domenica 11 giugno 2017

I primi quattro miliardi di anni di luce solare sul pianeta Terra


Questo è un articolo piuttosto lunghetto e formale che è apparso nel volume intitolato "Trasparenze ed Epifanie" edito dall'Università di Firenze quest'anno. Una cosetta interdisciplinare interessante e ambiziosa che è disponibile anche in "open access". Non so se avete voglia di leggervi questo malloppo che ho scritto, fra ere geologiche, evoluzione biologica, energia rinnovabile e rivoluzioni metaboliche. Ma contiene molti ragionamenti che  ho rimuginato negli ultimi tempi. Insomma, eccolo qua!


Di Ugo Bardi

Più di una volta, nella storia della scienza si è detto che sarebbe arrivato un giorno in cui non ci sarebbe stato più niente da scoprire e che la scienza si sarebbe dovuta limitare a lavorare sugli ultimi decimali di misure ormai ben note (Horgan 1997). Tuttavia, le rivoluzioni scientifiche continuano a succedersi, una dopo l’altra; ciascuna arrivando a oltrepassare i limiti di tutto quello che si sapeva in precedenza. Il ventesimo secolo havisto rivoluzioni come la meccanica quantistica, la relatività, l’elettronica digitale e molto di più. Ma le rivoluzioni continuano e forse l’ultima in ordine di tempo è quella che ha avuto luogo negli ultimi decenni del ventesimo secolo e che si sta ancora svolgendo nei primi decenni del ventunesimo: la comprensione dei meccanismi di funzionamento dell’ecosistema del pianeta Terra. È una rivoluzione nella conoscenza ma, come tutte le rivoluzioni, ha delle conseguenze pratiche. Delle conseguenze che potrebbero portarci a trasformare completamente l’ecosfera terrestre in qualcosa mai visto nei quattro miliardi e più della sua storia.

La rivoluzione della scienza dei sistemi terrestri è una rivoluzione che non tutti hanno ancora notato, ma che parte da lontano. Ha i suoi antenati nel lavoro di Charles Darwin sull’evoluzione delle specie e, ancora prima, nel lavoro dei primi geologi, da Lyell a Buffon, che avevano cercato di interpretare il record stratigrafico della crosta terrestree di svelare come il nostro pianeta si era evoluto nella sua lunga storia.Non è stato facile; la rivoluzione della geologia è andata in parallelo con quella dell’astronomia e della cosmologia, ma più lentamente. Galileo Galilei poteva fare le sue grandi scoperte semplicemente puntando un telescopio verso il cielo. Ma non esisteva – e tuttora non esiste – l’equivalente di un telescopio per la geologia. Esistono analisi lente e meticolose del record stratigrafico che richiedono anni e anni di lavoro e che spesso sono incerte per tante ragioni. Ma, come in tanti altri campi della scienza, si va avanti.

Così, il quadro che si è gradualmente presentato ai ricercatori che cercavano di svelare la storia della terra è stata una cosa che loro stessi forse hanno trovato inaspettata. Il “record geologico” che troviamo oggi negli strati sedimentati del passato è una storia che va a balzi: la storia della terra è un po’ una scatola cinese di suddivisioni che si susseguono. Si parladi eoni, ere, periodi ed età, su scale sempre più brevi, ma sempre “geologiche”; nel senso che le suddivisioni più lunghe hanno durate dell’ordine del miliardo di anni, quelle più brevi dell’ordine del milione di anni e anche molto meno. L’esistenza di queste suddivisioni è apparsa immediatamente chiara in geologia; molto più tempo è stato necessario per capirne le ragioni.

A lungo andare, ne è venuto fuori un quadro consistente con lo sviluppo della teoria emergente dei sistemi termodinamici fuori di equilibrio. Ed è chiaro che la Terra è un sistema termodinamico di questo tipo; ovvero un sistema fuori equilibrio dominato da flussi energetici esterni. Questo tipo di sistema tende ad agire come un trasduttore di energia che disperde i potenziali energetici disponibili alla massima velocità possibile (Sharma, Annila 2007; Kaila, Annila 2008); una proprietà che possiamo anche descrivere in termini del principio detto “massima produzione di entropia”(Kleidon 2004; Martyushev, Seleznev 2006; Kleidon, Malhi, Cox 2010). Se i flussi di energia incidenti rimangono approssimativamente costanti, i sistemi fuori equilibrio tendono a raggiungere la proprietà detta “omeostasi”; ovvero una condizione in cui i parametri del sistema rimangono approssimativamente gli stessi (Kleidon 2004). Sul breve periodo, il flusso di energia che arriva dal sole è approssimativamente costante (Iqbal1983).

Ma, sul lungo periodo, non è così e l’evoluzione dei corpi stellari fa sì che l’irradiazione solare aumenti molto lentamente e gradualmente; si stima di un fattore di circa il 10% per miliardo di anni (Schroeder, Smith 2008). Ne potremmo concludere che, su scale di tempo molto inferiori al miliardo di anni, la Terra dovrebbe mantenere una condizione di omeostasi. Ma non è così; il record stratigrafico ci mostra chiaramenteche il sistema terra è stato soggetto a cambiamenti relativamente rapidi per tutto il periodo della sua esistenza.

Quello che ha creato questi cambiamenti rapidi (detti anche “puntuali”) è stato l’effetto del flusso di energia che arriva dall’interno della Terra. Questo flusso di energia è il risultato sia del calore residuo accumulato nella massa planetaria durante la sua formazione, circa quattro miliardi di anni fa, sia del decadimento radioattivo di specie fissionabili. È molto inferiore, di circa due ordini di grandezza, a quello del flusso di energia solare (Davies, Davies 2010) e il suo valore medio cambia molto lentamente su scala geologica via via che la terra si raffredda e i nuclei instabili si esauriscono (Korenaga 2008). Tuttavia, questo flusso energetico è fondamentale. La vita sulla terra non potrebbe esistere se non fosse per il fatto che il nucleo terrestre è attivo e che l’interno della terra scambia continuamente materia ed energia con la superficie.

Un primo elemento che rende così importante l’aspetto geologico nel sistema terra è la natura discontinua del flusso di energia. La crosta terrestre è in continuo cambiamento e movimento secondo i meccanismi della tettonica a zolle e il risultato è che i flussi vengono diretti in modo disomogeneo, concentrandoli per esempio in eruzioni vulcaniche o province ignee (eruzioni particolarmente massicce). Le perturbazioni e i cambiamenti dei flussi di energia geotermica sono la causa principale delle discontinuità nel record geologico. Per esempio, si sa che durante il periodo detto “Fanerozoico”, iniziato 542,0 ± 1,0 milioni di anni fa, possiamo osservare una forte correlazione fra le eruzioni basaltiche delle grandi province ignee e le estinzioni di massa che definiscono la storia della biosfera terrestre (Wignall 2001; Kidder, Worsley 2010; Bond, Wignall 2014). Il risultato di questo flusso combinato di luce solare e di energia geotermica è l’ecosfera terrestre in tutta la sua lunga storia di circa quattro miliardi di anni. L’ecosfera è una “struttura dissipativa” secondo la definizione di Prigogine (1967; 1968). Ovvero è un sistema fuori di equilibrio che immagazzina energia e informazione e che ha la caratteristica di aumentare la velocità dissipativa del sistema. In termini ben noti ai chimici, potremmo chiamare l’ecosistema terrestre come un “catalizzatore”.

