni ai critici, essendo colpita dalla conclusione che la sovrappopolazione era una delle maggiori cause dei problemi. Poi la sinistra politica, nel mondo occidentale, vedeva lo studio come una truffa della classe dominante, progettata per fregare i lavoratori facendo loro credere che il paradiso proletario non era un obbiettivo pratico. E questa è chiaramente un lista incompleta; dimentica la destra politica, coloro che credono in una crescita infinita, politici in cerca di soluzioni facili a tutti i problemi e molti altri. Tutti insieme, questi gruppi hanno costituito una coalizione formidabile che ha garantito una forte reazione contro lo studio dei Limiti dello Sviluppo. Questa reazione alla fine è riuscita a demolire lo studio agli occhi della maggioranza del pubblico e degli specialisti allo stesso tempo.

La caduta dei Limiti dello Sviluppo è stata grandemente aiutata da un fattore che inizialmente aveva rafforzato la credibilità dello studio: la crisi petrolifera mondiale degli anni 70. La crisi ha raggiunto il picco nel 1979 ma, negli anni seguenti, nuove risorse petrolifere cominciavano a fluire abbondantemente dal Mare del Nord e dall'Arabia Saudita. Con i prezzi del petrolio che precipitavano, a molti è sembrato che la crisi fosse stata nient'altro che un imbroglio; il tentativo fallito di un gruppo di sceicchi fanatici di dominare il mondo usando il petrolio come arma. Il petrolio, sembrava, era, ed era sempre stato, abbondante ed era destinato a rimanere tale per sempre. Con il collasso dell'Unione Sovietica nel 1991 e l'apparire della “New Economy”, tutte le preoccupazioni sembravano essere finite. La storia era finita, e tutto quello che avevamo bisogno di fare era di rilassarci e di godere i frutti che la nostra scienza e la nostra tecnologia ci stavano fornendo.

A questo punto, un effetto perverso ha cominciato ad operare nella mente della gente. Nei tardi anni 80, tutto ciò che ci si ricordava del libro dei Limiti dello Sviluppo, pubblicato quasi due decenni prima, era che avesse predetto una qualche catastrofe in qualche momento nel futuro. Se la crisi petrolifera mondiale dovesse essere quella catastrofe, come era sembrato a molti, il fatto che questa fosse terminata era la confutazione della predizione stessa. Questo fattore ha avuto un grande effetto nella percezione della gente.

Il cambiamento dell'atteggiamento è stato graduale ed è durato qualche anno, ma possiamo probabilmente identificare una data ed un autore come vero punto di svolta. E' accaduto nel 1989, quando Ronald Bailey, editore scientifico del magazine Forbes, pubblicava un attacco sarcastico (Bailey 1989) contro Jay Forrester, il padre della Dinamica dei Sistemi, il metodo usato nello studio dei Limiti. L'attacco è stato diretto anche al libro che, diceva Bailey, era “tanto pervicace quanto è possibile esserlo”. Per provare il suo punto di vista, Bailey riprese un'osservazione che era già stata fatta da un gruppo di economisti sul “New York Times” (Passel 1972). Bailey diceva che: “I Limiti dello Sviluppo” predicevano che ai tassi di crescita del 1972 il mondo avrebbe finito l'oro nel 1981, il mercurio nel 1985, lo stagno nel 1987, lo zinco nel 1990, il petrolio nel 1992il rame, il piombo ed il gas naturale nel 1993”.

Nel 1993 Bailey ha ripetuto le sue accuse nel libro intitolato “Ecoscam” (Ecotruffe). Questa volta era in grado di sostenere che nessuna predizione dello studio dei Limiti è risultata essere corretta.
Naturalmente, le accuse di Bailey sono semplicemente sbagliate. Quello che aveva fatto è stato di estrapolare un frammento dal testo del libro e criticarlo fuori contesto. Nella tavola 4 del secondo capitolo del libro, aveva trovato una serie di dati (colonna 2) sulla durata, espressa in anni, di alcune risorse minerali. Ha presentato quei dati come le sole “predizioni” che lo studio avesse fatto ed ha basato le sue critiche su questo, ignorando completamente il resto del libro.

Ridurre un libro di oltre cento pagine a pochi numeri non è il solo errore delle critiche di Bailey. Il fatto è che nessuno di questi numeri che ha selezionato erano una predizione e da nessuna parte nel libro si sosteneva che questi numeri fossero da leggersi come tali. La tavola 4 era lì solo per illustrare l'effetto di un'ipotetica continua crescita esponenziale nello sfruttamento delle risorse minerali. Anche senza preoccuparsi di leggere l'intero libro, il testo del capitolo 2 affermava chiaramente che una crescita esponenziale continuata non era una cosa che ci si aspettava. Il resto del libro, poi, mostrava vari scenari di collasso economico che in nessun caso si sarebbero verificati prima dei primi decenni del 21° secolo.

Sarebbe bastato un piccolo sforzo per smascherare le dichiarazioni di Bailey. Ma sembrava che, nonostante i milioni di copie vendute, tutti i “Limiti dello Sviluppo” fossero finiti nel bidone della spazzatura. Le critiche di Bailey hanno avuto successo ed hanno cominciato a comportarsi con tutte le caratteristiche proprie a quelle che oggi definiamo “Leggende Metropolitane”.

Tutti sappiamo quanto possano essere persistenti le leggende metropolitane, non importa quanto siano sciocche. Al tempo dell'articolo di Bailey, Internet come la conosciamo non esisteva ancora, ma il passaparola e la stampa sono state sufficienti a diffondere e moltiplicare la storia delle “predizioni sbagliate”. Tanto per fare un esempio, vediamo come il testo di Bailey è persino arrivato alla letteratura scientifica. Nel 1993, William Nordhaus ha pubblicato un saggio intitolato “Modelli Letali” che intendeva rispondere alla seconda versione dei “Limiti”, pubblicata nel 1992 con il titolo “Oltre i Limiti”. Il saggio di Nordhaus era accompagnato da una serie di testi di vari autori raggruppati sotto il titolo di “Commenti e Discussioni”. Una definizione migliore di quella sezione sarebbe stata “alimentare il furore”, come la critica di questo gruppo di economisti accademici chiaramente andati fuori controllo. Fra questi testi, ne troviamo uno di Robert Stavings, un economista dell'Università di Harvard, dove possiamo leggere questo: "Se controlliamo oggi come le predizioni del primo Limiti si sono rivelate, apprendiamo che (secondo le loro stime) oro, argento, mercurio, zinco e piombo dovrebbero essere completamente esauriti ed il gas naturale finire entro i prossimi otto anni. Naturalmente, questo non è accaduto”. Tutto questo, ovviamente, è preso direttamente dal saggio di Bailey su Forbes. Apparentemente, l'eccitazione di una sessione di “Tiro ai Limiti” ha portato Stavings a dimenticare che è dovere di ogni scienziato serio controllare l'affidabilità delle fonti che cita.

Sfortunatamente, con questo saggio di Nordhaus, la leggenda delle “predizioni sbagliate” è stata consacrata anche in una seria rivista scientifica. Con gli anni 90, ed in particolare con lo sviluppo di Internet, la diga è crollata ed una vera alluvione di critiche ha sommerso il libro ed i suoi autori. Uno dopo l'altro scienziati, giornalisti e chiunque si sentisse titolato nel trattare l'argomento, hanno cominciato a ripetere la stessa cosa più e più volte: lo studio dei “Limiti dello Sviluppo” ha predetto una catastrofe che non è avvenuta e per questo tutta l'idea era sbagliata. Dopo un po', il concetto di “predizione sbagliata” è diventato così diffuso che non era più necessario argomentare nei dettagli quali fossero queste predizioni sbagliate. Le critiche potevano anche essere grottesche, come quando gli autori sono stati accusati di far parte di una cospirazione progettata per creare “una sorta di fanatica dittatura militare” (Gloub e Townsens, 1977) o aggressive, come quando qualcuno ha dichiarato che gli autori del libro avrebbero dovuto essere uccisi, fatti a pezzi e i loro organi spediti alle banche degli organi. Oggi possiamo trovare la leggenda di Bailey ripetuta su Internet migliaia di volte in varie forme. A volte è proprio lo stesso testo, copincollato così com'è; altre volte è solo leggermente modificato.

A questo punto, ci potremmo chiedere se questa onda di calunnie è nata spontaneamente, come risultato del normale meccanismo delle leggende metropolitane, oppure è stata guidata da qualcuno. Possiamo pensare ad una cospirazione organizzata contro gli autori dei Limiti o contro i loro sponsor, il Club di Roma? Su questo punto possiamo cercare un'analogia con un caso precedente; quello di Rachel Carson, famosa per il suo libro del 1962 “Primavera Silenziosa”, in cui criticava l'abuso di DDT ed altri pesticidi. Anche il libro della Carson è stato fortemente criticato e demonizzato. Kimm Groshong ha rivisto la storia e ci dice, nel suo studio del 2002 che:

I verbali di un incontro della Manufacturing Chemists' Association, Inc. dell'8 maggio 1962,
mostrano questa posizione curiosa. Discutendo la questione di cosa era scritto nella
serializzazione della Carson sul New Yorker, le note ufficiali riportano: ' L'Associazione tiene
in seria considerazione la questione ed un incontro del Comitato per la Pubbliche Relazioni ha
programmato per il 10 Agosto di discutere misure che dovrebbero essere prese per riportare la
questione nella giusta prospettiva agli occhi del pubblico “.

Se possiamo chiamare questo “cospirazione” è discutibile, ma è chiaro che c'è stato uno sforzo organizzato da parte dell'industria chimica contro le idee di Rachel Carson. Per analogia, potremmo pensare che, in qualche stanza fumosa, i rappresentanti dell'industria mondiale si siano riuniti nei primi anni 70 per decidere quali misure prendere contro i Limiti dello Sviluppo in modo da “riportare la questione nella giusta prospettiva agli occhi del pubblico”. La storia recente della campagna contro la scienza del clima, come raccontato da Hoggan e Littlemore (2010) e da Oreskes e Conway (2010), ci dice che questo genere di cose sono accadute ed accadono ancora. Non abbiamo dati che indichino che qualcosa del genere è accaduto per “I Limiti dello sviluppo”, ma potrebbe essere proprio così. E' chiaro, comunque, che le tecniche di propaganda funzionano, perché giocano sulle naturali tendenze della mente umana. L'articolo del 1989 di Ronald Bailey ed altri attacchi non erano altro che catalizzatori che hanno scatenato la nostra tendenza a credere a ciò che vogliamo credere e a non credere a ciò che non vogliamo credere. Non ci piacciono le verità scomode.

Ora, nei primi anni del 21° secolo, sembra che l'attitudine generale nei confronti dei concetti di “Limiti” stia di nuovo cambiando. La guerra, dopo tutto, è vinta da chi vince l'ultima battaglia. Uno dei primi casi di rivalutazione dello studio dei Limiti è stato quello di Matthew Simmons (2000), esperto di risorse di petrolio greggio. Sembra che il “movimento del picco del petrolio” sia stato strumentale nel riportare l'attenzione sullo studio dei Limiti (Bardi 2008). Anche gli studi sul clima hanno riportato i limiti delle risorse all'attenzione; in questo caso intesi come la capacità limitata dell'atmosfera di assorbire i prodotti delle attività umane.

