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giovedì 9 ottobre 2014

Un grafico: quanti uccelli vengono uccisi dall'eolico, dal solare, dal petrolio e dal carbone?

Da “Climate Progress”. Traduzione di MR

Di Emily Atkin

Foto: Shutterstock

In risposta alle crescenti accuse sia da parte degli ambientalisti sia dei conservatori secondo le quali le fonti rinnovabili di energia come solare ed eolico uccidono troppi uccelli, il U.S. News and World Report ha compilato i dati sulle responsabilità delle industrie energetiche rispetto alla maggior parte delle morti di uccelli ogni anno. Per ogni fonte energetica – eolico, solare, petrolio e gas, nucleare e carbone – i dati sulle morti di uccelli vengono raccolti da diversi gruppi industriali e di pressione, istituzioni accademiche e fonti governative. Siccome le stime varia molto su solare, eolico e petrolio, il U.S. News ha incluso sia la stima minima sia la stima massima di quanti uccelli vengono uccisi da quelle fonti di elettricità.

In entrambi i casi, i risultati mostrano che anche considerando le stime massime delle rinnovabili in confronto alle minime dei combustibili fossili, questi ultimi sono responsabili di molte più morti di uccelli del solare e dell'eolico. Osservate il grafico sotto:



Un grafico del U.S. News and World Report mostra le stime di quanti uccelli vengono uccisi ogni anno dalle diverse fonti energetiche.

I risultati dovrebbero essere presi con beneficio di inventario. Come ha usservato il U.S. News, ogni studio ha usato una diversa metodologia per estrapolare i propri numeri. “Non c'è un modo standard di fare sul quale tutti possano essere d'accordo”, ha detto alla rivista Garry George, il direttore per l'energia rinnovabile di Audubon California. In aggiunta, alcune delle ricerche usate sono datate e non tengono conto che gli impianti di energia rinnovabile stanno aumentando negli Stati Uniti. Per esempio, lo studio usato per stimare le morti degli uccelli provocato dall'eolico statunitense era del 2009 e l'eolico è aumentato in modo sostanziale negli Stati uniti da allora. Secondo l'Associazione per l'Energia Eolica Americana, la capacità eolica totale installata negli Stati uniti era di circa 35.000 megawatt – un numero che è aumentato a fino a circa 61.000 nel 2014. Questi numeri stanno a loro volta aumentando, in quanto più di 12.000 megawatt di capacità eolica erano in costruzione alla fine del 2013, secondo la AWEA. La ricerca cambia anche a seconda delle fonti. Sia le stime minime sia le stime massime delle morti provocate dall'energia eolica provengono da uno studio peer-reviewed della rivista Biological Conservation e sono stati essenzialmente una ricognizione degli studi peer-reviewed sui dati disponibili sulla materia fatti da altri scienziati. Per il petrolio e il gas, sia le stime minime sia le stime massime sono venute da un memoriale dell'Ufficio per la Gestione del Territorio del 2012.

La stima minima di morti di uccelli provocate dall'energia solare provengono dall'azienda solare BrightSource, che è stata recentemente accusata dal Centro per la Diversità Biologica di gestire una fattoria solare che uccide 28.000 uccelli all'anno. Le stime massime provengono dal Centro per la Diversità Biologica, la cui stima provien solo da quella fattoria solare in California. Le morti di uccelli provocate da fattorie solari sono state stimate come relativamente basse, comunque – uno studio del U.S. Fish and Wildlife dell'inizio di quest'anno ha scoperto solo 233 morti di uccelli in tre diverse fattorie solari in California nel corso di due anni. In quanto al carbone, quei numeri sulla morte di uccelli provengono da uno studio peer-reviewed contenuto nella rivista Renewable Energy. Quella stima aveva una metodologia più radicale, comunque, con l'autore che include tutto dall'estrazione del carbone alla produzione – e le morti di uccelli causate dal cambiamento climatico che le emissioni del carbone producono. Insieme, queste ammontavano a circa 5 uccelli per gigawatt/ora di energia prodotta dal carbone, quasi 8 milioni all'anno. In ogni caso, l'U.S. News osserva che nessuno di questi numeri può competere coi gatti, che si stima uccidano da 1,4 a 3,7 miliardi di uccelli ogni anno.

martedì 8 luglio 2014

La transizione energetica sostenibile: Giorgio Nebbia sulla circolazione natura-merci-natura


 
A commento del recente post di Sgouris Sgouridis sulla necessita di una "transizione finanziaria" per affrontare la transizione energetica, ecco un post di Giorgio Nebbia che risale a qualche anno fa, ma che è ancora attualissimo.




La circolazione natura-merci-natura:
Alla ricerca di nuove scale di valori


Ambiente Costruito, 2, (2), 4-11 (aprile-giugno 1998)

di Giorgio Nebbia



La tecnosfera --- l'insieme di abitazioni, fabbriche, città, affollate di oggetti fabbricati dagli esseri umani --- è un organismo vivente che “funziona”, come qualsiasi altro essere vivente, grazie ad un flusso di materia e di energia: la materia è rappresentata da “cose” ottenute dalla biosfera --– dall’aria, dalle acque, dal suolo, dal mondo vivente vegetale e animale --- per lo più gratis, e da molte altre cose provenienti dalla tecnosfera, dall’universo degli oggetti fabbricati dagli esseri umani per trasformazione dei beni tratti dalla natura: vegetali, animali, fonti di energia, pietre, acqua, minerali, eccetera.

Chiamerò, per intenderci, “merci” gli oggetti “fabbricati” nella tecnosfera: a rigore, come vedremo, dovremo fare i conti anche con “beni” scambiati, senza pagare niente, fra gli umani e le loro attività e il mondo circostante della natura: l’ossigeno “acquistato” gratis dall’aria, necessario per la respirazione umana e per le combustioni; l’anidride carbonica “venduta” gratis all’atmosfera come risultante della respirazione, delle combustioni, della scomposizione delle pietre, eccetera.

Non è possibile avere idee chiare sul funzionamento della tecnosfera e su quanto attraversa un territorio se non si fa qualche passo avanti nella comprensione di questi complessi scambi e “commerci” di materiali e di energia, nei quali il denaro può entrare o no.

Cominciamo con l’osservare che i processi di produzione e di “consumo” delle merci presentano alcune interessanti analogie con i processi viventi: entrambi traggono dalla natura risorse (aria, acqua, minerali, prodotti vegetali e animali) e le trasformano in cose utili. Nel processo di trasformazione e nel processo di “uso” delle “cose”, i materiali usati e i loro sottoprodotti ritornano nell’ambiente naturale circostante sotto forma di gas, liquidi e solidi, nella stessa quantità in peso in cui sono entrati nel processo.

