giovedì 16 marzo 2023

Continua la campagna di propaganda contro i veicoli elettrici: ma è vero che emettono più particolato di quelli tradizionali?

 


Chi ha ucciso la EV1, una delle prime auto elettriche moderne? La risposta è ovvia: la propaganda. E ora ci stanno provando di nuovo denigrando l'ultima generazione di veicoli elettrici. 


Gira in rete una nuova storiella: le emissioni di particolato delle auto elettriche sarebbero superiori a quelli dei veicoli convenzionali. Ce la stanno veramente mettendo tutta per denigrare le auto elettriche ma, semplicemente, questa storia non è vera.
 
In questo caso, la storia si basa su un articolo del 2016, a sua volta basato su dati del 2009. Già si tratta di dati vecchi e obsoleti, ma il problema è che i dati a supporto della tesi dell'articolo NON sono vere misure del particolato emesso, ma solo stime basate sul peso dei veicoli. Siccome i veicoli elettrici sono leggermente più pesanti dei veicoli convenzionali, a parità di altre caratteristiche, ne consegue, secondo l'articolo, che emettono più particolato come risultato non della combustione, ma della frizione dei pneumatici con la strada, usura dei ferodi dei freni, e cose del genere. 

Ma le considerazioni dell'articolo non tengono conto, per esempio, della capacità dei veicoli elettrici di recuperare energia in frenata, e quindi di usare i freni meno di quelli convenzionali. Per non parlare di pneumatici e ferodi speciali per ridurre le emissioni di particolato, che sono abbastanza comuni nelle auto elettriche, dove si tende a usarli per risparmiare energia e aumentare l'autonomia. E, infine, non tengono conto del "particolato secondario," ovvero particolato che viene generato dalle emissioni della combustione -- un tipo di particolato che non esiste nel caso dei veicoli elettrici.
Recentemente sono state fatte delle vere misure sperimentali -- le trovate qui. E, come ci si poteva aspettare, il risultato è che le auto elettriche emettono MENO particolato di quelle convenzionali. La conclusione dell'articolo è (PM= particolato, EF= Fattore di Emissione, EV=veicolo elettrico, ICEV= veicolo con motore a combustione interna:)

Il nostro studio ha dimostrato che l'EF totale di PM dei veicoli elettrici è significativamente inferiore a quello dei veicoli a benzina e dei diesel, quando nella determinazione è stato incluso il PM dei gas di scarico secondari. Pertanto, la sostituzione dei veicoli industriali con veicoli elettrici può migliorare la qualità dell'aria e ridurre l'impatto negativo del PM sulla salute umana.

E' vero, tuttavia, che i veicoli dell'attuale generazione, elettrici o no, sono troppo pesanti. Abbiamo bisogno di veicoli leggeri che consumino meno risorse, siano meno inquinanti, e più sicuri. Vale per tutti i tipi di veicoli.

Quello di cui abbiamo veramente bisogno, in ogni caso, è che la gente la smetta di bersi tutte le storie assurde che gli raccontano.


martedì 14 marzo 2023

Niente Foreste, Niente Pioggia. Un recente studio lo dimostra

  


L'idea che le foreste creino pioggia è nota ai contadini da centinaia, forse migliaia, di anni. I primi studi scientifici risalgono ad Alexander von Humboldt (1769-1859), ma l'argomento rimane controverso. Tuttavia, stiamo iniziando a comprendere le profonde e complesse interazioni tra l'atmosfera e la biosfera. Esse formano un vero e proprio "olobionte", un sistema di elementi collegati che si influenzano a vicenda in modo non lineare. Un recente lavoro pubblicato da un gruppo di ricerca guidato da Anastassia Makarieva mostra come l'evapotraspirazione, l'evaporazione dell'acqua da parte degli alberi, modifichi la dinamica del vapore acqueo e possa generare regimi ad alto contenuto di umidità che forniscono la pioggia necessaria all'ecosistema terrestre. C'è ancora molto da capire su questi meccanismi, ma un punto è chiaro: le foreste sono un elemento cruciale per la stabilità del clima terrestre, e devono essere preservate il più possibile (U.B.) (dal blog "The Proud Holobionts")


Qui sotto, la traduzione del comunicato stampa a cura degli autori (traduzione cortesia di Mara Baudena)


Traspirazione da parte delle foreste e il ciclo dell'acqua sulla terra. Una relazione non banale

Makarieva, A. M.,  Nefiodov, A. V.,  Nobre, A. D.,  Baudena, M.,  Bardi, U.,  Sheil, D.,  Saleska, S. R.,  Molina, R. D., &  Rammig, A. 

Con la crescente scarsità d’acqua a livello globale e la deforestazione che minaccia molte delle foreste naturali rimaste, è sempre più urgente cercare di capire come le piante influenzino le piogge e più in generale il ciclo dell’acqua. Uno studio internazionale, capeggiato dalla Technical University di Monaco di Baviera (Germania), a cui ha partecipato l’Istituto di Scienze dell'Atmosfera e del Clima del Consiglio nazionale delle ricerche di Torino (Cnr-Isac) e pubblicato su Global Change Biology, rivela che, quando le condizioni atmosferiche sono umide, le foreste contribuiscono attivamente ad aumentare il trasporto di umidità dal mare alla terraferma. Viceversa, date condizioni atmosferiche più secche, la traspirazione delle piante può far diminuire il trasporto di umidità marina sulla terra e quindi le piogge.

Lo studio va molto oltre alle convinzioni tradizionali sul ruolo delle piante nel ciclo dell’acqua. “Abbiamo basato la nostra analisi su un nostro risultato precedente, cioè che l'aumento dell'umidità dell’aria dovuto alla presenza della foresta amazzonica porta a un grande incremento della pioggia” dichiara la Dr. Mara Baudena, ricercatrice del Cnr-Isac e coautore della ricerca. Combinando questa dipendenza con una piena considerazione del bilancio idrico atmosferico, i ricercatori hanno dimostrato che l’aumento delle piogge legato alla presenza delle foreste in condizioni umide, porta a una maggiore importazione di umidità dai mari. “Tali risultati confermano la teoria secondo cui le foreste agiscono come una “pompa biotica”, un cuore pulsante che sposta l’acqua sul pianeta” dichiara la Dr. Anastassia Makarieva (Technical University di Monaco di Baviera), primo autore del lavoro. Continua: “C’è anche una controparte: esistono due regimi per il ciclo dell’acqua, uno secco ed uno umido. In condizioni secche, la traspirazione delle foreste non porta a piogge e anzi va a diminuire il trasporto di umidità dal mare all’entroterra”. Questi risultati sono validi ovunque, dall’Amazzonia all’altopiano desertico del Loess, in Cina.

I risultati dello studio hanno profonde implicazioni, per esempio per la resilienza delle foreste tropicali di fronte al pericolo della deforestazione e del cambiamento climatico. La deforestazione può deumidificare l'atmosfera e quindi portare la foresta in un regime più secco, dove la vegetazione in ricrescita potrebbe estrarre ulteriormente l’acqua dal suolo intensificando l’aridità e al contempo diminuire l'importazione di aria umida dall’oceano. Uscire da questa trappola potrebbe essere impossibile. “Speriamo che i risultati dello studio aumentino la consapevolezza dell'importanza della conservazione delle foreste pluviali” continua Baudena. "Dobbiamo tenere conto delle relazioni olobiontiche tra tutti gli elementi dell'ecosistema che consentono una regolazione efficiente del ciclo dell'acqua", aggiunge un altro autore, il dott. Ugo Bardi (Club di Roma, Università di Firenze).

C’è anche una buona notizia: anche nelle terre aride, ripristinando la vegetazione originaria si dovrebbe poter migliorare l’apporto di umidità atmosferica dal mare verso l’entroterra. Per raggiungere questo obiettivo, la strategia di ripristino ecologico dovrebbe essere attentamente progettata per guidare la transizione dell'ecosistema dal regime secco a quello umido. Conclude Makarieva: “I flussi d'acqua atmosferici non riconoscono i confini internazionali; quindi, la deforestazione in una regione potrebbe innescare una transizione al regime più secco in un'altra. I nostri risultati indicano che le foreste naturali della Terra, sia alle alte che alle basse latitudini, sono la nostra eredità comune di fondamentale importanza globale, in quanto supportano il ciclo dell'acqua terrestre. La loro conservazione dovrebbe diventare una priorità ampiamente riconosciuta per risolvere la crisi idrica globale».

