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giovedì 24 agosto 2017

Uccidere l'orso, uccidere se stessi

Wild Brown Bear in the Carparthian Mountains


Un fantasma si aggira per il mondo: l'incapacità degli esseri umani di capire cosa stanno facendo all'ecosistema e, di conseguenza, a se stessi. E' un concetto che si sta facendo strada sotto il nome di "Ecosystem Services." (servizi ecosistemici) E' un termine che va preso con attenzione; l'ecosistema non è e non è mai stato al servizio degli esseri umani. Piuttosto, sono gli esseri umani che dipendono dall'ecosistema. Si sta facendo strada l'idea che stiamo sovrasfruttando l'ecosistema, prelevando nel breve termine molto di più di quanto l'ecosistema può fornire a lungo termine. Il che vuol dire, a lungo andare, suicidarsi in un modo particolarmente doloroso. Così, ammazzare un orso, come è stato fatto in Trentino, è una dimostrazione dell'ignoranza spaventosa che regna su questo concetto fondamentale: anche l'orso è parte dell'ecosistema, anche l'orso è una delle cose che fanno vivere l'ecosistema di cui facciamo parte anche noi. E' un classico esempio di "segare il ramo dell'albero che ti sostiene".

Qui, molti se la sono presa con Ugo Rossi, presidente della Provincia di Trento. Ma Rossi non ha fatto niente altro che il suo mestiere di politico: ha fatto i suoi conti e ha visto che ammazzare l'orso gli porta più voti che lasciare l'orso vivo. Ed ha agito di conseguenza. A giudicare dai commenti che si vedono in qualsiasi discussione sui social media su questo argomento non gli si può dare torto. Sono commenti che dimostrano un'ignoranza profonda, incancrenita, aggressiva, contro la quale lottare è impossibile.

E allora? E allora andremo a finire dove dobbiamo andare a finire: c'è un dirupo di Seneca in attesa per chi distrugge l'ecosistema di cui è parte.

Di seguito, un bell'articolo di Natan Feltrin su questo argomento. (UB)

Strangolando ogni cuore selvaggio: il caso dell’orsa KJ2 (demografie aspeciste)