Per questo motivo d’ora innanzi non userò più il termine “consumo” delle cose fabbricate, delle merci, perché in realtà ciascun “consumatore” non consuma niente, ma si limita ad usare, per un tempo più o meno lungo, le merci stesse. Anche i processi dell’economia, come quelli della vita, sono perciò caratterizzati da una circolazione natura-merci-natura, o N-M-N (se vogliamo ricorrere ad una analogia con la simbologia marxiana); a differenza, però, di quanto avviene nei processi vitali, nei quali tutte le scorie rientrano in ciclo, che operano con cicli “chiusi”, alla fine del ciclo delle merci prodotte dalle attività umane, la natura risulta impoverita di alcune delle sue risorse e la qualità di alcune delle sue risorse risulta peggiorata per l’immissione delle scorie e dei rifiuti.

Fino a quando, nei processi “economici” di produzione e uso delle merci, l’estrazione delle risorse naturali e la restituzione delle scorie sono state abbastanza lente nel tempo e diluite nello spazio, la natura ha avuto il tempo di rimettersi in equilibrio; nelle società industriali moderne, invece, l’estrazione delle risorse dalla natura, la massa delle scorie prodotte e l’immissione delle scorie nei corpi naturali riceventi sono molto veloci e concentrate nello spazio. E’ questa una delle cause dei guasti ambientali che si manifestano come peggioramento della qualità dell’aria e delle acque o come impoverimento delle riserve di risorse naturali, della fertilità del suolo, della stabilità delle valli, e che appaiono evidenti quando si sono già verificati.

Alla vera base di questi guasti sta il fatto che gli esseri umani nelle loro attività economiche sono incapaci di valutare correttamente i fenomeni dell’estrazione di materia dalla natura e di contaminazione della natura. L’efficienza di un processo che produce e usa merci viene descritto soltanto con indicatori monetari nei quali il concetto di scarsità e di qualità delle risorse naturali non appare, se non per quella parte che tocca il “proprietario” di alcune delle risorse stesse: il proprietario delle miniere, o del campo coltivato, o delle sorgenti di acqua, che vede ridotte le sue possibilità di guadagno con l’esaurimento o la contaminazione della sua proprietà.

Quando, come nella stragrande maggioranza dei casi, le risorse naturali non hanno un proprietario, cono cioè dei beni collettivi --- a chi appartiene l’aria, o il mare, o l’acqua del fiume, o la flora e la fauna non vendibile ? --- le loro modificazioni sono difficilmente prevedibili perché non sono misurabili con l’unità “denaro” e nessuno ha avuto finora interesse a misurarla con qualche altro strumento o indicatore diverso da quelli tradizionali del “mercato”. Da qui la necessità di cercare qualche altro indicatore dei flussi della materia e dell’energia che sono coinvolti nei processi di produzione e di uso delle merci: la ricerca, in altre parole, di una contabilità fisica, o “naturale” dei processi di trasformazione della natura che ci permetta di identificare qualche nuova unità di misura del “valore” diversa dal denaro.

L’idea non è nuova. Le prime contabilità degli scambi fra agricoltura, industria e consumi, a cominciare dalla celebre “tavola” di F. Quesnay, redatta nel 1758, sono state pensate in termini fisici. Il problema è trattato da Marx nella sua analisi della circolazione della ricchezza e l’economista Marshall, nei suoi “Principi” del 1890, scrisse che “la Mecca degli economisti” sarebbe stata l’economia biologica.

E i primi pianificatori sovietici, negli anni venti, hanno cercato, per liberarsi delle scorie del capitalismo precedente, di liberarsi anche dei limiti imposti dal suo principale indicatore, il denaro, e hanno tentato di redigere una contabilità nazionale in unità fisiche. Purtroppo, ai fini di una contabilità economica nazionale, è difficile sommare il peso delle patate con quello della lana o del tondino di ferro, tanto è vero che le prime tavole intersettoriali dell’economia sovietica hanno dovuto descrivere anch’esse gli scambi di merci in unità monetarie.

Sarebbe stato necessario aspettare i tempi attuali per vedere rinascere una nuova domanda di analisi dei flussi di materiali associati alle attività economiche, l’analisi del “metabolismo” delle fabbriche e dei processi di produzione e di consumo. Finalmente viene riconosciuto che non è possibile valutare i flussi di gas responsabili dell’effetto serra, o di rifiuti, e applicare corrette imposte, se non si conoscono esattamente le quantità fisiche dei materiali coinvolti nei processi economici, nella circolazione che ho prima chiamato natura-merci-natura.


L’energia e la materia contano più dei soldi



In questo campo, a differenza di quanto avviene con i prezzi monetari, abbiamo alcuni punti di riferimento solidi: per definizione la materia e l’energia che entrano in ciascun processo di produzione e di uso delle merci si ritrovano, alla fine, nella stessa quantità, anche se modificata; una parte di tale materia ed energia è sotto forma di merce vendibile in cambio di denaro, mentre una parte – anzi la maggior parte – è sotto forma di sostanze chimiche e di energia che finiscono come “scorie”, che vengono ”rifiutate” e immesse “da qualche parte” nella biosfera.

A titolo di esempio pensiamo alla benzina bruciata in un’automobile: La merce è la benzina e noi la paghiamo e il servizio reso è lo spostamento di una persona a bordo per un certo numero di kilometri. Possiamo perciò dire che il servizio costa tante lire per persona-kilometro.

Questo valore monetario non ci dice niente sulla storia naturale della benzina, prima che sia entrata nel motore, né ci dice niente sui gas che sin liberano nell’atmosfera durante la combustione, ne’ dell’amianto o della polvere di gomma che vengono immessi nell’aria durante il moto del veicolo per il kilometro considerato.

La contabilità fisica mostra che un kilogrammo di benzina brucia soltanto se interagisce con l’ossigeno contenuto in circa 20 kg di aria; il “servizio”, cioè lo spostamento dei veicolo, è accompagnato dall’immissione nell’ambiente degli stessi 21 kg di materiali immessi in ciclo. Le sostanze che escono dal tubo di scappamento, pur avendo la stessa massa della materia iniziale, hanno composizione chimica molto differente: troviamo gli stessi atomi che erano presenti negli idrocarburi della benzina, nell’ossigeno e nell’azoto dell’aria, ma adesso sono combinati in parte ancora come ossigeno e azoto, ma anche come anidride carbonica, ossido di carbonio, ossidi di azoto, idrocarburi diversi da quelli della benzina, e innumerevoli altre sostanze di “rifiuto” la cui misura e caratterizzazione è tutt’altro che facile, anche perché finora non interessava a nessuno.