La scheda

Chi: Cnr-Isac (Torino), Università Tecnica di Monaco (Germania), Centro de Ciência do Sistema Terrestre INPE, São Paulo, Brazil, Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze

Che cosa: Makarieva, A. M.,  Nefiodov, A. V.,  Nobre, A. D.,  Baudena, M.,  Bardi, U.,  Sheil, D.,  Saleska, S. R.,  Molina, R. D., &  Rammig, A. (2023).  The role of ecosystem transpiration in creating alternate moisture regimes by influencing atmospheric moisture convergence. Global Change Biology,  00,  1– 21. https://doi.org/10.1111/gcb.16644


 

 

venerdì 10 marzo 2023

Compostaggio domestico: un passo verso l'economia circolare



La mitica compostiera elettrica di Ugo Bardi. 



Questo articolo è riprodotto dal blog della ditta SAEC

Di Ugo Bardi

Non c’è cosa più infamata e disprezzata al mondo della parte organica dei rifiuti domestici. La parte che puzza del sacchetto, quella che tende a formare liquidi immondi, quella che attira insetti, topi, batteri, e altre creature orribili. Insomma, il peggio del peggio, l’essenza del concetto di “rifiuto” che viene da una parola latina che vuol dire “buttar via.”

Eppure, il rifiuto organico è la parte più utile del rifiuto domestico. È quella parte che può essere trasformata completamente in un prodotto utile senza bisogno di trattamenti complicati e costosi. Confrontate, per esempio, con la plastica: riciclare la plastica è un incubo. Richiede tecnologie complicate e il risultato non è mai così buono come la plastica originale (si chiama “downcycling” – “riciclaggio verso il basso”).

Invece, dal riciclo della frazione organica si ottiene “compost” che è un ottimo fertilizzante e substrato per la coltivazione. Se il compost è fatto bene, non esiste il problema del “downcycling.” Se lo fate partendo, per esempio, dagli scarti dei pomodori, lo potete utilizzare per coltivare pomodori altrettanto buoni di quelli originali. Ci potete anche fare un “ammendante,” ovvero un materiale che migliora le caratteristiche fisiche del suolo, e anche un substrato per coltivare funghi commestibili.

Purtroppo, il compost ha una cattiva fama, più che altro sulla base dei vecchi metodi dei contadini e i loro cumuli di letame. In effetti, non era roba profumata. Ma il compost, di per sé non puzza. Anzi, è un prodotto naturale, e madre natura non ama lo spreco, che è invece una caratteristica delle cose puzzolenti. Fatevi due passi in un bosco. Specialmente se è appena piovuto, sentite un odore che è difficile da descrivere in parole, ma che tutti conosciamo. È un odore piacevole, che alcuni trovano addirittura inebriante. Ed è l’odore dell’attività dei batteri e dei funghi impegnati a compostare foglie e tutto quello che c’è di organico al suolo.



Ma noi umani non siamo altrettanto bravi dei batteri a compostare la materia organica, specialmente quelli di noi che vivono in città. Se qualcuno abbandona un sacchetto della spazzatura per terra in una strada, in breve tempo si genera un odore nauseabondo. Vi ricordate la crisi dei rifiuti di Napoli dei primi anni del 2000? Ecco, era successo proprio quello, ma su larga scala. Il risultato era che i batteri “buoni” non avevano la possibilità di fare il loro mestiere ed erano rimpiazzati da batteri meno buoni che, nel decomporre la materia organica tiravano fuori molecole odorose di vario tipo, fra le quali per esempio la “putresceina” che capite bene dal nome che non è una cosa piacevole da annusare.

D’altra parte, è anche vero che noi umani possiamo imparare. E stiamo imparando come gestirci meglio la parte organica dei nostri rifiuti domestici. È una storia che comincia molto tempo fa, quando i rifiuti non venivano considerati un problema e, anche in città, molte famiglie avevano piccoli orti e appezzamenti di terra. Non c’era plastica fra i rifiuti domestici: era tutto materiale organico che si poteva smaltire semplicemente sparpagliandolo in giardino, oppure facendo dei piccoli cumuli di compost. Ma, con gli anni, tutto è cambiato. Gli spazi per orti e giardini sono diminuiti e, soprattutto, la composizione dei rifiuti è cambiata. I rifiuti oggi contengono sostanze che non si potrebbero sparpagliare in giardino sperando che spariscano da sole, per esempio la plastica.

Circa un secolo fa, le grandi città hanno cominciato a mettere in opera dei sistemi municipali di raccolta dei rifiuti. All’inizio, i cittadini buttavano tutto nei bidoni della spazzatura, il tutto veniva caricato su dei camion puzzolenti e poi scaricato alla rinfusa dentro delle discariche a cielo aperto. Il risultato era un disastro di robaccia inquinante, maleodorante, e che poteva inquinare le falde freatiche con i liquami che la decomposizione produceva.

Col tempo, si è cominciato a fare di più e di meglio. Oggi, la raccolta differenziata ha enormemente migliorato le cose. Si cerca di separare la frazione organica dei rifiuti domestici per compostarla in impianti centralizzati, oppure trasformarla in energia in forma di biogas. Indubbiamente una cosa buona, ma rimane molto da migliorare. La frazione organica dei rifiuti domestici è oggi intorno al 40% del totale. Di questi, solo circa la metà viene compostata. Altre frazioni vanno all’incenerimento o alla produzione di biogas, ma rimane una frazione importante che finisce nell’indifferenziato a renderlo puzzolente.

Insomma, si può e si deve migliorare. Soprattutto, uno dei problemi principali del compostaggio centralizzato è la piaga del “conferimento improprio”. Molta gente non ha idea di come funzioni il compostaggio, non capisce la differenza fra organico o inorganico, e butta di tutto nei cassonetti dell’organico. Quando questo materiale arriva all’impianto, ci si trova di tutto. Alcuni rifiuti impropri possono essere filtrati, per esempio se c’è dentro un paio di scarpe. Ma la plastica, il metallo, e altre cose, finiscono spezzettati negli impianti di trattamento e, fatalmente, riemergono nel compost nella forma di pezzettini di materiale che non è compost. Nella peggiore delle ipotesi, il compost non può essere utilizzato come tale e va a finire in discarica come compost non a specifica.

Come possiamo migliorare? L’idea è di partire dall’inizio della catena di trasformazione. Se si parte da un materiale migliore – ovvero ben selezionato – allora tutto il processo è più semplice è il risultato è di buona qualità. Una linea possibile è la raccolta porta-a-porta dove il cittadino può essere guidato a selezionare meglio i propri rifiuti. Ma forse meglio ancora è l’idea di incoraggiare il compostaggio domestico con investimenti specifici da parte delle Amministrazioni centrali e/o periferiche (Regioni, Province, Comuni).

­­­­­­­In un certo senso il compostaggio domestico è un ritorno a quello che si faceva 100 anni fa, quando ognuno compostava i propri rifiuti a casa propria. È una cosa che già le aziende municipalizzate stanno facendo, incoraggiando i cittadini a compostare fornendo gratuitamente piccole compostiere domestiche in plastica o altri materiali e facendo sconti sulla tassa sui rifiuti per chi lo fa. La frazione di rifiuti compostata in questo modo, però, rimane molto piccola, al massimo qualche percento del totale. Questo è dovuto a vari fattori. In primo luogo, si può fare solo se uno ha un giardino. Poi, questi bidoni da compostaggio sono poco efficienti, funzionano solo in estate, attirano insetti e altri animali, possono anche emettere cattivi odori se non sono gestiti bene.

Grazie alla tecnologia la soluzione potrebbe essere un’altra. Ormai da almeno un decennio in Oriente, Cina e Giappone, si usano comunemente dei “compostatori elettrici.” Sono macchine ben più evolute e sofisticate dei bidoni da giardino. All’interno, il sistema controlla e mantiene costante sia l’umidità come la temperatura, assicurando condizioni ottimali per il compostaggio. Oggi fortunatamente il mercato offre soluzione tecnologiche decisamente avanzate che non puzzano, non sono rumorosi, non attirano insetti, e sono abbastanza piccoli e con designed veramente gradevoli da poter essere facilmente inseribili in qualsiasi arredamento di cucina o anche su un piccolo balcone. Il fatto di essere gestiti a livello familiare evita il conferimento improprio: nessuno butterebbe un paio di scarpe vecchie dentro il proprio compostatore, come del resto non le butterebbe dentro la pentola del lesso!

