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mercoledì 26 febbraio 2014

Ucraina: il grande pasticcio

Da “Club Orlov”. Traduzione di MR

Pawel Kuczyński
[Aggiornamento: sto mettendo questo post on line con un paio di giorni di anticipo, perché la situazione ucraina si evolve molto rapidamente. Un soggetto politico (Yanukovych) è fuori gioco; sembra che sia scappato in Russia. Un altro soggetto politico (Tymoshenko) è stata frettolosamente riabilitata ed è pronta ad essere messa sulla scheda elettorale per le elezioni di maggio. Ci sarà ancora un paese da (fingere di) governare per lei? Le riserve finanziarie scese a pochi giorni, le strutture federali sono state smantellate in tutto il paese, i governatori regionali sono in fuga e un default di circa 60 milioni di euro di bond ucraini, molti in mano alla banche russe, sembra probabile. Potrebbe essere questo il tipo di contagio finanziario necessario a far scoppiare le ridicole bolle azionarie statunitensi? Almeno due provincie ucraine parlano apertamente di secessione; una (la Crimea) vuole immediatamente unirsi alla Federazione Russa. Una domanda ai tirapiedi del Dipartimento di Stato statunitense e ai funzionari della UE: questa faccenda cosa comporta per i vostri calcoli geopolitici? A rischio ci sono 5 centrali nucleari e un sacco di gas che transita in Ucraina nel suo percorso verso occidente. L'Ucraina sta assumendo molto l'aspetto della Yugoslavia, eccetto il fatto che ha più del doppio degli abitanti, molti combattenti da strada folli che pensano di essere padroni della situazione e il fatto di avere un ruolo critico per la sicurezza energetica europea. Se non siete sotto shock per questo, allora non avete fatto attenzione a quello che sta succedendo.]

Ho ricevuto parecchie e-mail che mi chiedono cosa penso che stia succedendo in Ucraina. Mi ci è voluto un po' per formulare un'opinione, ma è questo ciò che credo stia accadendo: un completo e totale fallimento della politica ad ogni livello. Tutti hanno fallito: i rappresentanti della UE, il Dipartimento di Stato statunitense con la sua Victoria “Fanculo all'Unione Europea” Nuland, il governo Yanukovych, i suoi oppositori politici e il Cremlino. Ed ora sono tutti sotto shock e non sanno cosa fare. Eccetto i manifestanti, che sanno cosa fare: continuare a protestare. Gran parte di loro non sanno nemmeno per cosa protestano ma, essenzialmente, protestano contro l'esistenza stessa del loro paese, che costituita da due parti: la Polonia orientale, che parla ucraino e prevalentemente cattolica, e la Russia occidentale, che parla ucraino ed è prevalentemente ortodossa. I “russi” superano in numero gli “ucraini” di due a uno. La soluzione finale alla crisi sta nel dividere il paese. Nessuno ha lo stomaco persino di parlare di questo – finora. Ma finché questo non succede continueremo ad essere sottoposti a questo strano spettacolo, in cui ogni singolo attore in Ucraina fa il possibile per minare il sistema politico del paese. In fondo, gli ucraini non vogliono che ci sia un diverso governo a Kiev – non vogliono che ci sia affatto un governo a Kiev.

Ora mi affido a Andrey Tymofeiuk, una persona che risiede a Kiev e che ha postato quanto segue sulla sua pagina Facebook, in un russo tempestato di oscenità. (La lingua russa è notevolmente ricca di termini osceni che costituiscono un enorme potere espressivo, ma che è intraducibile in inglese, con la sua misera collezione di parole di 4 lettere). Penso che abbia fornito un riassunto buono e ricco di informazioni della situazione da tutte le angolazioni, nonostante il suo linguaggio da scaricatore di porto, quindi dategli appoggio. La traduzione e le correzioni sono mie.

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Penso che l'attuale situazione sia tale che tutti sono sotto shock per quanto sta accadendo. I rappresentanti della UE sono i più scioccati di tutti. Stavano giocando a fare i diplomatici abili, che si sono piegati a lavorare col barbaro dittatore di un paese del terzo mondo. Egli avrebbe dovuto tremare con ansia riguardo al suo sussidio, sotto forma di accordo UE-Ucraina, cosa che gli avrebbe permesso di indossare i panni del grande fautore dell'integrazione con l'Europa e di vincere le elezioni del 2015.

Guardando dall'alto del loro trespolo diplomatico, questi esperti sono stati accecati quando il barbaro dittatore ha improvvisamente deciso di fare un po' di aritmetica, ha evidenziato un errore nel contratto (la bancarotta nazionale dell'Ucraina) ed ha rapidamente deciso tenere i suoi 46 milioni di schiavi lontani dalla UE e di darli invece a Mosca. E allora, a causa della loro ridicola burocrazia e alla loro completa mancanza di comprensione della realtà Ucraina, hanno permesso che una iniziale protesta pacifica diventasse come una guerra civile.

