A commento del recente post di Sgouris Sgouridis sulla necessita di una "transizione finanziaria" per affrontare la transizione energetica, ecco un post di Giorgio Nebbia che risale a qualche anno fa, ma che è ancora attualissimo.
La
circolazione natura-merci-natura:
Alla ricerca di nuove scale di valori
Alla ricerca di nuove scale di valori
Ambiente
Costruito, 2,
(2), 4-11 (aprile-giugno 1998)
di Giorgio
Nebbia
La
tecnosfera --- l'insieme di abitazioni, fabbriche, città, affollate
di oggetti fabbricati dagli esseri umani --- è un organismo vivente
che “funziona”, come qualsiasi altro essere vivente, grazie ad un
flusso di materia e di energia: la materia è rappresentata da “cose”
ottenute dalla biosfera --– dall’aria, dalle acque, dal suolo,
dal mondo vivente vegetale e animale --- per lo più gratis, e da
molte altre cose provenienti dalla tecnosfera, dall’universo degli
oggetti fabbricati dagli esseri umani per trasformazione dei beni
tratti dalla natura: vegetali, animali, fonti di energia, pietre,
acqua, minerali, eccetera.
Chiamerò,
per intenderci, “merci” gli oggetti “fabbricati” nella
tecnosfera: a rigore, come vedremo, dovremo fare i conti anche con
“beni” scambiati, senza pagare niente, fra gli umani e le loro
attività e il mondo circostante della natura: l’ossigeno
“acquistato” gratis dall’aria, necessario per la respirazione
umana e per le combustioni; l’anidride carbonica “venduta”
gratis all’atmosfera come risultante della respirazione, delle
combustioni, della scomposizione delle pietre, eccetera.
Non è
possibile avere idee chiare sul funzionamento della tecnosfera e su
quanto attraversa un territorio se non si fa qualche passo avanti
nella comprensione di questi complessi scambi e “commerci” di
materiali e di energia, nei quali il denaro può entrare o no.
Cominciamo
con l’osservare che i processi di produzione e di “consumo”
delle merci presentano alcune interessanti analogie con i processi
viventi: entrambi traggono dalla natura risorse (aria, acqua,
minerali, prodotti vegetali e animali) e le trasformano in cose
utili. Nel processo di trasformazione e nel processo di “uso”
delle “cose”, i materiali usati e i loro sottoprodotti ritornano
nell’ambiente naturale circostante sotto forma di gas, liquidi e
solidi, nella stessa quantità in peso in cui sono entrati nel
processo.
Per
questo motivo d’ora innanzi non userò più il termine “consumo”
delle cose fabbricate, delle merci, perché in realtà ciascun
“consumatore” non
consuma niente, ma
si limita ad usare, per un tempo più o meno lungo, le merci stesse.
Anche i processi dell’economia, come quelli della vita, sono perciò
caratterizzati da una circolazione natura-merci-natura, o N-M-N (se
vogliamo ricorrere ad una analogia con la simbologia marxiana); a
differenza, però, di quanto avviene nei processi vitali, nei quali
tutte le scorie rientrano in ciclo, che operano con cicli “chiusi”,
alla fine del ciclo delle merci prodotte dalle attività umane, la
natura risulta impoverita di alcune delle sue risorse e la qualità
di alcune delle sue risorse risulta peggiorata per l’immissione
delle scorie e dei rifiuti.
Fino a
quando, nei processi “economici” di produzione e uso delle merci,
l’estrazione delle risorse naturali e la restituzione delle scorie
sono state abbastanza lente nel tempo e diluite nello spazio, la
natura ha avuto il tempo di rimettersi in equilibrio; nelle società
industriali moderne, invece, l’estrazione delle risorse dalla
natura, la massa delle scorie prodotte e l’immissione delle scorie
nei corpi naturali riceventi sono molto veloci e concentrate nello
spazio. E’ questa una delle cause dei guasti ambientali che si
manifestano come peggioramento della qualità dell’aria e delle
acque o come impoverimento delle riserve di risorse naturali, della
fertilità del suolo, della stabilità delle valli, e che appaiono
evidenti quando si sono già verificati.