Lo stesso vale per l’energia che era originariamente “contenuta” dentro la benzina, come energia potenziale a bassa entropia, e che durante la combustione si libera come calore ad alta temperatura e ancora bassa entropia (quel calore che muove i cilindri del motore e le ruote) e alla fine si ritrova anch’esso nei gas di scappamento e nel riscaldamento provocato dagli attriti, come calore a bassa temperatura e ad alta entropia. La quantità di energia è sempre la stessa, ma la sua qualità “merceologica”, la sua attitudine ad essere ancora utilizzata per qualche fine utile, è molto diminuita, una perdita di utilità che si può indicare come aumento di entropia.

Le poche precedenti considerazioni forniscono la base per la ricerca di qualche indicatore fisico del valore che ci liberi dall’arbitrio del denaro e ci fornisca qualche informazione convincente. Per esempio potremmo caratterizzare una merce o un servizio (ricordando che ogni servizio, anche apparentemente immateriale) richiede degli oggetti fisici e materiali), sulla base della quantità di materia che richiede nel suo processo di produzione e di uso, nel suo “ciclo vitale”.

Si potrà così dire che è tanto più utile, o apprezzabile -– o ecologicamente “virtuoso” -- un processo o un servizio che consente di ottenere la stessa merce e lo stesso servizio con un minore consumo di materia prime, o con un minore consumo di energia, o con un minore inquinamento ambientale.

Si potrebbe così parlare di “costo energetico”, di “costo in risorse naturali”, di “costo ambientale”, di ciascuna merce o di ciascun servizio, essendo, proprio come si usa considerare nel caso del valore monetario, tanto più apprezzabile una merce o un servizio che hanno un minore “costo naturale” (1).

Ciascuno di questi tre caratteri possono essere misurati in kilogrammi o in joule per cui il confronto può essere considerato universale (o quasi).


Il costo energetico delle merci



Prima di chiarire a che cosa potrebbe servire, in pratica, questa ricerca di nuovi indicatori “naturali” del valore, e anche per mostrare alcune delle grandi difficoltà del loro computo, vorrei soffermarmi sul caso dell’energia, certamente il più studiato e quello relativamente più facile. Secondo quanto detto prima è possibile confrontare le merci e i servizi sulla base della quantità di energia richiesta per la fabbricazione di una unità di peso di una merce, o per una unità di un servizio: per esempio per consentire ad una persona di percorrere un kilometro. Potremmo così parlare del costo energetico di una merce o di un servizio.

Questa maniera di ragionare tocca, però, anche alcuni aspetti più delicati della stessa teoria del valore: del resto gli economisti classici, e Marx stesso, pensavano a qualcosa di fisico quando elaborarono una teoria del valore sulla base della quantità di lavoro “incorporato” in una merce, necessario a produrla. Sostanzialmente il valore-lavoro è associato in qualche modo ad una misura della quantità di energia --- umana, in questo caso --- necessaria per produrre le merci, è associata a quell’entità misteriosa che è il “valore d’uso” delle merci, un valore legato in qualche modo alla “natura”, come sostiene Marx nella “Critica del programma di Gotha” (1875) quando afferma che “la natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva !) altrettanto quanto il lavoro, che esso stesso, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana”.

Martinez-Alier in un suo libro (2) ha analizzato numerosi contributi di persone che hanno cercato di elaborare una teoria energetica del valore delle merci o una analisi del rapporto fra energia, lavoro e merci.

Il medico ucraino Sergei Podolinskij scrisse nel 1881 un saggio, apparso in tedesco, francese, italiano e russo, su una proposta di valore fisico delle merci. Il saggio è stato, di recente, tradotto e analizzato criticamente da Tiziano Bagarolo (3).

Ma continuamente varie persone, più o meno motivate ideologicamente, sono state attratte dalla ricerca di qualche scala del valore che fosse libera dalla schiavitù delle unità monetarie imposte dalla contabilità capitalistica.

Negli anni venti di questo secolo, per esempio, una teoria del valore in unità fisiche è stata proposta da F. Soddy (che aveva ottenuto il premio Nobel per la scoperta degli isotopi degli elementi), dallo scrittore H.G. Wells (quello della “guerra dei mondi”), e da altri.

Di particolare interesse è il movimento, sorto ai tempi della grande crisi 1929-33 e sull’onda delle idee di Thorstein Veblen, denominato “tecnocrazia” (4) e basato sull’idea che i tecnici, piuttosto che il potere finanziario, avrebbero dovuto avere un ruolo predominante nelle decisioni economiche e produttive. Nell’ambito di questo movimento un certo Howard Scott propose una curiosa teoria della distribuzione delle merci, secondo la quale il denaro avrebbe dovuto essere sostituito da una moneta basata sulle unità energetiche. La proposta, pubblicata da Scott nel fascicolo del gennaio 1933 di “Harper’s Magazine”, sosteneva che l’industria avrebbe prodotto nella maniera più efficiente una grande quantità di merci utili se il governo avesse stampato dei certificati energetici in quantità equivalente alla quantità totale di energia che considerava utile impiegare in un anno nella produzione delle merci.

Tali certificati avrebbero dovuto essere distribuiti in parti uguali fra la popolazione: ciascun cittadino avrebbe usato i certificati a sua disposizione per acquistare le merci o i servizi occorrenti, ciascuno caratterizzato sulla base di un suo valore energetico, regolando i suoi gusti e le sue scelte sulla base del vincolo fisico costituito dalla quantità di energia assegnatagli dalla collettività.

Chi avesse voluto acquistare una merce con elevato costo energetico avrebbe avuto meno certificati per acquistare altre merci, però avrebbe potuto acquistare certificati energetici da altri. I certificati di energia avrebbero dovuto essere trasferibili e avrebbero dovuto avere una durata limitata.