L’ecosfera terrestre è formata principalmente dalla biosfera, dall’idrosfera e dall’atmosfera. Tutte queste sono strutture dissipative, continuamente in movimento per dissipare l’energia solare che arriva sulla terra. L’idrosfera lo fa con le correnti oceaniche e con la circolazione dell’acqua sui continenti. L’atmosfera lo fa con il movimento delle masse d’aria che trasportano e dissipano il calore accumulato nella troposfera. La biosfera lo fa attraverso il processo di fotosintesi che crea tutta la struttura trofica dissipativa che conosciamo come tipica di quell’immenso sistema vivente che esiste sulla superficie della terra. Questi sistemi sono strettamente legati alla geosfera. Per esempio, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera terrestre viene mantenuta approssimativamente costante per mezzo di un sistema di retroazione basato sulla lenta reazione del biossido di carbonio con i silicati della crosta terrestre, generando carbonati. Questa reazione è detta il ciclo “lungo” del carbonio per distinguerla dal ciclo “corto” che è quello della fotosintesi nella biosfera. Il ciclo lungo del carbonio tende a rimuovere il CO2 dall’atmosfera trasformandolo in carbonati. Questi carbonati vengono lentamente trasportati sul fondo marino dall’erosione idrica. Vengono poi incorporati nei gusci degli organismi marini e, alla loro morte, sedimentano sul fondo marino. Da lì, i movimenti tettonici li seppelliscono all’interno dell’“astenosfera”, la parte superiore del guscio interno detto “mantello”, quella che si trova in contatto con la parte inferiore della crosta terrestre. Nell’astenosfera, i carbonati vengono decomposti dalle alte temperaturee il CO2 ritorna nell’atmosfera attraverso le eruzioni vulcaniche.

Questo meccanismo non è soltanto un ciclo, ma un ciclo che si autoregola. Siccome la reazione del CO2 con i silicati è facilitata dalle alte temperature, il biossido di carbonio viene rimosso più rapidamente quando la temperatura dell’atmosfera è più alta. Ma il biossido di carbonio ha anche un’azione di “gas serra”, ovvero tende a intrappolare il calore solare e ad aumentare la temperatura dell’atmosfera. Quindi, più ce n’è, più rapidamente viene rimosso e il sistema si autoregola come se fosse un termostato. È il grande “termostato planetario” a cui alcuni hanno dato il nome di “Gaia”; dal nome dell’antica divinità della Terra (Kleidon 2004). È proprio questo ciclo che ha compensato il graduale incremento dell’irradiazione solare nel corso degli eoni. Senza questo ciclo, è probabile che il pianeta Terra non avrebbe potuto mantenere per così tanto tempo condizioni di temperatura compatibili con quelle della vita biologica.

Tutti i sistemi planetari in azione al giorno d’oggi sul pianeta Terra hanno una loro storia legata principalmente all’interazione fra il flusso di energia solare e quello geotermico. Nell’arco di alcuni miliardi di anni, la terra ha formato le strutture geologiche che conosciamo oggi. La crosta terrestre nella forma delle terre emerse, ovvero delle placche continentali, è il risultato della lenta accrezione di materiale che si accumula sotto l’effetto del “nastro trasportatore” oceanico generato dalle dorsali oceaniche, dove il calore geotermico si dissipa generando flussi di lava e di gas caldi. Questo fenomeno ha probabilmente creato le strutture biologiche che chiamiamo “vita organica” come risultato di fenomeni catalitici che avvengono nella vicinanza delle dorsali oceaniche (Lane 2015). La nascita della vita organica, a sua volta, ha creato il fenomeno che chiamiamo “evoluzione”, anche questo con una storia discontinua, caratterizzato da cambiamenti spesso rapidi, detti “rivoluzionari” (Szathmáry, Smith 1995; Kleidon 2004), in cui la biosfera “impara” come aumentare la velocità di dissipazione del flusso di energia solare creando strutture dissipative sempre più complesse. È stato stimato che la frazione di luce solare dissipata dagli organismi terrestri è aumentata di un fattore di circa 1000 nel corso di circa tre miliardi dianni (Lenton, Watson 2011).

Mentre la biosfera evolveva a salti – ma lentamente – nel corso degli eoni, un altro fenomeno si verificava: l’accumulo dei potenziali creati dalla luce solare all’interno di composti del carbonio immagazzinati nella crosta terrestre. È, anche questo, un meccanismo molto lento; un esempio di un fenomeno non ciclico che non si autoregola, anche se non è completamente irreversibile. Nel corso del tempo, la fotosintesi ha rimosso carbonio dall’atmosfera spaccando la molecola del biossido di carbonio e rilasciando ossigeno. L’ossigeno è una molecola molto reattiva e, per almeno un miliardo di anni (forse di più), è stato assorbito da minerali reattivi come certe forme di ossido di ferro che possono essere ulteriormente ossidate. Da notare che la forma ridotta dell’ossido di ferro è solubile negli oceani, ma quella ossidata non lo è; per cui grandi quantità di ossido di ferro si sono depositate sul fondo degli oceani a generare i “depositi di ferro a bande” osservabili ancora oggi.

Questo è un esempio interessante di come la geosfera interagisce con la biosfera in un modo praticamente irreversibile: gli ossidi di ferro sedimentati sul fondo degli oceani sono sostanzialmente stabili e non ci sono meccanismi geologici o geobiologici noti che potrebbero invertire ilprocesso (Lenton, Watson 2011). Fa eccezione l’attività umana della metallurgia del ferro che fa esattamente questo, ma su scale per il momento di modesta importanza rispetto alla scala con cui il fenomeno si è verificato nel passato. Con l’andare degli eoni, il processo di sedimentazione naturale ha fatto sì che la riserva di ferro ridotto disciolta negli oceani sia stata consumata e l’ossigeno ha cominciato ad accumularsi nell’atmosfera dando origine al “grande evento di ossigenazione” (GOE, “great oxygenation event”), avvenuto circa 2.5 Ga fa e correlato a dei cambiamenti fondamentali nella geosfera visibili al confine fra gli eoni Archeano e Proterozoico (Gargaud, Amils, Quintanilla et al. 2011).

Il fatto che l’attività biologica abbia gradualmente eliminato il CO2 dall’atmosfera liberando l’ossigeno in esso contenuto pone la domanda correlata: cosa è successo del carbonio che rimaneva? Una risposta che appare inizialmente ovvia è che questo carbonio è stato incorporato nella biosfera. Dopotutto, animali e piante contengono carbonio come uno dei loro componenti principali. Ma questa interpretazione non regge a unesame quantitativo. La quantità di carbonio nella biosfera si stima comecirca 2100 miliardi di tonnellate (Gtons) (Current Carbon Stocks). Se tutto questo carbonio dovesse reagire con l’ossigeno atmosferico consumerebbe qualcosa come 5600 Gtons di ossigeno (tenendo conto che un atomo di ossigeno pesa più di un atomo di carbonio e che un atomo di carbonio si lega a due atomi di ossigeno). Ma la massa totale di ossigenonell’atmosfera è enormemente più grande; di oltre due ordini di grandezza (Canfield 2005). E tutto questo carbonio che non è nella biosfera, doveè finito? Lo sappiamo: è stato assorbito dalla crosta terrestre mediante il processo di sedimentazione, principalmente nella forma del composto detto “kerogene”.