Alla vera
base di questi guasti sta il fatto che gli esseri umani nelle loro
attività economiche sono incapaci di valutare correttamente i
fenomeni dell’estrazione di materia dalla natura e di
contaminazione della natura. L’efficienza di un processo che
produce e usa merci viene descritto soltanto con indicatori monetari
nei quali il concetto di scarsità e di qualità delle risorse
naturali non appare, se non per quella parte che tocca il
“proprietario” di alcune delle risorse stesse: il proprietario
delle miniere, o del campo coltivato, o delle sorgenti di acqua, che
vede ridotte le sue possibilità di guadagno con l’esaurimento o la
contaminazione della sua proprietà.
Quando,
come nella stragrande maggioranza dei casi, le risorse naturali non
hanno un proprietario, cono cioè dei beni collettivi --- a chi
appartiene l’aria, o il mare, o l’acqua del fiume, o la flora e
la fauna non vendibile ? --- le loro modificazioni sono difficilmente
prevedibili perché non sono misurabili con l’unità “denaro” e
nessuno ha avuto finora interesse a misurarla con qualche altro
strumento o indicatore diverso da quelli tradizionali del “mercato”.
Da qui la necessità di cercare qualche altro indicatore dei flussi
della materia e dell’energia che sono coinvolti nei processi di
produzione e di uso delle merci: la ricerca, in altre parole, di una
contabilità fisica, o “naturale” dei processi di trasformazione
della natura che ci permetta di identificare qualche nuova unità di
misura del “valore” diversa dal denaro.
L’idea
non è nuova. Le prime contabilità degli scambi fra agricoltura,
industria e consumi, a cominciare dalla celebre “tavola” di F.
Quesnay, redatta nel 1758, sono state pensate in termini fisici. Il
problema è trattato da Marx nella sua analisi della circolazione
della ricchezza e l’economista Marshall, nei suoi “Principi”
del 1890, scrisse che “la Mecca degli economisti” sarebbe stata
l’economia biologica.
E i primi
pianificatori sovietici, negli anni venti, hanno cercato, per
liberarsi delle scorie del capitalismo precedente, di liberarsi anche
dei limiti imposti dal suo principale indicatore, il denaro, e hanno
tentato di redigere una contabilità nazionale in unità fisiche.
Purtroppo, ai fini di una contabilità economica nazionale, è
difficile sommare il peso delle patate con quello della lana o del
tondino di ferro, tanto è vero che le prime tavole intersettoriali
dell’economia sovietica hanno dovuto descrivere anch’esse gli
scambi di merci in unità monetarie.
Sarebbe
stato necessario aspettare i tempi attuali per vedere rinascere una
nuova domanda di analisi dei flussi di materiali associati alle
attività economiche, l’analisi del “metabolismo” delle
fabbriche e dei processi di produzione e di consumo. Finalmente viene
riconosciuto che non è possibile valutare i flussi di gas
responsabili dell’effetto serra, o di rifiuti, e applicare corrette
imposte, se non si conoscono esattamente le quantità fisiche dei
materiali coinvolti nei processi economici, nella circolazione che ho
prima chiamato natura-merci-natura.
L’energia e la materia contano più dei soldi
In questo
campo, a differenza di quanto avviene con i prezzi monetari, abbiamo
alcuni punti di riferimento solidi: per definizione la materia e
l’energia che entrano in ciascun processo di produzione e di uso
delle merci si ritrovano, alla fine, nella stessa quantità, anche se
modificata; una parte di tale materia ed energia è sotto forma di
merce vendibile in cambio di denaro, mentre una parte – anzi la
maggior parte – è sotto forma di sostanze chimiche e di energia
che finiscono come “scorie”, che vengono ”rifiutate” e
immesse “da qualche parte” nella biosfera.
A titolo di
esempio pensiamo alla benzina bruciata in un’automobile: La merce è
la benzina e noi la paghiamo e il servizio reso è lo spostamento di
una persona a bordo per un certo numero di kilometri. Possiamo perciò
dire che il servizio costa tante lire per persona-kilometro.