L’italiano Salvadori e la sua dimenticata misura del valore energetico delle merci


La misura del costo energetico delle merci fu proposta, ancora negli anni trenta, da Roberto Salvadori, un oscuro professore di merceologia dell’Università di Firenze, che propose una unità di misura del valore espresso in energon-merce. Di Roberto Salvadori 1873-1940) esistono poche notizie; da un “curriculum vitae” datato 1931 si apprende che si era laureato in chimica a Padova nel 1896; nel 1899 si recò con una borsa di studio nell’Università di Gottingen nel laboratorio del prof. Nernst. Dopo due anni di insegnamento a Sassari, nel 1902 vinse il concorso di professore ordinario di chimica nell’Istituto Tecnico di Firenze e nello stesso anno ottenne la libera docenza. Dal 1926 al 1934 tenne per incarico il corso (allora biennale) di Merceologia presso la Facoltà di Scienze economiche e commerciali di Firenze. Per altre notizie su questo importante e dimenticato studioso si veda: http://www.ilmondodellecose.it/dettaglio.asp?articolo_id=2830

Nel suo libro “Merceologia generale. Principi teorici. II. Le proprietà delle cose. III. Concetto merceologico dell’energia”, Firenze, Editore Cya, 1933, ha introdotto il concetto di “energia-merce” definito come “la somma algebrica delle energie necessarie alla creazione di una entità merceologica, per cui si può stabilire il valore commerciale energetico”. Per “valore commerciale energetico” Salvadori intendeva “il valore assoluto dell’unità di misura di un prodotto merceologico, determinato dalle condizioni tecniche della sua preparazione. Ogni tipo di merce rappresenta, in definitiva, una somma di energie che è sempre superiore all’energia teorica che il prodotto ha in sé”.

Salvadori definì gli “energon-merce” come la somma dell’energia spesa per produrre una unità di peso di ciascuna merce; tale somma è sempre superiore al ”contenuto energetico” della merce stessa e dipende dalle inefficienze e perdite del processo. A Salvadori va quindi il merito di aver introdotto, pur con un linguaggio poco chiaro, l’idea che esiste un consumo minimo teorico di energia per produrre ciascuna merce – equivalente, in un certo senso, al rendimento di Carnot delle macchine termiche – e che il consumo reale di energia dipende dalle perdite, dalle inefficienze tecniche, e così via.

Per inciso lo stesso concetto per alcuni cicli produttivi è stato ripreso dall’americano Gyftopoulos nel 1974 (5).

Utili informazioni su questi tentativi di misurare il valore --- il “valore d’uso” --- delle merci e dei servizi in unità fisiche, e in particolare energetiche, si trovano nel libro già citato, di Martinez-Alier, e in quello dell’inglese Peter Chapman, “Il paradiso dell’energia” (6).


La crisi energetica del 1973 e la nuova curiosità per il costo energetico


L’interesse per la misura del costo energetico delle merci è ripreso negli anni settanta, in seguito alle oscillazioni del prezzo del petrolio e delle materie prime: il petrolio era la stessa cosa, aveva lo stesso valore energetico, quando costava 10.000 lire alla tonnellata nel 1972 o 300.000 lire/t nel 1985 o 200.000 lire/t (circa 100 euro/t) come costa nel 2003. Il calore che libera, i servizi che rende, la quantità di merci che può contribuire a fabbricare, sono grandezze indipendenti dal prezzo unitario.

La ricerca di un indicatore energetico del valore delle merci fu ripresa da Martha Gilliland (7), il cui lavoro fu criticato da David Huttner (8); un’altra proposta di misura del costo energetico fu avanzata dall’inglese Peter Chapman, già ricordato (6), e alcuni studi sul “costo energetico delle merci” sono stati condotti anche nell’Università di Bari (9). Una critica alla proposta di misurare in unità energetiche il valore delle merci è contenuta in un celebre articolo di Nicholas Georgescu-Roegen (10) sulla base del fatto che bisogna considerare non soltanto l’energia, ma anche la materia (“matter matters too”).

La base razionale della ricerca di un valore energetico, o di un costo energetico delle merci e dei servizi, sta nel fatto che, conoscendo tali valori, un soggetto economico, una persona, un’azienda, che voglia consumare meno energia ha (avrebbe) a disposizione un indicatore fisico, in un certo senso “assoluto”, per scegliere fra diversi processi o modi di comportamento. Ad esempio fra due processi produttivi “varrà” di più quello che fornisce la stessa merce con minore consumo di energia. I diversi modi di trasporto delle persone e delle merci possono essere confrontati sulla base del consumo di energia per kilometro percorso da una persona o da una tonnellata di merce.

La valutazione del costo energetico delle merci pone vari problemi metodologici. Il primo punto riguarda l’identificazione di una nuova unità delle attività umane che è il “processo” di trasformazione della natura in merci e poi in scorie e rifiuti. Il “processo si svolge dentro confini fisici che devono essere definito abbastanza bene, a pena di commettere errori. Il processo è quanto avviene entro i confini di una fabbrica o nei confini di una città o in quelli di una abitazione.

Prendiamo un processo produttivo, quello di fabbricazione dell’alluminio, che consiste, come è noto, nel trattare un minerale, la bauxite, con agenti chimici che consentono di ricuperare l’ossido di alluminio. Una seconda fase trasforma l’ossido di alluminio, miscelato con adatti fondenti, in alluminio metallico per elettrolisi, con l’uso dell’elettricità.

In prima approssimazione si può misurare la quantità di energia elettrica consumata per ottenere un kg di alluminio e si può affermare che tale energia rappresenta il costo energetico dell’alluminio, o l’energia “incorporata” nel metallo. Però bisognerebbe valutare anche il “costo energetico” degli elettrodi di carbone e dei fondenti impiegati nell’elettrolisi e che sono “consumati” nel processo. Per fare le cose meglio bisognerebbe anche aggiungere il costo energetico del trasporto di questi agenti dal luogo di produzione alla fabbrica di alluminio, e poi il “costo energetico” del trasporto dalla bauxite dalla miniera alla fabbrica e il costo energetico degli agenti con cui viene trattata la bauxite, e avanti di questo passo.

Includendo tutti i costi energetici dei vari fattori della produzione, il “costo energetico” vero e proprio della merce, cioè il consumo di energia nell’intero ciclo produttivo, può anche raddoppiare. Se, con lo stesso procedimento, si calcola il costo energetico dell’alluminio ricavato dalla fusione del rottame, si vede che l’operazione di riciclo consente di ottenere alluminio, che è sempre lo stesso, con un costo energetico che è circa un ventesimo rispetto a quello che si ha quando si parte dalla bauxite; quasi come se il trattamento del rottame consentisse di ricuperare una parte dell’energia spesa quando lo si è fabbricato la prima volta partendo dal minerale e che è rimasta “incorporata” nel metallo.