Il kerogene è il risultato dell’accumulo di sostanze organihe provenienti da animali morti che si accumulano sul fondo dei mario di paludi continentali in condizioni di scarsità di ossigeno (condizioni dette “anossiche”). Nel corso degli eoni, quantità enormi di kerogene si sono accumulate nella crosta terrestre, più che sufficienti a rimuovere tutto l’ossigeno dall’atmosfera se si dovessero ricombinare con l’ossigeno (Vandenbroucke, Largeau 2007). Per fortuna, il kerogene brucia molto male in aria, e gli esseri umani non lo possono usare come combustibile. Tuttavia, una parte del carbonio sedimentato esiste in forme che gliesseri umani trovano utili per i loro scopi. Nel corso di tempi geologici, il kerogene si può ulteriormente degradare sotto l’effetto di alte pressioni e temperature, generando sostanze liquide e gassose a base principalmente di carbonio e idrogeno. Queste sostanze le chiamiamo “petrolio”e “gas naturale”. Li chiamiamo anche “combustibili fossili”. Il termine è corretto dato che sono di origine lontana nel tempo (fossile) e sono in grado di ricombinarsi con l’ossigeno (combustione).

Il termine “combustibile” porta una certa risonanza di “utilità” per gli esseri umani; ma queste sostanze non sono lì per fare un favore agli esseri umani, anzi,fanno dei danni spaventosi. Va detto che anche bruciando tutti i combustibili fossili che riteniamo essere bruciabili in linea di principio (Rogner 2000), non riusciremmo a eliminare abbastanza ossigeno dall’atmosfera da renderla irrespirabile. Tuttavia, anche quantità relativamente piccole di biossido di carbonio emesse dalla combustione dei fossili sono sufficienti a generare un effetto serra molto dannoso. Al momento, siamo arrivati a una quantità di CO2 nell’atmosfera corrispondente a oltre 400 parti per milione (ppm), molto maggiore delle 270 ppm che erano la quantità tipica dell’atmosfera in tempi pre industriali. Quali effetti sull’ecosistema deriveranno da questo aumento è difficile da dire con esattezza, ma siamo abbastanza certi che saranno molto negativi per l’entità che chiamiamo“civiltà umana” (Stocker, Qin, Plattner et al. 2013).

In sostanza, quello che ha creato la nostra civiltà è stata la trasformazione della luce solare in forme di energia chimica che gli esseri umani hanno utilizzato. È stato un lungo ciclo, partito negli eoni del passato con la lenta sedimentazione di materiale organico e la sua trasformazione in combustibili fossili. Quando siamo riusciti a trovare il modo di estrarli e di bruciarli ci siamo trovati ad avere una “luce concentrata” che ci ha portati a un espansione incredibile, che dura ancora oggi. Ma che non potrà durare ancora per molto tempo. Abbiamo chiara evidenza che abbiamo profondamente intaccato le riserve di idrocarburi combustibili create da antichi fenomeni biologici. Ma anche se avessimo ancora risorse abbondanti, stiamo veramente “giocando col fuoco” a riscaldare il pianeta così come stiamo facendo. E rischiamo seriamente di bruciarci. Che cosa ci aspetta allora? Evidentemente, dobbiamo rinunciare alla luce solare concentrata nella forma di idrocarburi combustibili. Se vogliamo mantenere qualcosa che si chiama “civiltà umana” su questo pianeta dobbiamo imparare a dissipare potenziali energetici diversi. È possibile? In linea di principio, sì.

La quantità di energia dissipata dalla civiltà umana si può misurare in termini del totale della cosiddetta “energia primaria”, corrispondente oggi a circa 17 Terawatt (TW). La capacità di questa dissipazione di generare le strutture complesse che chiamiamo “civiltà” dipende dalla quantità di energia (più esattamente di energia capace di produrre lavoro, o exergia) necessaria per mantenerle in funzione della loro degradazionedefinita dalla seconda legge della termodinamica. In pratica, questo dipende da alcuni parametri. Uno è l’energia netta (Odum 1973) definita come l’exergia generata dalla trasformazione di uno stock di energia inun altro stock. Un altro è il “ritorno energetico” (EROEI) (Hall, Cleveland, Kaufmann 1986). L’EROEI si definisce come il rapporto fra l’exergia generata da una struttura dissipativa e l’energia necessaria per crearee mantenere questa struttura. I combustibili fossili hanno potuto crearela civiltà umana dato che avevano delle EROEI dell’ordine di almeno 30 (Hall, Lambert, Balogh 2014). Se vogliamo fare a meno dei combustibili fossili, dobbiamo pensare ad altri modi per ottenere strutture dissipative complesse partendo dall’energia solare che, come detto prima, è molto abbondante con un flusso stimato come circa almeno 87.000 TW (Tsao,Lewis, Crabtree 2006).

Questo è possibile, tuttavia, soltanto se i metodi di trasduzione sono altrettanto efficienti di quelli usati per i combustibili fossili in termini di EROEI. Su questo punto, possiamo dire che tuttigli studi recenti che hanno esaminato la tecnologia fotovoltaica trovano valori dell’EROEI molto più grandi di 1 (Rydh, Sandén 2005; Richards,Watt 2007; Blankenship, Tiede, Barber et al. 2011; Chu 2011; Bekkelund 2013; Weißbach, Ruprecht, Huke et al. 2013) anche se alcuni studi riportano valori più bassi della media (Prieto, Hall 2011). Nella maggioranza dei casi, l’EROEI della tecnologia fotovoltaica sembra essere più basso di quello dei combustibili fossili anche se, in alcuni casi, viene descritto come più alto (Raugei, FullanaiPalmer, Fthenakis 2012). Valori anche più grandi sono riportati per impianti solari a concentrazione (CSP) (Montgomery 2009; Chu 2011) e per l’energia eolica (Kubiszewski, Cleveland,Endres 2010). La sostenibilità a lungo termine di queste tecnologie dipende dalla loro evoluzione, ma sembra che le tecnologie correnti non abbiano bisogno in modo critico di minerali rari e esauribili (García Olivares, Ballabrera, Poy, García, Ladona et al. 2012).

Esistono molte stime sulla massima quantità di energia che si potrebbe produrre mediante le moderne tecnologie rinnovabili. Il “potenziale tecnico” per l’energia solare da sola negli Stati Uniti è stimato a circa 150 TW (Lopez, Roberts, Heimiller et al. 2012). Secondo i calcoli (Liu, Yu,Liu et al. 2009), 1/5 dell’area del deserto del Sahara (2 milioni di kmq) potrebbe generare circa 50 TW. Sommando frazioni simili per i vari deserti, l’energia fotovoltaica potrebbe generare qualcosa come 50-60 TW, o anche di più, senza impattare sull’agricoltura umana. Sistemi eolici potrebbero generare quantità minori, ma dello stesso ordine di grandezzadell’energia primaria generata oggi (Miller, Gans, Kleidon 2011; Castro, Mediavilla, Miguel et al. 2011; Jacobson, Archer 2012). Chiaramente, il potenziale produttivo dell’energia rinnovabile in forma di vento ed energia solare diretta è enorme. Da questi dati, possiamo concludere che la dissipazione diretta dell’energia solare per mezzo di dispositivi a stato solido potrebbe rivoluzionare l’ecosistema in modo anche maggiore di quanto lo abbia fatto l’energia solare immagazzinata in composti del carbonio. L’uso di queste tecnologie potrebbe rappresentare una nuova “rivoluzione metabolica” nello stesso senso di quelle biologiche del remoto passato della terra (Szathmáry, Smith 1995; Lenton, Watson 2011). Se dovesse realizzarsial suo massimo potenziale, potrebbe rappresentare un cambiamento così radicale dell’ecosistema da meritare di essere definita come l’inizio di unanuova era geologica. Il nome di “Stereocene” (l’età dei sistemi a stato solido) potrebbe essere adatto.