Questo
valore monetario non ci dice niente sulla storia naturale della
benzina, prima che sia entrata nel motore, né ci dice niente sui gas
che sin liberano nell’atmosfera durante la combustione, ne’
dell’amianto o della polvere di gomma che vengono immessi nell’aria
durante il moto del veicolo per il kilometro considerato.
La
contabilità fisica mostra che un kilogrammo di benzina brucia
soltanto se interagisce con l’ossigeno contenuto in circa 20 kg di
aria; il “servizio”, cioè lo spostamento dei veicolo, è
accompagnato dall’immissione nell’ambiente degli stessi 21 kg di
materiali immessi in ciclo. Le sostanze che escono dal tubo di
scappamento, pur avendo la stessa massa della materia iniziale, hanno
composizione chimica molto differente: troviamo gli stessi atomi che
erano presenti negli idrocarburi della benzina, nell’ossigeno e
nell’azoto dell’aria, ma adesso sono combinati in parte ancora
come ossigeno e azoto, ma anche come anidride carbonica, ossido di
carbonio, ossidi di azoto, idrocarburi diversi da quelli della
benzina, e innumerevoli altre sostanze di “rifiuto” la cui misura
e caratterizzazione è tutt’altro che facile, anche perché finora
non interessava a nessuno.
Lo
stesso vale per l’energia che era originariamente “contenuta”
dentro la benzina, come energia potenziale a bassa entropia, e che
durante la combustione si libera come calore ad alta temperatura e
ancora bassa entropia (quel calore che muove i cilindri del motore e
le ruote) e alla fine si ritrova anch’esso nei gas di scappamento e
nel riscaldamento provocato dagli attriti, come calore a bassa
temperatura e ad alta entropia. La quantità di energia è sempre la
stessa, ma la sua qualità “merceologica”, la sua attitudine ad
essere ancora utilizzata per qualche fine utile,
è molto diminuita, una perdita di utilità che si può indicare come
aumento di entropia.
Le poche
precedenti considerazioni forniscono la base per la ricerca di
qualche indicatore fisico del valore che ci liberi dall’arbitrio
del denaro e ci fornisca qualche informazione convincente. Per
esempio potremmo caratterizzare una merce o un servizio (ricordando
che ogni servizio, anche apparentemente immateriale) richiede degli
oggetti fisici e materiali), sulla base della quantità di materia
che richiede nel suo processo di produzione e di uso, nel suo “ciclo
vitale”.
Si potrà
così dire che è tanto più utile, o apprezzabile -– o
ecologicamente “virtuoso” -- un processo o un servizio che
consente di ottenere la stessa merce e lo stesso servizio con un
minore consumo di materia prime, o con un minore consumo di energia,
o con un minore inquinamento ambientale.
Si potrebbe
così parlare di “costo energetico”, di “costo in risorse
naturali”, di “costo ambientale”, di ciascuna merce o di
ciascun servizio, essendo, proprio come si usa considerare nel caso
del valore monetario, tanto più apprezzabile una merce o un servizio
che hanno un minore “costo naturale” (1).
Ciascuno
di questi tre caratteri possono essere misurati in kilogrammi o in
joule per cui il confronto può
essere considerato universale (o quasi).
Il costo energetico delle merci
Prima di
chiarire a che cosa potrebbe servire, in pratica, questa ricerca di
nuovi indicatori “naturali” del valore, e anche per mostrare
alcune delle grandi difficoltà del loro computo, vorrei soffermarmi
sul caso dell’energia, certamente il più studiato e quello
relativamente più facile. Secondo quanto detto prima è possibile
confrontare le merci e i servizi sulla base della quantità di
energia richiesta per la fabbricazione di una unità di peso di una
merce, o per una unità di un servizio: per esempio per consentire ad
una persona di percorrere un kilometro. Potremmo così parlare del
costo energetico di una merce o di un servizio.
