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domenica 13 dicembre 2015

Il post-capitalismo incipiente?

di Jacopo Simonetta

In Europa occidentale dove è nato, Il capitalismo è vecchio ormai di 300 anni.   Non moltissimi in una prospettiva storica, ma comunque una rispettabile età.   Durante questo ormai lungo periodo è stato dato per spacciato varie volte, ma sempre ha trovato il modo di cavarsela e, anzi, uscire dalla crisi più forte di prima.    Direi anzi che la principale caratteristica di questo singolare sistema socio-economico è la sua incredibile resilienza.   La sua capacità, cioè, di reagire alle difficoltà rilanciando ogni volta la sua scommessa ad un livello più alto.   Se mai è esistita una filosofia politica della rivoluzione permanente, questa è proprio il capitalismo.

“Si dissolvono tutti i rapporti sociali stabili e fissi, con il loro seguito di concezioni e di idee tradizionali e venerabili; i nuovi rapporti invecchiano prima di essere consolidati.  Qualsiasi elemento di gerarchia sociale e di stabilità di casta se ne va in fumo, tutto ciò che era sacro è profanato”.   Non lo scrivono Balzac o il Conte di Chambord parlando del socialismo; lo scrive Marx nel 1848 riferendosi al capitalismo.

Tra i fattori che concorrono a questo straordinario risultato, direi che i principali sono i seguenti:

1. Fa appello ai peggiori istinti di ognuno, quali l’avidità e l’egoismo.  Una volta un mio amico, sostenitore convinto del capitalismo, ne condensò così la natura: “L’istinto naturale dell’uomo è fregare il prossimo e questo è un sistema con il quale ognuno, tirando a fregare gli altri, senza saperlo fa il bene comune”.    Si può dissentire, ovviamente, ma è un fatto che molti tentativi di opporsi al capitalismo sono falliti perché chiedevano alla cittadinanza un livello ed una costanza morale che non erano alla portata dei più.

2. E’ acefalo.   Malgrado la passione di molti per “il nuovo ordine mondiale” ed i complotti, la forza del capitalismo risiede proprio nel fatto che si comporta come un “branco acefalo”.   Questo significa che i suoi centri di comando e controllo non possono essere colpiti perché non esistono, oppure possono essere continuamente corto-circuitati o sostituiti.   Alcune realtà che si sviluppano su internet funzionano sullo stesso principio e, difatti, sono molto difficili da contrastare.   Chi vuol capire come funziona faccia una gita in campagna ed osservi molto attentamente come si muovono i voli di storni all'imbrunire.   Anche lo storno è un animale estremamente resiliente, come il capitalista.


3. E’ onnivoro.   Il capitalismo si può nutrire di praticamente qualunque cosa esista, reale o virtuale che sia.   Nessun altro sistema vivente riesce a tanto.

4. E’ inclusivo e proteiforme.   Chiunque e qualunque cosa riesca ad acquisire una fetta di potere sufficientemente interessante, viene automaticamente cooptato nel sistema, senza che se ne renda neanche conto.   Questo vale per le persone e le organizzazioni, ma anche per le idee.   Si pensi a come le parole d’ordine dell’ambientalismo siano diventate quelle della pubblicità consumista.   Ma il fatto importante è che ciò non avviene per a seguito di un piano prestabilito, bensì per la natura stessa del capitalismo che è capace di assorbire e fare propria qualunque cosa possa essere usata.
Dal punto di vista di chi gli si vuole opporre, l’unico modo per non far parte del sistema è l’estrema marginalizzazione.   Ma in questo modo si perde completamente la possibilità di influire sul corso attuale degli eventi.

Dunque il capitalismo è una macchina termodinamica e culturale praticamente perfetta che, finora, si è dimostrata invulnerabile ed inarrestabile.   Ma proprio questa sua capacità di superare ogni limite potrebbe essere la sua condanna finale.   Il capitalismo è strutturato infatti in modo che non può sopravvivere in uno stato di equilibrio dinamico.   Il capitalismo o cresce o muore.