Riferimenti bibliografici

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giovedì 8 giugno 2017

Uscire dai fossili il prima possibile: il progetto Europeo MEDEAS al Senato Italiano



Ilaria Perissi, ricercatrice dell'Università di Firenze parla in un incontro tenuto il 22 Maggio al Senato, a Roma (Qui, trovate il video completo). Perissi ha descritto le attività del progetto europeo "MEDEAS", del quale lei coordina le attività per il gruppo di ricerca dell'Università di Firenze. Il progetto è ancora all'inizio, ma i risultati sono già chiari. Bisogna liberarsi dai combustibili fossili il prima possibile se vogliamo evitare il peggio.

sabato 3 giugno 2017

Perché non riusciamo a fare la Transizione: stagnazione o collasso economico? (conclusione)

(Pubblicato anche su Appello per la Resilienza - https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)





di Michele Migliorino


Nella seconda parte avevo detto che avviene uno spostamento della ricchezza dalla parte dei produttori poichè la creazione di profitto avviene come "differenza fra l'eccedenza del valore realizzato dalla produzione sul consumo" (cit., L. Gallino). Deve diminuire costantemente la frazione di capitale investita in forza lavoro affinchè si generi profitto da reinvestire per l'aumento della produzione. Questo processo di spostamento avviene sia "microscopicamente" all'interno dei paesi ricchi, sia "macroscopicamente" a livello globale fra paesi ricchi e paesi poveri. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. In tutti e due i casi, sebbene aumenti lentamente il benessere procapite, la quantità di ricchezza complessiva che finisce nelle tasche del ricco aumenta progressivamente, inesorabilmente.

Nella quarta parte si diceva che è la risorsa petrolio ad alimentare il feedback dello sviluppo economico. Esso genera economia in quanto una risorsa produce nuove possibilità di lavoro poichè l'energia che se ne ricava mette in moto le attività umane. L'energia (Joule) genera lavoro ("exergia"; vedi Ugo Bardi). Ciò che sostengo è che nel momento in cui lo sfruttamento della risorsa avviene entro un sistema di tipo capitalistico, il tipo di feedback positivo che sorge impedisce che intervengano feedback negativi che mantengano il sistema in equilibrio poichè l'economia che si sviluppa ha una struttura intrinsecamente inegualitaria.

Il mercato della domanda e dell'offerta corrisponde alla divisione dei capitali, ovvero alla divisione sociale fra possessori di profitti e lavoratori. Sarebbe possibile in linea di principio redistribuire la ricchezza (tassa sul capitale) ma questo diviene contradditorio in una società aperta e globalizzata fondata sulla libera iniziativa economica. Chi infatti porrà un tetto ai monopoli se non lo Stato? E' proprio questo sovraorganismo che però viene a mancare in una società come la nostra, poichè pone limiti alla circolazione dei capitali.

E' in voga l'idea che ci aspetta una "stagnazione secolare" ma può essere che le analisi economiche non abbiano considerato adeguatamente il ruolo di una risorsa così determinante come il petrolio, perché si rifiutano di vedere l'economia come qualcosa di vincolato dall'ecosistema.

Immagine ridisegnata; di Herman Daly, https://www.csbsju.edu/Documents/Clemens%20Lecture/lecture/Book99.pdf

Tuttavia, anche qualora entro un'economia ecologica e circolare l'ambiente non costituisse più un'esternalità del processo economico e i costi non fossero più addossati alla collettività, come impedire che il sistema si scinda nuovamente in produttori e consumatori, dato che è questa la modalità che permette la creazione del valore monetario?

Stagnazione secolare o collasso?
Most people assume that oil prices, and for that matter other energy prices, will rise as we reach limits. This isn’t really the way the system works; oil prices can be expected to fall too low, as we reach limits.  
(La maggior parte della gente assume che i prezzi del petrolio, e di conseguenza quelli delle altre forme di energia, si alzeranno man mano che ci avviciniamo ai limiti. Questo non è però il modo in cui funziona il sistema; possiamo aspettarci che i prezzi crolleranno, quando raggiungiamo i limiti)
- Gail Tverberg, Our Finite World, https://ourfiniteworld.com/2017/05/05/why-we-should-be-concerned-about-low-oil-prices/
Ci si aspetta che il sistema verrà affetto da grave recessione (definitiva?) nel momento in cui i costi della produzione del petrolio saranno troppo alti in rapporto al suo prezzo di vendita (non si sa quale sia il costo reale di un barile di petrolio per l'economia). E' quello che sta accadendo, ci dice Gail Tverberg, alle industrie petrolifere, sebbene non stia avvenendo quel rialzo dei prezzi che ci si aspettava. Piuttosto la bassa domanda di energia sta provocando fallimenti a catena e tagli agli investimenti allo scopo di mantenere ancora una profittabilità (secondo i dati di Bloomberg e Alix partners gli investimenti dell'industria petrolifera sono aumentati del 13% dal 2010 al 2013 ma sono diminuiti del 19% dal 2014 al 2016; cit. in Globalizzazione addio?, a cura di Mario Deaglio, 2016 ).

L'aumento della capacità produttiva (economie di scala) è possibile se la produzione viene meccanizzata/automatizzata. Ciò comporta aumento della disoccupazione. Ora, se il sistema viene affetto da un'aumento dei costi all'origine le aziende si trovano a non poter generare quei surplus di profitto che solo consente di ripagare la forza lavoro. Si genera dunque una situazione di totale squilibrio per cui  la componente lavorativa della popolazione (l'output del sistema) non è più in grado di star dietro alla produzione con adeguati consumi (PIL) poichè i bassi redditi non glielo consentono. I bassi consumi provocano un'ulteriore effetto "anti-sistemico" nel settore produttivo sotto forma di riduzione del personale, licenziamenti, ecc.

Conclusione

La questione dell'energia per l'economia, per via dell'altissima connessione e interdipendenza delle diverse economie, riguarda il mondo nella sua totalità. Non vi sono "molte" economie bensì un sistema globalizzato. Ora, la situazione di crescita attuale è retta dall'economia cinese, sebbene tende a diminuire rispetto ai ritmi pre-2007. La Cina è il vero motore dell'economia mondiale, nonostante un PIL ancora inferiore a quello USA. Anche altre economie stanno "emergendo", come l'India, ma la loro funzione è importante in questa fase più a livello di "motore dei consumi" che di produzione industriale.

Risultati immagini per world energy consumption by nations
Immagine da Gail Tverberg - Our Finite World

Così, l'economia può essere in crisi in un'area (paesi dell'OCSE) ma la situazione restare equilibrata a livello mondiale per via della crescita delle produzioni e dei consumi nei paesi non-OCSE, che stanno "prendendo la staffa" ai primi. (La situazione nel suo complesso deve essere sempre necessariamente una situazione di crescita dei consumi, correlativamente a quella della produzione).

La questione del carbone è più importante di quello che sembra (si veda Gail Tverberg - An analysis of China coal supply and its impact on China's future economic growth), poichè è il grande motore della crescita cinese (oltre il secondo combustile mondiale). I grafici seguenti sono presi dall'articolo di Gail Tverberg "China: Is peak coal part of its problems?" - Our Finite World.Figure 2. China's energy consumption by fuel, based on BP 2016 SRWE.
 Immagine da Gail Tverberg - Our Finite World

 Anche questa risorsa è soggetta ad un picco di produzione come le altre e sembra averlo raggiunto nel 2014.Figure 9. Areas where coal production has peaked, based on BP 2016 SRWE.