Altri indicatori del valore


L’analisi del valore delle merci sulla base del costo energetico può perciò aiutare a scegliere le materie prime, a progettare i materiali, gli imballaggi, i manufatti, sulla base di nuovi vincoli, quali la scarsità di energia o di materie prime. Sulla base di simili considerazioni si possono cercare altri indicatori fisici, naturali, del valore, come il costo in risorse naturali e il costo ambientale.

Il primo potrebbe essere misurato sulla base della quantità di acqua, o di minerali, o di vegetali, richiesti per produrre una unità di peso di merce; il secondo potrebbe descrivere la quantità di rifiuti --- gassosi, liquidi o solidi --- che accompagnano la produzione o l’uso di una unità di peso di merce.

La crescente scarsità di acqua nel mondo, anche nei paesi industrializzati, induce a prestare crescente attenzione alla misura – e alla diminuzione – del “costo in acqua” delle merci (11) attraverso innovazioni nel campo del riciclo dell’acqua, dell’uso di acqua di qualità inferiore per usi meno nobili, come il raffreddamento dei processi industriali, l’irrigazione, l’annaffiatura dei giardini e ... la pulizia dei gabinetti: E’ assurdo che ogni italiano, nella propria vita urbana e domestica, usi ogni anno 20.000 litri di acqua di alta qualità per usi alimentari e igienici e altri 80.000 litri di acqua, ugualmente di alta qualità, per i gabinetti e per la pulizia delle strade.

Vale” perciò, ha un maggiore “valore d’uso”, la merce o il servizio che richiedono minore quantità di acqua. Analogamente vale di più la merce o il servizio che, nel corso della produzione o dell’uso, richiede meno risorse naturali e ha un minore “costo di natura”. Anche in questo caso si tratta di misurare la quantità di risorse naturali – minerali, energie fossili, foreste, eccetera – per unità di merce prodotta o per ciascun servizio.

Infine si può misurare il “costo ambientale” di ciascuna merce o servizio sulla base della quantità di residui o scorie che vengono immessi nell’ambiente nel corso della produzione o alla fine della vita utile. Ormai cominciano ad essere emanate leggi che stabiliscono la massima quantità di agenti inquinanti che possono essere immessi nei corpi riceventi ambientali: la massima quantità di ossido di carbonio, o di ossidi di azoto o di zolfo o di idrocarburi policiclici che possono essere immessi nell’ambiente per ogni kg di benzina o gasolio bruciato in un motore o per ogni km percorso o per ogni kilowattora di elettricità prodotta.

Comunque nella maggior parte dei processi si hanno ben poche informazioni sulle sostanze che accompagnano ciascun processo, benché da tali sostanze dipenda anche la salute dei lavoratori oltre che l’effetto ambientale associato alla fase di produzione o di uso finale delle merci.

Il ritardo delle conoscenze che consentirebbero la misura del “costo (o valore) fisico” delle merci e dei processi dipende anche dal fatto che i processi educativi --- per esempio di formazione dei chimici, degli ingegneri, degli economisti --- sono centrati sulla misura della quantità dei prodotti principali, che sono quelli a cui sono associati scambi monetari, e ben poco attenzione è rivolta all’analisi della quantità e del tipo di prodotti secondari, dei residui e delle scorie, la cui composizione, fra l’altro, è più difficile da misurare, valutare, conoscere, rispetto a quella dei prodotti principali economici.

Ci sono stati dei tentativi, in passato, di elaborare delle “enciclopedie dei processi”, cioè dei bilanci dei flussi di materie e di energia, in unità fisiche, associati ai processi di produzione e di uso delle merci, ma ben poco cammino è stato finora fatto su questa strada.

A che cosa serve ?


La ripresa dell’interesse per nuove scale di valori avrebbe il fine di capire qualcosa di più nel campo ancora poco esplorato della teoria del valore nei rapporti uomo-natura-società. Ma avrebbe anche qualche utilità pratica, consentirebbe di identificare le scelte economiche più razionali in un’epoca di risorse scarse.

Insomma anche la società strettamente capitalistica, basata sulle rigorose leggi del libero mercato, sta cominciando a riconoscere che qualcosa nei meccanismi dei prezzi non funziona.

Per esempio in questi ultimi anni si stanno moltiplicando l’interesse e gli studi sulla caratterizzazione di alcune merci, considerate meno dannose per l’ambiente con una “etichetta ecologica” o “ecolabel”, assegnata sulla base del minore consumo di materiali o di energia o del minore inquinamento, rispetto ad altre merci. Gli acquirenti potrebbero così essere orientati, a parità di prezzo o anche pagando un prezzo maggiore, verso le merci più “amiche” della natura. In un certo senso questo orientamento si sta già verificando con gli alimenti cosiddetti “biologici”, più costosi ma apparentemente ottenuti con meno pesticidi o concimi rispetto a quelli tradizionali. E’ facile costatare che l’operazione si presta a frodi se le misure dei valori “naturali” delle merci non sono effettuate correttamente.

Un altro interessante esempio di utilità dell’analisi del flusso di materiali e di energia associato alla produzione e all’uso di merci e servizi riguarda l’applicazione delle imposte ecologiche. Sempre più spesso, per diminuire l’inquinamento, vengono proposte e ormai anche applicate imposte proporzionali alla quantità fisica dei materiali in gioco: alla quantità di anidride carbonica emessa dagli impianti di combustione, alla quantità di ossido di azoto e zolfo emesse durante la combustione e i processi produttivi; proporzionali alla quantità di rifiuti solidi prodotti, eccetera.

Infine la conoscenza dei flussi materiali è richiesta dalle procedure che richiedono una misura e valutazione del cosiddetto “impatto ambientale” l’effetto delle attività produttive sull’ambiente. Per poter giudicare se una località è adatta ad ospitare un impianto produttivo viene (dovrebbe essere) richiesto un bilancio dei materiali in gioco.

Inutile dire che, a parte le reali difficoltà tecnico-scientifiche di misurare le grandezze richieste, la procedura è quanto mai inefficace per la resistenza dei produttori a indicare quello che effettivamente trattano, le esatte quantità di scorie prodotte, il pericolo dei processi e dei prodotti. Infine la ricerca delle nuove scale “naturali” del valore è di grande utilità anhe per misurare e pianificare il funzionamento di quel tipico ecosistema artificiale che è la città umana (12).