Dunque l’unica cosa che può distruggere il capitalismo è sé stesso, semplicemente esaurendo le risorse di cui vive ed avvelenando il mondo di cui fa parte.   Perché, per quanto possa utilizzare praticamente tutto, ci sono comunque dei limiti che non possono essere superati: quelli del Pianeta. Una volta che l’impatto con questi limiti avrà chiuso definitivamente ogni possibilità di ulteriore crescita, il capitalismo morirà da solo.   E ci sono buone ragioni per credere che questo momento sia abbastanza vicino.

Guarda caso, nessun nemico si profila all'orizzonte per sfidare il vecchio, ma il flusso di energia e materia che lo alimenta comincia a rallentare, mentre l’atmosfera, i suoli ed i mari stanno diventando inquietanti.   Il mantenimento dell’ipertrofica infrastruttura di cui si è dotato diviene problematica, come quello di un numero demenziale di persone che si guardano intorno sempre più smarrite, senza capire perché.

Sarà la volta buona?   Lo vedremo, intanto stanno sorgendo piccole ma agguerrite pattuglie di persone che cercano di capire quale sistema prenderà il posto del capitalismo, una volta conclusa la sua lunga e dolorosa agonia.

Un campo che trovo particolarmente interessante e, nel quale, segnalo questo articolo,   Mapping the Emerging Post-Capitalist Paradigm and its Main Thinkers 

Non dice niente che non si fosse già sentito tante volte, ma ha il merito di riassumere in una bella grafica “lo stato dell’arte” in materia di pensiero post-capitalista.   Dunque ne consiglio senz’altro la lettura e, soprattutto, consiglio di scaricare e conservare le grafiche, possono essere molto utili per orientarsi.   Non per nulla sono etichettate come “mappe”.

Tuttavia, non condivido lo spirito dell’articolo, né molte delle cose che vi si affermano.   In particolare, vorrei qui discutere molto brevemente i tre punti critici che, secondo gli autori, la nostra società starebbe attraversando:

Cambio di ordine sociale.  Da una società centralizzata e gerarchica ad una società organizzata orizzontalmente, decentralizzata e funzionante “dal basso verso l’alto”. Per ora nessun paese veramente capitalista è entrato in una fase successiva, ma i crescenti scricchiolii che si odono dalle fondamenta del sistema non suggeriscono ottimismo nel futuro a breve e medio-termine.   Del resto, in alcuni paesi che già sono entrati in una fase post-capitalista (Siria, Libia Iraq, Yemen fra gli altri) si assiste effettivamente alla disintegrazione delle strutture statali e sovra-statali.   Ma ciò che sorge è una miriade di gruppi e gruppuscoli, ognuno dei quali fortemente militarizzato, che combattono per accedere alle scarse risorse sfuggite alla digestione del sistema precedente.

Cambio di struttura economica.  Al posto di organizzazioni grandi e burocratizzate che producono grandi quantità di oggetti a buon mercato, nella nuova economia digitale è possibile sviluppare prodotti e servizi localmente e su piccola scala. La nuova economia digitale, qualunque cosa sia o sarà, necessita di un flusso costante ed abbondante di energia, oltre che di un costante ricambio di oggetti ad altissimo contenuto tecnologico (computers, Iphones, stampanti tridimensionali, servers e moltissimo ancora).   Tutta roba che solo l’economia capitalista attuale può essere in grado (per ora) di produrre in quantità massicce ed a prezzi arrivabili.

