domenica 3 dicembre 2017

Un sogno di Freud (L'invidia del pelo)

Dopo che c'e stata qualche polemica sui commenti di questo blog, cerchiamo di rasserenare un po' gli animi con un racconto molto creativo e intelligente di Elena Corna, di cui abbiamo già visto un post giorni fa. Non ha a che fare con le catastrofi, per una volta! Leggetelo, perché è molto divertente. 



UN SOGNO DI FREUD
Un racconto di Elena Corna




“…Non ti spaventare…Mi chiamo Emmelina Freud e sono la tua pronipote. Ti parlo dal 1996.”

Sto sognando e so che sto sognando. Interessante. Mai successo. Perché sogno la mia pronipote? Perché il mio inconscio desidera una pronipote? Perché il 1996?

“No, zio, questo non è un sogno della categoria che studi tu. Sono io che sono venuta nel 1923 per dirti una cosa importante.”

I sogni sono un appagamento del desiderio…

“Guarda che ci sono diversi tipi di sogni, mica solo quelli lì. “

 Diversi tipi di sogni? E’ un’ispirazione questa che sto avendo?

“Per favore, zio. Sono tua nipote e ti appaio in sogno dal futuro, punto e basta. Accettalo, santi numi! E ora ascoltami.  Non ho molto tempo. A che ora hai messo la sveglia?”

Non ho messo la sveglia, domani non ho impegni al mattino.

“Benissimo, allora cerca di dormire finché non finisci il sogno.  Ti devo parlare per evitarti un grosso errore.”

Errore?

"Sì. So che stai scrivendo un nuovo saggio, è lì sulla tua scrivania.”

Certo. Sulla sessualità infantile. Importante.

“Sì, ma zio. Cito: “…non si pone un'alternativa tra maschile e femminile, ma tra genitale maschile da un lato e l'essere evirati dall'altro. Quando constata la 'propria inferiorità organica', la bambina suppone di aver posseduto una volta un membro  e di averlo in seguito perduto per evirazione" .

E’ il brano sull’invidia del pene, sì.

“Ecco, zio, l’invidia del pene non esiste. Stai prendendo una cantonata e la vorrei prevenire. Guarda che in futuro su questa cantonata rideranno anche i polli. So che sto interferendo nel corso della storia ma chi se ne frega, non è un’interferenza di quelle che cambiano il corso delle cose. Però si potrebbe evitare una figuraccia alla nostra famiglia in generale e a te in particolare.”

Ma come? Lo sviluppo della psiche della bambina, vero, dalle mie osservazioni…

“Zio, l’invidia del pene non esiste. Senti questa barzelletta: ci sono un bambino e una bambina che confrontano i loro giocattoli e il bambino mostra un giocattolo dopo l’altro vantandosi. A ogni giocattolo la bimba risponde con un altro giocattolo. “Io ho questo!” “E io ho questo!” “E io ho anche questo, tu ce l’hai?” “Certo, e ho anche questo..” Alla fine il bambino, esauriti gli oggetti, abbassa i pantaloni e dice: "E io ho questo! Tu questo non ce l’hai!!” E la bambina, serafica: "Pfui, io con la mia di quelli ne prendo quanti ne voglio.”

Ma, Emmelina, è solo una barzelletta! Io sono uno studioso…

“Dai, che lo sai bene anche tu che le barzellette nascondono una scheggia di verità. Non sei tu che hai scritto qualcosa sui motti di spirito?...Va bene, ora te lo argomento secondo i tuoi canoni…

Interessante. Chissà se al risveglio ricorderò tutto questo. Difficile. Sta parlando da dieci minuti. Convincente, però. Sì, può essere. Sto davvero prendendo una cantonata che lederà la mia credibilità? Va bene, mi hai persuaso. Sì, sì, hai ragione. Ben argomentato. Come le sai tutte queste cose?

“ Ho due lauree. Sai, alla fine del ventesimo secolo le donne studiano.”

C’è un problema, Emmelina cara. Durante una conferenza ho accennato al mio nuovo studio, ora la comunità scientifica se lo aspetta… anche se sono rimasto un po’ sul vago…

“Per Giove, non avrai parlato di evirazione e ferita narcisistica eccetera?”

No, sono certo di no. Però ho accennato all’invidia. Anzi, sono sicuro che hanno colto solo quella parola. Sai, volevo lasciare un po’ di aspettativa. Si aspettano comunque un saggio sull’invidia.

“ Beh, con tutte le invidie che ci sono, devi solo deviare l’oggetto dell’invidia.”

Sì, ma sono banalità. L’invidia della ricchezza, della bellezza, dei quarti di nobiltà…Queste cose le sanno tutti. Ci vorrebbe un’invidia inedita. Un’invidia profonda.  Un’invidia inconscia.

“ Ecco, zio, un’ idea ce l’avrei. Mi è venuta vedendo un video…”

Un cosa?

“Un esperimento. Un esperimento sociale. I ricercatori si avvicinavano a persone sconosciute…”

Dove?

“Dappertutto. Per la strada, nei bar, in treno. Dunque, si avvicinavano e li accarezzavano sulla testa o sulle spalle per vedere come reagivano. L’idea era venuta guardando la gente che normalmente, appena vede un cane a passeggio, lo accarezza sulla testa. Allora ci si è chiesti perché tutti considerano normale accarezzare dei cani estranei e non i propri simili. Così gli sperimentatori andavano qua e là accarezzando le capocce di perfetti sconosciuti. E quelli come pensi che reagissero?”

Male, molto male.

"Infatti. E sai perché?"

Ma è ovvio. Invasione della sfera privata. Mi stupisco che tu ti stupisca. La nostra civiltà reprime il contatto fisico, non siamo scimpanzé che si spulciano. Perché diavolo uno dovrebbe venire ad accarezzarmi la testa?

“Tutto questo è vero, ma c’è di più. Ti chiedi perché diavolo uno dovrebbe venire ad accarezzarti la testa. E te lo chiedi anche perché sai benissimo che non c’è niente di piacevole nell’accarezzarti la testa. Cioè, né la tua né quella di altri. A te viene mai voglia di accarezzare la testa di qualcuno?”

Se penso a certe testoline…

“E non pensare al sesso come tuo solito, zio Siggy. Dimmi chi c’è che accarezza la testa di un altro.”

Ma Emmelina, dove vuoi arrivare? Le mamme accarezzano i figli, i mariti le mogli eccetera.

“Appunto. Si fa per affetto, non perché sia piacevole.  Invece quasi tutti accarezzano cani e gatti anche sconosciuti. E lo fanno perché lo trovano piacevole. Che ne dici?”

E’ molto gradevole, sì. 

“Perché? Continua. Perché, zio?”

Piacevole. Soprattutto i gatti. Affondare le dita in quel pelo…

“Touché! E’ il pelo che è piacevole. “

Sì, il pelo è bello. Tutti quei colori, quelle striature, quel calore, quella morbidezza... Diamine, appena mi sveglio vado a mettere le mani sul gatto dei vicini.

“Ecco, zio. Gli umani sono attratti dal pelo di cani e gatti perché è bello e anche perché… loro non ce l’hanno. L’abbiamo perso, il pelo. Una cosa così bella come il pelo ce la siamo persa o insomma non ce l’abbiamo. E lo invidiamo. “

L’invidia del pelo?! Mi stai prospettando un’invidia del pelo?

“Già. Pensaci, zio: le donne non vanno in giro con dei cetrioli o delle cose a forma di pene, ma amano andare in giro con le pellicce. Le pellicce sono belle, le donne le vogliono perché pensano che le rendano più attraenti. In sostanza, piacciono alle donne che pensano che piacciano anche agli uomini. Se questa non è invidia del pelo!”

Geniale, Emmelina, davvero geniale.  Indubbiamente, sei mia nipote. Grazie, grazie. Spero di ricordarmi questo sogno… Appena mi sveglio mi metto al lavoro. Dopo aver affondato le mani nel pelo del gatto, beninteso. 