I rappresentanti della UE non hanno davvero bisogno di un bagno di sangue con una crisi umanitaria, centinaia di migliaia di rifugiati, attacchi terroristici, carri armati nelle strade e altre piacevolezze del genere, e cercheranno di fare tutto ciò che possono per evitarlo, anche se questo significa che il barbaro e ottuso dittatore deve rimanere in carica. Ma il problema è che il barbaro dittatore sembra aver perso la testa.

Ora i rappresentanti della UE dovranno rispondere ad alcune domande molto difficili da parte dei telespettatori di casa propria. Tipo: “Perché la gente che agita le bandiere della UE indossano emblemi nazisti? Sosteniamo i nazisti?” o “Se sono pacifici, allora perché tirano bombe molotov agli uomini della polizia e li prendono in ostaggio?” Questo solo per cominciare. Ecco una domanda più seria: “Vogliamo davvero che 46 milioni di questi barbari violenti si uniscano alla UE?” E che ne pensate di questa: “Cosa vi fa pensare che 5 centrali nucleari ucraine saranno al sicuro se il paese precipita nel caos?” Ancora un'altra, ma è una eccellente: “Se l'Ucraina diventa ingovernabile, come faremo ad avere la nostra quota di gas naturale russo il prossimo inverno? Moriremo congelati?” Ma i rappresentanti della UE non dovranno far scendere in campo tali domande tanto a lungo, perché le loro carriere diplomatiche potrebbero essere giunte alla fine. Dopo tutto, non sono stati così efficaci, non è vero? Trasformare una protesta del tutto pacifica in un sanguinoso casino non è esattamente il massimo della diplomazia europea. Pochi attivisti di medio livello di Al Qaeda avrebbero potuto gestire la situazione altrettanto bene.

martedì 25 febbraio 2014

Sbirciare il futuro





di Jacopo Simonetta


Molte volte, oramai, l’economia capitalista è stata data per spacciata, ed ogni volta i fatti hanno dimostrato il contrario; potrebbe questa volta essere diversa? Di fatto, i “G8”, i “G20”, i “G tutti”, gli eurogruppi, i summit ed i vertici di ogni tipo e qualità  si succedono da anni con un ritmo quasi frenetico; i “piani di salvataggio” si accavallano ai “decreti sviluppo” ed ai “Piani di aiuto”, riuscendo tuttalpiù a rimandare un “peggio” che resta tanto vago, quanto inquietante.   Intanto “la ripresa della crescita” continua a venir data per certa, ma il suo arrivo continua ad essere annunciato per l’anno venturo, da 6 anni oramai.   Oppure è legata a virtuosismi contabili.

A questo punto, che ci sia una “crisi di fiducia” pare il minimo, mentre rivolte e tafferugli dilagano in molte parti del pianeta. Preso atto di ciò, la domanda è: Come mai, di fatto, tutti i governi e le istituzioni finanziarie del pianeta sembrano impotenti a fermare quello che Tremonti (oramai 5 anni fa) definì “una specie di videogame dove ad ogni passo sbuca fuori un nuovo mostro più brutto del precedente”?   Eppure tutti i massimi esperti del mondo sembrano d’accordo. Quasi unanimi, ci dicono che occorre “ridurre il debito e rilanciare la crescita economica”.   Il primo punto per evitare, nell’immediato, che l’intera economia globale vada in briciole come un castello di carte.   Il secondo perché, sui tempi medi e lunghi, la crescita è l’unica medicina in grado di riportare il debito sotto controllo e, contemporaneamente, riportare le vacche grasse, almeno nei paesi più importanti.   Me se sono tutti d’accordo, perché non funziona?

Una risposta argomentata occuperebbe un grosso volume, ma un’idea di larga massima potremmo forse farcela semplicemente spostando l’attenzione dall’oggi a quello che è avvenuto nel corso degli scorsi 70 anni circa.   Proviamo a riportare su di un grafico tre variabili semplicissime e ben conosciute: il PIL USA, l’indice Dow Jons ed il debito federale USA. L’andamento negli altri paesi occidentali è stato molto simile, mentre quelli degli altri paesi sono largamente dipendenti da quelli occidentali, cosicché possiamo, in prima e grossolana approssimazione, considerare che i dati americani siano indicatori significativi per l’economia globale e globalizzata.   Almeno fino ad oggi.



Già a colpo d’occhio, possiamo distinguere 4 periodi:

1- Dal 1950 circa al 1973 – Il PIL (verde) e la borsa (tratteggiato) salgono con relativa costanza, molto più rapidamente del debito (rosso), che sale pochissimo. L’economia reale cresce più rapidamente della borsa.

2 - Dal 1973 ai primi anni ’80 – PIL e borse hanno fluttuazioni non molto ampie, ma per un periodo prolungato, mentre la crescita del debito accelera sensibilmente.