Questi impianti vanno benissimo anche a livello condominiale, oppure a livello di piccola azienda, per esempio un bar o un ristorante. In questo caso, richiedono un minimo di supervisione per evitare che qualcuno rovini tutto buttandoci dentro qualcosa di sbagliato. Per esempio, la comune segatura ha la capacità di avvelenare i batteri “buoni” che lavorano per noi. Non va assolutamente messa nel compostatore! Lo stesso per la plastica detta “biodegradabile” che non è detto affatto che lo sia. Imparare a fare del buon compost è un po’ come imparare a cucinare. Ci vuole un po’ di tempo e, le prime volte, può capitare di bruciare l’arrosto.

Questi nuovi compostatori elettrici, ormai completamente automatizzati sono parte della tendenza all’elettrificazione di tutti i servizi domestici. Mentre una volta usavamo fornelli a gas, adesso si usano a induzione. E lo stesso per il riscaldamento, che oggi tende a essere fatto usando pompe di calore elettriche. I compostatori elettrici usano piccole potenze. Sono bene isolati, quindi poche decine di Watt sono sufficienti per mantenere la temperatura interna a circa 40°C, mentre solo ogni tanto il sistema mette in moto l’asta di mescolamento, arrivando a consumare qualche centinaio di Watt. Sono anche sistemi che si sposano bene con il fotovoltaico domestico. Nel futuro, è probabile che saranno gestiti in modo tale da funzionare solo quando l’energia fotovoltaica è disponibile. In questo modo peseranno zero sulle spese energetiche delle famiglie.

Ma, alla fine dei conti, perché uno dovrebbe mettersi un dispositivo del genere in casa? C’è più di una ragione. La più semplice è lo sconto sulla tassa sui rifiuti. Un altro vantaggio è che non avrete più bisogno di andare in giro con sacchetti di roba puzzolente, oppure di tenerveli in casa aspettando il giorno della raccolta. Poi, se avete un giardino o un piccolo orto, o se avete qualche amico o parente che ce l’ha, vedrete che il compost che producete è un vero toccasana per ortaggi e fiori. E se avete dei vasi da fiori, potete divertirvi a fare l’“orto a sorpresa”. Sparpagliando un po’ di compost sulla superficie del vaso, i semi degli ortaggi che avete compostato germoglieranno, producendo di nuovo pomodori, peperoni, e zucchine. Provateci!


giovedì 9 marzo 2023

La caduta del Leviatano: La fine del capitalismo.

 


Di  | Feb 24, 2023


‘LA CADUTA DEL DEL LEVIATANO’

ovvero

NASCITA, CRESCITA, DINAMICA E FATO DELLA CIVILTÀ’ INDUSTRIALE.

“LA CADUTA DEL LEVIATANO. Collasso del capitalismo e destino dell’umanità” è un libro che si propone di superare la consueta narrativa circa l’insostenibilità e l’iniquità del capitalismo contemporaneo. Non cova infatti, né intenti vendicativi, né assolutori e si astiene dal proporre soluzioni più o meno utopiche. Illustra invece come il Fato della civiltà globale abbia preso forma da una combinazione unica nella storia di ineludibili leggi naturali, imprevedibili incidenti storici e l’affermarsi di una potente mitologia, capace di orientare gradualmente l’intera umanità verso un unico scopo supremo: Crescere!

Nella metafora di Hobbes, il Leviatano era formato da un intero popolo fedele ad un monarca assoluto. Nella nostra trattazione è invece una realtà fisica ben definita come “struttura dissipativa auto-organizzata evolutiva”. L’intero pianeta risulta oramai ricoperto dal suo corpo immane, costituito non solo da oltre 8 miliardi di esseri umani, ma anche da quasi 40.000 miliardi di tonnellate di catrame, metallo, cemento, colture e bestiame che costituiscono oramai un’unica mega-macchina globale di cui il sistema economico capitalista, nelle sue varie articolazioni, costituisce il metabolismo.

Una struttura estremamente efficiente in grado di evolvere con straordinaria rapidità, ma capace di fare un’unica cosa: assorbire sempre più energia e risorse per crescere perché, se la sua espansione si interrompe, muore. Tuttavia, anche la crescita continua lo condanna a un destino infausto, sebbene procrastinato nel tempo. Una condizione ben illustrata dal celebre aforisma: “Non puoi vincere, non puoi pareggiare, non puoi uscire dal gioco”; e neppure barare. La tecnologia assolve infatti a questa funzione fondamentale: barare al gioco della vita. Ha funzionato in passato e lo sta facendo tuttora, ma solo temporaneamente e con conseguenze penose inscindibili dai vantaggi che offre.

Attingendo alle più disparate discipline (dalla fisica alla mitologia, dall’economia alla filosofia, dalla storia all’ecologia) il discorso si dipana per oltre 400 pagine che si sforzano di descrivere fenomeni complessi nella maniera più semplice e divulgativa possibile. L’opera non consiste in un esercizio di esagerato determinismo, improntato a un morboso “tanto oramai non c’è più nulla da fare”; si propone invece di capire cosa sia possibile che accada e cosa no. Compito imprescindibile perché, con poche forze e ancora meno tempo a disposizione, sprecarli è disperante.



Un esempio molto semplice, ma utile per capire la natura del problema: immaginiamo un pietrone sferico su di un piano inclinato. Quali opzioni abbiamo al riguardo? Possiamo reggerlo, lasciarlo precipitare e scansarci oppure inventare un modo per bloccarlo il più a lungo possibile; possiamo pure spingerlo in salita o danzarci sopra mentre rotola a valle. In nessun caso, invece, il macigno tornerà verso l’alto da solo e smetterà di gravare verso il basso.

Sembra banale, ma forse non lo è, visto che l’intera politica mondiale si basa su presupposti altrettanto fantasiosi di un macigno che rotola da solo verso l’alto. Perfino molti premi Nobel dell’economia hanno avanzato teorie basate sulla presunta capacità dell’ingegno umano di violare la fisica e le leggi naturali. Ecco perché il libro si impegna a demistificare concetti tanto alla moda quanto antiscientifici, allo scopo di analizzare il Fato del Leviatano nel modo più realistico possibile.

Il Fato non stabilisce infatti ineluttabilmente il futuro, ma delimita un campo di probabilità decrescenti, fino a zero. Esiste dunque una gamma di opzioni possibili, ognuna delle quali provocherà ripercussioni immediate ed altre più o meno dilazionate nel tempo; talvolta utili e talaltra disastrose, comunque sempre difficili o impossibili da prevedere perché il sistema a cui apparteniamo è troppo complesso per comprenderlo nei dettagli, alcuni trascurabili altri invece cruciali. Malgrado un noto aforisma, ben difficilmente una farfalla scatena un uragano e, comunque, non potremo mai sapere se la tempesta in corso in Italia sia stata davvero innescata da una farfalla brasiliana che volava un secolo fa.

In compenso, conosciamo abbastanza bene alcune delle leggi che governano energia, materia ed informazione per capire che la forza inarrestabile del capitalismo si deve ad una peculiarità che lo differenzia da molti altri arrangiamenti socio-economici elaborati nella storia: quella di estremizzare la tendenza innata delle strutture dissipative, ossia distruggere il proprio “intorno” per crescere in dimensione e complessità. Così, il capitalismo ha letteralmente mangiato l’intero pianeta e con esso tutti i popoli che lo abitano, annientandoli o assorbendoli. Un’invenzione formidabile dunque, che ha prodotto la più grande civiltà di tutti i tempi e consentito all’uomo azioni un tempo ritenute prerogativa degli Dei, come volare e raggiungere la Luna. Ma ad un prezzo: accelerare una dinamica propria di tutte le strutture che assorbono e dissipano energia: l’invecchiamento e la morte. O, per meglio dire, il degrado ed il collasso.

Infatti, malgrado sia nato poco più di quattro secoli or sono e sia giunto a compimento appena trent’anni fa, il Leviatano appare già vecchio e malandato. Il libro illustra quindi i principali malanni che lo affliggono, in ultima analisi tutti dipendenti dalla sua fisiologia perché la stessa dinamica che, in un pianeta ricco di risorse e di biosfera, ha causato la sua smisurata crescita, nel mondo attuale dove ormai abbondano solo gli umani e i relativi schiavi (animali, vegetali e meccanici) sta rapidamente portando al collasso ed alla disintegrazione del Leviatano e quindi del capitalismo, che ne è l’apparato digerente. Al punto che, per sopravvivere, sta ormai divorando non più solo la biosfera ed i poveri del mondo, ma anche buona parte dei capitalisti e dello stesso Capitale.