“Ora devo andare zio, è quasi mattina e fra poco ti sveglierai. Ma ti ho detto quello che volevo. Ce l’abbiamo fatta per un pelo.”
…………………………………………………………………………………..

Che bella mattina di sole. Guarda guarda, devo essermi agitato stanotte. Per un pelo non sono rotolato giù dal letto. Per un pelo…Qualcosa mi risuona. Ho la sensazione di aver fatto un sogno importante…Cos’era?...Per un pelo… per un pelo Martin perse la cappa. Cercare il pelo nell’uovo. Non avere peli sulla lingua. Mah. Forse potrei scrivere qualcosa sui proverbi e i modi di dire…Ci penserò.


Commenti disabilitati su "Effetto Cassandra"

Gentili lettori,

scusate, ma mi è parso il caso di disabilitare i commenti a questo blog, perlomeno per un certo periodo. Insieme con i vari autori che pubblicano su questo blog facciamo il possibile per mettere a disposizione di tutti dei post che siano interessanti e informativi. Sui commenti, purtroppo, ultimamente abbiamo visto soltanto sfoghi personali e insulti - cose perfettamente comprensibili vista la situazione, ma mi pare il caso di ridurre la "temperatura" dei commenti mettendo in pausa tutto per un po'. (Nota: gli autori del blog possono ancora commentare e se avete qualcosa da dirmi, scrivetemi pure a ugo.bardi(pispolino)unifi.it)

venerdì 1 dicembre 2017

La Svizzera a 2000 Watt.

di Jacopo Simonetta

Il 4 ottobre scorso il Movimento Decrescita Felice e l’Associazione Italiana Economisti dell’Energia hanno organizzato a Roma, in Campidoglio, un’interessante convegno dal titolo: “ Modelli per la valutazione dell'impatto ambientale e macroeconomico delle strategie energetiche” (qui il link al sito per consultare tutte le relazioni).
In una serie di articoli cercherò di riassumere le presentazioni, tutte molto interessanti sia per le cose che sono state dette, sia per le cose che sono state taciute. Per prima vorrei qui trattare quella che il 4 ottobre è stata esposta per ultima, dal dr. Marco Morosini, perché, pur non avendo un contenuto tecnico rilevante, ha un contenuto politico potenzialmente rivoluzionario.

Di che si tratta?

Società a 2000 Watt” è un’idea elaborata nel 1998 da due politecnici federali: quello di Zurigo (ETH) e quello di Losanna (EPFL). Adottata nel 2002 come linea-guida dal governo federale e diventata legge locale nel 2008 a Zurigo, sempre tramite referendum (78% di si). Nel 2016 è stata approvata dal parlamento federale e nel 2017 resa attuativa con referendum nazionale (58% di si). In sintesi si tratta di porsi un obbiettivo vincolante: entro il 2050, ridurre i consumi pro-capite di energia di circa 2/3 rispetto ad oggi, portando le emissioni di CO2 a una tonnellata a cranio all'anno.

Perché è importante?

“Ridurre i consumi e le emissioni” è un mantra che oramai abbiamo sentito tante volte da dare la nausea, perché questa volta potrebbe essere diverso? Per svariate ragioni che si possono così riassumere:
1 - Non si tratta di una generica indicazione o di una dichiarazione di buoni propositi, bensì di una legge dello stato che stabilisce un obbiettivo preciso entro un tempo dato.
2 – Non si usano concetti vaghi ed elastici come “sostenibilità”, mentre si usano termini precisi: “Società” - significa che coinvolge tutti i cittadini in cambiamenti sostanziali - e “2000 Watt” - una quantità precisa espressa mediante un’unità di misura conosciuta.
3 – Si specifica che gli interventi dovranno svilupparsi secondo un ordine preciso di priorità: Primo ridurre i consumi di energia; secondo aumentare l’efficienza; terzo incrementare il ricorso alle rinnovabili; quarto uscire dal nucleare.

Il punto qualificante ed innovativo dell’intera faccenda è proprio che, per la prima volta in un documento governativo, si ha il coraggio di dire chiaro e tondo che gli obbiettivi non saranno centrati senza, per prima cosa, una diffusa adozione di stili di vita nettamente più sobri dell’attuale. Un fatto condensato con lo slogan “Fare meno con meno”, in contrasto con il “Fare di più con meno” di cui solitamente si parla. Insomma, dare finalmente la priorità alla Sufficienza sull'efficienza.
Naturalmente,  ben venga l’efficienza, ma solo in un quadro di riduzione programmata dei consumi finali; altrimenti non si farebbe che reiterare il perverso meccanismo che ha moltiplicato per 20 (circa) i consumi pro-capite dai tempi in cui Mr. Watt progettava le sue caldaie a vapore. E che ha finora vanificato qualunque tentativo di ridurre davvero le emissioni climalteranti.

Cambiare rotta

Finora, i tentativi di pianificare una reale riduzione dei consumi si sono puntualmente arenati su tre secche ideologiche principali:

Secca 1 – “La riduzione della prosperità materiale non necessaria perché l’aumento di efficienza ridurrà il consumo energetico”. Solo in teoria, perché durante tutta la storia dello sviluppo industriale lo smisurato aumento nell’efficienza delle tecnologie ha comportato un aumento e non una diminuzione dei consumi finali. Può sembrare strano, ma è così.

Secca 2 – “La riduzione del consumo energetico non è necessaria se si userà il 100% di energie rinnovabili.” Falso per due ordini di motivi: il primo è che anche le energie rinnovabili hanno impatti ambientali spesso considerevoli, mentre richiedono materiali rari e processi industriali energivori. Il secondo è che ad oggi le energie rinnovabili coprono poco più del 10% del consumo globale (principalmente con l’idroelettrico che è la tecnologia più efficiente, ma anche più impattante). Non è realistico pensare di poter rendere maggioritaria questa percentuale senza ridurre di almeno 2/3 i consumi finali.

Secca 3 –“La riduzione del consumo energetico e della prosperità materiale non sono possibili perché sono inaccettabili per la popolazione e per l’economia”. E’ stato vero finora, ma se gli svizzeri riusciranno a portare avanti il loro progetto, avremo l’esempio di un’intera nazione che accetta una contrazione economica pur di ridurre il proprio impatto sul pianeta!

Se gli svizzeri riusciranno a centrare gli obbiettivi è presto per saperlo, ma questa volta sono partiti col piede giusto e davvero è già tanto.

lunedì 27 novembre 2017

La Politica può cambiare le cose?



Nel loro grande e ultimo aggiornamento - I nuovi limiti dello sviluppo, 2004; - del loro primo lavoro D. e D. Meadows e Jorgen Randers affermano: "l'umanità può rispondere in tre modi ai segnali che indicano come l'uso delle risorse e l'emissione di inquinanti siano cresciuti oltre i limiti sostenibili. Un modo è non riconoscere, occultare o confondere i segnali"; "un secondo modo di rispondere è alleviare le pressioni derivanti dai limiti ricorrendo ad artifici tecnici o economici"; "il terzo modo è volgersi alle cause sottostanti, fare un passo indietro e riconoscere che il sistema socioeconomico umano, così com'è organizzato oggi, non è governabile, ha superato i limiti e va verso il collasso; dopo di che, cercare di cambiare la struttura del sistema" (pag.282-284). 
 
Ora, poichè secondo gli autori "tutto quello che possiamo fare è intervenire sui flussi produttivi da cui dipendono le attività umane riportandoli a livelli sostenibili attraverso scelte, tecnologia e organizzazioni umane..." (pag.35), cosa può voler dire cambiare la struttura se è l'"economia-politica" la struttura del sistema?

Fra le scelte necessarie che l'umanità dovrebbe compiere vi è, come noto, una autoriduzione della popolazione: si dovrà raggiungere una stabilità fra natalità e mortalità, poichè la popolazione è uno dei due "motori della crescita esponenziale nella società umana" (insieme al "capitale produttivo"; pag.50) e tende a crescere a tassi iperesponenziali.