Non si tratta forse tanto di attendere il momento esatto in cui l'offerta di idrocarburi non potrà più star dietro alla domanda globale, poichè gli indicatori macroeconomici segnalano già una situazione di rischio sistemico. Gail Tverberg ritiene che l'economia mondiale potrebbe già nel 2017-2018 (2017-the-year-when-the-world-economy-starts-coming-apart - Our Finite World) trovarsi a non saper più come affrontare i problemi sistemici dovuti alla bassa domanda di energia e ai bassi salari, poichè i mezzi dei governi e delle banche centrali (soprattutto Quantitative Easing e abbassare i tassi di interesse) non possono sopperire a lungo a una situazione di criticità strutturale. In particolare è il problema del debito pubblico nell'Eurozona a preoccupare e l'Italia si trova nell'occhio del ciclone (al centro nella figura a inizio articolo, in rosso).



mercoledì 31 maggio 2017

Un'insolita foto di casa nostra e quel che ne consegue


Mitico discorso di Carl Sagan. Una sola immagine e un po' di buon senso che paio una boccata d'ossigeno in un'asfissiante cultura del "non-fattuale" contemporaneo.

Buona visione e buon futuro a tutti dal Panda


domenica 28 maggio 2017

Non si combatte il cambiamento climatico con la Pepsi Cola

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR




Da "powertechnology.com", Un articolo di Julian Turner. Non è sbagliato, ma è possibile che non possiamo discutere più di niente senza trasformarlo in un “fatto rivoluzionario”, una “grande scoperta” e tutto il resto? Un po' meno clamore in questi rapporti aiuterebbe molto. 

Di Ugo Bardi

Qualche tempo fa, mi sono ritrovato a spiegare ad un giornalista il perché mi oppongo all'estrazione di CO2 in Toscana. Ho detto una cosa tipo “non ha senso che la regione spenda soldi per ridurre le emissioni di CO2 e, allo stesso tempo, permetta a questa azienda di estrarre CO2 che, altrimenti, rimarrebbe sottoterra”. “Ma”, ha detto il giornalista, “ho intervistato quelli dell'azienda e dicono che il CO2 che estraggono non viene disperso in atmosfera – viene immagazzinato”. “E dove viene immagazzinato?” ho chiesto. “Lo vendono alle società che fanno bibite gasate”. Ho cercato di spiegargli che produrre Coca Cola o Pepsi non è il modo di combattere il cambiamento climatico, ma non credo che abbia capito.

Questo è un esempio tipico di quanto sia difficile fare passare alcuni messaggi nel dibattito pubblico. Fra i tanti modi possibili di mitigare il riscaldamento globale, il carbon capture and sequestration (Cattura e sequestro del carbonio), o stoccaggio – CCS – è il meno compreso, più complicato ed è quello che più probabilmente porterà a pseudo soluzioni. Non sorprende, visto che è una storia complessa che coinvolge chimica, geologia, ingegneria ed economia.

Circa un mese fa, è apparso un post di Julian Turner su “Power Technology” dal titolo piuttosto ambizioso di “Finalmente ottenuta la cattura del carbonio”. Il post è pieno di enfasi su una grande scoperta nel processo che purifica il CO2 in uscita da un impianto a carbone – un processo chiamato “lavaggio del CO2”. Il nuovo processo, viene detto, è migliore, meno costoso, più rapido, efficiente e “cambia le regole del gioco”. Sharma, amministratore delegato della società che ha sviluppato il processo, ha dichiarato:

“Il TACL sarà in grado di catturare il CO2 dalle emissioni delle loro caldaie e quindi riusarlo”, conferma Sharma. “per l'utente finale, l'elettricità prodotta catturando il biossido di carbonio sarà elettricità pulita a il vapore prodotto sarà energia pulita. Per questa ragione, possiamo dire che è 'senza emissioni'”.

Non ho dubbi che ci sia qualcosa di buono nel nuovo processo. Pulire il CO2 usando solventi è una tecnologia nota e può certamente essere migliorata. La tecnologia è buona nel fare esattamente questo: migliorare processi noti. Il problema è un altro: si tratta davvero di un processo “senza emissioni”? E la risposta è, sfortunatamente, “niente affatto”, perlomeno nella forma in cui viene presentata l'idea. Il problema, qui, è che tutta l'enfasi è sulla cattura del carbonio, ma non c'è nulla in queste affermazioni sul sequestro del carbonio. Infatti l'articolo discute di “cattura ed utilizzo del carbonio” (CCU) e non di “cattura e sequestro del carbonio” (CCS). Ora, è la CCS che deve mitigare il riscaldamento globale, la CCU NON lo fa.

Torniamo ai concetti fondamentali: se si vuol capire cosa sia la CCS, un buon punto di partenza è il rapporto speciale del IPCC sulla materia (un documento massiccio di 443 pagine). Più di dieci anni dopo la sua pubblicazione, la situazione non è cambiata granché, come confermato da un rapporto più recente. L'idea di fondo rimane la stessa: trasformare il CO2 in qualcosa che sia stabile e non inquinante. E quando diciamo “stabile”, intendiamo qualcosa che rimanga stabile nell'ordine delle migliaia di anni, almeno. E' questo che chiamiamo “sequestro” o “stoccaggio”.

Un compito difficile, se ce ne è mai stato uno, ma non impossibile e, come è spesso il caso, il problema non è la fattibilità, ma il costo. Il modo più sicuro di stoccare il CO2 per tempi molto lunghi è quello di imitare il processo naturale di “degradazione dei silicati” e trasformare il CO2 in carbonati stabili di calcio e magnesio, per esempio. E' quello che fa un ecosistema per regolare la temperatura del pianeta. Ma il processo naturale è estremamente lento; parliamo di tempi nell'ordine delle centinaia di migliaia di anni, non proprio ciò di cui abbiamo bisogno ora. Possiamo, naturalmente, accelerare il processo di degradazione, ma ci vuole un sacco di energia, principalmente per schiacciare e polverizzare i silicati. Un metodo meno costoso è lo “stoccaggio geologico”, cioè pompare CO2 dentro un bacino sotterraneo. E sperare che se ne starà lì per decine di migliaia di anni. Ma è l'obbiettivo principale della CCS, oggigiorno.

Detto questo, il modo per valutare la fattibilità e l'opportunità dell'intero concetto di CCS è di esaminare il ciclo di vita di tutto il processo; vedere quanta energia richiede (il suo ritorno energetico sull'investimento, EROEI) e quindi confrontarlo coi dati di processi alternativi – per esempio investire le stesse risorse in energia rinnovabili piuttosto che in CCS (e l'energia rinnovabile potrebbe già essere meno costosa dell'elettricità prodotta col carbone). Ma sembra che questa analisi comparativa non sia stata fatta, finora, nonostante le diverse analisi dei costi delle CCS. Una cosa che possiamo desumere dal rapporto del 2005 (a pagina 338) è che, anche senza lavaggio, l'energia necessaria per l'intero processo potrebbe essere non lontana da valori che potrebbero renderlo un esercizio simile allo scavare buche per poi riempirle di nuovo, come pare abbia detto John Maynard Keynes. La situazione è migliore se consideriamo lo stoccaggio geologico, ma anche in questo caso il lavaggio è solo una frazione del costo totale.

A questo punto, potete capire cosa c'è di sbagliato nel definire il nuovo processo di lavaggio un “fatto rivoluzionario”. Non lo è. E' un processo che migliora una delle fasi della catena che porta allo stoccaggio del carbonio, ma che potrebbe avere poco valore per la CCS, a meno che uesta non sia valutata all'interno dell'intero ciclo di vita del processo.

Poi, in tutto l'articolo di Turner non c'è menzione alla CCS/stoccaggio. Parlano soltanto di cattura ed utilizzo del carbonio (CCU) e dicono che il CO2 verrà venduto ad un'altra azienda che lo trasformerà in carbonato di sodio (Na2CO3). Questo composto potrebbe quindi venire usato per fare il vetro, l'urea e scopi simili. Ma quasi tutti questi processi alla fine dei conti riporteranno il CO2 catturato nell'atmosfera!. Nessuno stoccaggio, nessuna mitigazione del riscaldamento globale. Potrebbero altrettanto bene vendere il CO2 all'industria delle bevande gassate. Non è questa la grande scoperta di cui abbiamo bisogno.