Ma non è scontato che una certa visione del mondo, una che tenga in considerazione la quantità finita di risorse, stia diventando prevalente o anche solo rispettabile. Il successo della campagna denigratoria degli anni 80 mostra il potere della propaganda e delle leggende metropolitane nel formare la percezione del mondo da parte della gente, sfruttando l'innata tendenza di rifiutare le cattive notizie. A causa della nostra tendenza a non credere alle cattive notizie, abbiamo scelto di ignorare gli avvertimenti di un collasso imminente che viene dallo studio dei Limiti. Facendo questo, abbiamo perso più di trenta anni. Oggi, stiamo ignorando gli avvertimenti che giungono dalla scienza del clima e potremmo fare un errore anche peggiore. Ci sono segni che fanno pensare che potremmo cominciare a considerare questi avvertimenti, ma facciamo ancora troppo poco e troppo tardi. La maledizione di Cassandra è ancora su di noi.

Per saperne di più su questo tema, potete leggere il mio libro "The Limits to Growth Revisited"



Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti

sabato 8 ottobre 2011

Il perché di tanto spreco

Di Antonio Turiel

(Pubblicato il 20 Settembre su "The Oil Crash")



Guest post di Antonio Turiel - Traduzione dallo  spagnolo di Massimiliano Rupalti

Cari lettori,

c'è un argomento ricorrente nelle ultime discussioni ed ha a che fare con la possibilità di mantenere una società stabile e vivibile diminuendo volontariamente i consumi. Una tale affermazione è innegabilmente certa: dico sempre che è ridicolo parlare di scarsità di energia mentre nel mondo si consumano 85 milioni di barili al giorno di petrolio da 159 litri ciascuno; pensateci, sono più di 156.000 litri al secondo in tutto il pianeta e ciascun litro di questo magico elisir contiene la stessa energia che un uomo sano e forte (circa 100 watt di potenza media) potrebbe produrre lavorando senza sosta per quasi 4 giorni e mezzo (per circa 106 ore). 

Insomma, il mostruoso flusso di energia che arriva solo dal petrolio nel pianeta equivale al lavoro quotidiano di 60 miliardi di nerboruti schiavi energetici di quelli da 100 watt per unità: 8 e mezzo per ogni abitante di questo pianeta e questo solo di petrolio (dato che il consumo globale di energia primaria è di 14 Tw di media mondiale, contando tutte le fonti è di 20 schiavi energetici a persona; la media europea arriva a 45 schiavi energetici a testa, mentre negli Stati Uniti la media fa 120). Giudicate Voi, ora, se si può parlare di scarsità di energia con questi numeri, soprattutto tenendo conto di come si spreca l'energia.

E comunque si sta verificando una situazione di scarsità. Questa scarsità non è tecnica, come tante volte si è discusso nel blog, né è materiale (perché anche se in futuro ci sarà meno energia ne abbiamo così tanta che potremmo gestire una lenta discesa fino ad arrivare ad una stabile base rinnovabile; con un consumo di uno o due ordini di grandezza inferiori di quello attuale, quello sì). Il problema della scarsità viene dal fatto che energia ed economia sono intimamente legate, e pretendere di vedere le due variabili separatamente, fino al punto di cercare di risolvere i due problemi uno indipendentemente dall'altro, impedisce di vedere la profondità dell'abisso al quale, come società globalizzata (e non solo occidentale) stiamo arrivando.

Nell'articolo che segue spiegherò alcuni concetti che mostrano fino a che punto non possiamo scindere energia ed economia nella nostra società e come pretendere di risolvere il problema energetico, senza prima cambiare il sistema economico, sia un'impresa destinata inevitabilmente al fallimento. Non dimostrerò nulla in concreto né quantificherò in modo preciso il bilancio economico-energetico delle transazioni umane descritte; provo solo, per mezzo di alcuni casi ed esempi, a farvi comprendere quanto sia necessaria una trattazione olistica di questo argomento e come le tipiche soluzioni semplici di risparmio ed efficienza che si propongono, dai bar di paese alle più alte cariche dello Stato, peccano di una scarsa lungimiranza che le rende inutili, se non controproducenti, nella pratica.

Una prima questione di cui tenere conto, commentata di frequente in ambienti picchisti, è il Paradosso di Jevons. Per coloro che non conoscono la storia, William Stanley Jevons, lord inglese che è vissuto a cavallo fra due secoli, ha osservato che, nel 19° secolo, nella misura in cui si introducevano miglioramenti nelle macchine a vapore aumentandone l'efficienza, il consumo di carbone aumentava al posto di diminuire come si sperava accadesse. La ragione è che si produce ciò che in economia è chiamato effetto rimbalzo: se diminuisce il costo di un prodotto (costo in denaro o energia) senza modificare altri fattori, risulta che si stia dando un incentivo a consumare di più questo prodotto, se il suo maggior consumo ci da un vantaggio, cosicché con lo stesso reddito a disposizione possiamo consumare di più; peggio ancora, chi prima non poteva accedere a questo consumo perché aveva un reddito insufficiente, ora potrà farlo. Naturalmente l'effetto rimbalzo non è solito influenzare aree dove non c'è un guadagno reale per il maggior consumo del prodotto (per esempio, non è certo che se sostituiamo le lampadine con altre a maggior efficienza si stia creando
di per sé la tendenza a mettere più lampadine; se si compra di più è per altri motivi), però il rimbalzo è presente ed è molto determinante per l'acquisizione di beni di investimento destinati alla produzione di beni e servizi, vale a dire, alla attività economica. Si deve comprendere, pertanto, che il ripetuto richiamo al miglioramento dell'efficienza è controproducente se non è accompagnato da altre misure, perché al posto di stimolare a consumare meno, si stimola a consumare di più. Un esempio: se un'automobile consuma 20 litri per 100 chilometri e la benzina è cara, meno gente comprerà un'automobile, ma se la stessa automobile consumasse 5 litri ogni 100 chilometri, automaticamente una maggior quantità di gente considererà una buona idea comprarsi il veicolo. 

La realtà è piena di esempi simili in cui i miglioramenti nell'efficienza in generale (non solo energetica) e non solo degli elettrodomestici, ma dei mezzi di produzione, ha fatto esplodere il consumo di molti prodotti (chi pensava di comprasi un computer 30 anni fa?). Il problema è che le misure che dovrebbero accompagnare i miglioramenti nell'efficienza dovrebbero essere misure di pianificazione, di razionamento. Il problema del razionamento lo abbiamo già commentato su queste pagine: se si tenta di renderlo compatibile con un'economia di mercato, o anche in sua assenza, si dà origine ad un mercato nero che può destabilizzare il sistema favorendo la crescita di mafie che finiscono per fagocitare lo Stato, nei casi estremi. Eppure sapete già che il governo britannico, che sta prestando più attenzione di altri al problema del Picco del Petrolio, ha considerato la possibilità di introdurre dei protocolli di razionamento dell'energià. Sia come sia, l'efficienza ha senso solo se si limita l'accesso alle materie prime dall'alto e questo si sposa male con la nostra economia di libero mercato. Inoltre, l'aumento di efficienza implica una diminuzione del costo di produzione (costo energetico ed anche costo economico) così il valore del prodotto effettivamente non aumenta. Vale a dire, con una limitazione di accesso alle risorse al migliorare dell'efficienza, si forniscono più beni e servizi ma semplicemente perché il costo unitario (economico e di risorse) degli stessi diminuisce. Essenzialmente, un'economia del genere non cresce. E non crescere, ora lo vedremo, è un veleno per il nostro sistema economico.

Un'altra possibilità che viene solitamente commentata, ed è quella a cui si è abbonato il commentatore Dario Duarte su "The Oil Crash", è quella che con un'adeguata consapevolezza sociale si può risparmiare tantissimo e così posticipare il collasso mentre la società si adatta ad una nuova realtà di risorse materiali più scarse. Siamo tutti coscienti del fatto che nella nostra società occidentale si spreca tantissimo. Buttiamo il cibo in buono stato che serve solo ad ingrassare i parassiti delle discariche, usiamo l'acqua senza senso, cambiamo continuamente i nostri vestiti, il cellulare, l'automobile... in Spagna c'è stata un'epoca non tanto lontana in cui quasi ci eravamo abituati a cambiare casa di continuo.
Non abbiamo bisogno di tanto, senza dubbio. Probabilmente con la decima parte, anche la centesima parte di quello che abbiamo ora, potremmo avere una vita degna e funzionalmente molto simile a quella attuale. Risparmieremmo le risorse essenziali e sarebbe persino conveniente per noi costruire un sistema di energie rinnovabili su questa scala e, in quanto al resto delle materie prime, aggiunto alla decrescita del consumo, con il loro riciclaggio integrale potremmo posticipare i problemi di esaurimento di vari millenni, mentre apprendiamo a sintetizzare materiali efficaci dal carbonio e da altri atomi abbondanti. 

Insomma, è un sentiero chiaro e veloce verso la soluzione, per evitare con sicurezza qualsiasi rischio di degrado sociale e di caos. Ma, perché non lo seguiamo? Semplicemente, perché non possiamo. Non è possibile smettere di consumare a questo ritmo ed è necessario consumare a un ritmo crescente. E' una necessità del sistema finanziario. Senza questo consumo crescente una massa, che finirebbe per essere maggioritaria, si troverebbe senza lavoro e senza mezzi di sussistenza e, dato il modello del debito e della proprietà privata che abbiamo, senza una totale sovversione dell'ordine imperante, senza una rivoluzione con cui la gente prende con la forza le proprietà ed il potere, il destino di tutta questa gente è quello di agonizzare e morire. Può sembrare stupido, però di fatto è qualcosa che si è ripetuto nella storia dell'Umanità: Jared Diamond lo commenta nel suo libro “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”. Sappiamo che 26 antiche civiltà sono collassate perché non sono riuscite a trovare un modello alternativo per gestire le proprie risorse, in alcuni casi per mancanza di immaginazione per essersi chiuse nel proprio Business As Usual, il proprio BAU; morirono per la diminuzione delle risorse disponibili ma non per mancanza di risorse propriamente dette. Un caso paradigmatico è quello dei Maya dello Yucatàn, che si imbarcarono in una serie di guerre di dominio senza avere risorse sufficienti per sostenerle (fondamentalmente mais, nel loro caso) ed infine collassarono fino a scomparire da quelle terre anche se il territorio era ancora in grado di sostenere una popolazione simile a quella che ha collassato. E' che con la guerra si era consumato tutto il mais e si erano distrutte opere di irrigazione fondamentali per mantenere una buona produttività, di conseguenza i combattenti non sono riusciti ad arrivare al successivo, e più esiguo, raccolto. La nostra situazione è simile a quella dei Maya? Vediamo alcuni esempi illustrativi.