 Di Natan Feltrin

Quando il pericolo sale sopra una certa soglia, si procede all’abbattimento anche per garantire la sicurezza delle persone” (presidente della Provincia di Trento Ugo Rossi)[1].    Così sembra girare il mondo quando si nasce incarnati in un corpo selvaggio, in un corpo “sbagliato”. Basta poco, niente, una colluttazione accidentale e non desiderata, a scatenare il panico e a far brandire torce e forconi, e ad innescare una nuova spietata caccia al mostro.
Non conta affatto la razionalità in questo genere di episodi, non conta l’etologia, non conta l’ecologia, non conta la conoscenza del proprio territorio, non conta più il buon senso, siamo nell’ambito delle paure ancestrali del rimosso, di quel sonno della ragione che genera mostri “umani troppo-i umani”[2]. Così, ancora una volta, un animale colpevole solo della propria natura, talvolta “ingombrante”, è stato sentenziato a morte pochi giorni fa in provincia di Trento.
Per proteggere persone umane la via più facile non sembra mai essere quella di educarle, di responsabilizzarle e prepararle ad una convivenza, forse non sempre semplice, con l’alterità animale. Semmai quella gigantesca campana di vetro che brama di essere il “primo mondo”, l’occidentale, ogni voce di dissenso, ogni possibile scheggia impazzita vuole eradicarla senza se e senza ma. I soggetti non umani, se non sono oggetti di uso nel mondo antropocentrico o innocue presenze a scopo ornamentale devono essere automaticamente debellati per l’incolumità anche del più irresponsabile dei Sapiens. Una logica paradossale che porterebbe all’abbattimento di un esemplare di pachiderma se solo un folle di turno decidesse di suicidarsi con un sonnellino all’ombra della sua zampa.  Due pesi due misure, ovvio. La teriofobia, forse parente di qualche ancestrale esigenza adattativa, ora diviene strumento cognitivo di una spietata biopolitica ai danni di tutto ciò che il moderno Homo consumens non può fagocitare senza imprevisti. Senza tediare la riflessione portando innumerevoli dati, comunque facilmente reperibili in rete, ovunque nel mondo le interazioni non pacifiche tra umani e grandi predatori sono in aumento (orsi neri in Nord America, grandi felini in India, alligatori negli States…) portando vittime da entrambe le parti e lasciando trionfante solo l’ignoranza etologico-ecologica delle nostre moderne società.
In ultima istanza, ogni controversia tra ciò che rimane dei rappresentanti del wilderness e gli sfortunati e spesso ingenui Sapiens è frutto di due dinamiche che se perseguite renderanno questo splendido Pianeta e la sua biosfera un deserto:
  • L’aumento vertiginoso della popolazione umana oltre la soglia dei 7 miliardi e dei suoi, spesso futili ma sempre crescenti, desideri materiali legati ad una distorta nozione di ben-essere[3].
  • L’incapacità di pensare alla Natura come ad una entità né da demonizzare né da sottovalutare, ma come un grande contenitore di possibilità portato ad agire attraverso dinamiche, non negoziabili, al di là del bene e del male.
Questa mancanza di comprensione-accettazione di una prospettiva antroposcopica e aspecista (o biocentrica) è il frutto di quel dominio immanente e trascendentale, materiale e simbolico dell’intero spazio-mondo da parte di una sola vorace specie. L’animalità per re-esistere deve farsi sottile, deve essere compressa e schiacciata in lager funzionali ad alimentare sempre nuova biomassa umana. Altrimenti deve essere scacciata tout court dalla propria dimora, come accade a tutte le specie ancora selvatiche di animali, piante e non  solo, per far posto a quel comodo e privo di imprevisti giardino-mondo che esiste al solo scopo di entertainment. In altre parole, parcere subiectis et debellare superbos!
Queste sono solo brevi e amare considerazioni che necessiterebbero di ben più lunga stesura e ben più coraggioso dire, ma nascono da uno spontaneo senso di disgusto nel vedere messo in scena in uno squallido teatrino mediatico la violenza istituzionalizzata su di un altro essere senziente, mascherata come buon senso ed esempio di razionale gestione del wilderness. La vita selvaggia, oramai, sta scomparendo, il bosco non può più essere che interiore poiché i suoi abitanti non sono più ben accetti nella nuova ontologia dell’Antropocene. Perdendo il bosco, però, perdiamo noi stessi, perdiamo la nostra grande occasione di vedere nell’altro dell’altro rispetto ad un oggetto d’uso o ad un nemico da annichilire. Perdiamo la possibilità che il bosco ed i suoi legittimi abitanti ci rammentino la nostra fragilità e caducità ricordandoci come la natura ed il cosmo non siano fatti a misura dei nostri desideri e ci insegnino a portare rispetto verso ciò che non è solo nostro, poiché laddove manca il rispetto non vi è civiltà ma solo macerie a compiersi.
La violenza contro il diverso è cifra di tutta la parabola umana, ma non per questo siamo esenti dal doverci impegnare in un cammino di emendazione. In siffatta prospettiva dobbiamo comprendere la necessità di ripensare alla demografia in termini aspecisti, poiché se una regione verde come il Trentino-Alto Adige estesa per 13 606,87 km² ed avente più di un milione di abitanti non riesce ad accettare una popolazione di plantigradi composta da soli 48-54 elementi, qualcosa palesemente non funziona. Questi numeri sono un emblema dell’insaziabilità di Homo sapiens  in quanto a spazio e risorse. Se ha davvero un senso il concetto di eccesso di legittima difesa, esso dovrebbe essere applicato allo scopo di definire crimine ecologico ogni abbattimento a scopo preventivo, senza dimostrazioni incontrovertibili di non avere alcuna alternativa praticabile.               
L’orsa KJ2, figlia del prezioso progetto Life Ursus[4],  è l’ennesimo cuore selvaggio che si è spento per mano dell’uomo. Immemori di essere anche noi figli ancestrali della foresta, di essere stati anche noi un tempo in manifesta balia della necessità e di una natura soverchiante, abbiamo ricusato che il mondo non è né un supermercato né un parco giochi e che i pericoli esistono e sempre esisteranno. Diradata questa coltre di ignoranza, un sano realismo ci impone la conoscenza e la prudenza come  scelta primaria per affrontare la vita onde evitare un troppo comodo e sempre immorale spargimento di sangue.
Per concludere questo paper che ha per me il sapore di un epitaffio, voglio ricorrere alle parole di uno dei miei maestri lungo l’infinita via della comprensione: “La debolezza, la fragilità, la vita senza colpa ci inorridiscono: addio KJ2, sigla di un’esistenza senza nome, simbolo di una violenza senza ragione[5].