Questa
maniera di ragionare tocca, però, anche alcuni aspetti più delicati
della stessa teoria del valore: del resto gli economisti classici, e
Marx stesso, pensavano a qualcosa di fisico quando elaborarono una
teoria del valore sulla base della quantità di lavoro “incorporato”
in una merce, necessario a produrla. Sostanzialmente il valore-lavoro
è associato in qualche modo ad una misura della quantità di energia
--- umana, in questo caso --- necessaria per produrre le merci, è
associata a quell’entità misteriosa che è il “valore d’uso”
delle merci, un valore legato in qualche modo alla “natura”, come
sostiene Marx nella “Critica del programma di Gotha” (1875)
quando afferma che “la
natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la
ricchezza effettiva !) altrettanto quanto il lavoro, che esso stesso,
è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro
umana”.
Martinez-Alier
in un suo libro (2) ha analizzato numerosi contributi di persone che
hanno cercato di elaborare una teoria energetica del valore delle
merci o una analisi del rapporto fra energia, lavoro e merci.
Il medico
ucraino Sergei Podolinskij scrisse nel 1881 un saggio, apparso in
tedesco, francese, italiano e russo, su una proposta di valore fisico
delle merci. Il saggio è stato, di recente, tradotto e analizzato
criticamente da Tiziano Bagarolo (3).
Ma
continuamente varie persone, più o meno motivate ideologicamente,
sono state attratte dalla ricerca di qualche scala del valore che
fosse libera dalla schiavitù delle unità monetarie imposte dalla
contabilità capitalistica.
Negli anni
venti di questo secolo, per esempio, una teoria del valore in unità
fisiche è stata proposta da F. Soddy (che aveva ottenuto il premio
Nobel per la scoperta degli isotopi degli elementi), dallo scrittore
H.G. Wells (quello della “guerra dei mondi”), e da altri.
Di
particolare interesse è il movimento, sorto ai tempi della grande
crisi 1929-33 e sull’onda delle idee di Thorstein Veblen,
denominato “tecnocrazia” (4) e basato sull’idea che i tecnici,
piuttosto che il potere finanziario, avrebbero dovuto avere un ruolo
predominante nelle decisioni economiche e produttive. Nell’ambito
di questo movimento un certo Howard Scott propose una curiosa teoria
della distribuzione delle merci, secondo la quale il denaro avrebbe
dovuto essere sostituito da una moneta basata sulle unità
energetiche. La proposta, pubblicata da Scott nel fascicolo del
gennaio 1933 di “Harper’s Magazine”, sosteneva che l’industria
avrebbe prodotto nella maniera più efficiente una grande quantità
di merci utili se il governo avesse stampato dei certificati
energetici in quantità equivalente alla quantità totale di energia
che considerava utile impiegare in un anno nella produzione delle
merci.
Tali
certificati avrebbero dovuto essere distribuiti in parti uguali fra
la popolazione: ciascun cittadino avrebbe usato i certificati a sua
disposizione per acquistare le merci o i servizi occorrenti, ciascuno
caratterizzato sulla base di un suo valore energetico, regolando i
suoi gusti e le sue scelte sulla base del vincolo fisico costituito
dalla quantità di energia assegnatagli dalla collettività.
Chi avesse voluto acquistare una merce con elevato
costo energetico avrebbe avuto meno certificati per acquistare altre
merci, però avrebbe potuto acquistare certificati energetici da
altri. I certificati di energia avrebbero dovuto essere trasferibili
e avrebbero dovuto avere una durata limitata.
L’italiano
Salvadori e la sua dimenticata misura del valore energetico delle
merci
La
misura del costo energetico delle merci fu proposta, ancora negli
anni trenta, da Roberto Salvadori, un oscuro professore di
merceologia dell’Università di Firenze, che propose una unità di
misura del valore espresso in energon-merce.
Di Roberto Salvadori 1873-1940) esistono poche notizie; da un
“curriculum vitae” datato 1931 si apprende che si era laureato in
chimica a Padova nel 1896; nel 1899 si recò con una borsa di studio
nell’Università di Gottingen nel laboratorio del prof. Nernst.