Se cambiare la struttura significa regolare il sistema economico, bisognerà fare i conti con "l'anello di crescita del capitale" il quale ha fatto si che "l'industria crescesse maggiormente della popolazione" generando crisi da sovraproduzione e bassa domanda. Inoltre, bisognerà fare i conti col fatto che "le forme attuali di crescita perpetuano la povertà e ampliano il divario fra ricchi e poveri" (pag.66).
La questione che si pone perciò è: è possibile modificare il sistema economico evitando che vi siano accumulazioni di capitale (monopoli) e disuguaglianze?

Vi sono "fattori che regolano la crescita e che possono contenere il sistema entro confini accettabili" (pag.54)? Si tratta appunto di capire se vi siano feeback negativi (nel senso utilizzato in LTG 2004) entro un'economia monetaria, in grado di riequilibrarla e se questa possa assumere una forma diversa dal capitalismo neoliberista attuale. Poichè "sono all'opera due strutture generali [...] che per ragioni sistemiche danno al privilegiato potere e risorse per accrescere il loro privilegio" e che "tendono ad essere endemici in ogni società se questa non introduce coscientemente strutture di compensazione per contrastare le disuguaglianze" (pag.69).

Quali potrebbero essere queste strutture di compensazione? Si tratta di interventi politici come "imposte progressive sul reddito", ecc. Ma siamo sicuri che questo cambierebbe la struttura del sistema? Chiediamo dunque: è possibile cambiare il sistema economico mantenendo inalterata quella "struttura politica" che gli fa da sfondo? Qual è questa struttura? La questione è assai spinosa perché pone il problema di "chi e come" può cambiare una struttura.

La nostra cultura risponde all'unanimità che solamente tramite mutamenti di carattere politico è possibile cambiare le strutture della nostra società. Ma se fosse persino la Politica una struttura, o meglio, un sistema? In che senso?

La cosa non dovrebbe stupire se si risale all'accezione con cui si denominava nel XVIII secolo: Economia politica classica. Ebbene si: l'economia è una forma di politica e non è disgiungibile da essa (dopo Torleb Veblen, fra i più recenti Jean Baudrillard è quello che l'ha mostrato meglio), perciò l'idea che l'economia sia qualcosa di regolabile dalla politica è un'idea ingenua ma assai difficile da rigettare, poichè la dimensione politica è il fondamento della nostra cultura (in particolare mantenere la divisione fra la sfera privata degli elettori e quella pubblica dei decisori) e di ciò che ci vantiamo di chiamare democrazia.

Si tratta di dimostrare che la creazione della ricchezza non può aver luogo senza un correlativo aumento della popolazione. Un'affermazione certamente scandalosa. Vi sono condizioni alla base che sono:

1- un continuo aumento dei flussi estrattivi: energia a basso costo e materie prime
2- un aumento costante della produzione industriale
3- aumento costante della domanda di beni e servizi e dunque dei consumi

Ora, la popolazione deve crescere per alimentare i consumi o può aumentare il PIL procapite mantenendo stabile la popolazione? Qui infatti, come dicono in LTG "la bassa crescita della popolazione comporta un maggiore PIL procapite" invece, al contrario, nei paesi poveri l'"aumento di popolazione genera più povertà e ancora aumento di popolazione" (pag.66).

 
 [fonte: "Ambiente, Risorse, Sviluppo Sostenibile; di Selenia Arigliano]

A livello globale non esistono "diverse" economie bensì una medesima economia globalizzata. Ora, non è un caso che la Cina sia entrata nel WTO sin dal 2001 e che da allora sia diventata l'autentico motore della crescita mondiale, infatti è più o meno da allora che le economie occidentali hanno incominciato a rallentare. E la Cina non è esattamente un paese piccolo.

Dall'altra parte se non fosse per l'India non vi sarebbe un'adeguato "output" a consumare una fetta della produzione mondiale. Questi due paesi sono quelli che dobbiamo ringraziare quando elogiamo la crescita (e quando deridiamo il "made in China"; i governi mondiali hanno ben pensato di chiudere un'occhio nei confronti della odiosa ideologia comunista, trattandosi di affari..). Qui sotto, in azzurro "the rest of the world" comprende Cina e India, mentre notiamo come i paesi OCSE in blu scuro e tutti gli altri colori tendano al declino in termini di consumi energetici:

Risultati immagini per tverberg global consumption
[fonte: Gail Tverberg, Our Finite World]

Se consideriamo che la popolazione dei paesi sviluppati cresce ad una media dello 0,4% è evidente che ci pensa il resto del mondo a compensare questa situazione (Asia in media 0,9% e paesi poveri oltre 2% annuo). E' per questo che gli investitori occidentali si rivolgono ai mercati emergenti, poichè là trovano quella spinta alla crescita della popolazione e del capitale produttivo che si è ormai esaurita in Occidente. Quando toccheranno anche loro i "limiti dello sviluppo"? A quel punto vedremo anche là diminuire i tassi di crescita della popolazione.

Conclusione

Non sembra verosimile che la sfera politica possa generare feedback negativi tali da cambiare o equilibrare la struttura del sistema invertendo la tendenza al BAU delle nostre società. Ragion per cui attendersi dei cambiamenti su larga scala (come la COP21) dai politici non ha alcun senso poiché la "classe politica" mantiene tutti gli interessi nel perpetuare questo sistema e mostrerà sempre resistenze al cambiamento.

Se la Politica è un sistema, accoppiato all'economia, vediamo che andare a modificarne la struttura sembrerebbe qualcosa di una misura tale da non essere nemmeno compresa. Come cambiare la politica senza una rivoluzione politica a sua volta? Tale è la nostra forma mentis.

And so, what's next?




mercoledì 22 novembre 2017

Le Ultime Frontiere dell'Etologia





Nonostante il titolo molto scientifico, questo è un racconto di genere fantastico. Un po' erudito, un po' dissacrante, un po' divertente, un po' ironico; forse lo possiamo definire come fantascienza o, semplicemente, come una sottile riflessione sulla natura umana. Di Elena Corna potete anche leggere "La Metamorfosi Liquida" su questo blog. 


Le ultime frontiere dell’etologia

di Elena Corna


La sala, se vogliamo chiamarla così, era gremita. Per ascoltare i due illustri etologi erano accorsi una quantità di altri etologi, studenti di etologia, studenti in generale e anche non studenti: maschi, femmine, giovani, anziani, colti e meno colti. Naturale: in una società minimamente evoluta la curiosità intellettuale è necessariamente molto elevata. Mentre gli intervenuti si acciambellavano allegramente e sistemavano i loro generi di conforto, il moderatore Bibi si apprestava a presentare i due relatori.

        “Abbiamo il piacere di avere con noi Tututututu e il suo assistente Pepepepe, che ci presenteranno i risultati della loro ultima indagine, svolta nell’ambito del Progetto sulla ricerca dell’autocoscienza delle specie animali.”

Scroscio di applausi, se vogliamo chiamarli così. I due relatori erano infatti due luminari, come dimostra la lunghezza del loro nome (più volte la sillaba del nome è ripetuta, più il portatore del nome si trova in alto sulla scala della conoscenza).

         “ Per quelli di voi che non erano presenti alle precedenti serate, dirò due parole su questo Progetto, che mira a rispondere al fondamentale quesito: ‘Sono le specie animali terrestri autocoscienti, oltre che senzienti?’ Ebbene, il Progetto ha dimostrato che sì, gli animali sono autocoscienti. Non sono state esaminate tutte le specie, s’intende. Sono così numerose! Tuttavia le ricerche svolte finora sono confortanti. E’ stato dimostrato che sono dotati di autocoscienza quasi tutti i mammiferi, molte specie di volatili e anche di gasteropodi. E’ noto che più una specie è elementare, più lo studio è difficile. Ma un’uguale difficoltà si incontra anche nello studio delle specie complesse, proprio a causa della loro complessità. Ecco perché l’indagine di cui parleremo stasera era stata lasciata fra le ultime, proprio perché riguarda una specie particolarmente complessa. Ma cedo ora la parola agli illustri Tututututu e Pepepepe , che tenteranno di rispondere alla domanda: ‘E’ la specie umana dotata di autocoscienza?’
        