In una recente conferenza a Barbastro, un difensore delle soluzioni di stampo solo tecnologico al nostro problema di sostenibilità sosteneva che in Spagna ogni persona consuma in media 20 chili di vestiti ogni anno. Una quantità che considerava smisurata e se, invece di dedicare tante risorse materiali ed energetiche a questa produzione, una spesa ben frivola, si destinassero a preparare la transizione tutto sarebbe molto più facile. Tuttavia, colui che proponeva questa idea (simile, detto en passant, ad altre che centrano le loro critiche su altre attività più o meno crematistiche, che sono la regola nella nostra società) non teneva in conto che se di colpo in Spagna (ma neanche in Italia e nel Mondo NdT) si passasse dal consumare 20 chili di vestiti a persona e l'anno dopo, poniamo, 1 solo e frugale chilo, ci ritroveremmo col fatto che il 95% della produzione attuale delle ditte tessili che operano nel nostro paese tenderebbe a scomparire. Che liberazione di risorse, penserete, però sicuramente implicherebbe il fallimento e la scomparsa del 95% di queste imprese (bene, dei loro affari in Spagna – o Italia -) ed il 95% dei loro impiegati sarebbero messi per strada. Inoltre, sarebbero messi per strada il 95% degli impiegati nel settore logistico e dei negozi di vestiti ed i reparti di confezioni dei grandi magazzini si ridurrebbero del 95%. Questo sarebbe solo l'impatto diretto di questa caduta del consumo, ma poi si deve mettere in conto l'indotto: questo 95% o più di diminuzione delle tasse che incasserebbe lo Stato dai settori colpiti; la perdita del 95% dei clienti dei bar che si trovano nelle strade commerciali, la diminuzione della vendita di altri beni e servizi dovuti all'ingresso nella lista di disoccupazione di tutti questi contingenti; i quali, inoltre, si suppone saranno un costo ulteriore per lo Stato che, oltre a diminuire gli introiti, aumenta le spese e, pertanto, deve tagliare da altre attività, generando più disoccupazione e più contrazione economica nei settori ausiliari colpiti. Alla fine è ovvio che un cambiamento simile non si può fare dalla sera alla mattina, poiché rischierebbe di fare un danno anche maggiore. Essenzialmente, il nostro sistema economico è un obeso patologico con la pressione altissima, la cui vita è in pericolo ma che non si può far dimagrire troppo rapidamente per non correre il rischio di indurre degli scompensi che lo ucciderebbero ugualmente.

Quindi lo dobbiamo far dimagrire a poco a poco e nel frattempo andiamo a sgonfiare i costi superflui ed a investire in quelli essenziali. E quali sono quelli essenziali, direte voi? Be', investire in rinnovabili, orti... Il problema è che non potete sperare che questo cambiamento avvenga spontaneamente; abbiamo già spiegato che ad un certo punto investire in rinnovabili non sarà redditizio secondo i criteri economici standard, e che di fatto le rinnovabili non possono risolvere la crisi energetica come si sta pianificando con la loro installazione. Siccome non si possono obbligare gli investitori a spendere il loro denaro in qualcosa che ora come ora non percepiscono come redditizia, lo Stato non ha denaro nemmeno per sovvenzionarne l'implementazione (non diciamo a finanziarla). Il fatto è che non si finanziano le attività fondamentali per il cambiamento del modello produttivo, economico e sociale. E per quando sarà evidente che è necessario farlo, il livello di degrado del mercato sarà tanto alto che mancheranno i capitali ed alcuni materiali di consumo di base, e per questo sarà un'impresa difficile e dolorosa, se non addirittura impossibile.

Siamo franchi: non c'è una scommessa vera sul cambiamento del sistema. Sì, si comincia ad investire qualcosa in energia rinnovabile, ma con criteri di redditività classici. Cosa ripetono i gestori degli investimenti in rinnovabili? Che devono migliorare tecnologicamente perché i costi si abbassino e siano redditizie. E quando dicono redditizie non intendono dire che coprano i costi, no; quello che intendono dire è che devono avere dei tempi di rientro dell'investimento di pochi anni e che il rendimento sia almeno del 5% all'anno. Insomma, non si vuole giocare ad altro gioco che non sia il “BAU” di sempre, non si accetta il fatto che le regole siano cambiate e si cerca di forzare la Termodinamica per far sì che le rinnovabili rendano in funzione di queste cifre che ho appena citato. Ma la Termodinamica è cocciuta...

Qual è, quindi, la realtà dello schema che si segue? Quella di provare ad aumentare i consumi, non di ridurli. Vi ricordate? All'inizio di questa crisi si diceva che consumare è patriottico; lo ha detto Gordon Brown, allora primo ministro del Regno Unito. E' che senza aumento dei consumi non c'è crescita economica e senza crescita economica non si possono pagare i debiti. E cosa credete che succederà adesso che stiamo entrando in una nuova onda recessiva? Poiché con più problemi di debiti che non possiamo pagare e, soprattutto, il debito sulle spalle, difficilmente andiamo a pensare di smantellare le attività più o meno redditizie a favore di altre che lo sono molto meno. Sapete quante volte ho sentito che con la crisi che abbiamo non è il momento di investire in energia verde, che lo si farà poi, superata la crisi?

Non si può farne una colpa, è logico, non sono redditizie. Quando si supererà la crisi, dicono, quando finirà questa crisi che non finirà mai. Così è facile capire perché io creda che da questa spirale di degrado economico se ne possa uscire solo con un'esplosione sociale, solo con una rivoluzione. Oppure con il collasso.
 
Saluti.

Antonio Turiel

 


giovedì 6 ottobre 2011

Steve Jobs: dopo la "Lettera 22"


Mi raccontava mia nonna che per lei la grande rivoluzione è stata quando successe che bastava premere un'interruttore per illuminare una stanza. Niente più lampade a petrolio o a gas, solo un aggeggetto appiccicato al muro da premere e una lampadina precariamente oscillante, sospesa dal soffitto.

Per me, il momento della rivoluzione è stato quando ho scoperto che per cancellare una parola scritta bastava premere "backspace". Niente più le laboriose sbanchettature con le vecchie macchine da scrivere; mi ricordo ancora (e ce l'ho ancora) la vecchia Olivetti "Lettera 22" con la quale ho scritto la mia tesi di laurea. E mi ricordo ancora la pena delle correzioni fatte a mano, una per una col bianchetto, in una nottata insonne prima della discussione della tesi.

Se Steve Jobs sta in Paradiso, ora, credo che se lo meriti se non altro per quel favoloso word processor che girava sull'Apple II negli anni '80. Il primo word processor veramente funzionale disponibile, una piccola rivoluzione che maneggiava il testo con grande facilità e praticità. Mi ricordo ancora le parole scritte in verde brillante sullo sfondo dello schermo nero. Era fantastico; un altro mondo.

Non la sola rivoluzione digitale che abbiamo vissuto in questi anni; ne abbiamo avute molte altre e ne avremo ancora. Il problema è che alla tastiera ci siamo sempre e soltanto gli stessi noi, con le nostre ossessioni, le nostre follie, le nostre pazzie. Vedremo dove ci porteranno.

martedì 4 ottobre 2011

La sconfitta dei glacialisti


La figura con la quale Stefano Caserini dimostra che i cicli solari sessantennali proposti da Nicola Scafetta non spiegano l'andamento delle temperature terrestri con il pallino rosso che indica gli ultimi dati disponibili (da Climalteranti)


Ci racconta Stefano Caserini su "Climalteranti,"del dibattito sull'origine dei cambiamenti climatici che ha avuto recentemente con Nicola Scafetta sulla rivista "Normale", periodico dell'associazione dei normalisti di Pisa. Il dibattito si è concluso con la nettissima sconfitta di Scafetta e della sua tesi che il riscaldamento globale è causato principalmente da variazioni dell'attività solare e non dall'attività umana. Vale la pena di leggersi questo scambio se non altro per vedere come siano deboli gli argomenti dei glacialisti come Scafetta.

Caserini comincia con una revisione di quello che si sa della scienza del clima. Scafetta risponde con la sua versione delle cose che si basa su un ipotetico ciclo solare di 60 anni che lui estrae dai dati attraverso un massaggio statistico spinto. Purtroppo per Scafetta, tuttavia, vale la vecchia massima che "se torturi i dati a sufficienza, finiranno per confessare." Nella sua risposta, Caserini procede a demolire alla base tutte le affermazioni di Scafetta, mostrando come siano basate su dati parziali, su leggende e su interpretazioni azzardate. Fra le altre cose, Caserini fa vedere un grafico dove si dimostra che l'accordo delle tempeature misurate con i cicli di Scafetta sparisce con i risultati più recenti. Questo è tipico di quello che succede quando si descrivono i dati sulla base di un modello che non ha una buona base fisica. L'accordo sembra buono, inizialmente, ma quando arrivano nuovi dati, non lo è più.

La cosa veramente interessante di questo dibattito è la controrisposta finale di Scafetta. Di fronte alla demolizione dei suoi argomenti da parte di Caserini, non riesce a tirar fuori un dato che sia uno a sostegno della sua tesi. E' costretto a rifugiarsi nel discorso che "i modelli sono incerti" per poi lanciarsi nella politica. Cita il Climategate, il complotto degli scienziati contro il dissenso, i ghiacciai dell'Himalaya che si ritirano meno di quanto abbia scritto l'IPCC, eccetera. Si vede chiaramente che Scafetta non sa che pesci pigliare, al punto che tira fuori anche cose che non c'entrano niente con il clima, come la produzione di terre rare in Cina (con tanto di riferimento bibliografico!). Insomma, sconfitta totale.

Ora, su questa  faccenda direi che la rivista "Normale" non ha decisamente fatto una bella figura. Una ragione è stata quella di scegliere proprio questo formato "politico" di dibattito che non è molto adatto a una questione che dovrebbe essere affrontata in modo più serio e più scientifico. Fra le altre cose, gli editori  hanno dato un netto vantaggio a Scafetta, facendolo parlare dopo Caserini. Si sa benissimo che nei dibattiti quello che parla per ultimo è quello che ha ragione. Avete notato che nei telegiornali il governo parla sempre per ultimo? C'è una ragione. Va bene che Scafetta non e riuscito ad approfittare del vantaggio per via  dell'inconsistenza dei suoi argomenti, ma rimane comunque una scelta assai discutibile, per non dire altro. Da considerare inoltre che la rivista non è riuscita nemmeno a pubblicare il grafico corretto fornito da Caserini dove si vede come i dati sperimentali non seguono la teoria di Scafetta.

Ma l'errore principale della rivista "Normale" è stata la scelta degli interlocutori. Scafetta è una persona competente nel suo campo, la statistica, ma non è un climatologo. Cosa avreste pensato se la rivista avesse organizzato un dibattito sulla cura del cancro dove un competente oncologo si trovasse a dibattere con un competente ingegnere aeronautico? L'avreste trovato strano, immagino. Questo non vuol dire che un ingegnere aeronautico non possa farsi una buona competenza in oncologia, ma bisogna che affronti il problema con serietà, senza pretendere che il fatto di essere competente nel proprio campo lo renda  automaticamente competente anche in altri campi. Questo è il grosso limite di Scafetta, che si è lanciato in un campo complesso come la scienza del clima senza averlo approfondirlo a sufficienza. E' anche il grosso limite di questi dibattiti che non servono ad altro che a creare confusione dando spazio ad argomentazioni che passano per scientifiche ma che sono soltanto politiche anche quelle. 


domenica 2 ottobre 2011

Riscaldamento Globale e percezione individuale

Guest post di Silvano Molfese




In genere quando si dice che la temperatura è alta o bassa, ci si riferisce alle proprie sensazioni di freddo o di caldo: è un meccanismo di difesa che serve a proteggere l’animale uomo. Recentemente il sito Climalteranti.it ha messo in evidenza i risvolti psicologici che spingono gli individui a negare il riscaldamento globale (Psicologia e cambiamenti climatici di Stefano Caserini). Escludendo le persone in malafede, è opportuno chiedersi cosa scatta nella mente della gente quando si parla di cambiamento climatico.