Note



1) Alcune considerazioni su questo tema si possono trovare in: G. Nebbia, “Sul valore energetico delle merci”, Politica ed Economia, (III), 21, (7/8), 49-50 (luglio-agosto 1990) e “L’energia come altro indicatore del valore delle merci”, Giano, n. 10, 89-93 (aprile 1992); anche Verdesalute, vol. 7, n. 4, 16-20 (ottobre-dicembre 1997) e G.Nebbia, "Risorse merci ambiente", Bari, Progedit, 2001, e "Merci e valori", Milano, Jacabook, 2002

2) Juan Martinez-Alier, “Ecological economics”, Oxford, Basil Blackwell, 1987; traduzione italiana col titolo: “Economia ecologica”, Milano, Garzanti, 1991

3) T. Bagarolo, ”Marx-Engels-Podolinskij: una traccia teorica perduta”, Giano n. 10, 37-74 (aprile 1992)

4) Cfr. W.E. Akin, “Technocracy and the American dream. The Technocrat movement, 1900-1941”, Berkeley, University of California Press, 1977. Un movimento “Technocracy” sopravvive ancora adesso. Si possono trovare informazioni nel sito Internet .

5) E.P. Gyftopoulos e altri, “Potential fuel effectivenesse iin industry”, Cambridge, Ballinger, 1974

6) P. Chapman, “Fuel’s paradise. Energy options for Britain”, Harmondworth, Penguin Books, 1975. Traduzione italiana col titolo: “Il paradiso dell’energia. Introduzione all’analisi energetica”, Milano, Clup/Clued, 1982, introduzione di Giorgio Nebbia. Purtroppo nella traduzione italiana è stata omessa la bibliografia.

7) M. Gilliland, “Energy analysis and public policy”, Science, 189, 1051-1056 (26 September 1975) e “Energy analysis”, Science, 192, 8-12 (2 April 1976)

8) D. Huettner, “Net energy analysis and economic assessment”, Science, 192, 101-104 (9 April 1976) e varie “Lettere” in Science, 196, 259-262 (15 April 1977)

9) Cfr. G. Nebbia, “Storia naturale delle merci”, Rassegna chimica, 43, (6), 241-249 (novembre-dicembre 1991)

10) N. Georgescu-Roegen, “Energy analysis and economic valuation”, Southern Economic Journal, 45, (4), 1023-1058 (April 1972), traduzione italiana in: N. Georgescu-Roegen, “Energia e miti economici”, Torino, Bollati Boringhieri, 1998

11) Cfr., per esempio: G. Nebbia, ”Il problema dell’acqua”, Bari, Cacucci, 1966, e G. Nebbia, “Sete !”, Roma, Editori Riuniti, 1991

12) Cfr. V. Bettini, “Elementi di ecologia urbana”, Torino, Einaudi, 1996


venerdì 4 luglio 2014

Il governo Renzi continua a sbagliare tutto: Le rinnovabili ci fanno risparmiare!

Da"Qualenergia.it". Il governo Renzi cerca di abbassare i costi dell'energia, ma se la prende con il bersaglio sbagliato: le rinnovabili ci fanno risparmiare!


Il mistero del risparmio generato dalle rinnovabili che non arriva in bolletta

Eolico e fotovoltaico sono sul banco degli imputati per il peso che hanno sugli oneri di sistema. Ma stanno anche facendo scendere consistentemente il prezzo dell'elettricità in Borsa. Questo calo però non si riflette in bolletta: la componente energia (PE) è superiore al PUN di circa 20 €/MWh. Abbiamo cercato di capire dove si perde questo risparmio, perché e chi ne beneficia.




Secondo un calcolo della società di consulenza eLeMeNS, per ogni punto percentuale aggiuntivo di eolico e fotovoltaico nel mix elettrico, dato che questi producono a costi marginali nulli, il prezzo dell'energia in Borsa si abbassa di 1 €/MWh.  Senza sole e vento nel 2013 avremmo avuto un PUN (prezzo unico nazionale) di 7,2 €/MWh più alto. Le rinnovabili, assieme ad altri fattori come il calo della domanda, come ben documentato da vari studi (qui l'ultimo, del CNR), stanno facendo calare il prezzo dell'elettricità sul mercato del giorno prima. Peccato che, nonostante il sostanzioso decremento del prezzo sul mercato spot sia in corso da tempo, le nostre bollette restino invariate. Dove si perde questo risparmio potenziale?

La colpa non è solo degli oneri di sistema, da tempo sul banco degli imputati, né degli altri costi necessari a mantenere il sistema elettrico. La componente A3, infatti, con la fine degli incentivi al FV ha praticamente arrestato la sua crescita e i costi di dispacciamento, nonostante siano cresciuti nell'ultimo trimestre, hanno subito un calo netto rispetto all'estate scorsa. E' proprio la componente energia, la PE, che non sta riflettendo il calo dei prezzi di Borsa.

Il grafico sotto (cortesia di Dario di Santo di Fire, che su queste pagine aveva già denunciato il fenomeno) spiega meglio di mille parole: la fascia gialla è la differenza tra PUN e PE e come si vede si allarga dal 2009 in poi. L'ultimo aggiornamento delle tariffe registra una PE in vigore dal 1° luglio a oltre 69 €/MWh, circa 22 euro in più rispetto al PUN medio dell'ultimo mese, sui 47 €/MWh. Dove finiscono quei circa 20 € a MWh che potremmo risparmiare, godendo così di uno dei benefici prodotti da eolico e fotovoltaico?


Una parte di questo scollamento può essere spiegata dal fatto che PUN e PE sono sostanzialmente diversi: a differenza del PUN, la PE è maggiorata delle perdite di rete, circa il 10%; incorpora il profilo di consumo del cliente domestico, concentrato nella fascia diurna quando i prezzi sono più alti, e, ancora, la PE contiene un meccanismo di recupero degli scostamenti del trimestre precedente, spalmati sui due trimestri successivi. Queste differenze, però, ovviamente, ci sono sempre state, mentre, come vediamo dal grafico, la forbice tra i due valori ha cominciato a manifestarsi in maniera così consistente solo negli ultimi anni e precisamente dal 2009 in poi. Dunque la domanda resta: dove finiscono quei soldi?