Normalmente, le opere che affrontano tematiche affini a quelle de La caduta del Leviatano si chiudono con una serie di consigli e buone pratiche per correggere la rotta e salvarsi. Qui non ne troverete perché il sistema non è correggibile, al massimo se ne possono mitigare in modo molto limitato alcune tendenze. E dunque?

Ognuno cercherà il modo di cavarsela il meno peggio possibile secondo le sue opportunità e possibilità, ma noi esortiamo i lettori affinché pensino anche a coloro che verranno dopo di noi. In fondo, l’unico evento capace di cancellare l’umanità sarebbe un collasso generalizzato della biosfera, innescato dall’estinzione di massa in corso e vivacemente sostenuta dalle autorità di ogni ordine e grado, in ogni angolo del mondo, al grido di “Rilanciamo la crescita!”. Non sappiamo se la Vita sulla Terra sopravvivrà, ma è possibile ed è pertanto legittimo sperarlo. In caso positivo, i nostri più o meno remoti discendenti dovranno creare nuove civiltà con il poco di utile che avremo lasciato loro. E di cosa ha bisogno una civiltà? Acqua dolce, cibo, biodiversità, un clima vivibile, ecc., ma non basta. Ha bisogno anche di un mito fondatore perché è la mitologia e non la scienza che guida l’umanità, ora più che mai e così sarà anche in futuro. Perciò, mentre vi preoccuperete di salvare i vostri risparmi, di imparare l’orticoltura e le pratiche agroecologiche o di contrastare le speculazioni dei palazzinari amici del sindaco, pensate ad un mito che possa dare un senso a quanto vi accade ed una speranza per un futuro che nessuno di noi vedrà. Contrariamente al pensiero comune, una nuova mitologia è più importante di una nuova tecnologia perché attribuire un senso a ciò che ci accade e nutrire una qualunque forma di speranza sono due bisogni assoluti per noi umani, senza i quali non riusciamo a sopravvivere a lungo.

Dunque è imperativo elaborare una “grande narrativa” in grado di sostituire il mito del Progresso che ci ha condotti nell’impasse i cui ci troviamo, consapevoli che i miti fondatori sono sempre opere collettive che maturano nel tempo. Nessuno ne è l’autore, ma molti vi partecipano.

SINOSSI

CAPITOLO 1 – Illustra la natura del Leviatano unitamente ai concetti di “struttura dissipativa” e di “superorganismo”, necessari per comprendere la dinamica interna del Leviatano, derivante in ultima analisi da leggi fisiche.

CAPITOLO 2 – Tratteggia la genesi storica del Leviatano. Partendo da alcune peculiarità che rendono unica la specie umana attuale e rappresentano i necessari presupposti per lo sviluppo del Leviatano. Si delineano quindi i passaggi storici fondamentali e alcuni dei soggetti che, ispirandosi a presupposti ideologici diversi, hanno storicamente contrastato il formarsi del Leviatano.

CAPITOLO 3 – Descrive sommariamente la tecnostruttura che non solo permette al Leviatano di esistere, ma che ne è parte integrante e sostanziale, assieme all’intera umanità con i suoi organismi simbionti, commensali e parassiti.

CAPITOLO 4 – Si analizza l’“economia-mondo” che struttura gerarchicamente il pianeta in regioni centrali e periferiche, organizzando i flussi di materia, energia ed informazione caratterizzanti l’economia e la società globalizzata. Viene quindi spiegata la dinamica interna del sistema economico che alimenta il Leviatano, evidenziando l’importanza degli incrementi nella disponibilità di cibo ed energia per costruire società sempre più complesse. Infine, si accenna all’impossibilità di un’economia effettivamente circolare e dunque all’inevitabile alterazione dei cicli bio-geo-chimici da cui dipende la continuità della vita sulla Terra.

CAPITOLO 5 – Si affrontano la mistica del Progresso e i correlati miti della Macchina, del Mercato e della Crescita economica infinita, che hanno plasmato i modelli di pensiero dominanti negli ultimi due secoli, servendo anche a legittimare sia le profonde ineguaglianze sociali e inter-generazionali (spacciate per temporanee), sia il degrado dell’ambiente (ritenuto un fatto inevitabile e marginale).

CAPITOLO 6 – Si elencano le principali dinamiche perverse che stanno minando la funzionalità del sistema socio-economico globale, con le relative ricadute ambientali e sociali. Fra queste, si richiama l’attenzione su fenomeni apparentemente paradossali come l’erosione del reddito da capitale e la pauperizzazione di parte crescente dei capitalisti per opera del capitalismo stesso.

CAPITOLO 7 – Si tenta una diagnosi spiegando perché le “patologie” che affliggono il Leviatano non sono contingenti e neppure reversibili, essendo dovute ai profondi danni inferti alla biosfera ed al degrado quali-quantitativo delle risorse.

CAPITOLO 8 – Disamina delle fosche prospettive dal punto di vista storico e sistemico con particolare attenzione al fatto che, al variare della disponibilità di risorse e della salute della biosfera, le medesime dinamiche che hanno creato il Leviatano lo stanno ora distruggendo.

CAPITOLO 9 – La “morte del Leviatano” appare quindi un fatto procrastinabile, ma inevitabile e le conseguenze saranno di portata tale da modificare irreversibilmente non solo la storia dell’umanità, ma anche quella della biosfera tutta. Del resto, le prime avvisaglie di un tale evento sono già evidenti sotto il profilo ecologico, energetico ed economico. Si tratteggiano poi brevemente i principali tentativi di reazione alla crisi globale, soprattutto in Occidente.

CAPITOLO 10 – Abbozza una proposta avulsa dagli aspetti tecnici e pratici della crisi, bensì concentrata sul modo più appropriato di pensare ad essa, alla ricerca degli elementi su cui costruire un nuovo Mito Fondatore che possa sostituire quello ormai defunto del Progresso, per sostenerci e orientarci nei prossimi decenni che saranno probabilmente fra i più difficili dell’intera storia umana.

L’opera è stata sottoposta a Richard Heinberg, noto giornalista e scientifico e senior fellow del Post Carbon Institute, che si è così espresso: “Questa e’ la panoramica piú completa ed accurata della condizione umana nel 21° secolo in cui mi sia mai imbattuto”.

PER DISCUTERNE

Esistono una pagina FB ed un profilo Instagram (la_caduta_del_leviatano) dedicati al libro che, al di là dall’intento promozionale, possono essere sede di discussione. Occasioni per parlare direttamente di questi argomenti ci saranno in occasione delle presentazioni pubbliche che saranno annunciate sui canali social, man mano che saranno organizzate.

Per ora sono state fissate le seguenti:

15 aprile, presso Comunità dell’Isolotto, Via degli Aceri, 1 – Firenze. Ore 21:00

18 aprile presso Conventino Caffé Letterario, Via Giano della Bella, 20 – Firenze. Ore 18:00

21 aprile presso Circolo Arci Via Vittorio Veneto, 54 – Pontasserchio, comune di San Giuliano Terme (PI). Ore 17:30

Il libro si può acquistare in libreria, sul sito Web della Albatros Il Filo Edizioni, su Amazon e i principali bookstore on line.





lunedì 6 marzo 2023

La fine delle auto come le conosciamo?

Da "The Seneca Effect", Domenica 19 febbraio 2023

Le auto private sono  inefficienti e costose, e probabilmente saranno i primi componenti del sistema industriale a risentire dell'imminente crisi delle risorse. I dati recenti indicano una crisi del mercato dell'auto che si sta sviluppando in questo momento: i prezzi sono in crescita, mentre sempre meno persone possono permettersi l'auto. Vedremo la fine delle auto così come le conosciamo


Non molto tempo fa, durante una discussione sui veicoli elettrici, una persona si è alzata dalla sedia e ha detto ad alta voce: "Il mio turbodiesel me lo tengo!" Il tono e l'atteggiamento implicavano qualcosa del tipo: "e se qualcuno di quegli stupidi verdi cerca di vendermi un'auto elettrica, lo faccio a pezzi". Era un buon esempio della regola fondamentale della politica che dice: "nessuno vuole cambiamenti di nessun genere". 

Sfortunatamente per questo amante del diesel (uno dei tanti), i cambiamenti stanno arrivando, che piacciano o meno. Guardate questi dati recenti di Bloomberg . 