Dopo due anni di insegnamento a Sassari, nel 1902 vinse il concorso
di professore ordinario di chimica nell’Istituto Tecnico di Firenze
e nello stesso anno ottenne la libera docenza. Dal 1926 al 1934 tenne
per incarico il corso (allora biennale) di Merceologia presso la
Facoltà di Scienze economiche e commerciali di Firenze. Per altre
notizie su questo importante e dimenticato studioso si veda:
http://www.ilmondodellecose.it/dettaglio.asp?articolo_id=2830
Nel
suo libro “Merceologia generale. Principi teorici. II. Le proprietà
delle cose. III. Concetto merceologico dell’energia”, Firenze,
Editore Cya, 1933, ha introdotto il concetto di “energia-merce”
definito come “la
somma algebrica delle energie necessarie alla creazione di una entità
merceologica, per cui si può stabilire il valore commerciale
energetico”. Per
“valore
commerciale energetico”
Salvadori intendeva “il
valore assoluto dell’unità di misura di un prodotto merceologico,
determinato dalle condizioni tecniche della sua preparazione. Ogni
tipo di merce rappresenta, in definitiva, una somma di energie che è
sempre superiore all’energia teorica che il prodotto ha in sé”.
Salvadori
definì gli “energon-merce” come la somma dell’energia spesa
per produrre una unità di peso di ciascuna merce; tale somma è
sempre superiore al ”contenuto energetico” della merce stessa e
dipende dalle inefficienze e perdite del processo. A Salvadori va
quindi il merito di aver introdotto, pur con un linguaggio poco
chiaro, l’idea che esiste un consumo minimo teorico di energia per
produrre ciascuna merce – equivalente, in un certo senso, al
rendimento di Carnot delle macchine termiche – e che il consumo
reale di energia dipende dalle perdite, dalle inefficienze tecniche,
e così via.
Per inciso
lo stesso concetto per alcuni cicli produttivi è stato ripreso
dall’americano Gyftopoulos nel 1974 (5).
Utili
informazioni su questi tentativi di misurare il valore --- il “valore
d’uso” --- delle merci e dei servizi in unità fisiche, e in
particolare energetiche, si trovano nel libro già citato, di
Martinez-Alier, e in quello dell’inglese Peter Chapman, “Il
paradiso dell’energia” (6).
La
crisi energetica del 1973 e la nuova curiosità per il costo
energetico
L’interesse
per la misura del costo energetico delle merci è ripreso negli anni
settanta, in seguito alle oscillazioni del prezzo del petrolio e
delle materie prime: il petrolio era la stessa cosa, aveva lo stesso
valore energetico, quando costava 10.000 lire alla tonnellata nel
1972 o 300.000 lire/t nel 1985 o 200.000 lire/t (circa 100 euro/t)
come costa nel 2003. Il calore che libera, i servizi che rende, la
quantità di merci che può contribuire a fabbricare, sono grandezze
indipendenti dal prezzo unitario.
La ricerca
di un indicatore energetico del valore delle merci fu ripresa da
Martha Gilliland (7), il cui lavoro fu criticato da David Huttner
(8); un’altra proposta di misura del costo energetico fu avanzata
dall’inglese Peter Chapman, già ricordato (6), e alcuni studi sul
“costo energetico delle merci” sono stati condotti anche
nell’Università di Bari (9). Una critica alla proposta di misurare
in unità energetiche il valore delle merci è contenuta in un
celebre articolo di Nicholas Georgescu-Roegen (10) sulla base del
fatto che bisogna considerare non soltanto l’energia, ma anche la
materia (“matter matters too”).
La base
razionale della ricerca di un valore energetico, o di un costo
energetico delle merci e dei servizi, sta nel fatto che, conoscendo
tali valori, un soggetto economico, una persona, un’azienda, che
voglia consumare meno energia ha (avrebbe) a disposizione un
indicatore fisico, in un certo senso “assoluto”, per scegliere
fra diversi processi o modi di comportamento. Ad esempio fra due
processi produttivi “varrà” di più quello che fornisce la
stessa merce con minore consumo di energia. I diversi modi di
trasporto delle persone e delle merci possono essere confrontati
sulla base del consumo di energia per kilometro percorso da una
persona o da una tonnellata di merce.