La risposta viene da un'altra differenza tra PUN e PE: il primo è una media dei prezzi sul mercato spot del giorno prima (MGP), la PE invece riflette il mix di acquisto dell'Acquirente Unico (AU), il “grossista pubblico” che compra l'energia per conto dei clienti del mercato tutelato. L'AU compra circa il 40% dell'energia sul mercato spot e il resto sul mercato a termine: e proprio qui sta il motivo della 'voragine' che ultimamente si è aperta tra PUN e PE.

Una spiegazione confermata anche dall'ultimo comunicato AEEGSI sull'aggiornamento tariffe in cui si legge che "il sensibile calo (-7,1%) della materia prima all’ingrosso – che rappresenta circa il 50% della bolletta - è stato in parte compensato dalle coperture assicurative contro il rischio di rialzo dei prezzi dei contratti di approvvigionamento dell’Acquirente Unico."

Come confermano a QualEnergia.it gli stessi rappresentanti dell'AU, infatti, negli ultimi tempi i contratti conclusi dall'Acquirente sui mercati a termine si stanno regolarmente rivelando 'lunghi'. Ciò vuol dire che comprando l'energia in grande anticipo questa viene a costare di più. Ad esempio, nel 2013 si è acquistata energia per il 2014 a 10 (per usare numeri a caso), mentre il valore del mercato spot nel 2014 è poi sceso a 7. “Nel 2009 (anno in cui è aumentato il divario, ndr) i contratti sembravano buoni, ma evidentemente si sono verificate dinamiche non previste”, ci spiegano dall'AU.

Ovviamente in tutto ciò c'è qualcuno che ci guadagna; cioè chi vende a termine, che intasca la differenza, mentre ci rimettono i consumatori

Danneggiati non sono solo gli utenti del mercato tutelato, riforniti dall'AU, ma anche quelli del mercato libero. Le offerte del mercato libero, infatti, si adagiano in genere sul benchmark dei prezzi fatti dall'AU, rimanendo solitamente più alte. 

Da dati dell'Autorità (riferiti al 2011) in media sul mercato libero i consumatori pagano l'energia il 12,8% più cara che nel regime di maggior tutela.

Insomma, come minimo c'è un'inefficienza del mercato a lungo termine e/o del modo in cui l'AU fa gli acquisti. “Il mercato a termine sta mostrando di non essere in grado di prevedere l'evoluzione del PUN. O a pensar male, fa finta di non essere in grado di prevederla tale evoluzione. Ma questo lo dovrebbe eventualmente chiarire l'Antitrust”, ci spiega una fonte interna all'AU che non vuole essere citata. Che sia il caso di chiedere al Garante per la Concorrenza? Dall'AGCM ufficialmente non si pronunciano, ma ammettono che c'è “un'inefficienza nei mercati a termine”, chiarendo che un'eventuale segnalazione dovrebbe arrivare dall'AU.

Possibile che un soggetto così importante come l'AU non riesca a farsi valere sui prezzi a termine? "Sì, anzi, proprio perché compra tanto è svantaggiato", ci spiega Dario Di Santo di Fire (come altri analisti sentiti). “Non è in una posizione di forza quando compra sul mercato a termine - continua Di Santo - perché dovendo comprare volumi molto grandi perde potere contrattuale: ha bisogno dell'energia di quasi tutti i fornitori”.

Le cose andrebbero meglio se l'AU facesse gli acquisti in maniera diversa? In effetti non è scritto da nessuna parte quanto debba comperare sul mercato spot e quanto su quello a termine. Comprare sui mercati a termine però, ci fanno notare dall'Acquirente, è una sorta di assicurazione che garantisce i consumatori da eventuali rialzi dei prezzi futuri. “Quando il PUN risalirà la forbice si invertirà e la componente PE sarà inferiore al PUN”, ci rispondono.

Come evolverà il PUN però è difficile da prevedere e l'eventualità che salga non è affatto più probabile rispetto a quella che scenda ancora. Da una parte abbiamo fattori che dovrebbero far proseguire il calo, cioè la penetrazione delle rinnovabili (in Italia comunque nettamente in frenata), la situazione di overcapacity (con la domanda che anche nel più ottimistico degli scenari di Terna non tornerà ai livelli di 5 anni fa prima di ulteriori 5 anni) e l'introduzione del capacity payment (che remunerando a parte gli impianti più costosi dovrebbe prevenire aumenti). Dall'altra c'è la grossa incognita del prezzo del gas che ha un notevole impatto sulla formazione dei prezzi.

Ma nel frattempo, finché abbiamo un PUN di oltre 20 euro più basso di quanto paghiamo la materia prima in bolletta (PE), come potremmo recuperare quel risparmio perduto? L'AU, ci spiegano, non potrebbe nemmeno vendere l'energia a termine per riacquistarla sul mercato spot a un prezzo minore, perché questo sarebbe un comportamento speculativo e “l'obiettivo dell'AU non è ottenere il minor prezzo possibile e dunque attirare clienti, ma garantire una fornitura efficiente a chi non è ancora passato al mercato libero”. Anche dal punto di vista del rischio, per minimizzarlo, si fa un così ampio ricorso ai mercati a termine, ci spiegano: l'AU deve essere molto più cautelativo rispetto agli operatori del mercato libero.

E qui sorge una domanda: abbiamo capito perché l'Acquirente ha un approccio prudente e non cerca il prezzo più basso possibile, ma perché nemmeno gli operatori del mercato libero, che potrebbero farlo, si assumono questi rischi e cercano di portare in bolletta i risparmi che si potrebbero ottenere dal prezzo di Borsa attuale? Sul mercato libero, come detto, l'energia si paga in media di più e le offerte sembrano quasi assumere come floor price il prezzo dell'AU. Fonti interne all'AU ci parlano di un atteggiamento “implicitamente collusivo” da parte degli operatori del mercato libero.

Insomma, la strategia dell'AU, basata in gran parte su acquisti a termine, attutisce gli effetti in bolletta delle dinamiche del mercato elettrico, nel bene e nel male. Nella situazione attuale di PUN basso questo fa sì che, per garantire i consumatori da possibili aumenti futuri, i risparmi dati dalla rinnovabili vengano intascati da altri soggetti, anziché andare a finire in bolletta.