3- Dai primi ’80 al 2000 – L’economia riparte, ma la borsa, molto, molto più rapidamente dell’economia reale, mentre il debito comincia a lievitare in modo allarmante.

4 -Dal 2000 ad oggi – Il PIL continua a crescere, ma rallenta sensibilmente, mentre le borse cominciano a fluttuare travolte da un’incalzare di crisi di panico e di euforia, mentre il debito, dopo un attimo di stasi, va completamente fuori controllo.

Questa, almeno, è la versione ufficiale dei fatti, già notevolmente allarmante per il nostro futuro. Si da però il caso che il governo USA (al pari di tutti gli altri) abbia progressivamente modificato i metodi di calcolo dell’inflazione. Se si rifanno i calcoli fino ad oggi, utilizzando i parametri precedenti il 1980, si ottiene una curva molto diversa, e molto più vicina all'esperienza personale di noi comuni cittadini (fonte John Williams,”Shadow Government Statistics”).


Se i calcoli sono corretti: Dal dopoguerra ai primi ’70, dal punto di vista economico, tutto è andato sostanzialmente bene (per noi).   Poi c’è stato un decennio circa di problemi finché, nei primi anni ’80, una serie di provvedimenti (deregulation della finanza, svuotamento delle norme ambientali, globalizzazione del commercio e, soprattutto, esplosione del debito a tutti i livelli pubblici e privati) hanno effettivamente rilanciato la crescita di PIL e, soprattutto, delle borse, in parallelo col debito (NB. Il grafico riporta solo il debito federale. Parallelamente ad esso crescevano i debiti di enti locali, aziende, banche e famiglie). Questa rincorsa è andata avanti per circa 10 anni per poi stemperarsi in un altro decennio circa di stagnazione economica, associata però ad un’ulteriore crescita del debito (molto rallentato fra il ’95 ed il 2000) e, fenomeno importantissimo, alla crescita senza precedenti della speculazione borsistica che ha drenato la maggior parte degli investimenti. Con lo scoppio della bolla della “new economy” (a cavallo del 2.000) il giocattolo si è definitivamente rotto. Nel vano tentativo di evitare una recessione globale, i governi hanno risposto aumentando le dosi di “deregulation” e di debito, con risultati però molto limitati o addirittura controproducenti sull’economia reale, mentre la finanza entrava nel più completo delirio, stirata fra la propria tendenza intrinseca alla crescita esponenziale e lo scontro con la dura realtà di un’economia reale in recessione.

 Una prima domanda legittima sarebbe quindi questa: Se 40 anni di “doping” della crescita a botte di debito non hanno potuto evitare la recessione, possiamo pensare di ridurre questo debito senza accelerare la recessione già in atto?  Evidentemente no, e la Grecia lo dimostra.  E difatti, la tragedia della Grecia sta portando molti economisti e governi a spingere anziché sul tasto del “risanamento”,  su quello della “crescita” che poi (fidatevi!) risolverà tutti i problemi. Vedi ultimo summit mondiale dei grandi dottori dell'economia mondiale.   Ipotesi seducente, ma è realistica? I   grafici sopra riportati sono già decisamente sconfortanti, ma il quadro si fa ancor più fosco (e realistico) se confrontiamo i dati già visti con altri, di natura non più solo economica e finanziaria, tornando ancora una volta al 1972, quando fu pubblicato il leggendario “Limits to growth”.   Lasciando ai lettori la cura di studiarsi Word3, possiamo qui dire che, purtroppo, 40 anni di verifiche su dati reali hanno confermato che l’affidabilità di questo modello è estremamente elevata (G. Turner A comparison of the limits to growth with thirty years of reality 2008). By G. Turner in Mark Strauss, Smithsonian magazine, April 2012)

Dunque proviamo a confrontare i soliti dati (PIL, DowJons e debito federale nella versione SDS) con le curve tracciate dallo scenario “business as usual” di Word3. Ed ecco che, certamente non per caso, le turbolenze degli anni ’70 sono avvenute mentre la curva delle risorse incrociava quella della popolazione (significa che è stata superata la capacità di carico del Pianeta), mentre le ben più importanti turbolenze degli ultimi 10 anni si sono verificate in concomitanza con il raggiungimento del picco storico delle curve di produzione agricola ed industriale. Un picco cui fatalmente deve seguire un declino, già iniziato in alcuni paesi ed incipiente in altri, più o meno rapido e profondo a seconda di tante cose. Ancora più significativo, certamente non per caso, la curva del PIL (corretto) segue in modo impressionante la curva delle risorse (la scala delle curve è diversa, ma quello che conta qui è la forma).