Gli indicatori oggettivi (quantità di ghiacci, temperatura dell’aria, concentrazione di CO2, ecc.), seppur misurabili e confrontabili, sono esterni ai sensori naturali di cui disponiamo come specie animale e quindi risultano più lontani delle conoscenze scientifiche acquisite (che chiamerei indicatori artificiali).
Infatti le persone fanno riferimento innanzitutto alla propria percezione di freddo/caldo che è un indice soggettivo (per l’appunto cambia da soggetto a soggetto), poi alle variabili meteorologiche, e dopo alla variazione climatica quando si parla di riscaldamento globale. (Chissà quanti conoscono la differenza tra meteorologia e climatologia).

Per ogni persona la percezione caldo/freddo è condizionata da: temperatura, umidità relativa dell’aria, ventosità nonché dall’esposizione alla luce solare diretta. Inoltre c’è la variabilità tra individui: io ho caldo e tu stai bene (a parità di tutte le altre condizioni). A ciò si aggiunge l’elevata artificiosità degli ambienti in cui viviamo; case ed auto possono essere climatizzate: si vorrebbe vivere una costante primavera artificiale ed al contempo si vuol mantenere il vestiario primaverile. Questo comporta anche una differente percezione della temperatura quando usciamo di casa.

Estate

Esco da casa la mattina e, se vado a lavoro in un ambiente climatizzato, alla fine della giornata, per strada, vengo colpito da una calura molto fastidiosa, avverto un forte disagio e cerco il tragitto ombreggiato per raggiungere l’auto. Figurarsi poi se devo entrare nella macchina rimasta al sole. Pur con i dovuti accorgimenti, parasole e finestrini lasciati un po’ aperti, anche se spalanco gli sportelli per disperdere il calore, volante, sedili, ecc. sono bollenti: entrando in auto si è circondati dal caldo e la sudata è assicurata! (Diverso è se uso il climatizzatore prima di mettermi al volante: aggiungo un altro po’ di calore, CO2 e veleni nell’ambiente). Cosi, chi sente parlare di riscaldamento globale, si convincerebbe del cambiamento climatico.

Inverno

Molto spesso le case sono riscaldate da cima a fondo mentre una volta il fuoco serviva a non sentire freddo. La mattina uscendo da una casa ben riscaldata, se fuori è gelato, ci sono almeno 18 - 20° C di differenza, faccio due passi ed entro in macchina: avverto il gelo e accendo il riscaldamento; parcheggio e tengo un passo svelto per riscaldarmi: in ufficio il tepore è assicurato. Se leggo a titoli cubitali che  “Il CO2 sale: aumenta il riscaldamento globale” come minimo penserò: ma cosa dicono, fuori si gela è vero il contrario!! La nostra adattabilità è minore se maggiore è l’escursione termica e quanto più  repentini sono i passaggi caldo/freddo e viceversa.

Dovremo ridurre l’emissione antropica di gas climalteranti perché un segnale molto forte è venuto dalla Russia: nel 2010 è andata in fumo la produzione agricola di quasi 10 milioni di ettari! Circa un terzo della superficie territoriale italiana. (1) Non solo; oltre alle elevate quantità di CO2 prodotte, questi estesi incendi hanno ridotto il contenuto di sostanza organica dei suoli agrari con futuri cali produttivi.  Dopo pochi mesi le fasce di popolazione più povere non avevano di ché sfamarsi e così buona parte di Medio Oriente e del Nord Africa sono entrati socialmente in fibrillazione per il rapido aumento delle pance vuote.

Continuando di questo passo aumentano i pericoli di estese e più frequenti perdite agricole. Anche l’Italia sarà interessata da gravi danni alle produzioni agroalimentari: non è nascondendo il riscaldamento globale che si serve il Paese. (*)

Sostituire il petrolio con le energie rinnovabili è condizione necessaria ma non sufficiente; è necessario un cambio di paradigma: dal prossimo inverno possiamo iniziare a ridurre i consumi di combustibili fossili per esempio abbandonando le mode energivore indossando una maglia in più per mantenersi caldi. Prepariamoci.



(*) Ho parafrasato A. Marescalchi citato da Marino Ruzzenenti in “Autarchia verde”, pag. 103.

(1) K. Russel e L. Mastny,  2011. State of the World 2011: Un anno in rassegna. Ed. Ambiente, 53-59.

Con il suo libro, “Prepariamoci”, Luca Mercalli invita anche i cittadini ad essere artefici del risparmio energetico in prima persona.

mercoledì 28 settembre 2011

Cassandra e i limiti dello sviluppo


A volte mi chiedo come mai Cassandra, la profetessa Troiana, ebbe così tanti problemi a convincere i cittadini troiani che non era un'idea così buona demolire le mura della città per far entrare quel grande cavallo di legno.Forse si espresse a indovinelli ed usando un linguaggio oscuro, come si conviene ad una profetessa. Ma nel nostro caso, per affrontare il riscaldamento globale e l'esaurimento delle risorse, credo sia fondamentale oggi elaborare il nostro sapere in modi che possano essere compresi dai cittadini e da coloro che prendono le decisioni. Altrimenti tutto il lavoro che abbiamo fatto sarà perduto e rimarremo solo delle Cassandre.

Traduzione da "Cassandra's Legacy" di Massimiliano Rupalti"



Nel 1992, William Nordhaus scriveva un articolo (1) dove criticava pesantemente lo studio “I Limiti dello Sviluppo” (LDS). Riferendosi alla versione del 1972 diceva che,

"....sembra evidente che il comportamento dinamico degli enormemente complicati Limiti che ho modellato non è stato pienamente compreso (o anche comprensibile) da nessuno, nemmeno dagli autori e dai critici”.

Lo possiamo prendere come corretto almeno sotto un aspetto; ovvero se Nordhaus intendeva includere anche sé stesso fra questi “critici”. Infatti, con questa frase Nordhaus potrebbe aver ammesso che il suo saggio del 1973 (2), dove ha criticato anche più duramente la pratica della modellazione del mondo, era completamente sbagliato. Semplicemente, nel 1973, non aveva capito come funzionava il modello e nemmeno nel 1992. (Ho affrontato nei dettagli questi saggi di Nordhaus nel mio libro “LTG Revisited", per il momento solo in inglese (3).)

E' anche vero che la grande maggioranza di coloro che hanno criticato il primo studio dei LDS dopo la sua pubblicazione nel 1972, lo hanno fatto senza realmente capire la modellazione del mondo. Ma è vero che il modello di “World3” alla base dello studio non era “comprensibile”come conferma Nordhaus? Probabilmente Nordhaus ha basato le sue valutazioni su questo grafico:



Questa è una scannerizzazione della rappresentazione grafica del modello di world 3 preso dalla mia copia personale del 1972 dei LDS (Limiti Dello Sviluppo). I contenitori sono etichettati in italiano ma, che siano in italiano o in inglese, la logica del modello è davvero difficile da afferrare. Sembra solo una raccolta casuale di contenitori e di frecce, non diversa da una mappa della metropolitana di una grande città.

Quello che vedete qui, è un esempio di un “modello spaghetti”, una disastro tipico dei modelli della Dinamica dei Sistemi (DS) (come trattato, per esempio, da Jacques Lefevre). E' possibile che sia questa complessità e lo schema apparentemente casuale che ha confuso i critici ed i sostenitori di LDS allo stesso modo. Potrebbero essere stati una delle ragioni della marea di critiche ricevute dallo studio dei LDS di essere basato su assunti arbitrari, se non una truffa appositamente progettata per fregare il pubblico. La gente non poteva credere che la matassa di spaghetti mostrata nella figura potesse generare un ciclo di crescita e di declino e che questo ciclo doveva essere il destino della nostra economia.
 



Ma il modello di world 3 non era arbitrario. Rappresentando uno dei primi modelli di questo tipo nella storia, non è sorprendente che la sua rappresentazione grafica lasciasse un po' a desiderare. Questo non aveva effetti sull'efficacia del modello, che ha sostenuto molto bene la prova del tempo. I parametri del mondo reale, finora, si sono comportati in maniera molto coerente con lo scenario “caso base” dello studio dei LDS del 1972, come mostra Turner. I critici hanno dovuto lavorare duro per trovare punti deboli nello studio che andassero oltre le semplici dichiarazioni di discredito, come ho trattato in un mio post. Alla fine, hanno dovuto assestarsi su punti davvero marginali che non avevano nessuna rilevanza per il significato dello studio.

Il modello LDS non era impossibile da capire, comunque. Se guardate il testo del libro originale del 1972, vedrete che la figura mostrata sopra arriva solo dopo diverse pagine che descrivevano in dettaglio come il modello lavorasse. Gli autori hanno fatto un lavoro completo nel mostrare i diagrammi dei vari sottoinsiemi del modello. Questo avrebbe potuto rendere il modello comprensibile persino dagli economisti.

Sfortunatamente, questo non è stato sufficiente. Non importa quanto il modello venisse spiegato bene, capire LDS richiedeva uno sforzo che la maggior parte della gente non voleva fare. E' difficile combattere contro la tendenza umana a non credere alle cattive notizie – l'effetto Cassandra, in breve.

Ma noi possiamo imparare qualcosa dall'esperienza dei LDS. Un punto fondamentale è da esaminare in relazione alla percezione che la gente ha dei modelli. Per uno scienziato, il bisogno di modelli è ovvio; ma non è così per un politico o per la gente. In questo senso, fare modelli del mondo e la moderna scienza del clima hanno lo stesso problema. Entrambi i campi sono percepiti come basati su modelli complessi che vanno oltre la capacità di comprensione dei non-specialisti. Così, qual è esattamente il ruolo dei modelli nel dibattito pubblico sui problemi del cambiamento climatico e dell'esaurimento delle risorse?

A volte, la gente sembra credere nei modelli solo perché sono complessi. Oppure vedono la complessità come una prova del fatto che il modello è sbagliato o irrilevante. Il problema dei modelli complessi è che lasciano la gente libera di scegliere un'attitudine o l'altra, a seconda delle proprie sensazioni o delle idee politiche. Così, credo che abbiamo maledettamente bisogno di inquadrare i nostri modelli in “bocconi a portata di mente” di conoscenza – come suggerito da Seymour Papert – che la gente possa afferrare.

Come esempio, ecco come Magne Myrveit ha rappresentato le cinque riserve principali del modello de “I Limiti dello Sviluppo” (da un saggio dal titolo "The World Model Controversy").



Questa figura può essere criticata come un'eccessiva semplificazione, ma è un grande passo avanti nel senso che da un'immediata idea visiva di cosa siano gli elementi principali del modello. Però ha un problema. “A portata di mente” non significa solo ridurre il numero di elementi nel modello. Significa, secondo me, fornire anche una traccia su cosa fa funzionare il modello. In altre parole, una rappresentazione come questa, semplice com'è, soffre ancora della sindrome spaghetti. E' statica; non ti dice niente sul dove il sistema stia andando. E, tuttavia, i risultati dei calcoli mostrano chiaramente che il sistema sta andando da qualche parte; sta subendo un ciclo di crescita e declino. Questo non è affatto chiaro in questa figura.