Cambio nei rapporti di potere.   Un tempo l’influenza politica e le economie di scala determinavano l’accesso alle risorse, alle conoscenze ed alle informazioni.   Conoscenze ed informazioni sono adesso accessibili al di fuori delle istituzioni politiche.   Ciò permetterà lo sviluppo di economie basate su conoscenze liberamente condivise. E’ vero che in rete si trova condivisa una miriade di informazioni di ogni livello e qualità.   Ma nessuno posta informazioni che possano avere un interesse commerciale e perfino le informazioni scientifiche sono spesso disponibili solo a pagamento.   E neanche sempre.   Per essere chiari, in internet si trovano miriadi di filmati che insegnano a coltivare le rape, ma nessun softwhere per la progettazione di una turbina moderna.   Certo, l’economia del futuro potrebbe essere fatta solo di ortaggi ed oggetti artigianali e  ci sono buone ragioni per pensarla così.   Ma questo significa che saremo in un’economia più o meno di sussistenza e, comunque, del tutto priva di gadget tecnologici.
Inoltre, quando anche disponibili, le informazioni sono utili solo se si dispone anche dell’energia e della materia per metterle in pratica.   Altrimenti servono a poco.

Dunque il capitalismo sta davvero morendo?   Forse, ma io credo che sia ancora presto per vendere la pelle dell’orso.    Siamo d’accordo che stavolta il vecchio è in un angolo molto stretto, ma ci ha già sorpresi più di una volta.   Inoltre, ammesso che il capitalismo davvero muoia, non credo proprio che un sistema sostitutivo potrà sorgere a breve termine e pacificamente.   Non è mai successo nella storia.  Alla fine di un sistema consolidato segue sempre un lungo periodo di disastri naturali e non.   Non a caso, almeno tre dei  quattro cavalieri di cui parla S. Giovanni, sono degli habitué del nostro pianeta.

La mia opinione è che il “nuovo mondo”, bello o brutto che sarà, potrà sorgere solo dopo che sarà conclusa la putrefazione di quello vecchio ed i cavalieri si saranno presi un po’ di ferie.   Paracelso sosteneva che la vita nuova nasce dalla putrefazione di ciò che era precedentemente morto.   Riferendosi a singoli organismi aveva certamente torto, ma parlando di sistemi sociali, forse, aveva ragione.




venerdì 21 novembre 2014

La dieta dimagrante del Leviatano - 1.

di Jacopo Simonetta.

In un precedente post avevo confrontato la civiltà capitalista attuale ad un organismo coloniale di dimensioni planetarie che ho chiamato Leviatano.   Non si tratta di una semplice metafora.  
Innanzitutto l’idea che l’insieme dei singoli cittadini costituisca un “corpo sociale” unico che agisce come un meta-individuo è di Hobbes: uno dei padri fondatori del pensiero illuminista e dunque della nostra civiltà attuale.   In secondo luogo, Ilya Prigogine ci ha insegnato che, dal punto di vista termodinamico, tanto i singoli individui quanto le società nel loro complesso sono delle “strutture dissipative”.

 Ciò significa che tanto i singoli uomini quanto le società nel loro insieme sono fondamentalmente degli aggregati di materia che si auto-organizza in modo da assorbire e dissipare la maggior quantità possibile di energia (F. Roddier Thermodynamique de l'évolution : Un essai de thermo-bio-sociologie 2012).  
Ciò che cambia è il grado di complessità fra l’individuo e la società, un grado che cresce più che linearmente con l’accrescimento della struttura stessa ed il crescere della complessità comporta l’apparire di quelle che si chiamano “proprietà emergenti”: proprietà che si trovano nel “tutto”, ma non nelle sue “parti”.    E la proprietà emergente delle società umana è quella cosa che chiamiamo “civiltà”.    In estrema sintesi, vi è dunque una correlazione molto forte fra quantità di energia dissipata, dimensioni e complessità delle società, complessità della civiltà che la società produce.   Fattori culturali e spirituali plasmano civiltà diversissime, ma il grado di complessità che queste raggiungono rimane comunque legato direttamente alla quantità di energia che questa è in grado di assorbire e dissipare.   Dunque, ogni singolo individuo umano ha una sua esistenza autonoma, ma la civiltà è il prodotto di un’interazione simbiotica fra tutti i membri della società che costituisce, a tutti gli effetti, una meta-struttura dotata di individualità e capace di reagire agli stimoli esterni in modo da perseguire i suoi scopi.