[2]“Ciò che fa paura è semplicemente l’oggetto di una rimozione, ciò che deve essere sacrificato, addomesticato, respinto o, al limite, eliminato perché lo spazio dell’esperienza umana possa chiudersi e compiersi senza resti, ostacoli, disturbi. La civiltà poggia su una contrapposizione tra umano e non-umano che struttura sia materialmente che simbolicamente ogni aspetto dell’esperienza umana”. Maurizi M. 2012, Teriofobia in Asinus Novus: https://asinusnovus.net/2012/05/02/teriofobia/ .
[3] Per avere un’idea della crescita demografica e di quella dei consumi: http://www.worldometers.info/world-population/ & http://www.footprintnetwork.org/our-work/ecological-footprint/ .


[5] Pubblicato da Caffo L. su FB il 13 agosto 2017.

venerdì 12 settembre 2014

Requiem per Deniza.

Jacopo Simonetta

L’orsa Deniza è morta per un’overdose di anestetico ed è estremamente improbabile che i suoi due cuccioli riescano a diventare adulti.   Con ogni probabilità moriranno, oppure saranno catturati e parcheggiati in uno zoo.   Al di la delle polemiche e degli immancabili scarica-barile, si sapeva da subito che sarebbe finita così, eppure la notizia ha suscitato reazioni che, secondo me, indicano che dietro un livello cosciente di pensiero, Deniza riveste un valore simbolico per molti di noi.   Innanzitutto perché era una mamma che ha difeso i suoi cuccioli, ma soprattutto perché era un animale grande, selvaggio e molto raro, evocativo di tutto ciò che la Natura è stata e non è più.   Questo, credo, più di tutto, ne fa un simbolo che tocca direttamente le corde del cuore di quasi tutti, sia pure in modo molto diverso. Da un lato, infatti, vi sono persone che avvertono come inammissibile che una bestia selvaggia possa attaccare un uomo; dall’altro vi sono altri che trovano criminale uccidere un animale di quel genere semplicemente perché ha lievemente ferito un cercatore di funghi.

Cosa muove i primi?   Innanzitutto vi è l’attuale ossessione per la sicurezza: nell’immaginario collettivo odierno il fatto che la vita comporti un grave rischio di morire è inaccettabile. Non siamo più nel medioevo (o nell’età della pietra, secondo i casi)!   Siamo andati sulla Luna e non deve esistere che qualcuno possa essere in pericolo.  Un atteggiamento tanto radicato da determinare oramai gran parte della nostra vita quotidiana ed una parte crescente del bilancio delle famiglie e delle istituzioni.  Perfino del  nostro paesaggio come avvenuto, ad esempio, con la progressiva eliminazione delle alberature stradali, ritenute responsabili di incidenti in cui gli autisti, non gli alberi, avevano il controllo dei veicoli. Ma si tratta di un sentimento molto forte, tanto che il dichiarare che ognuno potrebbe esser responsabile di quello che fa e di dove mette i piedi è spesso sufficiente a scatenare reazioni irose, talvolta violente.

Vi è poi un livello più profondo che ha che fare direttamente con la malattia, la sofferenza e la morte.   Sappiamo bene che moriremo, ma saperlo ed accettarlo sono due cose molto diverse, non per nulla il progresso della medicina e l’allungamento della vita media sono le due conquiste della modernità più universalmente apprezzate. Non per nulla il modo più sicuro per un politico di perdere le elezioni sarebbe ammettere che bisognerà tagliare i fondi alla sanità.