Questo è un grafico sorprendente, uno di una serie che illustra i numerosi rapidi cambiamenti che stiamo vivendo al giorno d'oggi. Mostra l'inversione di una tendenza che ha visto le auto diventare sempre più convenienti negli ultimi 50 anni circa. Ma ora, il mercato sta cambiando rapidamente. I prezzi sono alle stelle e anche le auto usate stanno diventando più costose e difficili da trovare. Aumentano non solo i prezzi delle auto, ma anche quelli dei carburanti (soprattutto il gasolio), della manutenzione e delle assicurazioni. Aggiungete il modo in cui i governi continuano a maltrattare i proprietari di auto, visti come mucche da mungere da tasse e sanzioni. I risultati sono evidenti: molte persone non possono più permettersi le auto, le vendite di auto sono in calo da diversi anni, ma la tendenza sta accelerando e probabilmente lo farà ancora di più in futuro (dati da Statista ). 

Non possiamo dire che quanto sta accadendo sia inaspettato. Già 50 anni fa, il rapporto "Limits to Growth" al Club di Roma osservava che l'interazione tra l'esaurimento delle risorse, l'inquinamento e l'aumento della popolazione avrebbe portato a un declino economico durante i primi decenni del 21° secolo. È quello che stiamo vedendo: le persone stanno diventando sempre più povere. Guardate questi dati (da "American Compass")



L'intero "stile di vita americano", quello che il presidente Bush per primo ha definito "non negoziabile", è stato negoziato già negli anni '90. Forse i "dink" (doppio reddito, niente figli) possono ancora permettersi due auto in garage, ma per la maggior parte delle persone il sogno americano è diventato davvero un sogno. Con tutto che diventa più costoso e gli stipendi non corrispondono alla crescita dei prezzi, gli occidentali della classe media - e in particolare quelli della classe medio-bassa - devono tagliare qualcosa. Non acquistare una nuova auto è spesso la scelta più semplice. 

Entro certi limiti, avere meno auto e tenerle più a lungo non è un male. Riduce i costi e l'inquinamento e libera risorse per altri compiti più necessari. Sfortunatamente, le vecchie auto non possono durare per sempre, anche supponendo che ci sarà una scorta di carburante sufficiente per farle funzionare. E il problema è che, nella maggior parte delle periferie, specialmente negli Stati Uniti, la vita senza auto è quasi impossibile. Senza auto la gente non può andare al lavoro, non può fare la spesa al supermercato, non può portare i figli a scuola e così via. Servire una tipica area suburbana americana con un efficace sistema di trasporto pubblico è un incubo: questi luoghi non sono mai stati progettati con questa idea. Allora, cosa succederà? Abbozziamo un paio di scenari; ricordando che, come sempre, il mondo reale ci sorprenderà.

-- Lo scenario brutto. Non viene apportata alcuna modifica sostanziale. I consumatori rimangono attaccati alle loro attuali preferenze, l'industria si concentra su modelli di fascia alta, dove può ancora realizzare un profitto, e il pubblico si rifiuta di pagare per l'infrastruttura necessaria per il trasporto pubblico. A poco a poco, gli abitanti delle periferie iniziano a rimanere senza carburante, auto riparabili e pezzi di ricambio. Alla fine, una grande parte di loro diventa incapace di muoversi. Alcuni potrebbero essere in grado di lavorare da casa, mentre altri si trasformano in orticoltori locali. Ma nella maggior parte dei casi, nessuna mobilità significa niente lavoro, e niente lavoro significa niente soldi. Ciò porta al completo crollo del sistema economico di vaste aree suburbane. Gli abitanti cercano di trasferirsi nei centri urbani che possono ancora essere riforniti di cibo e altri beni, ma solo pochi ci riescono. Per gli altri, è lo scenario zombi

-- Lo scenario buonoIl sistema di trasporto viene riorganizzato attorno a veicoli meno costosi. L'industria si muove per produrre una nuova generazione di auto leggere ed efficienti ispirate al vecchio "Maggiolino" VW, ma in una versione elettrica che può essere ricaricata dagli impianti fotovoltaici locali. Queste auto possono essere rese ancora più leggere implementando limiti di velocità notevolmente inferiori rispetto a quelli attuali in modo che non necessitino degli attuali ingombranti dispositivi di sicurezza. Col tempo, questi veicoli potrebbero evolversi nel sistema noto come TAAS (trasporto come servizio) basato su proprietà condivisa e veicoli autonomi, ma questo non è strettamente necessario. I nuovi veicoli dovrebbero fornire agli abitanti delle periferie una mobilità sufficiente per poter sopravvivere mentre ci adattiamo gradualmente a un mondo in cui le risorse naturali sono diventate rare e costose. 

Il primo scenario (quello "cattivo") sembra in corso proprio ora. L'azione di propaganda contro i veicoli elettrici e le energie rinnovabili è in pieno svolgimento e ci stiamo muovendo allegramente e con sicurezza verso il disperato tentativo di mantenere in vita cose che non dovremmo cercare di mantenere in vita.

L'altro scenario, quello "buono", richiederebbe una leadership forte e la capacità dei governi di costringere l'industria a produrre veicoli economici, cosa che l'industria non vuole fare. È uno scenario improbabile considerando un altro principio politico fondamentale, " nessuno può pianificare nulla ". Ma non è impossibile. 

Quindi, come al solito, il futuro è incerto. Ci sono scenari intermedi, ma le attuali auto pesanti e costose non hanno certo possibilità di sopravvivenza. Nel lungo periodo (forse anche medio), la fine delle auto come le conosciamo è inevitabile.



Avevo già esaminato questo punto in un precedente post su " L'eredità di Cassandra", cinque anni fa. L'attualità sembra confermare la mia precedente interpretazione. 



venerdì 3 marzo 2023

Nazionalismo e Ambientalismo: una contraddizione insolubile?




Il Nazionalismo sta andando di moda, anche se con il nome un tantino più nobilitato di "sovranismo," ma è sempre la stessa cosa. Di per sè, non c'è niente di male nell'amare il proprio paese. Il problema è che la crescita del sovranismo è andata di pari passo con il declino della capacità delle istituzioni internazionali di fare qualcosa per evitare il degrado degli ecosistemi planetari, che non conoscono confini, non hanno identità culturali, e non seguono bandiere. Fra i primi a tirar fuori esplicitamente il problema è stato Daniele Conversi con il suo recente libro "Cambiamenti Climatici, Antropocene e Politica," dove suggerisce alcune possibili strategie per evitare la contraddizione. Qui, una recensione di Elena Camino.




Verso un nazionalismo «cosmopolita» Venerdì 3 Marzo 2023 

Elena Camino


La copertina del libro di Conversi

Alcuni giorni fa, presso la Casa dell’Ambiente di Torino (Corso Moncalieri 18) è stato presentato un libro dal titolo Cambiamenti climatici. Antropocene e politica (Mondadori Università, 2022). Era presente l’autore, Daniele Conversi – professore presso l’Università dei Paesi Baschi a Bilbao, Spagna – che ha conseguito un dottorato di ricerca presso la London School of Economics, e ha collaborato con varie istituzioni negli Stati Uniti e in Europa. Esperto di nazionalismi, Conversi in questi ultimi anni ha indirizzato le sue ricerche sulle relazioni, complesse e conflittuali, tra le varie espressioni di nazionalismo e gli emergenti problemi globali provocati dai cambiamenti climatici.

L’Antropocene e i nazionalismi

«Il nazionalismo è la modalità dominante di legittimazione politica e soggettività collettiva dell’era moderna» (Malesevic, 2019). «Lo Stato-nazione è la realtà politica dominante del nostro tempo» (Brubaker, 2015).

Nonostante questa realtà, che in un suo recente articolo Daniele Conversi ci ricorda, fino al 2020 nessuno studio accademico ha affrontato il tema del cambiamento climatico dalla prospettiva delle teorie sul nazionalismo. Questa considerazione mette drammaticamente in luce l’esistenza, ancora oggi, di barriere tra discipline specialistiche diverse. Da decenni ormai il problema dei cambiamenti climatici è analizzato da scienziati che si occupano di scienze fisiche, chimiche e naturali (ma anche filosofi…), tanto da aver indotto la comunità scientifica mondiale ad assegnare il nome di «Antropocene» a questo periodo della storia della Terra, così drammaticamente perturbato dalla presenza umana.

Eppure questo insieme, ormai consolidato, di conoscenze e di previsioni sul futuro dell’umanità (e del pianeta) non ha mai incrociato un aspetto cruciale delle scienze sociali, quello delle storie e delle dinamiche degli «stati» e delle «nazioni», e dei modi con cui ne vengono condizionate le vite e le relazioni tra i popoli.