Così, penso che se vogliamo realizzare modelli a portata di mente che siano utili, dobbiamo chiarire che c'è una tendenza; una forza, il risultato di qualcosa che in termini tecnici è chiamato “potenziale”. I potenziali generano forze e le forze muovono le cose. Penso che sia questo il punto che Jacques Lefevre stava indicando quando usava la metafora delle reazioni chimiche per descrivere i modelli della dinamica dei sistemi. Ma c'è una metafora ancora più semplice: "le dinamiche della vasca da bagno" come spiegato da John Sterman e Linda Sweeney.



Ora, questo è un vero modello a portata di mente, nel senso che è chiaro che è la gravità (o meglio, il potenziale gravitazionale) che muove l'acqua in una certa direzione. Questa rappresentazione del modello non è statica, mostra cosa accade. E' stato con questo esempio in mente che ho proposto l'immagine della “fontana a tre piani” come rappresentazione di un semplice modello del mondo:




Né la vasca da bagno, né la fontana hanno le caratteristiche che chiamiamo “feedback”, che sono cruciali nei modelli del mondo in quanto generano crescita e declino non lineari. Tuttavia, queste sono immagini che chiariscono il fatto che il sistema è guidato da un potenziale. L'acqua deve andare da qualche parte e questo è a causa del potenziale gravitazionale. Poi, è chiaro che se partiamo da un piccolo serbatoio che non viene alimentato ulteriormente, ad un certo punto l'acqua deve finire. 

In un modello del mondo non è la gravità che muove le cose, ma il potenziale termodinamico, a sua volta connesso con l'energia fornita delle risorse naturali che un'economia sfrutta. Dovrebbe anche essere chiaro che se le risorse naturali esistono in quantità limitate, ad un certo punto devono finire. Una volta compresi questi punti, possiamo usare anche modelli molto semplici “a tre stadi” per ottenere un patrimonio di intuizioni su come si comporta un sistema economico. Ho mostrato in un precedente post come certi semplici modelli possono spiegare “l'Effetto Seneca“, che è il motivo per il quale il declino di sistemi economici e sociali è spesso molto più rapido della crescita.

Così, penso che questa sia una linea da seguire se vogliamo che i nostri modelli siano capiti e, più di tutto, che gli venga dato seguito. Questo è vero sia per l'esaurimento delle risorse, sia per il cambiamento climatico, che sono due lati della stessa medaglia. Ma i modelli a portata di mente potrebbero risolvere il problema dello scollamento fra scienziati e persone che prendono le decisioni? Be', questo non sarà facile, naturalmente. A volte quando uso questi modelli, mi vedo davvero come l'antica Cassandra, la profetessa Troiana, mentre disegno diagrammi di riserve e flussi sulla sabbia di fronte ai perplessi cittadini Troiani. Non facile. Tuttavia, penso che dobbiamo provarci.


sabato 24 settembre 2011

La fine della Crescita

Di Richard Heinberg


Questo post è un estratto dal libro The End of Growth di Richard Heinberg da poco uscito ma non ancora disponibile in italiano. Potete trovare qui il post originale.Traduzione di Massimiliano Rupalti.




Introduzione: la nuova normalità

L'asserzione centrale di questo libro è allo stesso tempo semplice e sorprendente: la crescita economica così come la conosciamo è finita.

La “crescita” di cui parliamo consiste nell'espansione delle dimensioni totali dell'economia (con più persone raggiunte e più soldi che girano) e delle quantità di energia e beni materiali che fluiscono attraverso di essa.
La crisi economica iniziata nel 2007-2008 era prevedibile ed evitabile e costituisce un punto di rottura permanente e fondamentale rispetto ai decenni precedenti, un periodo in cui la maggior parte degli economisti adottava la visione irrealistica per cui la crescita economica perpetua è necessaria ed anche possibile da ottenere. Ora ci sono barriere fondamentali alla continua espansione economica e il mondo è in collisione con queste barriere.

Con questo non voglio dire che gli Stati Uniti o il mondo nel suo complesso non vedrà mai più un altro trimestre o un anno di crescita relativa al trimestre o anno precedente. Tuttavia, se si fa una media delle variazioni, la tendenza generale dell'economia (misurata in termini di produzione e consumo di beni reali) sarà stabile o in discesa piuttosto che in crescita, da adesso in poi.

Neppure sarà impossibile per ciascuna regione, nazione o impresa continuare a crescere per un po'. Alcuni lo faranno. In ultima analisi, tuttavia, questa crescita sarà raggiunta a spese di altre regioni, nazioni o imprese. Da ora in poi, solo la crescita relativa è possibile; l'economia mondiale sta giocando un gioco a somma zero, con a disposizione una torta sempre più piccola da dividere fra i vincitori.


Perché la crescita sta terminando?

Molti esperti finanziari indicano problemi profondi interni all'economia - compresi opprimenti, impagabili livelli di debito pubblico e privato e lo scoppio della bolla dei beni immobili – come minacce immediate al recupero della crescita economica. Il presupposto generalmente è che, alla fine, una volta che ci si siano fatti i conti, la crescita possa e voglia riprendere. Ma gli esperti generalmente tralasciano fattori esterni all'economia finanziaria che rendono un recupero della crescita economica convenzionale praticamente impossibile. Questa non è una condizione temporanea; è essenzialmente permanente.

Tutto considerato, come vedremo nei prossimi capitoli, ci sono tre fattori primari che si presentano come ostacoli sulla strada di un'ulteriore crescita economica:

•L' esaurimento di importanti risorse inclusi i combustibili fossili ed i minerali;
 

•La proliferazione di impatti ambientali derivati sia dall'uso, sia dall'estrazione di risorse
(incluso bruciare combustibili fossili) che portano a costi in continua crescita a causa di
entrambi questi impatti e dagli sforzi per evitarli e per ripulirli;
 

•la spaccatura finanziaria dovuta all'incapacità del nostro sistema monetario, bancario e di
investimento di sistemare sia la scarsità delle risorse, sia l'impennata dei costi ambientali.
 

E la loro incapacità (nel contesto di un'economia in contrazione) di risolvere l'enorme cumulo
di debito privato e pubblico che è stato generato durante i due decenni passati.


Nonostante la tendenza dei commentatori finanziari a focalizzarsi sugli ultimi due fattori, è possibile indicare letteralmente migliaia di eventi, negli anni recenti, che illustrano come tutti e tre interagiscano e stiano colpendo con sempre più forza.

Considerate un solo esempio: la catastrofe petrolifera della Deepwater Horizon del 2010 nella parte statunitense del Golfo del Messico.

Il fatto che la BP stesse perforando per il petrolio nel Golfo del Messico, illustra una tendenza generale: mentre, si dice, il mondo non corre il pericolo di esaurire il petrolio, c'è veramente poco nuovo petrolio da trovare sulla terraferma, dove perforare è economico. Queste aree sono già state esplorate ed i loro ricchi bacini di idrocarburi sono stati esauriti. Secondo l'International Energy Agency (IEA) dal 2020 quasi il 40% della produzione di petrolio mondiale proverrà da regioni dalle acque profonde. Così anche se è difficile, pericoloso e costoso mettere in opera una trivellazione in un miglio o due di acqua dell'oceano, questo è quello che l'industria del petrolio dovrà fare se vuole continuare a fornire il suo prodotto. Ciò significa petrolio più caro.

Ovviamente, i costi ambientali dell'esplosione e della fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon sono state rovinose. Né gli Stati Uniti, né l'industria petrolifera possono permettersi un altro incidente di quella grandezza. Così, nel 2010 l'amministrazione Obama ha istituito una moratoria sulle perforazioni in alto mare nel Golfo del Messico mentre prepara nuove regole per le perforazioni. Queste regole renderanno senza dubbio le future esplosioni disastrose meno probabili, ma si aggiungeranno ai costi delle compagnie e per questo ai già alti costi del petrolio.

L'incidente della Deepwater Horizon illustra anche, in un certo senso, gli effetti a catena dell'esaurimento e del danno ambientale sulle istituzioni finanziarie. Le compagnie di assicurazione sono state costrette ad alzare i loro premi relativi alle operazioni di perforazione in alto mare e gli impatti sulla pesca della regione hanno colpito l'economia della costa del golfo multo duramente. Siccome i costi economici per la regione del Golfo sono stati in parte sostenuti dalla BP, questi pagamenti hanno costretto la compagnia a riorganizzarsi ed hanno come risultati il minor valore degli stock ed il minor ritorno agli investitori. I guai finanziari della BP a loro volta hanno avuto un impatto sui fondi pensione britannici che erano investiti nella compagnia.
Questo è solo un evento – anche se spettacolare. Se fosse un problema isolato, l'economia potrebbe recuperare ed andare avanti. Ma stiamo, e staremo, assistendo ad una cavalcata di disastri economici, non legati fra loro in maniera evidente, che ostacoleranno la crescita economica in più e più modi. Questi comprenderanno, ma non saranno limitati a:

•I cambiamenti climatici che ci porteranno a siccità locali, alluvioni ed anche alla carestia.

•Carenze di acqua ed energia;

•Ondate di fallimenti bancari, compagnie in bancarotta e pignoramenti di case.

Tutti saranno trattati come casi speciali, un problema da risolvere per poter “tornare alla normalità”. Ma in ultima analisi, sono tutte collegate dal fatto che sono conseguenze della crescita della popolazione umana che si sforza per avere un maggior consumo pro-capite di risorse limitate (incluse le non rinnovabili, combustibili fossili climalteranti), tutto su un pianeta finito e fragile.

Nel frattempo, il passaggio di decenni di accumulo del debito ha creato le condizioni per il crash finanziario del secolo – che si sta dispiegando intorno a noi e che in sé ha il potenziale di generare agitazione politica e miseria umana.

Il risultato: stiamo assistendo ad una tempesta perfetta di crisi convergenti che insieme rappresentano uno spartiacque nella storia della nostra specie. Noi siamo testimoni di una transizione, e vi partecipiamo, da decenni di crescita economica a decenni di contrazione economica.


Perché la crescita è così importante?

Durante gli ultimi due secoli, la crescita divenne virtualmente il solo indice di benessere economico. Quando un'economia cresceva, il lavoro arrivava e gli investimenti producevano ritorni alti. Quando l'economia smetteva temporaneamente di crescere, come fece durante la Grande Depressione, seguivano salassi finanziari.

Durante questo periodo la popolazione mondiale aumentava – da meno di due miliardi di esseri umani sul pianeta Terra nel 1900 ai quasi 7 miliardi di oggi; stiamo aggiungendo circa 70 milioni di nuovi “consumatori” ogni anno. Questo rende un'ulteriore crescita ancora più cruciale: se l'economia stagnasse ci sarebbero meno merci e servizi pro-capite in giro.

Ci siamo affidati alla crescita economica per lo “sviluppo” delle economie più povere del mondo; senza crescita, dobbiamo seriamente prendere in considerazione la possibilità che centinaia di milioni, forse miliardi, di persone non raggiungeranno nemmeno una versione rudimentale dello stile di vita del consumatore adottato dalla gente nelle nazioni industrializzate del mondo.