Ma vi è, secondo me, un livello ancora più profondo, tanto è vero che vi sono incidenti accettati ed altri no. Ad esempio, il 14 agosto 2014 l’auto blu su cui viaggiavano il presidente ed il vicepresidente della provincia di Trento ha ammazzato una persona e ne ha spedite altre 5 all’ospedale, ma questo non ha suscitato petizioni e manifestazioni per catturare il presidente ed il suo autista e confinarli in uno zoo; oppure per bandire le auto di grossa cilindrata dalle strade. In questo livello, l’immagine della bestia che osa attaccare l’uomo viene sentita come un completo rovesciamento dell’ordine cosmico   Una sensazione analoga allo sbigottimento che prende molti di fronte agli effetti che le “forze scatenate della natura” possono avere sulle nostre opere e che, secondo me, deriva dal contrasto violento fra come si sente che “dovrebbero andare le cose” e come, viceversa, vanno. Insomma, per coloro che hanno caldeggiato la cattura dell’orsa, l’aggressione ad un essere umano da parte di una belva è qualcosa che somiglia molto ad un sacrilegio.

Nel campo opposto troviamo altre persone che possono condividere o meno i primi due livelli, ma che, viceversa, sentono l’uccisione di un animale che ha difeso i suoi cuccioli ed il suo territorio come una profonda ingiustizia.   Un assassinio, insomma.

Ma l’emotività sollevata dal fatto denota, almeno in alcuni, un livello ancora più intimo in cui l’orso assurge a simbolo di una sacralità della Natura che l’uomo non ha il diritto di violare.   Insomma, c’è chi sente l’uccisione di Deniza come una sorta di sacrilegio.

Si potrà facilmente obbiettare che nessuna delle religioni praticate in zona considera sacrilega l’aggressione di un animale ad un uomo o viceversa.   E questo è probabilmente vero, ma dietro le regole e le convinzioni che ogni fede si è date, esiste una sensibilità e, soprattutto, un modo di percepire e capire il mondo che dipende da archetipi molto profondamente radicati nell’inconscio e relativamente indipendenti dal “catechismo”.   Ed i sentimenti che ci scuotono, sia in positivo che in negativo, non sono generati tanto dalle nostre convinzioni coscienti, quanto da come eventi o parole interagiscono con questo sistema subconscio di valori e di riferimenti.   Per questo motivo le stesse identiche parole, pronunciate in un certo modo ed in certo contesto, ci possono riempire di ira o di sdegno, mentre pronunciate in altri modi o contesti ci sono indifferenti.   Il “moccolo” tirato da qualcuno cui è caduto un martello sul piede non offende nessuno, mentre le stesse parole declamate in chiesa offenderebbero anche i non credenti eventualmente sul posto.

Ed è proprio su questo livello che agiscono i simboli, soprattutto quelli di cui non siamo perfettamente coscienti.

La verità non è venuta al mondo ignuda, ma vestita di immagini e simboli” (vangelo di Filippo).

Se tutto questo è solo parzialmente vero, dietro la reazione di indignazione (chi per l’aggressione all'uomo e chi per quella all'orsa) si cela una frattura insanabile fra due modi profondamente e totalmente incompatibili di concepire la vita: chi sente la Natura come un pericolo che l’uomo ha il diritto di soggiogare ed utilizzare a suo piacimento e chi, viceversa, sente sé stesso e la propria specie come un pericolo per una Natura cui si deve prima di tutto rispetto.

E credo che questo sia un discrimine insuperabile tanto per gli uni che per gli altri.   La differenza è semmai nel fatto che i “suprematisti umani” avranno nel futuro anche prossimo molte cattive notizie.   I “suprematisti naturali” dovranno affrontare le stesse difficoltà pratiche degli altri durante tutta la fase declinante della nostra civiltà, ma perlomeno avranno modo di farsene una ragione.

Magari non è molto, ma fa la differenza.