In mezzo a un altro scroscio di applausi, Pepepepe accenna un sorriso, se vogliamo chiamarlo così, ed esordisce: “Innanzitutto vorrei ringraziare i colleghi della Facoltà di Linguistica che hanno collaborato con noi e che stasera non sono qui; si scusano, ma è in corso un importante convegno sulle modalità di comunicazione telepatica. Se tutto va bene, già dopodomani potranno essere comunicati i risultati, che ci diranno se le onde-pensiero possono trasmettere i significanti, oltre che i significati.”

Il mormorio di ammirazione che si leva dall’uditorio costringe Pepepepe a una pausa.

Con un gesto, Bibi ristabilisce il silenzio.

“Ci vuole spiegare, professore, il motivo del sodalizio fra etologi e linguisti?”

“ Il motivo è la natura sperimentale di questa ricerca. Infatti, essendo la specie homo sapiens dotata di un linguaggio articolato, abbiamo pensato di studiarne l’autocoscienza dalle tracce linguistiche. In parole povere, il primo segnale di autocoscienza si ha quando un essere, mettiamo un polpo, pensa: “Io sono un polpo”. Nel caso di una specie che comunica prevalentemente con un linguaggio verbale, abbiamo pensato di monitorare l’uso che fa del termine che la definisce, ossia umano. Molto semplice.”

Interviene l’emerito Tututututu:”Collega, occorre dire all’onorevole pubblico che i linguaggi umani sono molteplici…”

“Sì, certo, stavo per dirlo: la specie ha elaborato migliaia di lingue, per cui era necessario sceglierne una. La scelta è caduta sull’italiano.”

Mormorio interrogativo fra la folla. Prontamente, Bibi mostra un punto su un grande mappamondo, per quelli che ignorassero l’ubicazione o l’esistenza di luogo nomato Italia. Il mormorio si placa ma non del tutto.

“La scelta, che può apparire peregrina, ha una sua logica -continua Pepepepe- Volevamo un idioma non troppo antico, che avrebbe potuto rivelare un apparato concettuale obsoleto, né troppo recente; né molto raffinato, come il greco, né schematico. Insomma, una lingua che riflettesse la media, per così dire, dell’homo sapiens. Abbiamo fatto la scelta giusta? Non si sa. Ma non entro nel merito e passo la parola all’esimio collega”.

Il pubblico pende dalle labbra, se vogliamo chiamarle così, di Tututututu.

“All’inizio della ricerca, il nostro sensore lessicale ha fiutato il termine umano, come era ovvio aspettarsi, in svariati testi soprattutto didattici, in cui è associato a parole come anatomia, riproduzione, società e anche dimensione. Dunque essi sanno di essere una specie a sé stante con un funzionamento differente da quello, poniamo, di un manzo o di un pappagallo. L’indagine, per noi, era già finita. Ma ecco che, proprio mentre stavamo per chiudere il rapporto, il sensore ha segnalato un giacimento del termine umano su molti giornali…”

Diligentemente, il moderatore sventola alcuni esemplari di giornale ad uso di coloro che non fossero a conoscenza di tale manufatto.

“ …a proposito della caccia alle foche. La questione era questa: sollecitato dalle proteste di molti umani amanti delle foche, il governo di un territorio chiamato Canada ha ripetuto numerose volte che le foche sarebbero state uccise  in maniera umana. Molto strano: la specie umana infatti pratica tutte le forme possibili di uccisione, spesso con estrema crudeltà. Uccide continuamente, sia cospecifici sia altri.”

Un mormorio di orrore sale dalla sala.

“So che è strano, ma è una caratteristica della specie…”

“Professore,- interviene una voce- sarà perché sono troppi? Sappiamo bene che la mancanza di spazio vitale è il fattore principale che induce all’aggressività…”

“Che cavolo dici?-interrompe un'altra voce- Essi se la prendono con le foche, e non c’è competizione territoriale con le foche!”

“Ehm…-continua Tututututu- sì, in effetti sono un po’ troppini, e questo è un fattore importante… ma c’è sicuramente dell’altro. Comunque, ora non possiamo parlare di questo. Permettetemi di tornare al punto: uccidere in maniera umana non può significare altro che uccidere spietatamente. Forse i sostenitori del massacro delle foche hanno inteso dileggiare gli oppositori? Questa sembra l’unica ipotesi possibile; comunque, l’evidenza richiedeva un approfondimento, perciò abbiamo puntato il sensore sul parlato. E lì abbiamo fatto una scoperta bizzarra.”

Il professore fa una pausa per guardare la curiosità gonfiarsi, con la soddisfazione di un pizzaiolo che fa lievitare la pasta a regola d’arte..

“Abbiamo scoperto che l’associazione più frequente nel linguaggio è quella fra il termine umano e una categoria di essere umano, per esempio un impiegato, un infermiere o un poliziotto. ‘Che fortuna, ho trovato un medico umano!’ dicono. Tuttavia, è assodato che nelle società umane non esistono impiegati, infermieri o poliziotti che non siano umani. Non abbiamo trovato nemmeno un funzionario che fosse uno scimpanzè, una megattera o un individuo di un altro pianeta. Dunque, ci siamo chiesti, perché gli umani si stupiscono quando trovano qualcuno umano? Lo sanno di già di avere a che fare con un altro umano! Ebbene, signori, trovare qualcuno umano, nel linguaggio corrente, significa trovare qualcuno solidale e comprensivo! Essi allora si stupiscono,  perché di solito gli umani sono arroganti e spietati. Essere arroganti e spietati perciò è considerata come la norma per gli umani. Ma allora, quando trovano un individuo gentile e solidale dovrebbero sì stupirsi, ma dire: ‘ Che fortuna, ho trovato un funzionario disumano!’ “

Un mormorio di approvazione  si diffonde fra l’uditorio.

E’ Pepepepe a riprendere il discorso, mentre il collega si tuffa in una pozza d’acqua (nota: c’è chi beve portando l’acqua dentro se stesso e c’è chi beve portando se stesso dentro l’acqua; questo vale tanto nella vita quotidiana quanto ai congressi)

“ Vedo che non vi sfugge la mancanza di logica dimostrata dalla specie in esame. Ebbene, caro pubblico, non è tutto qui!”

Gli risponde una serie di splash  e di munch munch, segno che il pubblico, ormai rilassato, ha attaccato i generi di conforto.

“Paradossalmente, e vi prego di notare il paradosso, il termine disumano viene usato per definire dei comportamenti particolarmente aggressivi; quando uno stupra, tortura, incrudelisce, allora viene chiamato  disumano. Eppure, la capacità di incrudelire e di far soffrire gratuitamente è specificamente umana. Per loro stessa ammissione, gli umani non hanno mai visto nessun altro comportarsi così. Non gli altri animali, che uccidono solo per fame, o per difendersi in  caso di minaccia, non i vegetali, che poveretti stanno fermi, non gli dèi, che stanno solo nei miti, non gli alieni, che per ora non hanno avuto il piacere di conoscere. Quindi, tutto ciò che definiscono disumano è in realtà tipicamente umano.”

“Ma è assurdo…”  “Non ha senso…” interloquisce qualcuno dal pubblico.

Riemergendo, Tututututu annuisce vigorosamente e riprende la parola. “E invece è così! Ciò che afferma il collega è corretto. Ma c’è di più! Puntato sui media, il nostro sensore è quasi andato in tilt, per il numero esorbitante di volte in cui ricorre il vocabolo umano.”