Così, che senso ha fare tutto questo baccano su “energia pulita”, “elettricità pulita” ed energia “senza emissioni”, quando il nuovo processo non mira a niente di quel genere? Non sorprende, fa tutto parte del dibattito “privo di fatti” in corso.

Per concludere, lasciatemi osservare che questo nuovo processo di lavaggio potrebbe essere solo uno di quei modi di “tirare le leve dalla parte sbagliata”, secondo la definizione di Jay Forrester. Cioè, potrebbe essere controproduttivo per gli stessi scopi per i quali è stato sviluppato. Il problema è che il CO2 puro è un prodotto industriale che ha un certo valore di mercato, come sanno molto bene le persone che lo estraggono dal sottosuolo in Toscana. Finora, il costo del lavaggio ha impedito che lo scarto delle centrali alimentate a combustibili fossili avesse un valore di mercato, ma un nuovo processo efficiente potrebbe rendere fattibile la sua trasformazione in un prodotto vendibile. Ciò renderebbe gli le centrali a carbone più redditizie ed incoraggerebbe le persone ad investire nella costruzione di altre centrali e questo non genererebbe riduzioni di emissioni di CO2! Sarebbe anche peggio se l'industria del carbone dovesse vendere ai governi il loro processo di lavaggio per sfuggire alle tasse sul carbonio. Vedete? Ancora una volta, il ruolo delle conseguenze impreviste si manifesta.

lunedì 22 maggio 2017

CONFINI 4 – Confini politici

Ultimo di quattro post.   Per le puntate precedenti, si veda qui, qui e qui.

Le comunità umane possono essere considerate, fra i tanti altri modi,  come dei sistemi ed hanno infatti dei confini, sia pure di tipo molto diverso (spesso immateriali) a seconda del tipo e del livello di complessità della società.   In ogni caso, occorre ricordare che l’esistenza e la funzionalità dei confini comporta dissipazione di energia.  In termini economici, allocazione di risorse.

Confini più ampi sono anche più costosi in termini assoluti, ma magari meno in rapporto alla loro estensione.   Inoltre, contengono sistemi più capaci di estrarre risorse e scaricare entropia  “fuori” da se stessi.

Confini meno permeabili, sono parimenti più onerosi, ma più efficaci nel controllare i flussi.  Ecco quindi che, al di la dei nostri desideri, la posizione e la natura dei confini deve essere necessariamente articolata e dinamica, riflettendo la costante evoluzione del sistema che contengono e dei rapporti di questo con ciò che interagisce con esso.


Confini politici


Oggi, il tipo di organizzazione sociale principale è quello statale ed i confini sono perlopiù quelli ereditati dal XIX secolo, con qualche aggiustamento conseguente le guerre successive.  Questo livello di integrazione è solo uno dei molti possibili e, comunque, al suo interno comprende altri livelli (regioni, provincie, comuni, ecc.).   Livelli superiori agli stati sono invece alleanze, accordi commerciali, ecc.    Sono inoltre attive numerose organizzazioni sovra-statali, come EU o addirittura globali come ONU, FMI, OMS, OUA, WB, WTO ed altre ancora.

Ad ogni livello organizzativo, corrisponde una diversa funzione ed un diverso set di sistemi di controllo.  Uno dei compiti principali di una classe dirigente è quindi quello di decidere dove e come dovrebbero essere i vari tipi di confine che disegnano le nostre società.   Una scelta difficile che dovrebbe tener conto, a mio avviso dei seguenti punti:


  • I confini cambiano necessariamente nel tempo. Pensare di fissarli una volta per sempre serve solo a farsi molto male.
  • Anche il grado ed il tipo di permeabilità dei confini variano necessariamente nel tempo.
  • Minacce diverse possono essere controllate a livelli diversi di organizzazione. Ad esempio, il contrabbando di sigarette può essere controllato dalla polizia di un singolo stato.  Il controllo dei flussi migratori richiede la collaborazione di molti stati.   La garanzia contro un’aggressione nucleare richiede, perlomeno, la copertura di un’altra potenza nucleare.

Elevare il livello organizzativo presenta dei vantaggi, ma comporta un costo di cui la comunità si deve fare carico.  Se non lo fa, semplicemente il sistema si disgrega in sotto-sistemi sempre più piccoli finché si raggiunge un livello a cui si vogliono e si possono controllare le condizioni interne in rapporto a quelle esterne.   Ma non è un processo indolore.  Ad ogni riduzione nel livello di complessità organizzativa, corrisponde necessariamente una riduzione nella capacità di quella società nel procurarsi ciò che le serve e di difendersi dalle minacce esterne.

In pratica, più piccolo è meno costoso e più gestibile.  Ma anche più povero e più vulnerabile.  Ecco perché è necessario trovare un equilibrio dinamico fra la tendenza ad aggregarsi e quella a disgregarsi.


Muri

La forma più solida ed evidente di confine è il “muro”.   Fra quelli contemporanei, il più famoso e spettacolare è quello eretto da Israele, ma ce ne sono moltissimi, in tutto il mondo ed in ogni epoca storica.   Una forma di confine che, non a caso sta venendo di moda in questi anni in cui, da una parte, alcuni paesi usciti sconfitti dalla globalizzazione (ad esempio l’Europa e gli USA) stanno cercando di proteggere quel che resta dei loro vantaggi storici.  Dall’altra, i sistemi-paese, in gran parte proprio grazie al mercato globale, dispongono ancora dei mezzi necessari per simili, costose imprese.
A che serve un muro?   Nell’immaginario collettivo, serve a sigillare un confine, ma non è così.   In realtà serve a facilitarne il controllo con forze ridotte, ma ricordiamoci i due punti fondamentali visti nel primo post di questa serie: nessun sistema esiste se non controlla i propri confini; nessun sistema può esistere all’interno di confini impermeabili.  

Il muro è quindi solamente una forma di difesa estrema di chi sta subendo l’iniziativa altrui e non è in grado di trovare soluzioni meno costose.   Se poi sia efficace o meno e per quanto tempo, dipende da caso a caso.


Disintegrazione

Dunque, abbiamo visto che l’impatto contro i Limiti della Crescita comporta, fra le molte altre cose, anche una crescente tendenza verso la frantumazione delle organizzazioni sovrastatali e statali.   Le cronache non lesinano gli esempi, ma finora, l’unica grande potenza ad essere andata parzialmente in frantumi è stata l’Unione Sovietica.   Gli altri stati importanti hanno finora resistito, in parte anche grazie alla fine dell’URSS che ha dato fiato ai vincitori.   Ma 25 anni dopo, la Russia mostra segni di un possibile nuovo cedimento, mentre l’Europa e l’India sembrano sul punto di fare la stessa fine. Gli USA seguono e perfino la Cina scricchiola.

E’ perlomeno molto probabile che, prima o poi, tutti i principali stati ed organizzazioni sovra-statali si disintegreranno, ma il punto importante è che non lo faranno né tutti insieme, né tutti allo stesso modo.

Il caso dell’URSS è un esempio da manuale del fatto che chi riesce a mantenere più a lungo un livello organizzativo superiore acquista un vantaggio competitivo notevole.   Altrimenti detto, chi muore prima, aiuta gli altri a tirare avanti ancora un po’.   Ognuno ha perciò interesse a mantenere alto il proprio livello, magari cercando di “picconare” quello degli altri.