Infine, abbiamo creato sistemi monetari e finanziari che richiedono crescita. Finché l'economia è in crescita, vale a dire più credito e più soldi sono disponibili, le aspettative sono alte, la gente acquista più merci, le imprese ottengono più prestiti e gli interessi sui prestiti esistenti possono essere facilmente ripagati. Ma se non entra più denaro nuovo nel sistema, gli interessi sui prestiti esistenti non possono essere pagati.; come risultato, aumento dei default, perdita di lavoro, crollo delle entrate e contrazione delle spese nei consumi – che porta le imprese a sottoscrivere meno prestiti, causando l'entrata di ancor meno denaro nell'economia. Questo è un loop di feedback autodistruttivo che si alimenta da solo che è molto difficile da fermare una volta partito.

In altre parole, l'economia non ha nessuna situazione “stabile” né “neutrale”: c'è solo crescita o contrazione. E “contrazione” è un nome più carino per dire Depressione – un lungo periodo di perdite di lavoro, pignoramenti, fallimenti e bancarotta.

Ci siamo così abituati alla crescita che è difficile ricordare che è un fenomeno abbastanza recente. Durante i millenni passati, mentre gli imperi ascendevano e cadevano, le economie locali avanzavano e recedevano – ma l'attività economica mondiale si espandeva solo lentamente e periodicamente decresceva. Tuttavia, con la rivoluzione dei combustibili fossili degli ultimi due secoli abbiamo sperimentato la crescita ad una velocità e scala senza precedenti in tutta la storia umana. Abbiamo sfruttato le energie del carbone, del petrolio e del gas naturale per costruire e usare automobili, camion, autostrade, aeroporti, aeroplani e reti elettriche – tutte caratteristiche essenziali della moderna società industriale. Attraverso il processo irripetibile di estrarre e bruciare luce solare immagazzinata chimicamente in un processo durato milioni di anni, abbiamo costruito ciò che è sembrato essere (per un breve e splendente momento) una macchina della crescita perpetua. Abbiamo imparato a dare per scontata una situazione che è straordinaria. E' diventata normale.

Ma siccome l'era dei combustibili fossili a buon mercato sta giungendo al termine, i nostri presupposti su una continua espansione sono stati scossi nel profondo. La fine della crescita è un affare molto grande davvero. Significa la fine di un'era e dei nostri attuali modi di organizzare l'economia, la politica e la vita quotidiana. Senza crescita, dovremo virtualmente reinventare la vita umana sulla Terra.

E' essenziale che noi riconosciamo e capiamo il significato di questo momento storico: se di fatto avessimo raggiunto la fine dell'era della espansione economica alimentata dai combustibili fossili, gli sforzi dei politici di continuare a perseguire una crescita inafferrabile costituisce una vera e propria fuga dalla realtà. I leaders mondiali, se sono delusi dalla nostra attuale situazione, sono suscettibili di ritardare la messa in atto di servizi di supporto che possono rendere la vita in un'economia non in crescita vivibile. E loro quasi certamente falliranno nel fare cambiamenti necessari e fondamentali cambi ai sistemi monetari, finanziari, alimentari e dei trasporti.

Il risultato sarebbe che ciò che poteva essere un doloroso ma sopportabile processo di adattamento potrebbe diventare la più grande tragedia della storia. Possiamo sopravvivere alla fine della crescita economica, ma solo se ci rendiamo conto per quale motivo stia accadendo e se ci comportiamo di conseguenza.


Ma la crescita non è normale?

Le economie sono sistemi, e come tali (fino a certe estensione almeno) seguono regole analoghe a quelle che governano i sistemi biologici. Piante ed animali tendono a crescere velocemente quando sono giovani, ma poi raggiungono una più o meno stabile dimensione matura. Negli organismi, i tassi di crescita sono prevalentemente controllati dai geni, ma anche dalla disponibilità di cibo.

Nelle economie, la crescita sembra legata alla pianificazione economica e anche alla disponibilità di risorse – principalmente risorse di energia (“cibo” per il sistema industriale), così come il credito (“ossigeno” per l'economia).

Durante i 19° ed il 20° secolo, l'accesso in espansione a combustibili fossili abbondanti ed a buon mercato rese possibile una rapida espansione economica; i pianificatori economici cominciarono a prendere questa situazione come assodata. I sistemi finanziari interiorizzarono l'aspettativa di crescita come una speranza dei ritorni dagli investimenti.

Ma proprio come gli organismi cessano di crescere, le economie devono fare lo stesso. Anche se i pianificatori (i regolatori della società equivalenti al DNA) dettassero più crescita, ad un certo punto l'aumento delle quantità di “cibo” ed “ossigeno” potrebbero venir meno. E' anche possibile, per i rifiuti industriali, di essere accumulati al punto che i sistemi biologici che sono alla base dell'attività economica (come le foreste, le colture ed i corpi umani) vengano soffocati ed avvelenati.

Ma molti economisti non vedono le cose in questo modo. Probabilmente perché le attuali teorie economiche sono state formulate durante l'anomalo periodo storico della crescita sostenuta, che ora sta finendo. Gli economisti stanno meramente generalizzando la loro esperienza: possono far riferimento a decenni di crescita stabile nel passato recente e progettano semplicemente questa esperienza nel futuro. Inoltre utilizzano alcuni modi per spiegare il perché le moderne economie di mercato sono immuni dal tipo di limiti cui sono sottoposti i sistemi naturali: i due principali hanno a che fare con la sostituzione e l'efficienza.

Se una risorsa utile diventa scarsa, il suo prezzo salirà e questo creerà un incentivo per chi usa la risorsa a trovare un sostituto. Per esempio, se il petrolio diventa abbastanza caro, le compagnie energetiche potrebbero cominciare a produrre combustibili liquidi dal carbone. Oppure potrebbero sviluppare altre fonti energetiche impensate fino ad oggi. Molti economisti teorizzano che questo processo di sostituzione può continuare per sempre. E' parte della magia del libero mercato.

Aumentare l'efficienza significa fare di più con meno. Negli Stati Uniti, il numero di dollari al netto dell'inflazione generati nell'economia per ogni unità di energia consumata è cresciuto stabilmente durante i decenni passati (la quantità di energia, in Unità Termiche Britanniche, richieste per produrre un dollaro di PIL è crollato da circa 20,000 BTU per dollaro nel 1949 a 8,500 BTU nel 2008). Parte di questa aumentata efficienza è giunta come risultato dell'esternalizzazione della produzione in altri paesi – che bruciano carbone, petrolio o gas naturale per produrre merci (se facessimo da soli le nostre scarpe o le TV LCD, per esempio, dovremmo bruciare quell'energia nei nostri paesi). Gli economisti indicano anche un'altra relativa forma di efficienza che ha meno a che fare con l'energia (in modo diretto, perlomeno): il processo di identificazione delle sorgenti di materiali più economiche e dei luoghi dove i lavoratori saranno più produttivi e lavoreranno per i salari più bassi. Incrementando l'efficienza, noi usiamo di meno – energia, risorse, lavoro e denaro – per fare di più. Questo facilita una maggiore crescita.

Trovare sostituti per risorse in esaurimento ed incrementare l'efficienza sono innegabilmente strategie adattive valide delle economie di mercato. Ciononostante la questione di quanto a lungo queste strategie possano continuare a funzionare nel mondo reale, rimane aperta, visto che il mondo reale è governato più dalle leggi della fisica che dalle teorie economiche. Nel mondo reale, alcune cose non hanno sostituti, o i sostituti sono troppo costosi, o non funzionano ugualmente bene, o non possono essere prodotti in modo sufficientemente rapido. E l'efficienza segue una legge di diminuzione del ritorno: i primi guadagni in efficienza sono generalmente economici, ma ogni ulteriore aumento di guadagno tende a costare di più, fino a che ulteriori guadagni diventano cari in modo proibitivo.

Alla fine, non possiamo esternalizzare più del 100% della produzione, non possiamo trasportare merci con zero energia e non possiamo contare sugli sforzi dei lavoratori o contare sul fatto che comprino i nostri prodotti se li retribuiamo con nulla. A differenza di molti economisti, la maggior parte dei fisici riconosce che la crescita all'interno di qualsiasi sistema confinato e funzionante deve prima o poi fermarsi.


La matematica semplice della crescita composta

In linea di principio, l'argomentazione per un eventuale fine della crescita è un colpo di teatro. Se ogni quantità cresce costantemente di una certa percentuale fissata ogni anno, questo implica che questa raddoppierà la sua dimensione in un certo numero di anni; più alto è il tasso di crescita in percentuale, più veloce è il raddoppio. Un metodo approssimativo per capire i tempi di raddoppio è conosciuto come la regola del 70: dividere il tasso di crescita percentuale per 70 dà il tempo approssimativo richiesto perché la quantità iniziale raddoppi. Se una quantità cresce dell'1% all'anno, raddoppierà in 70 anni; al 2% di crescita annuale raddoppierà in 35 anni; al 5%di crescita, raddoppierà in soli 14 anni e così via. Se volete essere più precisi potete usare il tasto Y^x di una calcolatrice scientifica, ma la regola del 70 funziona bene per la maggior parte degli scopi.

Ecco un esempio dal mondo reale: nel corso degli ultimi due secoli, la popolazione umana è cresciuta a ritmi che vanno da meno dell'1% a più del 2% all'anno. Nel 1800, la popolazione mondiale era di circa un miliardo; nel 1930 è raddoppiata a due miliardi. Solo 30 anni più tardi (nel 1960) è raddoppiata nuovamente a 4 miliardi; attualmente siamo sulla buona strada per realizzare il terzo raddoppio a 8 miliardi di umani, circa nel 2025. Nessuno si aspetta seriamente che la popolazione mondiale continui a crescere per secoli in futuro. Ma immaginate se lo facesse – ad un tasso di solo 1,3% all'anno (il suo tasso di crescita del 2000). Nel 2780 ci sarebbero 148.000 miliardi di umani sulla Terra – una persona per ogni metro quadrato circa di terra sulla superficie del pianeta.

Non succederà, ovviamente.

In natura, la crescita si scontra con limiti non negoziabili, prima o poi. Se una specie scopre che la sua fonte di cibo si è ingrandita, aumenterà di numero per sfruttare quel surplus di calorie – ma poi la sua fonte di cibo si esaurirà poiché ci sono più bocche che la consumano ed i suoi predatori diventeranno allo stesso modo più numerosi (più pasti gustosi a loro disposizione!). Le “fioriture” di popolazione (o periodi di rapida crescita) sono sempre seguiti da crolli e morie. Sempre.

Ecco un altro esempio dal mondo reale. Negli ultimi anni l'economia cinese è cresciuta dell'8% o più ogni anno; questo significa che sta raddoppiando la sue dimensione ogni 10 anni: Infatti, la Cina consuma più del doppio di carbone di quanto facesse un decennio fa – analogamente a petrolio e minerali di ferro. La nazione adesso ha il quadruplo delle autostrade che aveva e quasi il quintuplo delle automobili. Quanto potrà durare? Quanti ulteriori raddoppi possono verificarsi prima che la Cina abbia esaurito le sue risorse chiave – o prima che decida che possa bastare ed abbia smesso di crescere? Non è facile rispondere a questa domanda con una data specifica, ma si può rispondere.

Questo dibattito ha implicazioni molto reali, perché l'economia non è solo un concetto astratto; è ciò che determina se viviamo nel lusso o nella povertà, se mangiamo o siamo affamati. Se la crescita economica finisce, tutti ne subiremo un impatto e la società impiegherà anni per adattarsi alle nuove condizioni. Quindi è importante sapere se quel momento è a portata di mano o lontano nel tempo.