“Professore, un attimo! Mi lasci spiegare cosa si intende per media!” lo interrompe Bibi, issando sul tavolo dei relatori un esemplare di TV e alcune riviste.   Dopo una breve e ansante (l’apparecchio Tv si era rivelato piuttosto pesante per il fisico di Bibi) spiegazione, Tututututu riprende il discorso:

“C’è di più, gentile pubblico. Devo fare una premessa: sappiate che gli umani sostengono di avere in esclusiva alcune doti che gli altri animali non hanno: raziocinio, capacità di astrazione e di calcolo, autocontrollo. Essi ritengono di essere l’unica specie terrestre dotata di tali qualità. Ebbene, una combinazione frequente è quella del termine umano con i sostantivi “doti” o “qualità”. Continuamente i media segnalano le ‘qualità umane’ di qualcuno. Ora, è logico aspettarsi che si faccia riferimento al raziocinio eccetera, giusto?”

Una moltitudine di teste, se vogliamo chiamarle così, annuisce convinta.

“ Invece no, caro il mio pubblico! Le doti di umanità spesso decantate definiscono un insieme di adattabilità, di empatia e di disponibilità verso i propri simili. Quando un umano si distingue per le sue ‘doti di umanità’ si intende questo.  Ma tutte queste facoltà, che sono, per così dire, più sentimentali che raziocinanti, sono esattamente quelle che vengono riconosciute agli altri animali! Anzi, è difficile per gli umani raggiungere il grado di fedeltà, di abnegazione e di affetto incondizionato di cui sono capaci, ad esempio, i cani. Perciò, le migliori doti che l’umanità si riconosce sono alla fine quelle animali. Inoltre, in un confronto fra un individuo impulsivo e passionale e un altro logico e calcolatore, è sempre il primo che viene definito umano. Perché, io mi chiedo e vi chiedo, non è mai l’umano logico e pianificatore che viene complimentato per la sua umanità? Eppure è proprio lui che dimostra quelle caratteristiche che l’homo sapiens  ritiene una sua esclusiva conquista! Perché?”

Assetato per la lunga tirata e per la frustrazione del ricercatore che non ha cavato un ragno dal buco, il prof. si immerge lasciando la domanda a palleggiare nella sala.

“Boh?”

“In effetti è paradossale…”

“Sono pazzi, quegli umani”

“Ce lo dica, professore!”

“Col cavolo che lo so!” gorgoglia Tututututu riemergendo.

“Vi prego di scusare il professore, questa indagine è stata particolarmente faticosa e la stanchezza si fa sentire” interviene Pepepepe.

“Continuerò io, non per dare una risposta ma per dimostrare che non è stato possibile trovarla, la risposta. La questione infatti è più complicata ancora. Permettetemi di riprendere il filo: l’unica cosa chiara è che le doti umane sono qualcosa di cui vantarsi.

Ma qui si riscontra un altro paradosso: quando un umano vuole giustificare una sua debolezza, dice sempre (il nostro sensore l’ha rilevato in modo massiccio): In fondo sono un essere umano!”  Il che è un’ovvietà. Si è scoperto che la frase significa pressappoco:’ Sono un essere debole, imperfetto e impulsivo, non si può mica pretendere da me un comportamento lineare o efficiente etc.’ Il che è un’altra ovvietà. Lo sanno tutti nel cosmo che nessun essere fatto di materia è perfetto.”

“Forse essi non lo sanno…” interloquisce timidamente una voce.

“E allora non sono autocoscienti. Punto e basta” aggiunge un’altra voce.

“Nooo! Ha ragione il nostro amico della quarta fila!- irrompe Tututututu- Sono pazzi! Si è mai vista una volpe, che non è riuscita a prendere la preda, giustificarsi con i suoi cuccioli dicendo ‘In fondo sono solo una volpe?’  O si è mai visto un gatto che sbaglia un salto dire alla sua bella ‘In fondo sono un gatto’? La gatta penserebbe  ‘Certo che sei un gatto, cretino, te ne accorgi ora? Che pensavi di essere, una gazzella?’ Egli è sempre consapevole della sua gattità e non cerca scuse ovvie e quindi vuote!”

“Ehm…- interviene Pepepepe- ripeto, perdonate l’esimio professore. Si è impegnato molto in questa indagine e vi assicuro che passare parecchio tempo fra gli umani farebbe saltare l’equilibrio di chiunque. Ricapitolando, sì, l’asserzione è un’ovvietà, ma non è poi un gran male asserire un’ovvietà, come ben sapeva monsieur de Lapalisse. Il punto è un altro: coloro che usano spesso la frase ‘sono un essere umano’ per giustificare, ad esempio, dei frequenti scatti di ira, rivelano la poca volontà di ragionare sui propri comportamenti e, soprattutto, di migliorarli; in definitiva, chiedono agli altri di essere accettati così come sono; che nessuno chieda un minimo di evoluzione, per carità! Guarda caso, la capacità di evolvere è proprio quella di cui si vanta l’essere umano quando si paragona con  i comportamenti più ‘automatici’ degli altri animali o delle macchine. Quindi, i moltissimi umani che ripetono ‘sono un essere umano’ si infilano in un bisticcio concettuale, mettendosi allo stesso livello di entità incapaci di sviluppo, con cui mai vorrebbero essere confusi.”

“Ma professore!- protesta dalla prima fila uno studente con la faccia (se vogliamo chiamarla così) da secchione – A me pare che il ricorrere di questa frase dimostri che gli umani sono coscienti della loro imperfezione, per quanto ovvia sia!”

“Buona osservazione, caro Kakaka, ma allora perché ogni volta che un treno deraglia…Oh, sì, certo…Ecco, ora il nostro Bibi vi mostrerà cos’è un treno”

Velocemente, Bibi e altri montano sul tavolo un modellino di treno con annessi e connessi e ne spiegano la funzione, sotto lo sguardo attento dei convenuti.

“Carina quella cosa, mi piacerebbe averne una” sussurra una voce.

“Ma fammi il piacere, va’!” sibila un’altra voce, evidentemente della moglie.

“Certo che quegli umani ne hanno fabbricate, di cose strane!” esclama un terzo.

“Già! E questo non è niente!- esclama Tututututu, al cui udito finissimo non era sfuggito il commento – 

Dovreste vedere le banche, il teatro futurista e il reggiseno! ”

“ Scusi, prof., ma vorrei evitare che il discorso deragliasse – interviene sorridendo Bibi, fiero della sua battuta – Si parlava del fatto che essi sono coscienti della loro imperfezione…”

“Appunto. Tuttavia, ogni volta che un treno deraglia o succede qualche catastrofe del genere, essi danno la colpa a un ‘errore umano’ e si scandalizzano moltissimo. Sembra che l’interesse principale sia scagionare del tutto le macchine, le attrezzature e chi le ha inventate. La colpa ricade su chi le ha manovrate. Ma perbacco, chi le ha inventate doveva pur sapere che sarebbero state manovrate da umani! Doveva pur tenerne conto! E’ ovvio che un errore umano è probabile! Quindi, se questa specie è cosciente della sua imperfezione, perché inventa meccanismi complicati che devono essere manovrati da imperfetti umani e poi ci rimane male se quegli imperfetti umani fanno errori? Perché?”

“Ma insomma, professori, questa specie è autocosciente o no?”

“Eh, non si sa. Le evidenze, come speriamo di aver dimostrato, sono discordi. Il termine umano sembra indicare tutto e il contrario di tutto. L’unica cosa certa è che gli umani sentono il bisogno di affermare continuamente di essere, appunto, degli umani. Non si è capito però da chi ci tengono tanto a differenziarsi, dato che non sono minacciati da nessun’altra specie: né da altri animali o da robot, che non sono in grado, né da semidei o entità spirituali, che danno prova di grande discrezione, né da alieni, che a quanto pare stanno alla larga.

Dunque, perché l’asserzione di umanità è tanto inflazionata? Possiamo solo fare delle ipotesi.”

“Forse- azzarda una voce dal pubblico- essi non sono dotati di memoria...Hanno paura di dimenticarsi chi sono e così devono ricordarselo spesso. Magari ogni giorno si svegliano e pensano: ‘Dunque, cosa sono io? Sono un ragno e quindi devo fare la tela, oppure sono un tiglio e devo fare la fotosintesi, o forse sono un umano e devo guidare un treno? Che ne pensa, prof. Tututututu?”