Quali nazionalismi per il futuro globale?

Daniele Conversi è stato il primo studioso a esplorare questo campo di ricerca, con un articolo pubblicato nel 2020 dal titolo: The ultimate challenge: nationalism and climate change (L’ultima sfida: nazionalismo e cambiamento climatico). Dopo questo primo saggio ha approfondito la ricerca sul tema, cercando di capire se sono in atto forme di nazionalismo che siano più adeguate di altre nell’accogliere la sfida del cambiamento climatico. Insieme al collega Lorenzo Posocco ha preso in esame alcuni Stati-Nazione che di recente sono stati ufficialmente segnalati come particolarmente virtuosi nel campo della protezione ambientale.

Si tratta di Paesi scandinavi che hanno ricevuto punteggi elevati in valutazioni internazionali, come l’Environmental Performance Index (EPI), elaborato dalle università di Yale e della Columbia e pubblicato per la prima volta nel 2002. Progettato per integrare gli obiettivi ambientali delle Nazioni Unite, l’EPI prende in esame 32 indici di performance di salute ambientale calcolati per 180 Paesi.

La domanda che si sono posti Conversi e Posocco era: «Which nationalism for the Anthropocene?» (Quale nazionalismo per l’Antropocene?) ed è articolata in due questioni tra loro correlate:Il nazionalismo, che è l’ideologia dominante del nostro mondo di «stati-nazione», è compatibile con gli sforzi volti a fermare o ridurre i cambiamenti climatici e le conseguenti catastrofi ambientali?
Quali forme di governo, ispirate o meno all’ideologia nazionalista, potrebbero risultate più adatte ad affrontare la minaccia climatica che si è profilata all’orizzonte?
Tra emergenze geofisiche globali e divisioni geopolitiche

Mentre continua con le sue ricerche a cercare risposte a quelle domande, Daniele Conversi ha voluto compiere un servizio alla società, mettendo a disposizione del pubblico non specialistico (e a studiosi molto concentrati sulle proprie discipline!) una riflessione ampia e approfondita delle basi concettuali e delle ricerche finora svolte sui due temi che ritiene essenziale mettere in relazione, e di cui considera necessario lo sviluppo di un dialogo costruttivo: gli studi sulle cause e sulle previsioni dei cambiamenti climatici globali in atto, e gli studi sulla storia, sulla molteplicità e sull’evoluzione dei nazionalismi, che in varia misura influenzano le scelte politiche delle collettività umane in questo frangente storico.

Nel presentare il suo libro, pubblicato pochi mesi fa, l’autore ha sottolineato con forza l’importanza della divulgazione degli studi sui cambiamenti climatici, e sulla natura dinamica dei cambiamenti in atto sul nostro pianeta. Illustrando la struttura concettuale del suo lavoro, Conversi ha ripetutamente segnalato la necessità di un continuo aggiornamento dei dati scientifici, che pur essendo recentissimi sono già superati dal succedersi di nuovi e drammatici cambiamenti.

Nonostante la consapevolezza di una rapida obsolescenza dei dati scientifici, l’autore ha voluto dedicare la prima metà del suo libro ai risultati delle più recenti ricerche: oltre a fornire dati quantitativi, ha approfondito gli aspetti epistemologici e alle riflessioni interdisciplinari di questa nuova scienza della complessità e del limite, così poco nota al pubblico in generale e alle classi tecno-politiche dominanti. La seconda parte del libro affronta il problema della divisione geopolitica in Stati-nazione e dei loro nazionalismi incrociati, che hanno impedito finora azioni concertate per fermare la crisi, influenzando negativamente tutti gli accordi internazionali sul clima.

Nel quarto capitolo, in particolare, Conversi si interroga su come gestire questa pervasività del nazionalismo e su come cooptarlo verso una causa per cui non era stato inizialmente concepito, cioè la lotta al cambiamento climatico.

Mentre la ricerca scientifica continua a confermare le conseguenze sempre più rovinose dell’inazione – afferma l’autore – la necessità di costruire reti e alleanze globali sotto la bandiera del «cosmopolitismo di sopravvivenza» non può escludere a priori tutte le forme di nazionalismo. L’emergenza climatica e le relative crisi sono così ampie e onnicomprensive che nulla dovrebbe essere escluso a priori nello sforzo comune di cercare una via d’uscita dalla possibile catastrofe.

Una miniera di spunti

La presentazione che Daniele Conversi ha fatto del suo libro è stata lucida e appassionata, e ha suscitato interesse e curiosità da parte dei presenti, ciascuno esperto di «qualcosa» ma sicuramente ignorante su «altro». Ma la sfida lanciata dall’autore per stimolare un maggior grado di interdisciplinarietà tra gli studiosi, e per promuovere l’avvio di dialoghi davvero trans-disciplinari, si apprezza in tutta la sua complessità quando si comincia a sfogliare il suo libro. In poco più di 150 pagine vengono offerte informazioni, riflessioni, suggerimenti di letture che aiutano a vedere i problemi con sguardi nuovi, a connettere aspetti della realtà finora tenuti rigidamente separati, ad approfondire argomenti che sembravano estranei o irrilevanti.

Una bibliografia sterminata eppure tutta pertinente mette ricercatrici e ricercatori di fronte all’evidente necessità di sviluppare dialoghi con i colleghi di altre discipline, e sollecita lettrici e lettori del pubblico meno specialistico ad associare le nuove conoscenze scientifiche per ripensare le proprie scelte politiche in uno scenario di rapida trasformazione globale.

Una copia del libro sarà a breve disponibile al prestito presso la Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis di Torino.



lunedì 27 febbraio 2023

«Gli Usa hanno attaccato il North Stream»





L'intervista di Fabian Schneider a Seymour Hersh, tradotta in Italiano da "Jacobin Italia"

di Fabian Schneider

Il premio Pulitzer Seymour Hersh racconta il suo scoop sulla missione segreta ordinata da Biden per danneggiare il gasdotto che dalla Russia conduce alla Germania e lasciare al freddo l'Europa


Il 26 settembre 2022, nel mar Baltico, il gasdotto North Stream dalla Russia alla Germania è stato in parte distrutto da diverse esplosioni. La scorsa settimana, il pluripremiato giornalista investigativo Seymour Hersh ha pubblicato un articolo, basato su informazioni provenienti da un’unica fonte anonima, nel quale sostiene che ne sono responsabili l’amministrazione Biden e la Cia.

Hersh ha vinto il Premio Pulitzer nel 1970 per il ruolo che ha svolto nel raccontare la storia del massacro di Mỹ Lai, in cui i soldati statunitensi ammazzarono dai trecento ai cinquecento civili disarmati. Ha accettato di parlare con Fabian Schneider delle accuse contenute nel suo ultimo articolo e dell’influenza che la Cia e lo stato di sicurezza nazionale hanno sulla politica estera statunitense.


Per favore, spiegaci le tue scoperte in dettaglio. Cosa è successo esattamente secondo la tua fonte, chi è stato coinvolto e con quali le motivazioni?

Mi sono limitato a spiegare l’ovvio. Era una storia che chiedeva soltanto di essere raccontata. Alla fine di settembre del 2022, otto bombe avrebbero dovuto esplodere; sei sono finite sott’acqua vicino all’isola di Bornholm nel Mar Baltico, nella zona dove l’acqua è piuttosto bassa. Hanno distrutto tre dei quattro principali oleodotti del Nord Stream 1 e 2.

Il Nord Stream 1 fornisce gas combustibile [alla Germania] da molti anni a prezzi molto bassi. E poi entrambi gli oleodotti sono stati fatti saltare in aria: la domanda era perché e chi l’ha fatto. Il 7 febbraio 2022, in vista della guerra in Ucraina, il presidente degli Stati uniti, Joe Biden, in una conferenza stampa alla Casa Bianca con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, ha sostenuto che poteva fermare il Nord Stream.

La frase esatta di Joe Biden era «Se la Russia invade, non ci sarà più un Nord Stream 2, porremo fine a tutto ciò». E quando un giornalista gli ha chiesto esattamente come intendeva farlo, dato che il progetto era sotto il controllo della Germania, Biden si è limitato a dire: «Prometto che ce la faremo».

La sua sottosegretaria di stato, Victoria Nuland, che è stata profondamente coinvolta in quella che chiamano la Rivoluzione Maidan nel 2014, ha usato un linguaggio simile un paio di settimane prima.