La
valutazione del costo energetico delle merci pone vari problemi
metodologici. Il primo punto riguarda l’identificazione di una
nuova unità delle attività umane che è il “processo” di
trasformazione della natura in merci e poi in scorie e rifiuti. Il
“processo si svolge dentro confini fisici che devono essere
definito abbastanza bene, a pena di commettere errori. Il processo è
quanto avviene entro i confini di una fabbrica o nei confini di una
città o in quelli di una abitazione.
Prendiamo
un processo produttivo, quello di fabbricazione dell’alluminio, che
consiste, come è noto, nel trattare un minerale, la bauxite, con
agenti chimici che consentono di ricuperare l’ossido di alluminio.
Una seconda fase trasforma l’ossido di alluminio, miscelato con
adatti fondenti, in alluminio metallico per elettrolisi, con l’uso
dell’elettricità.
In prima
approssimazione si può misurare la quantità di energia elettrica
consumata per ottenere un kg di alluminio e si può affermare che
tale energia rappresenta il costo energetico dell’alluminio, o
l’energia “incorporata” nel metallo. Però bisognerebbe
valutare anche il “costo energetico” degli elettrodi di carbone e
dei fondenti impiegati nell’elettrolisi e che sono “consumati”
nel processo. Per fare le cose meglio bisognerebbe anche aggiungere
il costo energetico del trasporto di questi agenti dal luogo di
produzione alla fabbrica di alluminio, e poi il “costo energetico”
del trasporto dalla bauxite dalla miniera alla fabbrica e il costo
energetico degli agenti con cui viene trattata la bauxite, e avanti
di questo passo.
Includendo
tutti i costi energetici dei vari fattori della produzione, il “costo
energetico” vero e proprio della merce, cioè il consumo di energia
nell’intero ciclo produttivo, può anche raddoppiare. Se, con lo
stesso procedimento, si calcola il costo energetico dell’alluminio
ricavato dalla fusione del rottame, si vede che l’operazione di
riciclo consente di ottenere alluminio, che è sempre lo stesso, con
un costo energetico che è circa un ventesimo rispetto a quello che
si ha quando si parte dalla bauxite; quasi come se il trattamento del
rottame consentisse di ricuperare una parte dell’energia spesa
quando lo si è fabbricato la prima volta partendo dal minerale e che
è rimasta “incorporata” nel metallo.
Altri indicatori del valore
L’analisi
del valore delle merci sulla base del costo energetico può perciò
aiutare a scegliere le materie prime, a progettare i materiali, gli
imballaggi, i manufatti, sulla base di nuovi vincoli, quali la
scarsità di energia o di materie prime. Sulla base di simili
considerazioni si possono cercare altri indicatori fisici, naturali,
del valore, come il costo in risorse naturali e il costo ambientale.
Il primo
potrebbe essere misurato sulla base della quantità di acqua, o di
minerali, o di vegetali, richiesti per produrre una unità di peso di
merce; il secondo potrebbe descrivere la quantità di rifiuti ---
gassosi, liquidi o solidi --- che accompagnano la produzione o l’uso
di una unità di peso di merce.
La
crescente scarsità di acqua nel mondo, anche nei paesi
industrializzati, induce a prestare crescente attenzione alla misura
– e alla diminuzione – del “costo in acqua” delle merci (11)
attraverso innovazioni nel campo del riciclo dell’acqua, dell’uso
di acqua di qualità inferiore per usi meno nobili, come il
raffreddamento dei processi industriali, l’irrigazione,
l’annaffiatura dei giardini e ... la pulizia dei gabinetti: E’
assurdo che ogni italiano, nella propria vita urbana e domestica, usi
ogni anno 20.000 litri di acqua di alta qualità per usi alimentari e
igienici e altri 80.000 litri di acqua, ugualmente di alta qualità,
per i gabinetti e per la pulizia delle strade.