 Ecco quindi la risposta: Ci saranno magari dei rimbalzi, più finanziari che economici, ma quello che stiamo vivendo sono le prime avvisaglie di una recessione che non potrà che peggiorare per tutti i prossimi 100 anni. Anzi, per il modo occidentale, la recessione è iniziata nel 2.000 (circa) e non ha poi fatto che peggiorare. Altri paesi, partiti dopo, hanno avuto tassi di crescita positiva fino ai giorni nostri, ma oramai si stanno adeguando all’andamento generale. Conclusioni analoghe si raggiungono studiando la situazione da altri punti di vista, anche molto diversi (andamento demografico, disponibilità di risorse insostituibili, degrado dei suoli, evoluzione socio-economica e politica, cultura dominante, ecc.). Purtroppo, quando dati di natura diversa, elaborati con metodi indipendenti, giungono a conclusioni simili, c’è poca speranza di sbagliare. A questo punto la risposta che di solito ricevo è di questo tipo: “Ma se fosse così vorrebbe dire che è finito tutto; che non si può far più nulla!”

Una reazione davvero strana perché, semmai, ciò che finisce è l’economia di mercato: una parentesi molto breve nella storia dell’umanità; una catastrofe devastante e puntiforme nella storia della biosfera.   Ci sono state grandi civiltà prima, perché non dovrebbero essercene altre dopo? Certamente prive delle tecnologie che ci sono care, ma nondimeno grandi civiltà; perché no?  E per chi è disposto ad archiviare l’ipotesi di mantenere in futuro un tenore di vita lontanamente simile a quello del recente passato, il daffare non manca; c’è molto più lavoro da fare su di una nave che affonda, rispetto ad una che procede spedita sulla sua rotta. La difficoltà è piuttosto che ci si addentra in un terreno storico totalmente inesplorato.   Nel giro di 10-20 anni al massimo anche le tracce che possono darci analisi come questa perderanno di significato.   Lo avevano detto chiaro Meadows e soci:  il loro modello è affidabile solo finché il sistema permane globalizzato: dal momento in cui comincerà a disgregarsi in sotto-sistemi, il destino di ognuno di questi potrà evolvere anche in modo molto diverso.




martedì 18 febbraio 2014

Una donazione per Cassandra


La profetessa Cassandra impegnata a bollire una zuppa di baffi di pipistrello australiano, peli di coda del lemure del Madagascar e occhi di macaco giapponese. (quadro di John William Waterhouse)



Il blog "Effetto Cassandra" è sul Web dal 2009 e ha avuto un discreto successo con una media che si avvicina ai 1000 contatti al giorno, mantenendosi consistentemente nei primi 20 blog di argomento scientifico - perlomeno secondo i dati di "ebuzzing".


Sotto molteplici aspetti, è un ottimo risultato considerando che "Effetto Cassandra" è un blog a costo zero tenuto da volontari che lavorano nel tempo libero.

D'altra parte, è anche vero che l'impatto del blog rimane molto limitato: siamo una piccola nicchia di persone che hanno una visione "sistemica" di quello che sta succedendo e che si rendono conto che abbiamo di fronte dei grossi problemi sistemici, principalmente l'esaurimento delle risorse e il cambiamento climatico. Questi problemi non si risolvono con soluzioni cosmetiche come ridurre gli stipendi dei parlamentari (molto difficile) o aumentare le tasse (molto facile). Bisognerebbe avere il coraggio di fare tutti dei sacrifici oggi per investire nel futuro del paese, ma questa visione non appare nella discussione generale sui media e sul Web.

Allora, senza farsi grosse illusioni, credo che potremmo perlomeno provare a fare di più per diffondere il nostro punto di vista in un momento critico per tutti quanti. Possiamo provare a potenziare un po' il blog e per questo abbiamo bisogno di un minimo di finanze, soprattutto per il lavoro di traduzione dall'inglese e dallo spagnolo che, negli ultimi tempi, è stato l'elemento portante del blog.  

Per cominciare, troverete nella barra a destra un pulsante per le "Donazioni". Non che ci aspettiamo di fare soldi con questo ma, se avete voglia di dare un piccolo contributo, è un incoraggiamento per chi fa il lavoro di traduzione che, fino ad ora, hanno lavorato strettamente gratis. 

Ci farebbe anche piacere avere dei suggerimenti dai lettori. Per esempio, nessuno di quelli che lavorano sul blog è un esperto di tecniche SEO, potrebbe qualcuno darci una mano per fare qualcosa in questo campo? Poi, ho avuto già diversi suggerimenti, uno dei quali è di cambiare il nome "Cassandra" con l'idea che è un nome catastrofista e che porta jella. Può anche essere, anche se devo dire che a questo nome ci sono affezionato. Ma voi che ne pensate?

Insomma, se ne avete voglia, possiamo discuterne un po' nei commenti. Saluti a tutti e grazie per la vostra attenzione e incoraggiamento per questo blog.

