Miguel Martinez racconta l'incontro di qualche giorno fa a Firenze con la scienziata Russa Anastasiya Makarieva. Dal blog "Kelebek".
di Miguel Martinez
Ieri sera al tramonto, un gran freddo, le nuvole rosse scure a ovest. E la luna mezza, sopra i cipressi neri a destra, che si stagliano contro il fuoco del sole morente.
Sotto Bellosguardo, quel muretto silenzioso dove a volte cammina un gatto nero, e a sinistra puoi vedere la neve sui monti, e sotto la città con sopra la vecchia nemica, Fiesole…
Saliamo verso Martignolle, e Marco mi recita i versi del poeta folle, Dino Campana:
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
Camminando tra i muri silenziosi che nascondono i segreti di una città occulta, arriviamo alla villa dell’antica famiglia.
Da un capo della grande sala, ci guarda Abramo in un quadro settecentesco, mentre si appresta a sacrificare Isacco; dall’altro capo, ci guarda in ritratto l’avo della famiglia, e ha la stessa barba e lo stesso sguardo (e fede) di Abramo. E tra i due, la menorà, sulla credenza di legno che porta incisa la data MDCXXXVII.
Ci siamo riuniti per ascoltare Anastasija Makarieva, capelli neri, occhi azzurri a mandorla e zigomi alti, dell’Istituto di Fisica Nucleare di San Pietroburgo. Un ente erede di quell’altra metà del mondo, che non solo riusciva a costruire dal nulla bombe atomiche sovietiche, ma esplorava mondi sconosciuti agli occidentali.
Anastasija (con l’accento sulla “i”) non si occupa affatto di bombe atomiche, ma di boschi.
Tutti abbiamo sentito parlare dei boschi dell’Amazzonia, ma non si parla mai di quelli forse ancora più grandi che vanno dal Baltico al Pacifico.
Ora, da laureato in lingue orientali che fa fatica a distinguere un frassino da un olmo, che non ha preso appunti, e va a memoria, provo a raccontarvi, eventuali scemenze sono solo mie…
Si dice che stiamo vivendo un’immensa crisi ambientale, legata alle emissioni di CO2 con relativo riscaldamento globale; e che bisogna ridurre quindi tali emissioni.
Che ha però un sottinteso enorme: se il problema è troppo CO2, riduciamo il CO2 anche al costo di una strage, fine del problema. La guerra contro il cambiamento climatico è tutto lì.
Gli scienziati di San Pietroburgo non negano affatto la questione delle emissioni, ma dicono che c’è un altro fattore, che forse è anche più importante, che ci sta portando verso la catastrofe climatica.
Se esiste la vita, esiste perché esiste la biosfera; e la biosfera è intimamente legata a qualcosa che i russi chiamano la pompa biotica.
Gli alberi sono macchine in apparenza straordinariamente incompetenti: disperdono il 90% (cito a memoria) dell’acqua che assorbono nell’atmosfera.
Ma gli alberi della costa colgono la poca acqua che il mare manda sulla terra; solo loro, grazie all’evapotraspirazione, riescono a far salire ciò che per sua natura scende. Emettendo non solo acqua, ma anche altre sostanze che permettono all’acqua di condensarsi, formano le nuvole, e attraverso vari meccanismi molto complessi – che si affiancano a quelli noti alla meteorologia – creano i venti, che portano l’umidità all’interno.
E permettono quindi la vita nei continenti, e generano i fiumi.
Ma non basta piantare milioni di alberi a caso, come vorrebbero fare i tecnoverdi.
Anastasija ci racconta degli abeti, piantati in massa all’inizio del Novecento, in Boemia, che oggi sono stati infestati e distrutti in poco tempo dai parassiti, perché non esiste alcuna varietà; del problema degli alberi coevi – la pompa biotica funziona davvero solo quando c’è l’insieme di alberi di tante generazioni, con tutto l’ecosistema circostante.
E un artista americano che ci ascolta racconta di un suo amico, che per ricreare un bosco, prese con grande lentezza l’humus di un bosco ancora intatto, con tutta la sua varietà.
Siberia e Amazzonia sono i due poli forestali del mondo, nella loro immensa diversità.
Ma per qualche motivo, la Siberia che stanno svendendo alle multinazionali dell’industria del legname, non sembra interessare a nessuno.
“Sono stata solo due volte in Siberia”,
ammette Anastasija.
“Ma ogni anno io e il mio compagno ci accampiamo in una tenda, sulla costa del Mare Bianco.
Una volta abbiamo visto un orso. Da molto lontano… allora ci siamo avvicinati.
Ce lo siamo trovati davanti, e allora ho sentito dentro di me, quello che l’orso pensava dentro la sua testa: era arrivata la fine!
Ha guardato un’ultima volta il mare, poi si è girato, cercando di far vedere il meno che potesse del suo profilo. E poi improvvisamente, ha raccolto tutte le sue forze, ed è scappato nel bosco!”
E ci regala la foto del gufo, visto su un albero molto, molto a nord, con cui apriamo questa storia.