“Carino però, quel treno…” bisbiglia distratto il tizio di prima, guardando il luminare tutto intento a manovrare il modellino.

“Gugu, non penserai mica di frequentare gli umani! Sono pazzi, l’ha detto anche il prof.!” sibila la (forse) moglie.

“Davvero, Gugu, sono pericolosi! Ha ragione Lalala!-  sussurra una terza voce del gruppetto- E’ l’unica specie conosciuta che pratichi la tortura! Quando ce l’hanno detto a scuola, nessuno ci poteva credere!”

“Lo so, lo so…Scherzavo…”  

Con autorevolezza, Pepepepe riprende la parola: “Poiché. ehm, in questo momento il prof. Tututututu è occupato, risponderò io. No, è da escludere che non abbiano memoria.”

“Ci sono! -esclama lo studente Kakaka dalla prima fila- Essi si stanno allenando! Si preparano a un momento in cui lo spazio sarà pieno di stazioni stellari brulicanti di umani, vulcaniani, venusiani, aquile reali e altri esseri, e allora gli farà comodo giustificare le loro eventuali goffaggini dicendo: ‘Scusate, sono un essere umano!’ “

Il dibattito a questo punto è irrefrenabile.

Lulu:   “Intendi, così come ora dici ‘Scusate, sono straniero’, se per esempio ti trovi in difficoltà in un luogo che non conosci?”

Kakaka: “Esattamente, sì”. 

Dydydy: “A me sembra una cavolata. Probabilmente essi si sono dati una definizione che non gli corrisponde…Intendo dire, forse vorrebbero essere in un certo modo ma poi di fatto non sono ancora riusciti a essere in quel modo.”

Sjsj. “Ma non sono loro che si vantano di evolversi? Che hanno fatto, in tutto questo tempo?”

Zeze: “ Boh, per me una specie che si definisce umana ma poi chiama disumane le proprie caratteristiche peculiari, è una specie che ha dei problemi.”

Cococo:“ E allora è come dicevo io. Non sono autocoscienti. Punto e basta”

Bibi: “ Amici, per favore! Il professore vorrebbe continuare!”

Pepepepe:” Ecco, c’è da aggiungere un’ultima cosa. Un’ ulteriore difficoltà…”

Tutti: “Un’altra?!?”

Pepepepe:”Sì. Un’ulteriore difficoltà sta nel fatto che, di solito, una specie è autocosciente oppure no. Invece nel caso degli homo abbiamo l’impressione che in generale non lo siano, ma abbiamo anche la certezza che qualcuno di essi lo è perfettamente.”

Mormorio di stupore.

“Il prof. Tututututu ha studiato i rilevamenti nella letteratura e pare che lì si trovi autocoscienza pura in dosi massicce. Solo che il sensore tirava verso il passato del territorio in esame, negli scritti di…-scusate, mi sono segnato due appunti…ah, ecco- di un certo Lucrezio e di un certo Virgilio, ad esempio, ma qui il sensore ha segnalato che doveva essere tarato su un’altra lingua, il latino. Però non avevamo tempo di iniziare una nuova indagine, così abbiamo cercato nelle epoche più recenti. E abbiamo trovato un tal Leopardi.”

Bibi: “ Ah, un felino, dunque!”

Pepepepe: “No, no, è un umano. Leopardi è il nome. Leopardi Giacomo.”

Bibi: “Oh, sì, certo, mi scusi…”

Pepepepe: “ Questo Giacomo dimostra inequivocabilmente una perfetta autocoscienza, oltre che lucidità, intelligenza, umorismo e poesia.”

Zeze:” E non poteva insegnarle agli altri??”

Pepepepe: “Ci ha provato, ma pare che l’abbiamo trattato male…”

Cococo: “ E allora è come dicevo io. Non sono autocoscienti. Punto e basta. Anzi, è come dice il professor Tututututu: sono pazzi, e questo Giacopardo non era umano, era un infiltrato.”

Pepepepe: “Ecco, vorrei terminare la serata con la lettura di una sua poesia, che tradurrò per voi. Mi scuso per gli scarsi risultati del nostro lavoro e per la confusione dell’esposizione, ma…”

Il pubblico applaude calorosamente e, quando l’atmosfera si placa, Pepepepe comincia a leggere.

Ora in sala ci sono solo silenzio e qualche splash splash…
“E il naufragar m’è dolce in questo mare.”

Silenzio. A qualcuno è spuntata qualche lacrima (se vogliamo chiamarla così).

Quando l’atmosfera torna un po’ più densa ( il che accade quando un’atmosfera smette di essere rarefatta), Sjsj è la prima a parlare, sporgendosi mollemente fuori dalla sia pozza d’acqua:

“Professor Tututututu, ha intenzione di continuare questa ricerca? Magari andando fra quei latini?”

“Nemmeno per sogno! E poi, quei latini sono tutti morti. Al loro posto ci sono i romani, e io in quel guazzabuglio non ci torno. Anzi, l’ultimo verso della poesia mi ha dato un’idea.  Ho intenzione di avviare una ricerca sulla vita sociale delle oloturie. Chi vuole iscriversi al gruppo e venire con me, me lo faccia sapere!”

Scroscio di applausi.

Gugu:” Se si va in treno, quasi quasi ci vado io.”

Lalala: “ Ma piantala! E poi le oloturie stanno nel mare!”

Gugu: “Lo so, lo so, scherzavo…”


domenica 19 novembre 2017

Pelagus. Il Mare al tempo dell'Antropocene.








Un post di Max Strata


Sono nato e cresciuto in una città di mare.

La mia casa si trovava a meno di un chilometro dalla spiaggia e fin da bambino, ogni giorno ed in ogni stagione, con il sole o con la pioggia, nell'afa estiva o sotto l'umido vento autunnale, potevo passeggiare lungo l'interminabile lido sabbioso e guardare i colori cangianti del Mediterraneo, le nuvole bianche e sottili, i grigi e turbolenti cumulonembi, il profilo aguzzo delle montagne che si trovano a poca distanza.

Nei miei ricordi più lontani ho bene impresso l'odore che il mare aveva e il sapore sapido e pulito dei frangenti. Ricordo che nelle pozze che si formavano sulla spiaggia dopo una mareggiata, potevo trovare decine di cavallucci marini (Hippocampus ramulosus) e una grande quantità di granchi, mentre dalla sabbia bagnata, scavando solo un po’, uscivano arenicole (Arenicola marina) lunghe fino 20 centimetri. Il mare era la città e la città aveva il sapore del mare. Il pesce era abbondante, la sabbia ed il sale si sentivano nelle piazze, nelle strade, nei cortili e ricorrevano nei discorsi della gente. Com'era il mare ieri, com'è oggi, come sarà domani e una certezza era condivisa: io ci sarò, ti nutrirò, ti fornirò aria buona e un clima mite. 

Oggi, a distanza di qualche decennio, quel mare è cambiato e le modificazioni ambientali che sono intervenute in questo lasso di tempo ne hanno fisicamente mutato le caratteristiche e la percezione sia a livello locale che a livello globale. Sulla costa dove sono nato e cresciuto perfino il suo colore e il suo odore non sono più gli stessi. L'innalzamento della temperatura delle acque di superficie e la quantità di nutrienti sversati dalle attività produttive e dai depuratori, ne hanno provocato un progressivo intorbidimento connesso a ripetute fioriture algali: un processo che è stato definito "fertilizzazione degli oceani". Con la maggiore quantità di calore prodotta dal cambiamento climatico (in estate fino a 4-5 gradi sopra la media) e l'intorbidimento delle acque costiere, ampi tratti di costa vengono interessati da “blooms” che sprigionano pericolose tossine. Pfiesteria piscida, Fibrocapsa japonica, Ostreopsis ovata e altre specie, oltre a recare danni alla pesca ed alla molluschicoltura sono in grado di provocare un serio impatto sanitario. La massiccia liberazione di tossine algali può infatti avere conseguenze sulla salute umana, in quanto l'inalazione per aerosol o peggio la loro ingestione, accidentale o mediante il consumo di molluschi bivalvi contaminati, può provocare, a seconda dei casi, irritazione, dispnea, intorpidimento, intossicazione epatica, paralisi e perdita della memoria fino al coma o addirittura alla morte.