“Vale”
perciò, ha un maggiore “valore d’uso”, la merce o il servizio
che richiedono minore quantità di acqua. Analogamente vale di più
la merce o il servizio che, nel corso della produzione o dell’uso,
richiede meno risorse naturali e ha un minore “costo di natura”.
Anche in questo caso si tratta di misurare la quantità di risorse
naturali – minerali, energie fossili, foreste, eccetera – per
unità di merce prodotta o per ciascun servizio.
Infine si
può misurare il “costo ambientale” di ciascuna merce o servizio
sulla base della quantità di residui o scorie che vengono immessi
nell’ambiente nel corso della produzione o alla fine della vita
utile. Ormai cominciano ad essere emanate leggi che stabiliscono la
massima quantità di agenti inquinanti che possono essere immessi nei
corpi riceventi ambientali: la massima quantità di ossido di
carbonio, o di ossidi di azoto o di zolfo o di idrocarburi
policiclici che possono essere immessi nell’ambiente per ogni kg di
benzina o gasolio bruciato in un motore o per ogni km percorso o per
ogni kilowattora di elettricità prodotta.
Comunque
nella maggior parte dei processi si hanno ben poche informazioni
sulle sostanze che accompagnano ciascun processo, benché da tali
sostanze dipenda anche la salute dei lavoratori oltre che l’effetto
ambientale associato alla fase di produzione o di uso finale delle
merci.
Il ritardo
delle conoscenze che consentirebbero la misura del “costo (o
valore) fisico” delle merci e dei processi dipende anche dal fatto
che i processi educativi --- per esempio di formazione dei chimici,
degli ingegneri, degli economisti --- sono centrati sulla misura
della quantità dei prodotti principali, che sono quelli a cui sono
associati scambi monetari, e ben poco attenzione è rivolta
all’analisi della quantità e del tipo di prodotti secondari, dei
residui e delle scorie, la cui composizione, fra l’altro, è più
difficile da misurare, valutare, conoscere, rispetto a quella dei
prodotti principali economici.
Ci sono
stati dei tentativi, in passato, di elaborare delle “enciclopedie
dei processi”, cioè dei bilanci dei flussi di materie e di
energia, in unità fisiche, associati ai processi di produzione e di
uso delle merci, ma ben poco cammino è stato finora fatto su questa
strada.
A che cosa serve ?
La ripresa
dell’interesse per nuove scale di valori avrebbe il fine di capire
qualcosa di più nel campo ancora poco esplorato della teoria del
valore nei rapporti uomo-natura-società. Ma avrebbe anche qualche
utilità pratica, consentirebbe di identificare le scelte economiche
più razionali in un’epoca di risorse scarse.
Insomma
anche la società strettamente capitalistica, basata sulle rigorose
leggi del libero mercato, sta cominciando a riconoscere che qualcosa
nei meccanismi dei prezzi non funziona.
Per esempio
in questi ultimi anni si stanno moltiplicando l’interesse e gli
studi sulla caratterizzazione di alcune merci, considerate meno
dannose per l’ambiente con una “etichetta ecologica” o
“ecolabel”, assegnata sulla base del minore consumo di materiali
o di energia o del minore inquinamento, rispetto ad altre merci. Gli
acquirenti potrebbero così essere orientati, a parità di prezzo o
anche pagando un prezzo maggiore, verso le merci più “amiche”
della natura. In un certo senso questo orientamento si sta già
verificando con gli alimenti cosiddetti “biologici”, più costosi
ma apparentemente ottenuti con meno pesticidi o concimi rispetto a
quelli tradizionali. E’ facile costatare che l’operazione si
presta a frodi se le misure dei valori “naturali” delle merci non
sono effettuate correttamente.
Un altro
interessante esempio di utilità dell’analisi del flusso di
materiali e di energia associato alla produzione e all’uso di merci
e servizi riguarda l’applicazione delle imposte ecologiche. Sempre
più spesso, per diminuire l’inquinamento, vengono proposte e ormai
anche applicate imposte proporzionali alla quantità fisica dei
materiali in gioco: alla quantità di anidride carbonica emessa dagli
impianti di combustione, alla quantità di ossido di azoto e zolfo
emesse durante la combustione e i processi produttivi; proporzionali
alla quantità di rifiuti solidi prodotti, eccetera.