UB

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Nota del 19 Febbraio


Allora, grazie a tutti per le donazioni; in 24 ore abbiamo avuto una dozzina di donatori per un totale di quasi 300 Euro. Come dicevo, non è che diventiamo ricchi in questo modo (sarebbe stato bello avere fra i lettori, non so, qualche equivalente in positivo dei Koch brothers che spendono milioni di euro per fare PR anti-scienza), ma perlomeno si dimostra che c'è qualcuno la fuori che pensa che il blog di Cassandra sia una buona idea

Per le varie difficoltà, ovviamente bisogna mettere che la donazione viene dall'Italia. La maggioranza dei donatori non ha avuto problemi. Per quelli che preferiscono invece fare un bonifico, vi passo il mio IBAN alla cassa di risparmio di Fiesole IT55D0616037840100000000293. La cosa è molto informale, perché questo è il mio conto in banca personale. Fortunatamente non sono cifre tali che qualcuno può pensare che le userò per scappare in Brasile! (a meno che non venga fuori quell'equivalente positivo dei Koch brothers di cui dicevo, nel qual caso vi mando una cartolina da Rio). Se fate un bonifico, ditemelo via e-mail, (ugo.bardi(chiocciolina)unifi.it) così sono sicuro di ritrovarlo.

U







mercoledì 4 aprile 2012

Rabbia

Guest post di Antonio Turiel apparso su The Oil Crash il 13 Febbraio 2012. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Atene in fiamme, 12 Febbraio 2012. http://t.co/gN46b9JX

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

Nel suo documentato ed altamente istruttivo libro “Collasso: come le società scelgono di vivere o di morire” (per chi non abbia il libro e sappia l'inglese, può vedere "il film"), Jared Diamond ripete una domanda che è passata per la testa a dozzine di antropologi quando studiano l'isola di Pasqua ed il suo collasso per eccesso di sfruttamento delle esigue risorse di cui disponeva: che cosa sarà passato per la testa all'uomo che ha tagliato l'ultimo albero? Anche assumendo che una comunità disperata sia incapace di vedere il deterioramento progressivo ed inesorabile dei suoi boschi, quell'ultimo albero significava un punto di non ritorno ovvio anche per coloro che hanno poca capacità di anticipare il futuro. Come è potuto accadere che quell'uomo non vedesse che era l'ultimo albero, che dopo di quello non ci sarebbe più stata legna? Che per un così misero guadagno si condannava?

Mi immagino quell'uomo e medito su quello che gli possa essere passato per la testa. E' salito su per la collinetta a cercare legna per il fuoco, per una canoa o per fare un palo per spostare un Moai. Da bambino aveva visto quella collina ancora coperta da un bosco rado, molto diverso da quello tanto fitto che gli raccontava suo nonno – anche se sicuramente suo nonno coloriva le sue memorie giovanili. Ma era vero che lì rimaneva solo il suo albero. Si è fermato un secondo prima di cominciare ad abbatterlo: quando avesse finito non ci sarebbero più stati alberi in tutta l'isola. Sentiva un peso freddo nello stomaco. "Be'", pensava per tranquillizzarsi, "chi lo dice che non ci sono alberi in tutta l'isola?" Era da molto tempo che non vedeva i territori delle tribù rivali e sicuramente loro stavano preservando i loro alberi per assicurarsi la vittoria, innalzando i Moai più grandi. "Maledetti"; dovrà andare a cercare legna lì. L'ultima guerra non è andata molto bene, ma stavolta potrebbe essere diverso. Sarà diverso. "In realtà stiamo tanto male per colpa loro. Se non ci daranno la loro legna con le buone gliela dovremo strappare. Dobbiamo buttarli a mare questi malnati". Ha esitato ancora un po', ma poi ha pensato: "se non taglio io l'albero, verrà il mio vicino e lo taglierà lui. Che non sia mai". E senza pensarci oltre ha cominciato a tagliarlo.

Noi siamo così diversi? In una conferenza tenuta da un mio collega dell'Istituto delle Scienze del Mare, parlando di eccesso di pesca, l'oratore ha mostrato un lucido con le specie di pesci documentate all'inizio del ventesimo secolo come proprie del Mediterraneo Occidentale che non abbiamo fatto in tempo a conoscere. Erano una trentina solo quelle documentate, che non sono che una frazione infima. I più anziani del mio istituto hanno visto pesci che i giovani non vedranno mai. E anche così continuiamo a spingere sull'acceleratore, a vedere quanto possiamo spremere la popolazione di tonno rosso del Mediterraneo, a vedere se il piccolo aumento registrato l'anno scorso permette di aumentare le quote di pesca. Lo abbiamo già fatto con l'acciuga del Cantabrico perché di fatto l'abbiamo sterminata. E, in realtà, se guardate bene, succede la stessa cosa con tantissime risorse. Siamo realmente diversi da quell'abitante dell'Isola di Pasqua che ha tagliato l'ultimo albero?