Ai fenomeni di inquinamento diffuso, all'urbanizzazione delle coste, alla distruzione delle paludi costiere, al traffico navale e ai mutamenti climatici in corso, si aggiunge una pesca intensiva che in pochi anni ha decimato gli stock ittici e continua ad impoverire la biodiversità marina ad un ritmo impressionante. E' stato calcolato che su scala globale, la cattura di pesce selvatico si è fermata ai livelli dei primi anni novanta del XX secolo, ovvero a circa 90 milioni di tonnellate l'anno, mentre la F.A.O. ha dichiarato che 70 delle 200 più importanti specie marine sono a rischio di estinzione. 

Alcuni studi mirati indicano come negli oceani lo zooplancton sia diminuito in modo significativo e che senza efficaci controlli praticati su scala internazionale, gran parte delle risorse ittiche potrà arrivare al collasso entro la metà di questo secolo. Come scrive Jorgen Randers nel suo “2052: Rapporto al Club di Roma”, "Il pescatore che ha catturato l'ultimo grande banco di merluzzo nell'area del George's Bank al largo della costa settentrionale degli Stati Uniti, torna a casa soddisfatto, la sua barca è piena fino all'orlo e dice alla moglie che è andato tutto bene, senza sospettare che in realtà quella era la sua ultima battuta di pesca".

Nel caso del Mediterraneo, sulla base dei dati raccolti dal Comitato tecnico, scientifico ed economico della pesca europea (STECF), la coalizione OCEAN 2012 ha chiaramente evidenziato come il 95% degli stock ittici risultano sovrasfruttati.



L'ecologia ci insegna che i sistemi biologici non sono affatto lineari e ciò comporta che la risposta di un ecosistema ad un cambiamento causato da un fattore esterno, può non essere semplice da prevedere. I tempi e le modalità di risposta sono infatti variabili e proprio per questo possono manifestarsi cambiamenti improvvisi e drammatici che riguardano singoli processi o singole specie (per questo motivo definite specie chiave) che hanno riflessi sull'intero sistema. Il fatto, oramai accertato, che gli ecosistemi possono transitare in modo estremamente veloce e irreversibile da uno stato ad un altro quando una specie chiave viene meno o perché sono forzati ad attraversare una soglia critica spinti da una potente sollecitazione esterna, deve farci seriamente riflettere.

Quella che è tramontata è l'idea stessa della intangibilità del mare, della sua purezza e della sua presunta totale capacità di auto depurazione, della sua resistenza agli “agenti esterni”. Il mare, che da sempre, nella concezione comune, è il luogo dove tutto si perde, si diluisce e poi scompare, è cambiato e ha mostrato la sua fragilità.

Gli oceani ospitano anche una notevole quantità di rifiuti nucleari. Inizialmente affondati al largo della baia di San Francisco negli Stati Uniti e poi in altri luoghi del mondo, vi è stata immersa una quantità non definita di scorie radioattive, compresi i reattori nucleari smantellati e armi chimiche con gas altamente velenosi. Recentemente, nelle acque prospicienti alcuni impianti di rigenerazione e smaltimento delle scorie derivate dall'utilizzo del nucleare per la produzione di energia elettrica, i sommozzatori di Greenpeace hanno rilevato valori di radioattività fino a diciassette milioni di volte superiori a quelli registrati nelle zone non soggette agli scarichi. Sulle coste norvegesi, ad esempio, funghi e gamberi sono risultati contaminati da tecnezio, una sostanza radioattiva che il centro per la radioprotezione norvegese ha identificato come proveniente dall'impianto nucleare inglese di Sellafield, situato a centinaia di chilometri di distanza nel mare d'Irlanda. 

Non esiste una quantificazione su scala globale dei rifiuti liquidi e degli scarichi urbani e industriali che ogni anno veicolano in mare composti chimici tossici a più livelli. In tutto il mondo, migliaia di analisi chimiche su specie di pesci, molluschi e crostacei destinati al consumo umano hanno evidenziato contaminazioni da metalli pesanti, da P.C.B., da bisfenolo A, e da Tributilstagno (T.B.T.), quest'ultima, una sostanza usata come biocida nelle vernici antivegetative per le imbarcazioni, causa l'imposex, il fenomeno che impone caratteri sessuali secondari maschili (pene, vaso deferente e ghiandola prostatica) negli esemplari femmine. Al triste elenco non mancano i P.B.D.E., appartenenti alla categoria dei contaminanti organici persistenti (P.O.P.), che pur essendo riconosciuti come sostanza pericolosa, vengono ampiamente utilizzati nella fabbricazione di molti prodotti industriali tessili ed elettronici, negli imballaggi plastici e nel materiale edile, e proprio a causa di questo loro ampio utilizzo sono diventati ubiquitari, tant'è che la loro presenza è stata riscontrata anche negli uccelli, nei mammiferi marini, nel latte materno, nel tessuto adiposo, nel sangue e nel siero umano. 

Ultimi della fila gli ftalati, ormai onnipresenti in pellicole per alimenti, contenitori per farmaci e cosmetici, giocattoli, prodotti per l'igiene personale, ecc., sostanze che rientrano nella categoria dei cosiddetti “disturbatori endocrini”, che vengono assorbite dall'organismo anche solo attraverso il contatto con l’epidermide e che vengono messi in relazione con l'insorgenza del diabete, disturbi cardiaci, problemi di fertilità, obesità, autismo e alcuni tipi di cancro. Il fatto è che contaminazione ambientale e contaminazione alimentare sono strettamente collegate tra loro, poiché qualsiasi sostanza dispersa nell'ambiente non può esimersi dall'entrare nella catena alimentare. E che dire dei vari polimeri plastici che quotidianamente finiscono in mare. 

Recenti ricerche effettuate dal programma ambientale dell’O.N.U., hanno stimato che in ogni km quadrato di superficie oceanica si trovano fino a 20.000 frammenti di plastica con una media che passa a 400.000 frammenti nelle aree più contaminate, come nelle oramai tristemente note “isole di plastica”. In queste aree in particolare, la percentuale di micro particelle di plastica presenti in acqua è almeno 6 volte superiore a quella dello zooplancton e considerato che morfologicamente le particelle di plastica gli assomigliano molto, meduse, pesci e altri organismi marini se ne cibano, causandone, anche in questo caso, l'introduzione nella catena alimentare. I detriti plastici oceanici sono costituiti principalmente da monofilamenti incrostati di plancton e diatomee e a differenza dei rifiuti galleggianti di origine biologica non sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione ma subiscono una fotodegradazione, ossia si disintegrano in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri di cui sono composti.

Nei mari del mondo si stima che ogni anno a causa dell'ingestione di plastica muoiano qualcosa come 100.000 tra tartarughe e mammiferi marini e circa 1 milione di uccelli marini che vengono sterminati da tappi, ugelli degli spray, spazzolini da denti, ecc..., gli uccelli avvistano questi oggetti dal cielo, si tuffano in picchiata scambiandoli per cibo e li ingeriscono. Inoltre, i frammenti di plastica, agiscono come spugne assorbendo molti inquinanti chimici dispersi in acqua che accumulano in concentrazioni estremamente elevate. Una serie di ricerche effettuate lungo le coste della Scozia hanno dimostrato come una elevata percentuale di scampi destinati al mercato europeo (Nephrops norvegicus) presenta nel proprio apparato digerente filamenti e particelle di plastica. Come se non bastasse, un team di ricercatori del Korea Institute of Ocean Science and Technology, utilizzando una tecnica innovativa, ha recentemente raccolto campioni lungo la costa della Corea del Sud dimostrando come nei microscopici detriti galleggianti in mare, sono presenti anche leganti per vernici e resine di poliestere presenti nella vetroresina: sostanze che vengono utilizzate per realizzare e trattare vari tipi di imbarcazioni. Il gruppo di ricercatori, guidato dal chimico ambientale Won Joon Shim, ha verificato che in media, un litro di acqua marina conteneva 195 micro particelle, una concentrazione da 10 a 100 volte superiore rispetto a quelle raccolte in mare con altri metodi.