Non è infatti facile controllare le retroazioni positive, specialmente in fase di decrescita.   Per fare un esempio, una disgregazione dell’edificio europeo consentirebbe ai singoli stati di eliminare i costi dell’eurocrazia, ma li esporrebbe all’attacco delle grandi potenze.  Probabilmente non un attacco militare: ci sono molte altre opzioni.   Per esempio, l’imposizione di scambi commerciali sfavorevoli, cosa che ci indebolirebbe ulteriormente, esponendoci ad ulteriori rischi.   Ad esempio, i singoli paesi europei potrebbero non essere più in grado di controllare le proprie frontiere (neanche volendo), con conseguenti movimenti incontrollati di persone e merci che minerebbero ulteriormente l’economia e la società. Insomma accadrebbe esattamente il contrario di quel che sognano molti nazionalisti odierni.


Semplificando al massimo con una metafora, la casa che abbiamo costruito grazie all’energia fossile sta franando, sia per i maggiori costi e la minore qualità delle risorse rimaste (rinnovabili e non), sia per l’accumulo di sostanze e materiali tossici che comincia a minare i fondamenti della nostra società (clima, pesca, foreste, barriere coralline, eccetera).   Finirà in un cumulo di macerie, ma chi abita nelle stanze che crollano per prime, farà da materasso (qualcuno lo ha già fatto) a quelli che cadranno dopo.   Quello che riuscirà a cadere per ultimo in cima al mucchio, sarà quello che si fa meno male di tutti.

Una strategia possibile?

Ovviamente, passando dalle metafore alla realtà le cose si fanno parecchio più complicate.  A cominciare dal fatto che la globalizzazione ha alzato i livelli di interdipendenza a livelli tali da rendere difficile un conflitto.  Uno dei vantaggi che la de-globalizzazione si porterà via.   Per fare un esempio, se davvero l’Europa, o gli USA andassero in frantumi, l’economia Cinese subirebbe un contraccolpo probabilmente mortale.  Questa è una delle ragioni per cui, per ora, non ci saranno conflitti diretti fra “pesci grossi”, mentre i pesci piccoli saranno progressivamente spendibili, secondo il bisogno di questo o quello dei grossi.

Al di la di questo, rimane il fatto che ogni paese dovrà trovare la sua strada fra le due opposte esigenze. Da un lato, occorre ridurre la complessità per contenere i consumi e gli impatti (oltre che la popolazione, ma questo non si dice perché è brutto).  Dall’altro bisogna mantenere, se possibile accrescere la dimensione e la complessità per evitare di essere schiacciati dai vicini, parimenti in difficoltà.

Una partita quindi che andrebbe giocata su due tavoli contemporaneamente.  Da un lato, favorire e sostenere la diffusione di tecniche e modelli sociali il meno impattanti possibile.  Dunque favorire una controllata discesa verso modelli organizzativi di dimensione decrescente (le famose economie locali, ecc.).   Dall’altra, sviluppare livelli maggiori di integrazione sovranazionale (federazioni, alleanze, ecc.) in grado di opporsi almeno per un certo periodo alle brame altrui su quel che resta della nostra eredità storica.   Un gioco che, comunque, non potrebbe durare per molto, ma che potrebbe permetterci un impatto molto meno violento contro il nostro fato.  Guarda caso entrambe queste strategie tendono a svuotare il livello statale che, non a caso, si sta opponendo con tutte le proprie, notevoli forze ad entrambe.  Resta da vedere se davvero dei livelli organizzativi di tipo ottocentesco siano indicati a fronteggiare il presente ed il futuro prossimo.

Un altro pezzo importante di una strategia di rallentamento del declino, è quello di danneggiare i soggetti esteri potenzialmente ostili per renderli inoffensivi e, se possibile, abbastanza fragili da poter essere poi sfruttati.   Contemporaneamente, accrescere invece la collaborazione con i soggetti con cui abbiamo interessi comuni da difendere.  Insomma niente di concettualmente diverso da quello che gli stati hanno sempre fatto e che oggi altri fanno molto meglio di noi.   USA, Russia e Cina stanno tutti facendo questo gioco, sia pure con metodi e scopi diversi.

Gli americani picconano la stabilità della nostra moneta e giocano di sponda fra le tradizionali inimicizie  europee.   I russi finanziano i vovimenti neo-fascisti e nazionalisti.   I cinesi stanno saccheggiando quel che è rimasto dell’Africa, scaricando a noi la massa di gente in esubero. Comunque, man mano che ci indeboliamo, diventa più facile soffiarci altre fette del bottino che abbiamo accumulato nei due secoli in cui diversi paesi europei si sono alternati nel condurre questo gioco.

La dinamica è infinitamente più complessa, ma in fondo concettualmente simile dal sistema delle razzie che tanta parte ha nell’economia e nell’ecologia dei popoli primitivi.

Conclusioni

Per quanto riguarda l’UE, il panorama politico europeo è oggi dominato sostanzialmente da due tipi di formazioni.

In primis, le forze che tuttora controllano i governi nazionali e che sono autenticamente “euroscettiche”.   Nel senso che vogliono mantenere in piedi le strutture attuali, ma svuotate di sostanza in modo da limitare al minimo indispensabile  la perdita di potere che investirebbe gran parte delle classi dirigenti nazionali se si formassero classi dirigenti federali.   In altre parole, vogliono la scatola, ma il più vuota possibile.

L’altro gruppo, che annovera la maggior parte dei partiti di opposizione principali, comprende coloro che vogliono fare a pezzi la scatola, sognando scenari di benessere e libertà in linea con la robusta tradizione utopistica della nostra cultura.

Indipendentemente dai casi particolari, anche molto diversi, il mio giudizio personale è che i primi (l’attuale classe dirigente) non ha giustificazione alcuna.  Sono stati loro a svuotare l’EU di qualunque contenuto ideale, ma sono stati parimenti loro a spingere il processo di globalizzazione che tanto ha fatto per minare le fondamenta materiali d’Europa.

Oggi molti confondono questi due processi, mentre, come ho cercato di spiegare nei precedenti post, erano e restano antitetici.  L’europeizzazione consiste infatti in un processo di progressiva eliminazione degli antichi confini statali, sostituendoli con un più consistente confine collettivo.

Cioè un processo che avrebbe dovuto portare alla creazione di un sistema capace di trattare con USA e Russia da pari a pari.  In un simile contesto, probabilmente, la Cina sarebbe rimasta marginale.
La globalizzazione, come abbiamo visto, tende invece all’eliminazione di ogni confine economico a livello mondiale. Dal nostro punto di vista, ciò ha significato soprattutto la massiccia esportazione di capitali e tecnologie verso paesi almeno potenzialmente ostili.  Difficile immaginare un suicidio più sicuro per una società industriale, già alle prese con le prime avvisaglie dello scontro finale contro i Limiti dello Sviluppo.

La seconda categoria, quella che definirei degli eurofobi, è molto più eterogenea e comprende anche persone colte ed intelligenti che poco hanno a che fare con il becero neo-populismo maschilista di molti gruppi attivi in questo campo.   Conoscendo e stimando alcuni di loro, credo che come movente di fondo abbiano un profondo senso di tradimento.   Un sentimento peraltro giustificato da quanto detto qui sopra.

Tuttavia, se la dinamica dei sistemi ci può insegnare qualcosa a questo proposito, ridurre il proprio grado di complessità consente sì di ridurre i costi di  mantenimento delle sovrastrutture, ma al prezzo di ridurre anche la propria capacità di assorbire bassa entropia ed espellerne di alta.   E si tratta di una retroazione positiva in uno scenario globale senza precedenti storici.   In pratica, i due scopi dichiarati: rilancio delle economie nazionali e recupero della sovranità  sarebbero i risultati più improbabili di una simile operazione.   Pensare che un “oggetto” come l’Italia o la Germania possa rivendicare un effettiva sovranità nei confronti di soggetti della taglia geopolitica di USA, Russia e Cina, è un po’ come pensare che S. Marino potrebbe fare qualcosa contro la volontà del governo italiano.