Nel suo libro, a partire dagli indizi a disposizione, Diamond medita su come dovessero essere gli ultimi 100 o 200 anni prima dell'arrivo degli esploratori europei, quando la popolazione declinava irreversibilmente e non a causa di estranei. I resti di ossa umane con ferite da arma, alcuni rosicchiati... i Moai deliberatamente demoliti o sfregiati... alcuni retaggi della tradizione orale dei pochi discendenti che popolavano l'isola quando sono arrivati gli europei...

Diamond tesse una trama forse non del tutto realistica, ma in ogni caso molto evocativa. Secondo lui, sembra probabile che nel bel mezzo del cataclisma ambientale e delle risorse, con la gente disperata che moriva di fame, c'è stata una rivolta. La gente si è sollevata contro i suoi vecchi leaders politici e religiosi e l'antica religione (che li portava ad erigere, con gran dispendio di risorse, i pesanti Moai) è caduta nel discredito totale. La gente provava rabbia, entrava nelle case dei ricchi e vedeva come vivessero molto meglio di loro. Le hanno rase al suolo. Hanno distrutto alcuni Moai, gli stessi che poco prima veneravano ed erano motivo di orgoglio per ogni tribù. La pura rabbia, l'impotenza per non sapere come uscire dal buco nel quale si erano infilati da soli, li ha portati ad una voragine di morte e distruzione che li ha lasciati più indeboliti e impotenti di prima.

Siamo tanto diversi? Ieri, il parlamento greco, in una sessione da agonia, ha approvato l'ennesimo pacchetto di misure di aggiustamento, più repressivo e minaccioso dei precedenti, ai quali si va a sommare. Molta gente non lo ha più sopportato ed è scesa in strada, a migliaia, dando vita a gravi scontri. La polizia è rimasta senza lacrimogeni, la folla ha saccheggiato e bruciato decine di edifici del centro di Atene, principalmente banche. I grandi simboli del trionfo di un decennio fa, i banchieri, vengono ora additati, alla stessa stregua dei politici (l'analogia con i leaders religiosi e politici dell'isola di Pasqua è inevitabile, soprattutto tenendo conto della massima per cui l'unico vero Dio è il denaro, che in modo tacito si accettava anche fino a solo 10 anni fa). E tutto questo per ottenere il secondo pacchetto di aiuti economici dalla UE, che permetterà al paese ellenico di venire a capo delle proprie obbligazioni di pagamento del mese di marzo, ma forse non a lungo. Che senso ha prolungare questa agonia quando sappiamo che questa crisi non finirà mai? Che la recessione che sta cominciando ora renderà ancora più complicato non il rientro del debito greco, ma quello della maggior parte dei paesi europei? Che negare di accettarlo ci può portare solo al collasso? Non sarebbe più logico accettare che il modello che tentiamo di conservare non funziona più e che si deve ridefinire? Fare questo non ha forse più senso che, spinti dall'impegno di pagare un debito impagabile, finire per svendere quel poco che ci resta o finire col tagliare l'ultimo albero dell'isola?


Il futuro non è scritto, ma il passato sì. La più grande superbia sta nel crederci migliori dei nostri antenati; lo saremo solo se siamo capaci di apprendere dai loro insegnamenti. Ci serve un piano, e ci serve ora.


Saluti,
Antonio Turiel

lunedì 12 dicembre 2011

Diciamocelo Forte e Chiaro: questa crisi non finirà mai!

Guest post di Antonio Turiel apparso su "The Oil Crash" il 19 giugno 2010
Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti.


Questo post di Antonio Turiel è stato scritto circa sei mesi fa e si riferisce alla situazione in Spagna. Tuttavia, sembra estremamente rilevante per la situazione italiana odierna e pertanto ci sembra il caso di presentarlo qui tradotto. Secondo Turiel, infatti, la crisi economica che ha colpito molti paesi europei non è un fatto congiunturale ma un fatto strutturale dovuto alla stasi della produzione petrolifera e al suo imminente declino. Per questa ragione, la crisi non finirà mai.



Cari lettori,
 
abbiamo parlato di questo argomento in modo frammentario in alcuni post e nei commenti che ne sono seguiti, ma credo che sia importante mettere insieme alcuni pezzi del puzzle e mostrare in modo attendibile quello che è un fatto: questa crisi economica in cui ci troviamo immersi non finirà mai, o perlomeno non all'interno dell'attuale paradigma economico, conosciuto come capitalismo.

Il grafico sulla sinistra (elaborato con dati dell'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA), del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti (EIA) ed estratta dal rapporto mensile Oil Watch di The Oil Drum) mostra la produzione mensile di petrolio greggio degli ultimi otto anni (espressa come la media di milioni di barili giornalieri). Come potete vedere, a parte alcune oscillazioni, la quantità di petrolio greggio estratto dalle profondità della Terra permane più o meno costante dal 2005. Gli anni precedenti (che non appaiono nel grafico), dallo
shock petrolifero dell'inizio degli anni 80, avevano visto una crescita inarrestabile della produzione, ad un ritmo di quasi il 2% all'anno. 