Infine la
conoscenza dei flussi materiali è richiesta dalle procedure che
richiedono una misura e valutazione del cosiddetto “impatto
ambientale” l’effetto delle attività produttive sull’ambiente.
Per poter giudicare se una località è adatta ad ospitare un
impianto produttivo viene (dovrebbe essere) richiesto un bilancio dei
materiali in gioco.
Inutile
dire che, a parte le reali difficoltà tecnico-scientifiche di
misurare le grandezze richieste, la procedura è quanto mai
inefficace per la resistenza dei produttori a indicare quello che
effettivamente trattano, le esatte quantità di scorie prodotte, il
pericolo dei processi e dei prodotti. Infine la ricerca delle nuove
scale “naturali” del valore è di grande utilità anhe per
misurare e pianificare il funzionamento di quel tipico ecosistema
artificiale che è la città umana (12).
Note
1)
Alcune considerazioni su questo tema si possono trovare in: G.
Nebbia, “Sul valore energetico delle merci”, Politica
ed Economia,
(III), 21,
(7/8), 49-50 (luglio-agosto 1990) e “L’energia come altro
indicatore del valore delle merci”, Giano,
n. 10, 89-93 (aprile 1992); anche Verdesalute,
vol. 7, n. 4, 16-20 (ottobre-dicembre 1997) e G.Nebbia, "Risorse
merci ambiente", Bari, Progedit, 2001, e "Merci e valori",
Milano, Jacabook, 2002
2) Juan Martinez-Alier, “Ecological economics”,
Oxford, Basil Blackwell, 1987; traduzione italiana col titolo:
“Economia ecologica”, Milano, Garzanti, 1991
3)
T. Bagarolo, ”Marx-Engels-Podolinskij: una traccia teorica
perduta”, Giano
n. 10, 37-74 (aprile 1992)
4)
Cfr. W.E. Akin, “Technocracy and the American dream. The Technocrat
movement, 1900-1941”, Berkeley, University of California Press,
1977. Un
movimento “Technocracy” sopravvive ancora adesso. Si possono
trovare informazioni nel sito Internet
.
5)
E.P. Gyftopoulos e altri, “Potential fuel effectivenesse iin
industry”, Cambridge, Ballinger, 1974
6)
P. Chapman, “Fuel’s paradise. Energy options for Britain”,
Harmondworth, Penguin Books, 1975. Traduzione
italiana col titolo: “Il paradiso dell’energia. Introduzione
all’analisi energetica”, Milano, Clup/Clued, 1982, introduzione
di Giorgio Nebbia. Purtroppo nella traduzione italiana è stata
omessa la bibliografia.
7)
M. Gilliland, “Energy analysis and public policy”, Science,
189,
1051-1056 (26 September 1975) e “Energy analysis”, Science,
192,
8-12 (2 April 1976)
8)
D. Huettner, “Net energy analysis and economic assessment”,
Science,
192,
101-104 (9 April 1976) e varie “Lettere” in Science,
196,
259-262 (15 April 1977)
9)
Cfr. G. Nebbia, “Storia naturale delle merci”, Rassegna
chimica, 43,
(6), 241-249 (novembre-dicembre 1991)
10)
N. Georgescu-Roegen, “Energy analysis and economic valuation”,
Southern Economic
Journal, 45,
(4), 1023-1058 (April 1972), traduzione italiana in: N.
Georgescu-Roegen, “Energia e miti economici”, Torino, Bollati
Boringhieri, 1998
11) Cfr.,
per esempio: G. Nebbia, ”Il problema dell’acqua”, Bari,
Cacucci, 1966, e G. Nebbia, “Sete !”, Roma, Editori Riuniti, 1991
12) Cfr. V.
Bettini, “Elementi di ecologia urbana”, Torino, Einaudi, 1996