Dici che la decisione di attaccare il gasdotto è stata presa anche prima dal presidente Biden. Esponi la storia dall’inizio, cronologicamente dal dicembre 2021, quando il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha convocato, secondo il tuo pezzo, una riunione della task force appena formata dai capi di stato maggiore congiunti, la Cia, lo Stato e il Dipartimento del tesoro. Scrivi: «Sullivan intendeva che il gruppo elaborasse un piano per la distruzione dei due oleodotti Nord Stream».

All’inizio, questa task force era stata convocata a dicembre per studiare il problema. Hanno introdotto la Cia e il resto; si stavano incontrando in un ufficio molto segreto. Proprio accanto alla Casa bianca, c’è un edificio chiamato Executive Office Building. È collegato sottoterra attraverso un tunnel. In cima c’è una sede d’incontro per un gruppo segreto, un gruppo esterno di consiglieri chiamato President’s Intelligence Advisory Board. Ne ho parlato solo per far sapere alle persone della Casa Bianca che ne so qualcosa.

L’incontro è stato convocato per studiare il problema: cosa faremo se la Russia entrerà in guerra? Siamo a tre mesi prima, prima del Natale del 2022. Era un gruppo di alto livello; probabilmente aveva un nome diverso, l’ho chiamato «interagency group», non ne conosco il nome formale, se ne ha uno. Erano la Cia e la National Security Agency, che controllano e intercettano le comunicazioni; il Dipartimento di stato e il Dipartimento del tesoro, che finanzia; e probabilmente alcuni altri gruppi coinvolti. Anche i capi di stato maggiore avevano una rappresentanza.

Avevano la missione di fornire raccomandazioni su cosa fare per fermare la Russia, misure reversibili, come più sanzioni e pressioni economiche, o irreversibili, interventi diretti, cose che esplodono, per esempio. Non voglio parlare di un incontro in particolare perché devo proteggere la mia fonte. Non so quante persone c’erano alla riunione, capisci cosa intendo?

Nell’articolo hai scritto che, all’inizio del 2022, il gruppo di lavoro della Cia ha riferito all’interagency group di Sullivan e ha detto: «Abbiamo un modo per far saltare in aria gli oleodotti».

Ce l’avevano. C’erano persone lì che conoscevano quella che negli Usa chiamiamo «guerra contro le mine». Nella Marina degli Stati uniti ci sono gruppi che si occupano di sottomarini – c’è anche un comando sull’ingegneria nucleare – e c’è un comando minerario. L’estrazione sotterranea è molto importante e abbiamo minatori qualificati. Probabilmente il posto più importante per l’addestramento dei minatori è in questa piccola località turistica chiamata Panama City nel bel mezzo del nulla in Florida.

Formiamo persone molto brave e le adoperiamo. I minatori sono molto importanti. Ti si apre qualsiasi varco; possono far saltare in aria le cose. Se non ci piacciono gli oleodotti sottomarini di un certo paese, possiamo farli saltare in aria. Non sono sempre cose buone, ma sono molto riservati. Per il gruppo alla Casa bianca era chiaro che avrebbero potuto far saltare i gasdotti. C’è un esplosivo chiamato C-4, che è incredibilmente potente, devastante in particolare con la quantità che usano. Puoi controllarlo e gestirlo a distanza con dispositivi sonar subacquei. Inviano segnali a frequenza molto bassa.

Quindi è stato possibile, e lo hanno detto alla Casa bianca all’inizio di gennaio, perché due o tre settimane dopo, il sottosegretario di Stato Victoria Nuland ha detto che potevamo farlo. Penso che fosse il 20 gennaio. E poi anche il presidente, con Olaf Scholz, ha detto il 7 febbraio che potevamo farlo. Scholz non ha detto nulla di specifico; era vago. Ma una domanda che farei a Scholz, se mi trovassi in un’audizione parlamentare, è questa: il presidente Biden te ne ha parlato? Ti ha detto in quel momento perché era così sicuro di poterlo far saltare in aria? Non avevamo ancora un piano, ma sapevamo di poterlo fare.

Che ruolo ha avuto la Norvegia nell’operazione?

Bene, la Norvegia è una grande nazione di marinai e ha energia fossile. Inoltre, sono molto ansiosi di aumentare la quantità di gas naturale da vendere all’Europa occidentale e alla Germania. E lo hanno fatto, hanno aumentato le loro esportazioni. Quindi, per motivi economici, perché non unirsi agli Stati uniti? Nutrono pure avversione nei confronti della Russia.

Nel tuo articolo, scrivi che i servizi segreti e la marina norvegese erano coinvolti, e dici che la Svezia e la Danimarca sono state informate ma non è stato detto loro tutto.

Il modo in cui mi è stato riportato è: se non glielo abbiamo detto, non avevamo bisogno di farlo. In altre parole, stavi facendo quello che stavi facendo, e loro sapevano cosa stavi facendo e capivano cosa stava succedendo, ma forse nessuno ha mai detto di sì. Ho lavorato molto su questo problema con le persone con cui stavo parlando. La linea di fondo è che, per fare questa missione, i norvegesi hanno dovuto trovare il posto giusto. I sommozzatori che venivano addestrati a Panama City potevano andare a cento metri sott’acqua senza una pesante bombola, solo una miscela di ossigeno, azoto ed elio.

I norvegesi ci hanno trovato un posto al largo dell’isola di Bornholm nel Baltico, profondo solo 260 piedi, in modo che potessero operare. Sarebbero dovuti tornare lentamente. C’era una camera di decompressione e abbiamo usato il cacciatore di sottomarini norvegese. Per i quattro gasdotti sono stati utilizzati solo due sommozzatori.

Un problema era come trattare con coloro che controllano il Mar Baltico. È monitorato molto accuratamente e ci sono molte informazioni disponibili apertamente, quindi ci siamo occupati di questo; c’erano tre o quattro persone che si occupavano di questo. E quello che abbiamo fatto è davvero semplice. Ogni estate da ventuno anni, la nostra Sesta Flotta della marina, che ha il controllo del Mediterraneo e anche del Mar Baltico, ha un’esercitazione per le marine della Nato nel Baltico (Baltops). E porteremmo in giro una portaerei o grandi navi. È una cosa molto esplicita. I russi certamente lo sapevano. Abbiamo fatto pubblicità. E in questa, per la prima volta nella storia, l’operazione Nato nel Mar Baltico ha avuto un nuovo programma. Avrebbe fatto un esercitazione nello sganciare e nel trovare mine per dieci o dodici giorni.

Diverse nazioni hanno inviato squadre di minatori, un gruppo avrebbe abbandonato la miniera e un altro gruppo minerario del loro paese sarebbe andato a caccia e l’avrebbe fatta saltare in aria. Quindi hai avuto un periodo in cui le cose sono esplose, e in quel periodo i norvegesi hanno potuto recuperare i sommozzatori. I due oleodotti corrono a circa un miglio di distanza; sono un po’ sotto terra ma non sono difficili da raggiungere e si erano esercitati in questo. Non ci sono volute più di poche ore per piazzare le bombe.

Questo è accaduto nel giugno 2022?

Sì, l’hanno fatto una decina di giorni a giugno, alla fine dell’esercitazione, ma all’ultimo minuto la Casa Bianca si è innervosita. Il presidente ha detto che aveva paura di farlo. Ha cambiato idea e ha dato loro l’ordine che voleva il diritto di bombardare in qualsiasi momento, di far esplodere le bombe in qualsiasi momento a distanza da noi. Lo fai solo con un normale sonar, costruito da Raytheon. Sorvoli e lasci cadere un cilindro. Invia un segnale a bassa frequenza: sembra il suono di un flauto, puoi creare frequenze diverse. Ma la preoccupazione era che una delle bombe, se lasciata in acqua troppo a lungo, non avrebbe funzionato, e due non lo fecero: avevano solo tre dei quattro gasdotti. Quindi c’era il panico all’interno del gruppo per trovare i mezzi giusti, e in realtà dovevamo rivolgerci ad altre agenzie di intelligence di cui non ho scritto.

E quindi cosa è successo allora? L’hanno posizionato, hanno trovato un modo per controllarlo da remoto…

Joe Biden ha deciso di non farli saltare in aria. Era l’inizio di giugno, cinque mesi dopo l’inizio della guerra, ma poi, a settembre, decise di farlo. Ti dirò qualcosa. Le persone operative, le persone che fanno azioni militari per gli Stati uniti, fanno quello che dice il presidente e inizialmente pensavano che fosse un’arma utile che poteva usare nei negoziati.