Ma dal 2005 qualcosa si è complicato. La produzione dei nuovi giacimenti che entravano in produzione a malapena erano sufficienti a coprire la perdita di produzione dei giacimenti già in attività. Questo è un fatto: ci troviamo sull'altipiano o plateau estrattivo di petrolio greggio e la discesa potrebbe iniziare in qualsiasi momento, poiché già dagli anni 80 si scopre meno petrolio di quanto se ne consumi e questo significca che prima o poi la produzione comincerà a diminuire. Quando? Secondo ITPOES (think-tank dell'industria britannica di cui abbiamo già parlato qui) la discesa comincerà circa nel 2015. Si deve specificare che il petrolio greggio non è tutto il petrolio che si produce nel mondo, ma la maggior parte sì (circa 75 milioni di barili al giorno – Mb/d). Ci sono altri 10 Mb/d che provengono dalle sabbie bituminose, dai liquidi del gas naturale e dai biocombustibili, ma non bisogna lasciarsi ingannare. In primo luogo perché stiamo parlando di petrolio sintetizzato usando altre fonti energetiche (normalmente gas naturale) con la conseguente perdita di energia durante la conversione. E non abbiamo abbondanza nemmeno di gas naturale, anche se mancano 15 anni al picco. Queste fonti alternative di petrolio sono semplicemente una stupida fuga in avanti, un modo di occultare un realtà nuda e cruda, cioè che sono anch'esse quasi al limite della loro capacità di produzione e non potranno ritardare di molto il declino petrolifero. In secondo luogo, la capacità calorica di questi “petroli” è solo il 70% dell'originale, cosicché, in un certo senso, stiamo chiudendo la stalla quando i buoi sono già scappati. Non avete notato che ultimamente la vostra auto tira di meno? E' normale, per via di una normativa europea i carburanti commercializzati nella UE devono contenere un minimo del 5% di biocombustibile. In qualche modo dobbiamo usare questo “petrolio” scadente che sintetizziamo, ma non è buono come l'originale...
 
Il fatto che la produzione di petrolio non cresca non significa che si fermino i nostri consumi, che di per sé sarebbe già un male. In realtà stiamo decrescendo. Guardate nel grafico a destra. L'ha elaborato Stuart Staniford partendo dai dati della IEA e dell'EIA e li ha pubblicati nel suo blog Early Warning (cercate l'articolo "US economic recovery in the era of inelastic oil"). La linea azzurra in alto rappresenta il consumo dell' area OCSE, quella scura che sale a tutta velocità dal basso rappresenta sostanzialmente la Cina e l'India. Fino alla linea verticale sono dati del passato, verificati; a partire da lì è la proiezione di Stuart Staniford partendo dalla tendenza attuale. La realtà è che la Cina, l'India ed altri paesi con economie più dinamiche e maggior potenziale di crescita stanno aumentando il loro consumo più di noi, poiché, con la loro crescita, costa loro di meno pagare fatture petrolifere più alte. E siccome dal 2005 questo è un gioco a somma zero, dove loro aumentano, noi dobbiamo diminuire. In concreto, a ritmo del 3% annuo. Gli ultimi dati di Oil Watch confermano che i paesi dell'OCSE (anche la Spagna – e l'Italia, ndT) hanno perso più del 15% dei consumi petroliferi rispetto al 2005.
 