D'altronde, non dobbiamo dimenticare che chi dobbiamo assolutamente salvare non è la nostra civiltà o le nostre persone, bensì la Biosfera.   Altrimenti non ci saranno in futuro né civiltà, né umani, né niente del tutto.   E dal punto di vista della Biosfera, qualunque cosa è meglio del prolungarsi della presente agonia.

In parole povere, ciò che ci potrebbe favorire nell'immediato, necessariamente ci nuoce in prospettiva e viceversa.

Forse, accelerare i tempi del proprio collasso è la cosa più altruista che una società possa fare.   Resta da vedere se ne è cosciente.


giovedì 18 maggio 2017

Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell'economia (parte quarta)


 Risultati immagini per yin yang

 (Pubblicato anche su Appello per la Resilienza - https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)


Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma, sosteneva fosse assurdo rifiutare in toto il concetto di crescita. Il problema è se può esistere una crescita armoniosa e, ciò che ci interessa qui, se questo obiettivo sia raggiungibile entro il sistema economico. In questo articolo ritorno su come secondo Gail Tverberg (Our Finite World) il problema dei salari dei lavoratori ("non-elité workers") influenza l'economia in veste di "output".


Input e output del sistema economico

Nella seconda parte avevo sostenuto che l'input del sistema economico è costituito dai produttori, l'output dai consumatori, la forza-lavoro e che dalle dinamiche generate dal loro incontro emerge il sistema economico come lo conosciamo.

La divisione sociale fra possessori dei mezzi di produzione e forza-lavoro rimane valida poichè non è segnata in modo arbitrario all'interno del vasto campo economico. Si tratta dell'evidenza per cui è unicamente la categoria dei produttori-imprenditori a ricavare profitti dall'attività produttiva.

Ma se i profitti rimangono esclusivi di tale categoria da dove provengono i soldi per pagare i salari dei lavoratori? Una parte dei profitti derivanti dalla produzione andranno a ripagare la forza-lavoro che ha prodotto il bene. Al tempo stesso il lavoratore oltre che forza-lavoro diviene forza-consumo poichè il salario ottenuto che gli serve per procurarsi i mezzi di sussistenza verrà speso in quelle merce che ha contribuito a produrre.

(Dell'intero valore prodotto nell'arco della giornata lavorativa al lavoratore ne viene solamente una parte; la restante viene trattenuta dal produttore ed è questo a generare plus-valore cioè profitto. Può sembrare riduttivo pensare che gli introiti di una grande azienda si ricavino in questo modo ma è proprio per questo che il produttore appena può non esita a ridurre il personale o a automatizzare la produzione. E' anche per questo che al datore di lavoro non conviene avere lavoratori part-time se può ricavare lo stesso numero di ore di lavoro da un minor numero di lavoratori a tempo pieno)

Ne viene che la domanda dei beni/prodotti può essere generata solo da coloro che lavorano, se ci accordiamo di riservare questo termine solo a coloro che sono ottengono il loro stipendio da altri e non possono ricavare dei profitti dalla loro attività lavorativa. Sono i lavoratori però che "chiudono il cerchio" (output) in quanto forza-lavoro e forza-consumo senza la quale la produzione industriale non avrebbe alcuno sbocco.

Schema della crescita fisica dell'economia
Dobbiamo ora integrare la tematica dell'energia e delle risorse entro la cornice macroeconomica. E' quello che ha fatto Gail Tverberg.

Questo schema mostra in maniera semplificata le principali linee di flusso che generano crescita economica. Non ha importanza qui considerare la storia economica. Lo schema descrive quella fase della storia umana in cui i combustibili fossili vengono utilizzati come energia primaria per generare attività economica (l'Antropocene). La crescita economica da questo punto di vista è un gigantesco feedback positivo alimentato dalla disponibilità e capacità delle risorse fossili di generare energia a basso costo nella prima fase del loro sfruttamento (mi riferirò al petrolio per semplificare ulteriormente).

La fase di "vacche grasse" (cit. Ugo Bardi)

Fino a che i costi di produzione del petrolio rimangono bassi, le aziende produttrici possono permettersi di venderlo ottenendo surplus (profitti) considerevoli. I settori agricolo e industriale sono i primi beneficiari in quanto richiedono flussi costanti di energia. E' un periodo di espansione. Il mercato può beneficiare di una grande offerta di beni ed è questo probabilmente a creare le condizioni per un'ampia domanda. In questa fase la società è stimolata ad acquistare e a consumare. Ciò che è essenziale è che i profitti derivanti dalla produzione sono così grandi da permettere:

a) un aumento della scala produttiva e nuovi investimenti (input);
b) un pagamento dei salari ai lavoratori sufficiente a garantirgli una quantità di moneta e potere d'acquisto che possa venir speso in consumi (output).

Se l'inflazione aumenta, diminuisce il potere d'acquisto della forza-lavoro (il consumatore) che non può più permettersi di alimentare i consumi, il che fa contrarre il settore produttivo che ne dipende.


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E' nella fase in cui il costo dell'energia per la società è basso che i consumatori possono permettersi spese extra (grosse auto, immobili, ecc) e fare ricorso al credito. La spirale produzione-consumo si autoalimenta e l'economia cresce. Non si vedono ostacoli al procedere in questo modo.




La fase di "vacche magre"

Tuttavia con il passare del tempo i costi di estrazione e produzione aumentano (è il comportamento di ogni risorsa finita). Ciò comporta conseguenze per il sistema economico, un circolo vizioso difficile da controbilanciare, poichè l'intera attività economica è adattata su un'unico tipo di risorse e non c'è un'alternativa possibile in tempi brevi (bassa resilienza). Nel momento in cui il prezzo di una risorsa così importante comincia a crescere questo influenza non solo le aziende che lo producono ma l'intera economia, che entra in recessione, a cominciare da quei settori che dipendono direttamente da un determinato prezzo del petrolio, finendo con l'influenzare a cascata anche gli altri.
Come l'aumento del prezzo del petrolio influenza l'economia? Avviene un aumento dei prezzi dei prodotti industriali poichè questi incorporano il prezzo del petrolio.

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Ora, è il settore della produzione industriale che determina la crescita o la recessione di un economia e da sola consuma la metà dell'energia mondiale disponibile (Bayar, Cilic, Effects of Oil and Natural Gas Prices on Industrial Production in the Eurozone Countries). Si tratta di una catena di aumento dei costi di produzione all'origine che genera aumento dei costi di vendita delle merci finali nel mercato. I benefici netti cominciano a diminuire (curva di Tainter).




 L'economia necessita di crescere il che significa flussi di energia e materia in continuo aumento al fine di generare una produzione/offerta di merci che sostenga la domanda che viene dalla società. Col tempo però il lavoratore-consumatore diviene sempre meno in grado di partecipare alla domanda poiché il suo potere d'acquisto si erode parallelamente e in virtù dell'arricchimento dei produttori.

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La serie storica vede un andamento sinusoidale dei profitti aziendali (in rosso) fino al 2000 - diminuiscono ogni volta in corrispondenza delle crisi da sovrapproduzione? - dal 2000 avviene l'impennata, cui segue il crollo nel 2007-2008 e una nuova risalita. Nel frattempo i salari dei "non-elité workers" paragonati alla crescita dell'economia tendono costantemente verso il basso dagli anni '60-'70, come si era visto nella seconda parte.

(continua...)