Quanto è lungo l'elenco dei crimini che la nostra specie sta infliggendo agli oceani? Secondo recenti stime della F.A.O., della Banca mondiale e della National Geographic Society, analizzate dalla Global Ocean Commission, nei mari di tutto il pianeta esisterebbero già oltre 400 “zone morte” che coprono una superficie pari a 250 mila chilometri quadrati, dove la maggior parte degli organismi marini non riesce più a sopravvivere. Inoltre, il 35% delle foreste di mangrovie e il 20% per cento delle barriere coralline risultano distrutte. Gli oceani coprono il 71% della superficie terrestre e hanno un ruolo fondamentale nella regolazione globale del clima. Assorbono calore, liberano quasi la metà dell’ossigeno che respiriamo e catturano oltre un quarto del CO2 emesso dalle attività umane (una quantità cinque volte superiore a quella delle foreste tropicali). In mare il biossido di carbonio si trasforma in acido carbonico (H2CO3) e le reazioni chimiche che si determinano provocano una riduzione degli ioni di carbonio liberi che sono fondamentali nei processi di compensazione dei carbonati e per la calcificazione dei gusci calcarei e degli scheletri di molte specie marine. Questa carenza ha un impatto sull'ecosistema e porta alla dissoluzione dei gusci calcarei delle conchiglie di molluschi, echinodermi, alghe, coralli e plancton calcareo; in pratica, agisce su tutti gli organismi la cui esistenza è legata alla fissazione del carbonato di calcio. 

L’Unesco ha presentato i risultati del Third Symposium on the Ocean in a High CO2 World, evidenziando che il fenomeno dell’acidificazione degli oceani, che avviene ad un ritmo inedito, è uno degli effetti più preoccupanti del cambiamento climatico e la prima constatazione è stata che gli oceani hanno visto il loro tasso di acidità aumentare del 26% dall'inizio dell’era industriale, con un pH che si è abbassato da 8,25 a 8,14. Ogni giorno, circa 24 milioni di tonnellate di CO2 vengono assorbite dalle acque marine e se le emissioni di questo gas resteranno immutate, il tasso di acidificazione aumenterà del 170% entro questo secolo in rapporto ai livelli anteriori all'era industriale. E’ chiaro che, nella misura in cui si accentua l’acidità, la capacità degli oceani di “trattare” l'anidride carbonica emessa in atmosfera si riduce, diminuendone il ruolo svolto nell'attenuazione del cambiamento climatico. Gli attuali tassi di rilascio di carbonio negli oceani sono infatti 10 volte più rapidi di quelli che hanno preceduto l'ultima grande estinzione di specie, che è stata quella del Paleocene-Olocene, avvenuta circa 55 milioni di anni fa.

Ma quanti conoscono il ruolo fondamentale che il mare gioca nell'equilibrio della vita sul pianeta ? Considerato che il 90% di tutte le forme viventi si trova negli oceani, è facile intuire cosa può accadere alterando i processi biochimici del più grande insieme di ecosistemi del pianeta. Pur nella consapevolezza che grandi porzioni oceaniche restano da verificare e che i "feedback" arrivano spesso in modo lento e apparentemente non chiaro, resta il fatto che ci troviamo in presenza di un cambiamento molto rapido e su larga scala che incide sui limiti del mare nel sostenere la vita sul pianeta. Assorbendo enormi quantità di carbonio e calore dall'atmosfera, gli oceani del mondo hanno finora contribuito a proteggere gli ecosistemi terrestri e gli esseri umani dagli effetti peggiori del riscaldamento globale, ma ciò sta comportando mutamenti profondi sulla vita marina. Del resto, la capacità del mare di assorbire CO2 è comunque limitata e il suo riscaldamento compartecipa allo scioglimento dei ghiacci polari in una catena di eventi che hanno effetti globali. Considerato che c'è un ritardo temporale di diversi decenni fra il rilascio del carbonio in atmosfera e gli effetti sui mari, ciò significa che una ulteriore acidificazione ed un ulteriore riscaldamento degli oceani sono al momento inevitabili, anche se la nostra specie riuscisse a ridurre drasticamente e molto rapidamente le emissioni di gas climalteranti.



Inoltre, il riscaldamento globale incrementa il fenomeno conosciuto come “deserto oceanico”. É noto infatti che le acque fredde sono ricche di sostanze nutrienti fondamentali per le catene alimentari marine e che invece gli strati superficiali, generalmente compresi tra una profondità di 30 e 100 metri, risultano più caldi e più stabili. A causa dell'irradiamento solare, la dilatazione dell'acqua che si manifesta al di sopra dei 4 °C provoca una minore densità degli strati superficiali rispetto a quelli sottostanti e ciò costituisce un vincolo per la vita oceanica. Durante la primavera i produttori primari sfruttano al massimo i nutrienti presenti negli strati superficiali via via sempre più caldi, fino a quando questi tendono ad esaurirsi e i detriti precipitano sul fondo. A questo punto, senza più cibo, le forme viventi presenti in superficie si riducono in modo drastico andando a costituire una sorta di “deserto” in mare. Così, mentre nei mari freddi le acque superficiali rimangono al di sotto dei 10 °C e riescono a rimescolarsi con gli strati profondi ricchi di sostanze nutrienti producendo vita, negli oceani caldi questo non avviene. La cattiva notizia è che già oggi, solo il 20% circa degli oceani ha caratteristiche fredde e che, con il progressivo riscaldamento del mare, questa percentuale è destinata a diminuire, “spostandosi” sempre di più verso le aree polari. Poiché in questo periodo storico le emissioni continuano ad aumentare e la temperatura media a salire, lo scenario che abbiamo di fronte appare tutt'altro che rassicurante.





Max Strata è consulente ambientale e saggista

Nella foto, raccolta di alghe nelle pozze di marea, Oceano Atlantico, Portogallo



sabato 18 novembre 2017

Il problema dell'eliminazione dell'Italia dai mondiali di calcio




13 novembre 2017
Maltempo, mancano 60 miliardi di metri cubi d’acqua per la siccità
Mancano almeno 60 miliardi di metri cubi di acqua per effetto di un 2017 straordinariamente siccitoso in cui è caduto in Italia circa 1/3 di pioggia in meno dall’inizio dell’anno. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti in occasione dell’ondata di maltempo con vento, pioggia e neve, sulla base dei dati Ucea relativi ai primi dieci mesi dell’anno. Non solo disagi e danni, l’arrivo della pioggia e della neve è importante per dissetare i campi resi aridi dalla siccità e ripristinare le scorte idriche nei terreni, nelle montagne, negli invasi, nei laghi e nei fiumi a secco. Le precipitazioni pero’ – sottolinea la Coldiretti – per poter essere assorbite dal terreno devono cadere in modo continuo e non violento, mentre gli acquazzoni aggravano i danni provocati dagli allagamenti con frane e smottamenti. Il repentino abbassamento della colonna di mercurio e i violenti temporali confermano i cambiamenti climatici in atto che in Italia – continua la Coldiretti – si manifestano con ripetuti sfasamenti stagionali ed eventi estremi anche con il rapido passaggio dalla siccità all’alluvione, precipitazioni brevi e violente accompagnate da bombe d’acqua con effetti sulle coltivazioni e sulla stabilità idrogeologica del territorio. A causa delle frane e delle alluvioni provocate dai cambiamenti climatici l’agricoltura italiana – conclude la Coldiretti – ha perso piu’ di 14 miliardi di euro nel corso di un decennio, tra produzione agricola nazionale, strutture e infrastrutture rurali.