Ovvero, siamo fondamentalmente in una situazione di diminuzione rapida del consumo di energia, nè cercata né pilotata, ma forzata e repentina. Secondo i dati dell'EIA, il petrolio rappresenta il 33% dell'energia primaria consumata nel mondo, anche se questa percentuale varia di paese in paese; in Spagna è del 48%, quasi la metà. Pertanto, con la caduta di oltre il 15% negli ultimi 5 anni del nostro consumo di petrolio in Spagna abbiamo ridotto il nostro consumo di energia primaria approssimativamente dell'8%, più dell'1,5% su base annua. Stimare l'impatto sul nostro consumo di energia si fa più complicato nella misura in cui la percentuale di petrolio che perdiamo si fa più grande ed il suo prezzo aumenta, poiché per produrre e mantenere le altre fonti di energia manca il petrolio (per i compressori dei martelli pneumatici che si usano in remote miniere, per il meccanismo che mantiene le dighe e le turbine eoliche, ecc ecc). Di fatto, il petrolio ha influenza su tutto, per la sua grande varietà di usi (plastica, fibre sintetiche, reagenti chimici per farmaci, industria alimentare, ecc) e come fonte di energia fondamentale nel funzionamento di macchine di ogni tipo (auto, camion, gru, aerei, escavatrici, barche, trattori, ruspe, ecc.). La realtà è che tutta l'attività economica dipende dal petrolio in particolare e dall'energia in generale. Per definizione, energia è la capacità di compiere un lavoro. Lavoro utile che serve a trasformare materiali e creare prodotti, spostare merci e persone, produrre luce, calore e fresco, ecc. Anche le economie tecnocratiche basate sui servizi devono alla fine servire a qualcosa di tangibile ed i maggiori costi del petrolio e dell'energia si ripercuotono su di esse in egual misura che sugli altri settori economici. La correlazione fra il consumo di energia e il PIL è così ben conosciuta che la IEA è solita pubblicare un grafico della modalità che seguono queste linee in ogni World Energy Outlook che pubblica (quello di questo grafico è del WEO del 2004). Sull'asse delle ordinate (verticale) si vede il consumo totale di energia nel mondo, espresso in milioni di tonnellate di petrolio equivalente, Sull'asse delle ascisse (orizzontale) si vede il PIL del mondo, espresso in parità di potere d'acquisto. Il bello è che la forte connessione fra le due variabili mostrata da questa curva viene mantenuta anche nei periodi di crisi economica.

Pertanto dobbiamo:
  • Per crescere economicamente abbiamo bisogno di aumentare il nostro consumo di energia. Al contrario, se il nostro consumo di energia diminuisce, il nostro PIL si contrae in egual maniera.
  • A causa della produzione di petrolio stagnante, ad un effetto di sincronizzazione con le altre fonti energetiche conosciuto come La Grande Scarsità e alla crescita di altre economie emergenti siamo condannati in modo inesorabile a ridurre il nostro consumo di energia e anche ad un ritmo piuttosto veloce (nel caso della Spagna, l'1,5% annuo come minimo).
Qual è, pertanto, la conclusione? Che la nostra economia è condannata a decrescere e a ritmo serrato. E' importante comprendere questo punto: è un fenomeno noto, compreso ed inevitabile. Di fatto, è un concetto gestito in ambito governativo, come abbiamo già commentato in numerosi post. Tuttavia, i poteri governativi non possono riconoscere apertamente questo fatto per via delle conseguenze politiche che comporta e per questo la tendenza è quella di provare a cercare soluzioni che non esistono al posto di ripensare il problema.

La domanda non è, pertanto, se continueremo a decrescere economicamente, ma fino a quando. La risposta è che decrescere economicamente, inteso come una diminuzione del PIL, è irrilevante. Abbiamo confuso il fine con i mezzi; il PIL è un'astrazione della ricchezza collettiva di un paese che si suppone essere in qualche modo connessa al benessere della sua gente. Ciò che si dovrebbe cercare è la massimizzazione del benessere, non un indice complesso e spesso assurdo. Pertanto, più rapidamente abbandoniamo l'orientamento economicista e ci focalizziamo su ciò che è veramente rilevante, prima cominceremo a stare meglio. La cosa peggiore che potremmo fare è quella di focalizzarci sul mantenimento di un sistema economico che sarà sempre più disfunzionale, a causa della mancanza di energia e di materie prime, per dare impulso ad un consumo sfrenato che ci immoli sull'altare della crescita economica, sognando una ripresa economica che non arriverà mai e che creerà un'occupazione che non esisterà mai. Non comprendere questo, ostinarsi a seguire questo sentiero, ci porta soltanto in un posto ben noto: il collasso.

Saluti


Antonio Turiel

venerdì 2 dicembre 2011

Tecnocrati

A sinistra, Marion King Hubbert (1903-1989), ideatore del "modello di Hubbert" della produzione petrolifera. Sulla destra, Mario Monti (1943 -), primo ministro del governo italiano. Sembrano condividere un certo stile ed entrambi sono stati definiti "tecnocrati". Traduzione da "Cassandra's Legacy" di Andrea Schenone

Marion King Hubbert previde correttamente molte cose nella sua carriera, soprattutto sulla produzione di petrolio. Ma aderì anche ad un gruppo chiamato i "tecnocrati" che proponeva che i tecnici esperti dovrebbero dirigere i governi. Forse aveva ragione anche per questa previsione, come i recenti avvenimenti in Italia possono suggerire.

Il Professor Mario Monti, è stato nominato dal Presidente della Repubblica quale nuovo capo del governo italiano, in sostituzione del democraticamente eletto, ma disastroso, Silvio Berlusconi. Non sono sicuro se il signor Monti ami essere definito un "tecnocrate", ma il termine si adatta molto bene al suo attuale lavoro. È questo l'inizio di una nuova tendenza? E' troppo presto per dirlo ma, chi lo sa?

Big Gav ha scritto un post interessante su "peak Energy" riguardo l’ascesa di Mario Monti in Italia.