La fine della crescita dovrebbe arrivare senza sorprese

L'idea che la crescita arriverà allo stallo ad un certo momento di questo secolo non è affatto nuova. Nel 1972, un libro intitolato “I limiti dello sviluppo” ha fatto notizia ed è diventato il miglior best seller ambientalista di tutti i tempi.

Quel libro, che ha riferito sui primi tentativi di usare il computer per modellare le interazioni possibili fra tendenze nel campo delle risorse, del consumo e della popolazione, fu anche il primo importante studio scientifico che metteva in discussione l'assunto che la crescita economica può continuare e continuerà più o meno ininterrottamente nel prossimo futuro.

L'idea era eretica allora – e lo è ancora. La nozione per cui la crescita non può continuare e non continuerà oltre un certo punto si è dimostrato profondamente sconvolgente in alcuni ambienti, e presto I Limiti dello Sviluppo furono visibilmente “smentiti” da interessi commerciali pro-crescita. Nella realtà questa “demistificazione” consisteva semplicemente nel prendere pochi numeri nel libro completamente fuori contesto, citandoli come “predizioni” (cosa che esplicitamente non erano) e poi sostenendo che queste predizioni erano sbagliate. L'inganno fu presto svelato, ma le smentite spesso non ottengono lo stesso spazio delle accuse e così oggi milioni di persone credono, sbagliandosi, che il libro è stato screditato molto tempo fa. Di fatto, gli scenari della versione originale de “I limiti dello sviluppo” hanno retto abbastanza bene. ( Uno studio recente dell' Australian Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization (CSIRO) conclude:

“[La nostra] analisi mostra che 30 anni di dati storici risultano compatibili con le caratteristiche chiave dello scenario “business-as-usual” [de “I limiti dello sviluppo”]...)

Gli autori inserirono dati sulla crescita della popolazione mondiale, le tendenze di consumo e l'abbondanza di varie importanti risorse, fecero partire il loro programma e conclusero che la fine della crescita sarebbe arrivata probabilmente fra il 2010 ed il 2050. La produzione industriale e di cibo sarebbe poi crollata, portando ad un declino della popolazione.

Gli scenari dello studio I Limiti dello Sviluppo sono stati riprodotti ripetutamente negli anni dai tempi della prima pubblicazione, usando software più sofisticati e dati in ingresso aggiornati. I risultati sono sempre stati simili ogni volta. (Vedi Limits to Growth: The 30-Year Update).


Lo scenario del Picco del Petrolio

Come menzionato, questo libro sosterrà che la crescita è finita per la convergenza di tre fattori – esaurimento delle risorse, impatto ambientale e sistematici fallimenti finanziari e monetari. Tuttavia, un singolo fattore potrebbe giocare un ruolo chiave nel portare l'età dell'espansione ad una chiusura. Questo fattore è il Petrolio.

Il petrolio occupa una posizione centrale nel mondo moderno – nei trasporti, nell'agricoltura e nell'industria chimica e dei materiali. La Rivoluzione Industriale è stata nei fatti la Rivoluzione dei Combustibili Fossili e l'intero fenomeno della continua crescita economica – compreso lo sviluppo delle istituzioni finanziarie che facilitano la crescita, come la riserva frazionaria bancaria – è, in ultima analisi, basata sulle sempre crescenti forniture di energia a buon mercato. La crescita richiede più produzione, più scambio e più trasporti e tutto questo in cambio richiede più energia. Questo significa che se le forniture energetiche non possono aumentare, e di conseguenza l'energia dovesse diventare significativamente più cara, la crescita economica vacillerà ed il sistema finanziario costruito sull'aspettativa di una crescita perpetua fallirà.

Non più tardi del 1998, i geologi petroliferi Colin Campbell e Jean Laherrère parlavano dell'impatto dello scenario del Picco del Petrolio in questo modo. Ad un certo momento intorno all'anno 2010, teorizzavano, forniture di petrolio in stagnazione o in declino avrebbero portato ad un'impennata del prezzo del petrolio ed alla sua volatilità, che avrebbe fatto precipitare un crollo economico globale. Questa rapida contrazione economica potrebbe a sua volta portare ad una domanda drasticamente ridimensionata, così che i prezzi del petrolio potrebbero crollare di conseguenza; ma nel momento in cui l'economia riguadagnasse forza, la domanda di petrolio recupererebbe, i prezzi salirebbero ancora e come risultato di questo l'economia ricadrebbe. Questo ciclo continuerebbe, con le fasi di recupero che si rivelerebbero sempre più brevi e deboli, ed ogni crollo più profondo e più pesante, fino a che l'economia si ritroverebbe in rovina. I sistemi finanziari basati sull'assunto della crescita continua imploderebbero, causando più devastazione sociale di quanto i picchi del prezzo del petrolio stessi genererebbero.

Nel frattempo i prezzi volatili del petrolio frustrerebbero gli investimenti in energie alternative: un anno, i prezzi del petrolio sarebbero così alti che quasi ogni altra fonte di energia sembrerebbe economica in confronto; l'anno successivo, i prezzi del petrolio sarebbero caduti quanto basta per far sì che chi usa energia ci tornasse, così da rendere folli gli investimenti in altre fonti energetiche. Ma bassi prezzi del petrolio scoraggiano le nuove esplorazioni petrolifere, portandoci a carenze di combustibile ancora peggiori subito dopo. I capitali di investimento sarebbero scarsi comunque a perché le banche sarebbero insolventi a causa del crollo, ed i governi sarebbero a pezzi a causa delle ridotte entrate tributarie. Nel frattempo, la competizione internazionale per la diminuzione delle forniture petrolifere potrebbe portare a guerre fra nazioni importatrici di petrolio, fra importatori ed esportatori e fra fazioni rivali all'interno delle nazioni esportatrici.

Negli anni seguenti alla prima pubblicazione di Campbell e Laherrère, molti esperti dichiaravano che le nuove tecnologie per l'estrazione del petrolio greggio avrebbero aumentato la quantità di petrolio ottenibile da ciascun pozzo scavato e che le enormi riserve di idrocarburi alternativi (principalmente sabbie bituminose e scisti petroliferi) sarebbero stati sviluppati per sostituire il petrolio convenzionale senza soluzione di continuità, posticipando così l'inevitabile picco per decenni. C'erano anche coloro che dicevano che il Picco del Petrolio non sarebbe stato un grande problema anche se fosse arrivato presto, perché il mercato avrebbe trovato altre fonti di energia o possibilità di trasporto con la necessaria rapidità – auto elettriche, idrogeno o combustibili liquidi fatti col carbone.

Negli anni successivi, gli eventi sembravano supportare la tesi del Picco del petrolio e ridimensionare il punto di vista degli ottimisti del petrolio. I prezzi del petrolio tendevano rapidamente a crescere , e per ragioni del tutto prevedibili: le scoperte di nuovi giacimenti petroliferi continuavano a diminuire, con la maggior parte dei nuovi giacimenti sempre più difficili e cari da sviluppare di quelli scoperti negli anni precedenti. Più nazioni produttrici di petrolio vedevano i loro tassi di estrazione raggiungere il picco e cominciare a declinare nonostante gli sforzi per mantenere la crescita della produzione usando alta tecnologia, costosi metodi di estrazione secondaria e terziaria come l'iniezione di acqua, azoto o co2 per spingere maggior petrolio fuori dalla terra. I tassi di declino della produzione nei vecchi giacimenti di petrolio super giganti, che giocavano la parte del leone nella fornitura mondiale di petrolio, acceleravano. La produzione di combustibili liquidi dalle sabbie bituminose si espandeva molto lentamente , mentre lo sviluppo degli scisti bituminosi rimaneva una vacua promessa per un lontano futuro.


Da una terrificante Teoria ad una ancor più terrificante Realtà

Poi nel 2008, lo scenario del Picco del Petrolio è diventato fin troppo reale. La produzione mondiale di petrolio è stata in stagnazione dal 2005 ed i prezzi sono volati in alto. Nel luglio 2008, il prezzo al barile è schizzato a quasi 150$ - una volta e mezza in più (in termini al netto dell'inflazione) del picco del prezzo del 1970 che ha scatenato la peggior recessione dalla Seconda Guerra Mondiale. Nell'estate del 2008, leindustrie dell'auto, dei trasporti, delle spedizioni internazionali, dell'agricoltura e delle linee aeree stavano tutte barcollando.

Ma ciò che è successo dopo ha monopolizzato l'attenzione del mondo a tal punto che il picco del prezzo del petrolio è stato del tutto dimenticato: in settembre, il sistema finanziario globale è quasi collassato. Le ragioni di questa improvvisa, stringente crisi aveva apparentemente a che fare la bolla dell'edilizia, con la mancanza di regolamentazione adeguata dell'industria bancaria e con l'abuso di prodotti finanziari che quasi nessuno capiva. Tuttavia, il picco del prezzo del petrolio aveva giocato un ruolo critico (anche se in gran parte trascurato) nel dare inizio alla crisi economica (vedi Temporary Recession or the End of Growth?).
Fra le conseguenze immediate di quella esperienza di quasi-morte della finanza globale, sia lo scenario dell'impatto del Picco del Petrolio proposto un decennio prima sia quello standard de I Limiti dello Sviluppo del 1972 sembravano essere confermati con inquietante e spaventosa accuratezza. Il mercato globale stava fallendo. Le più grandi compagnie produttrici di automobili del mondo venivano tenute in vita forzosamente. L'industria del trasporto aereo degli Stati Uniti si era ridotta da almeno 3 mesi. Rivolte per il cibo stavano esplodendo nelle nazioni povere in tutto il mondo. Le guerre persistenti in Iraq (la nazione con la seconda riserva al mondo di petrolio greggio) e Afghanistan (il sito di contestati oleodotti e gasdotti) continuavano a far sanguinare le casse delle più importati nazioni importatrici di petrolio.

Nel frattempo, il dibattito su cosa fare per tenere a freno il cambiamento climatico globale esemplificava l'inerzia politica che aveva tenuto il mondo sulla strada della calamità sin dai primi anni 70. E' diventato ovvio ormai, praticamente per ogni persona di modesta istruzione o intelletto, che il mondo ha due urgenti ed incontrovertibili ragioni per uscire rapidamente dalla dipendenza dai combustibili fossili: le minacce gemelle delle catastrofi climatiche e le imminenti limitazioni nelle forniture di carburanti. Già alla conferenza sul clima di Copenhagen nel dicembre 2009, le priorità della maggior parte della nazioni dipendenti dai carburanti erano chiare: le emissioni di anidride carbonica dovrebbero essere tagliate e la dipendenza da combustibili fossili ridotta, ma solo se fare questo non minacci la crescita economica.


La Componente finanziaria della Contrazione economica

Se i limiti delle risorse e il degrado ambientale stavano chiudendo i rubinetti della crescita, il dolore palpabile che i semplici cittadini stavano sperimentando direttamente sembrava provenire prevalentemente da una direzione completamente diversa: perdita di lavoro e collasso dei prezzi dei beni immobili.
Come vedremo nei capitoli 1 e 2, le aspettative di crescita continua, nei decenni precedenti, sono state trasformate in enormi quantità di debito dei consumatori e del governo. Gli americani non diventavano più ricchi inventando nuove tecnologie o fabbricando beni di consumo, ma semplicemente vendendo e comprando case, o muovendo soldi in giro da un investimento all'altro o facendo pagare spese di transazione come altri hanno fatto.