Ci sarà un modo per evitare che questo accada pur continuando a garantire la tutela dei consumatori dal rischio? Quando si parla di caro-energia, anziché accanirsi sempre sul peso delle rinnovabili sulla componente A3, sarebbe il caso di affrontare anche questa questione.

sabato 28 giugno 2014

Renzi: un governo contro l'energia pulita






da "Il Fatto Quotidiano"

Rinnovabili e blackout: Italia vs. Germania

Mentre vengono resi noti i risultati degli stress test condotti su 145 reattori nucleari europei che hanno evidenziato estese criticità, la Commissione Europea rimane in stand-by. Non intima la chiusura delle 13 centrali più obsolete e a rischio perché sono fortissime le pressioni del vecchio sistema energetico a mantenere la megastruttura che unifica fossili e nucleare. Così si contrasta la stessa Roadmap 2050 dell’Ue, che prevede una larga prevalenza delle fonti rinnovabili per la metà del secolo.

Il nostro Governo, pur obbligato dal referendum a stoppare il nucleare, rientra nel gruppo degli avversari delle rinnovabili. Continua in questo la politica di Berlusconi – d’altra parte gli interessi dei banchieri al governo sono contigui a quelli delle lobby dei mega-impianti che ispiravano il Cavaliere – e quindi rilancia gas, petrolio e carbone. Tutto questo con lo spauracchio dei blackout energetici, in agguato, a quanto vorrebbero farci credere, se dovesse affermarsi un sistema decentrato, governato sul territorio e alimentato dalle fonti naturali.

Niente di più falso e indimostrabile. A riprova della faziosità di Passera & Co quando ipotizzano un’Italia solcata da tubi e elettrodotti, costellata di rigassificatori e magari depositi di CO2, viene la conferma che in Germania, l’inverno scorso, le luci sono state tenute accese dall’energia solare. Il Governo tedesco, che si prepara a chiudere i suoi 22 reattori nucleari, ha ridotto anche gli scambi nucleari con la Francia rischiando il blackout ma, come ha detto il responsabile per l’energia del Bunderstag: “Siamo stati salvati dal sole”. È pur vero che lo scorso febbraio il territorio dalla Baviera alla Mosella ha avuto un’eccezionale insolazione ma i 28 GW di potenza fotovoltaica, concentrati nella regione, erano collegati alla rete ed hanno fornito il 3% circa della potenza totale. Il solare è un generatore di elettricità intermittente, dipendente dagli impianti di stoccaggio e di back-up che ovviano, se ben progettati, alla capacità di potenza quando il sole non splende.

È risultato determinante per la Germania l’avere investito nelle reti e nei sistemi di immagazzinamento. Lo sforzo tedesco consiste nel ritenere le rinnovabili sostitutive dei fossili e quindi meritevoli della massima attenzione lungo tutta la filiera. Si è così creata una capacità di energia in eccesso, che ha consentito di aumentare le esportazioni di elettricità verso la Francia ipernucleare da 4 a 5 GW.

“I dati non mentono – ha affermato Brandon Mitchener, portavoce di First Solar, azienda leader nel fotovoltaico – e dimostrano che solare ed eolico sono in grado di fornire reale potenza proprio quando è più necessario, quando la domanda è al suo apice”. I governi europei dovrebbero puntare ad ampie e ben coordinate connessioni alla rete inter e intra-europea, che non esistono ancora. È proprio la “Roadmap 2050” a richiedere l’integrazione delle fonti energetiche rinnovabili nella rete e piani di sviluppo delle infrastrutture, ivi compreso il consolidamento delle interconnessioni con i paesi vicini. Invece di mettere controlli alle frontiere per l’energia elettrica (è bene sapere che il gas che passa da Dobbiaco subisce un aumento del 7% quando entra nelle condotte Snam!), occorrerebbe in Europa assicurare una migliore integrazione delle energie rinnovabili.

Come si comporta l’Italia, dove il silenzio copre tutte le decisioni strategiche che i cittadini dovrebbero conoscere? Il piano energetico di Passera, in discussione in questi giorni, va in direzione opposta alla linea proposta dalla Ue. Prevede l’autarchia da petrolio e gas e la marginalità delle rinnovabili. Niente visione di lungo periodo, né partecipazione all’integrazione europea strutturale. Che altro aspettarsi da banchieri e tecnici che usano la crisi per rimettere in corsa vecchi poteri, anziché aprire il varco a speranze, intelligenze, competenze e tecnologie che si misurino positivamente con la crisi climatica e ne facciano occasione per buona occupazione, risanamento ambientale, tutela della salute?

mercoledì 12 marzo 2014

Ritorno Energetico dall'Investimento (EROEI): la situazione

Da “The Rational Pessimist”. Traduzione di MR

di "Rational Pessimist"


Nel mio ultimo post, ho fatto riferimento al lavoro di Charles Hall sul Ritorno Energetico dall'Investimento (EROEI) e sull'economia biofisica. A seguito di uno scambio di e-mail col professor Hall, egli mi ha diretto ad una parte del suo recente lavoro, compreso un saggio del gennaio 2014 intitolato “l'EROEI dei diversi combustibili e le implicazioni per la società”, pubblicato su Energy Policy (ad accesso libero). Il saggio si occupa della questione cruciale dell'EROI: “Quante unità di energia si estraggono per ogni unita di energia che si investe”?

Il saggio è un vero e proprio festival di grafici di ogni cosa sull'EROEI, ma suzzicherò il vostro appetito con soltanto 3 di questi. Il primo è un confronto di EROEI fra diversi combustibili fossili e fonti di energia da biomassa:


La cattiva notizia qui, è che il carbone rimane il re dell'EROEI visto che si ottiene 40 volte l'energia che viene impiegata (40:1). Non buono per le traiettorie delle emissioni di CO2 e per il cambiamento climatico. Il secondo è il declino degli EROEI globali di petrolio e gas:


Il declino non sorprende, visto stiamo cercando di estrarre sempre di più fonti geologicamente marginali di petrolio e gas in modi sempre più non convenzionali. Infine, un grafico che mostra i combustibili fossili contro le rinnovabili:


Sono stato davvero sorpreso da questo grafico perché sia eolico sia fotovoltaico (FV) hanno si presentano migliori di quanto mi aspettassi. Hall segnala tutti i grandi problemi dell'eolico e del FV (necessità di carico di base e così via) ed anche i punti controversi nella disputa sulla metodologia per l'EROEI del FV. Ciononostante, ho sentito argomentazioni in passato secondo le quali il FV è quasi alla pari in termini di EROEI (*). Ma non sembra che sia così. C'è molto di più nel saggio, compresi numerori riferimenti interessanti. Quando avrò tempo, tornerò sull'EROEI delle rinnovabili, in quanto sembra un tema molto importante. 



(*) nota di UB: non è chiaro nel testo originale a cosa questa "parità" si riferisca