Ma a un certo punto, una volta che i russi sono entrati in Ucraina, e poi quando l’operazione è stata portata a termine, è diventata sempre più odiosa per le persone che l’hanno fatta. Sono ben addestrate; sono nel più alto livello delle agenzie di intelligence segrete. Hanno cambiato idea sul progetto. Pensavano che fosse una cosa folle da fare. E nel giro di una settimana, o tre o quattro giorni dopo il bombardamento, dopo aver fatto ciò che era stato loro ordinato, c’era molta rabbia e ostilità. Ciò si riflette ovviamente nel fatto che sto avendo tante informazioni al riguardo.

E ti dirò qualcos’altro. Le persone in America e in Europa che costruiscono oleodotti sanno cos’è successo. Ti sto dicendo una cosa importante. Le persone che possiedono aziende che costruiscono oleodotti conoscono la storia. Non ho avuto la storia da loro, ma ho saputo subito che lo sanno.

Torniamo alla situazione del giugno dello scorso anno. Il presidente Joe Biden ha deciso di non fare la cosa direttamente e l’ha rinviata. Allora perché l’hanno fatto a settembre?

Il segretario di Stato, Anthony Blinken, ha detto pochi giorni dopo l’esplosione dell’oleodotto, in una conferenza stampa, che a Vladimir Putin è stata tolta una grande forza economica e quasi militare. Ha detto che si trattava di un’enorme opportunità, poiché la Russia non poteva più armare gli oleodotti, il che significa che non era in grado di costringere l’Europa occidentale a non sostenere gli Stati uniti nella guerra. Il timore era che l’Europa occidentale non avrebbe più partecipato alla guerra. Penso che il motivo per cui decisero di farlo allora fosse che la guerra non stava andando bene per l’Occidente, e avevano paura dell’arrivo dell’inverno. Il Nord Stream 2 era stato sanzionato dalla Germania e gli Stati uniti temevano che la Germania avrebbe revocato le sanzioni a causa di un inverno difficile.

Secondo te, guardando il retroscena, quali sono state le motivazioni? Il governo degli Stati uniti si è opposto al gasdotto per molte ragioni. Alcuni dicono che erano contrari perché volevano indebolire la Russia, indebolire i legami tra la Russia e l’Europa occidentale, la Germania in particolare. Ma forse anche per indebolire l’economia tedesca, che, dopotutto, è una concorrente dell’economia Usa. Con gli alti prezzi del gas, le imprese hanno iniziato a trasferirsi negli Stati uniti. Allora, qual è la tua idea delle motivazioni del governo degli Stati uniti, se hanno fatto saltare in aria il gasdotto?

Non credo che ci abbiano pensato. So che suona strano. Non credo che Blinken e alcuni altri nell’amministrazione siano pensatori profondi. Certamente ci sono persone nell’economia americana attratti dall’idea che siamo più competitivi. Vendiamo Gnl, gas liquefatto, con profitti estremamente elevati; ci stiamo facendo un sacco di soldi. Sono sicuro che alcune persone pensavano che questa sarebbe stata una spinta a lungo termine per l’economia americana.

Ma in quella Casa Bianca, penso che l’ossessione fosse sempre la rielezione, e volevano vincere la guerra, volevano ottenere una vittoria, volevano che l’Ucraina in qualche modo vincesse magicamente.

Potrebbero esserci alcune persone che pensano che forse sarebbe meglio per la nostra economia se l’economia tedesca fosse debole, ma questo è un pensiero folle. Penso, fondamentalmente, che abbiano affondato il colpo su qualcosa che non funzionerà. La guerra non andrà a buon fine per questo governo.

Come pensi possa finire questa guerra?

Non importa quello che penso. Quello che so è che non è possibile che questa guerra finisca come vogliamo, e non so cosa faremo andando avanti. Mi spaventerebbe se il presidente fosse disposto a farlo.

Le persone che hanno fatto questa missione credevano che il presidente si rendesse conto di ciò che stava facendo al popolo tedesco, che lo stava punendo per una guerra che non stava andando bene. A lungo termine, ciò sarà molto dannoso non solo per la sua reputazione di presidente, ma anche politicamente. Sarà uno stigma per gli Usa.

La Casa bianca che pensava di avere una carta perdente: la Germania e l’Europa occidentale potrebbero smettere di fornire le armi che vogliamo e il cancelliere tedesco potrebbe riattivare il gasdotto, questa è sempre stata la paura. Farei molte domande al Cancelliere Scholz. Gli chiederei cosa ha imparato a febbraio quando era con il presidente. L’operazione era un grande segreto e il presidente non avrebbe dovuto parlare a nessuno di questa possibilità. Ma lui parla. Dice cose che non vuole.

La tua storia è stata riportata dai media occidentali con una certa moderazione e critica. Alcuni hanno attaccato la tua reputazione o hanno detto che hai solo una fonte anonima, e questa non è affidabile.

Come potrei parlare di una fonte? Ho scritto molte storie basate su fonti anonime. Se facessi il nome di qualcuno, verrebbero licenziati o, peggio, incarcerati. La legge è molto severa. Non ho mai esposto nessuno, e ovviamente quando scrivo dico, come ho fatto qui: è una fonte, punto. E negli anni le storie che ho scritto sono sempre state accettate. Ho usato per questo articolo lo stesso calibro di abili fact-checker che avevano lavorato con me al New Yorker. Naturalmente, ci sono molti modi per verificare le informazioni riservate che ho ricevuto.

E, sai, un attacco personale contro di me non arriva al punto. Il punto è che Biden ha scelto di lasciare la Germania al freddo quest’inverno. Il presidente degli Stati uniti preferirebbe vedere la Germania al freddo [a causa della carenza di energia] piuttosto che la Germania che forse non sostiene la guerra in Ucraina, e questa, per me, sarà una cosa devastante per questa Casa Bianca. Per me, e penso anche per le persone che hanno svolto la missione, è spaventoso.

Il punto è anche che può essere percepito come un atto di guerra non solo contro la Russia ma anche contro gli alleati occidentali, in particolare la Germania.

Restiamo alle cose semplici. Posso dirvi che le persone coinvolte nell’operazione hanno visto il presidente scegliere di lasciare al freddo la Germania per i suoi obiettivi politici a breve termine, e questo li ha inorriditi. Sto parlando di statunitensi che sono intensamente fedeli agli Stati uniti. Nella Cia, come ho scritto nel mio articolo, lavorano per la Corona, non lavorano per la Costituzione.

L’unica virtù della Cia è che un presidente, che non riesce a far passare la sua agenda al Congresso e nessuno lo ascolta, può fare una passeggiata nel cortile sul retro del Rose Garden della Casa Bianca con il direttore della Cia e qualcuno può farsi male a ottomila miglia di distanza. Questo è sempre stato il punto di forza della Cia, che mi crea problemi. Ma anche quella comunità è sconvolta dal fatto che abbia scelto di lasciare al freddo l’Europa a sostegno di una guerra che non vincerà. E questo, per me, è atroce.

Nel tuo articolo hai scritto che la pianificazione dell’attacco non è stata riferita al Congresso, come è necessario con altre operazioni segrete.


Inoltre, non è stato segnalato a molti livelli nell’esercito. C’erano altre persone in altre istituzioni che avrebbero dovuto sapere ma non sono state informate. L’operazione era molto segreta.

Ci sono state alcune critiche al tuo articolo da parte di persone impegnate nella valutazione dell’intelligence open source (Osint) su navi e aeroplani nella regione del Mar Baltico, affermano che nessun aereo norvegese è stato rilevato direttamente nel punto delle esplosioni il 26 settembre o giorni prima.

Qualsiasi operazione segreta seria prende in considerazione Osint e aggira il problema. Come ho detto, c’erano persone in missione che si occupavano di questo problema.

Che ruolo ha il coraggio nella tua professione?


Cosa c’è di coraggioso nel dire la verità? Il nostro compito non è avere paura. A volte diventa brutto. Ci sono stati momenti nella mia vita in cui… sai, non ne parlo. Le minacce non vengono fatte a persone come me; sono fatte ai figli di persone come me. Ci sono state cose orribili. Ma non ti preoccupi, non puoi. Devi soltanto fare quello che fai.

*Seymour Hersh è un giornalista investigativo americano vincitore del Premio Pulitzer. Fabian Scheidler è un giornalista berlinese, ha scritto The End of the Megamachine: A Brief History of a Failing Civilization (Zerobooks, 2020). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.