Mentre un nuovo secolo sorgeva, l'economia mondiale si trascinava da una bolla all'altra: la bolla delle economie asiatiche emergenti, la bolla dell'informatica, la bolla immobiliare. Tutti sapevano che queste sarebbero scoppiate alla fine, come le bolle fanno sempre, ma gli investitori “svegli” tendevano ad entrare presto ed uscire abbastanza rapidamente da fare grandi profitti ed evitare il caos conseguente.
Nei folli giorni dal 2002 al 2006, milioni di Americani arrivarono ad affidarsi all'impennata del valore immobiliare come fonte di reddito, trasformando le loro case in ATM's (per usare ancora l'espressione usata così spesso poi). Mentre i prezzi continuavano a salire, i proprietari di case si sentivano giustificati nel prendere prestiti per rimodernare la cucina o il bagno e la banca si sentiva a posto nel concedere nuovi crediti. Nel frattempo, i maghi di Wall Street stavano trovando modi per spezzettare ed affettare i mutui subprime che potevano essere venduti in succulente obbligazioni di debito collateralizzato, che poteva essere venduto ad un premio agli investitori – con poco o nessun rischio! Dopo tutto i valori immobiliari erano destinati solo a crescere. Dio non sta creando altra terra, è diventata un realtà evidente.

Il credito ed il debito si sono espansi nell'euforia dei soldi facili. Questo ottimismo stordito ha portato ad una crescita dei posti di lavoro nelle costruzioni e nell'edilizia, mascherando la perdita di posti di lavoro di fondo in corso nei settori produttivi.

Pochi cupi esperti finanziari hanno usato termini come “castello di carte”, “polveriera” e “candelotto di dinamite” per descrivere la situazione. Sarebbero bastati una brezza metaforica o una scintilla birichina per produrre un esito catastrofico. Indiscutibilmente, il picco del prezzo del petrolio della metà del 2008 è stato più che sufficiente per farlo.

Ma la bolla dell'edilizia era in sé stessa un evidentemente solo un fusibile più sensibile: in realtà, l'intero sistema economico era diventato follemente dipendente da aspettative di una crescita perpetua impossibili da realizzare ed era predisposta alla detonazione. Il denaro era legato al credito e il credito era legato ai presupposti di la crescita. Una volta che la crescita è divenuta ardua, la reazione a catena del default e della bancarotta è cominciata: eravamo in un'esplosione al rallentatore.

Lo sforzo dei governi da quel momento è stato diretto a far ripartire la crescita. Ma, se in misura molto limitata questi sforzi ebbero un temporaneo successo alla fine del 2009, essi in realtà hanno mascherato la sottostante contraddizione al centro dell'intero sistema economico; l'assunto che possiamo avere un crescita infinita in un pianeta finito.


Cosa viene dopo la Crescita?

La presa di coscienza del fatto che abbiamo raggiunto il punto in cui la crescita non può continuare è innegabilmente sconfortante. Ma una volta superato questo ostacolo psicologico, ci sono delle notizie moderatamente buone.

Non tutti gli economisti sono caduti sul paradigma che la crescita continuerà per sempre. Ci sono scuole di pensiero economico che riconoscono i limiti naturali e, anche se queste scuole sono state largamente marginalizzate nei circoli politici, hanno sviluppato piani potenzialmente utili che potrebbero aiutare la società ad adattarsi.

I fattori di base che informeranno inevitabilmente qualsiasi cosa rimpiazzerà la crescita economica sono riconoscibili. Per sopravvivere e prosperare a lungo, le società devono operare all'interno dei bilanci di sostenibilità delle risorse estraibili del pianeta. Questo significa che anche se non conosciamo nei dettagli cosa uno stile di vita ed una economia post-crescita potrà essere, sappiamo abbastanza per cominciare a lavorare in quella direzione.

Dobbiamo convincerci che la vita in un'economia non in crescita può essere soddisfacente, interessante e sicura. L'assenza di crescita non implica necessariamente una mancanza di cambiamento o di miglioramento. In un'economia non in crescita o in equilibrio possono ancora esserci continui sviluppi di capacità pratiche, espressione artistica ed alcuni tipi di tecnologia. Di fatto, alcuni storici e sociologi affermano che la vita in un'economia in equilibrio può essere migliore di quella in una economia che cresce velocemente:mentre la crescita crea opportunità per alcuni, tipicamente essa intensifica la competizione – ci sono grandi vincitori e grandi vinti e, (come in molte città in espansione) come risultato, la qualità delle relazioni all'interno della comunità può soffrirne. All'interno di un'economia non in crescita è possibile massimizzare i benefici e ridurre i fattori che portano alla decadenza, ma per farlo è richiesto di perseguire obbiettivi appropriati: al posto di più, dobbiamo batterci per meglio, piuttosto che promuovere un aumento dell'attività economica fine a se stessa, dobbiamo enfatizzare qualsiasi cosa aumenti la qualità della vita senza alimentare il consumo. Un modo per fare questo è di ridefinire e reinventare la crescita stessa.

La Transizione ad una economia non in crescita (o una la cui crescita è definita in un modo fondamentalmente diverso) è inevitabile, ma funzionerà molto meglio se la pianifichiamo piuttosto che guardarla semplicemente con sgomento, mentre le istituzioni sulle quali abbiamo fatto affidamento falliscono, e poi tentiamo di improvvisare una strategia di sopravvivenza in loro assenza.

In effetti, dobbiamo creare una desiderabile “nuova normalità” che si adatti ai vincoli imposti dalle risorse naturali in esaurimento. Mantenere la “vecchia normalità” non è un'opzione; se non troviamo nuovi obbiettivi per noi stessi e non pianifichiamo la transizione da un'economia basata sulla crescita ad una basata su un equilibrio salutare, creeremo per difetto una molto meno desiderabile “nuova normalità” le cui emergenze stiamo già cominciando a vedere sotto forma di persistente alta disoccupazione, un sempre più ampio divario fra ricchi e poveri e sempre più frequenti e peggiori crisi finanziarie ed ambientali - ognuna delle quali si traduce in profonda angoscia per gli individui, le famiglie e le comunità.

L'Alaska e l'Energia

Durante la mia recente visita ad Anchorage, in Alaska, per parlare alla Bioneers satellite conference
di quella città, l'amichevole gente del posto sembrava volermi spiegare i loro problemi energetici. Alcuni dei quali mi hanno colpito al punto di volerli condividere con un'audience più vasta. L'Alaska è, naturalmente, una grande esportatrice di energia. Il greggio della North Slope ha salvato l'America dal problema dell'energia negli anni 80, aiutando ad abbassare i prezzi del petrolio nel mondo e a mandare in bancarotta il malefico impero Sovietico. La produzione lì, è scesa dal picco di oltre 2 milioni di barili al giorno a soli 600.000 circa di oggi. Quando il flusso scenderà sotto i 500.000 barili, ci saranno problemi col ghiaccio nell'oleodotto Trans-Alaska. Non buono.

L'economia dello stato è quasi completamente basata sull'estrazione di risorse. Tutti hanno un assegno annuale dall'Alaska Permanent Fund, istituito nel 1976 principalmente per gli sforzi del governatore di allora, Jay Hammond. Prezzi del petrolio alti significano dividendi alti: nel 2008-2009 versamenti abbondanti hanno reso la governatrice Palin molto popolare, anche se lei non ne è stata in alcun modo responsabile.
L'Alaska ha enormi opportunità per le rinnovabili – vento, micro-idrico, geotermico, maree ed anche solare. Ma queste sono sono ben lontane dall'essere adeguatamente sviluppate e i progressi in quella direzione richiedono tempo e molti investimenti – un ritmo di investimenti drammaticamente più alto di quello attualmente evidente.

Anchorage (di gran lunga la città più grande dello Stato) affronta una sfida particolare col gas naturale: attualmente quasi ogni abitazione è riscaldata a gas, ma le forniture da parte di Cook Inlet scarseggeranno nel volgere di due anni, anche prima in caso di un inverno particolarmente freddo. La maggior parte delle opzioni per rimpiazzare le attuali fonti (più perforazioni, LNG, energie alternative) avranno bisogno di più di due anni per essere sviluppate: non esiste una seria pianificazione per affrontare questo problema.

Poi c'è la situazione dei villaggi indigeni. Da un lato, la gente indigena del nord potrebbe sembrare ben messa per affrontare i cambiamenti che hanno di fronte quando la società industriale soccombe al Picco del Petrolio, al Picco del Carbone e a quello del Gas: hanno tradizioni culturali di auto-sufficienza, piccole popolazioni in relazione all'area che occupano e accesso a grandi quantità di proteine selvatiche da animali a zoccolo (alce, caribou). Tuttavia, come mi scrisse James van Lanen dell'Alaska Department of Fish and Game in una e-mail proprio l'altro giorno:


“I villaggi indigeni dell'Alaska si trovano in una situazione molto precaria. Quei villaggi remoti sono accessibili solo per via aerea o con imbarcazioni. Sono completamente dipendenti dal sistema dei combustibili fossili per beni e servizi: cibo, calore, salute. Non hanno contatti col mondo esterno senza i combustibili fossili”.

“Alcuni villaggi ottengono il loro cibo da fonti selvatiche più di altri. Sarebbe sicuro dire che in media l'80% del consumo di proteine in un villaggio è di provenienza selvatica. Bacche e Piante integrano qualche parte della dieta complessiva, ma sono parti piccole. Le due cose importanti da considerare sono (1) la maggior parte del cibo consumato è di origine industriale ed è trasportato là con piccoli aerei (2) i raccolti di cibo selvatico sono attualmente quasi interamente dipendenti dai combustibili fossili (c'è una ben integrata “cultura delle macchine” nei villaggi nativi; credo che non abbiano più la capacità di ottenere quantità significative di cibo selvatico senza l'uso di macchine)...”

“Il Picco dell'Energia colpirà l'Alaska prima e più intensamente che in molti altri posti. Il combustibile costa già fino a 9 dollari a gallone in qualche posto. Quando diventa antieconomico continuare le attuali operazioni di fornitura, le risorse industriali sulle quali si basano questi villaggi si scioglieranno”:

“La maggior parte dei villaggi sono consapevoli della loro completa dipendenza dai combustibili fossili. Molti anziani prevedono un futuro collasso dovuto ai crescenti costi ed alla moderna dipendenza. Tuttavia, non c'è una consapevolezza generalizzata del fenomeno del Picco dell'Energia in queste comunità. Non c'è consapevolezza del fatto che l'intero sistema possa collassare. I villaggi dell'Alaska devono essere preparati a quello che stiamo per affrontare”.

Sono tornato dal mio troppo breve soggiorno ad Anchorage con un profondo apprezzamento per questa terra di grande bellezza naturale, contrasti ed estremi e con una altrettanto profonda preoccupazione per come la gente dell'Alaska potrà occuparsi delle sue enormi sfide energetiche. Alcune di quelle sfide si presenteranno con forza in un futuro molto vicino.



Sul libro di Heinberg, vedi anche il post di Terenzio Longobardi sul blog di ASPO-Italia