Una complicata argomentazione per dire una cosa semplice: Hobbes aveva visto giusto.

Dunque il Leviatano non è una metafora, bensì una realtà oggettiva e ciascuno di noi ne fa parte.   E come tutte le strutture viventi, nei secoli si è evoluto.   Vivendo nell’epoca in cui le monarchie assolute facevano la loro fugace comparsa nella storia europea, Hobbes aveva immaginato il suo meta-individuo con una testa pensante individuale: quella di un re-papa che detiene tutti i poteri.   La realtà attuale è molto diversa ed al posto della testa coronata si trova un gruppo di oligarchi che avendo gli “amici giusti nei posti giusti” controllano il grosso del flusso di energia che attraversa il corpo sociale.   Una struttura tipicamente coloniale e modulare che si ripete su scala diversa, ma in modo sorprendentemente simile, dal livello globale a quello di ogni piccolo comune.  

Per essere chiari: i rapporti che intercorrono fra i maggiori gruppi industriali e finanziari mondiali con i governi del “G20” generano delle dinamiche che ritroviamo su scala più piccola, ma strutturalmente uguale a livello di singoli stati, di regioni ecc.    Fino al piccolo comune il cui sindaco ha cura di mantenere rapporti costanti e privilegiati con coloro che detengono il grosso del potere economico in paese.

Probabilmente per questa sua struttura modulare, di fatto il Leviatano non sembra essere in grado di fare altro che seguire un istinto tanto antico quanto la materia stessa di cui è fatto: assorbire e dissipare più energia possibile.   E deve farlo subito, adesso; senza riguardo alcuno neppure per se stesso domani.   Una totale miopia che contrasta in modo stridente con l’ efficienza, la creatività e l’astuzia con cui persegue il suo scopo.   Una combinazione dagli esiti con ogni probabilità nefasti.
Come tutto ciò ha a che fare con la nostra vita quotidiana?    E’ semplice:   Come ogni struttura dissipativa, il Leviatano (cioè tutti noi insieme) ha bisogno di un flusso costante di “cibo” e di cosa si alimenta?   Di energia certo, ma non direttamente, bensì di energia trasformata in “RICCHEZZA”; un po’ come noi individualmente ci nutriamo di zuccheri, proteine, grassi, ecc., ma non direttamente così come sono, bensì dopo averli digeriti, assorbiti e trasformati tramite un’incredibilmente complesso sistema metabolico.  

In altre parole, la società globale assorbe energia sotto forma principalmente di idrocarburi fossili,minerali e di biomassa, la trasforma in ricchezza e come tale in parte la usa per il proprio metabolismo (cioè per far girare la mega-macchina economica globale), in parte la accumula sotto forma di patrimonio (proprietà e risparmi) o di informazione (arte, scienza, tecnologia, ecc.)
Per circa 300 anni il Leviatano ha potuto “mangiare” più di quanto dissipava sotto forma di metabolismo antropico, guerre, ecc.    Di conseguenza  è cresciuto in dimensioni e complessità: nato in Inghilterra ai primi del XVII° secolo (Ritengo che Bacone e Hobbes ne siano stati i padrini), nel giro di duecento anni ha occupato il mondo intero, annichilendo od assorbendo tutte le altre civiltà.   Ma conservava un fisico asciutto ed efficiente in forza del permanere di limiti sostanziali alla sua capacità di assorbire energia e degli alti consumi necessari per la sua crescita.

Poi ci sono stati i “fantastici 30”.   Trenta anni solamente, all'incirca fra il 1945 ed il 1975, in cui la “bonanza” petrolifera ha sovralimentato il Leviatano in misura senza precedenti.   In tutto il mondo vi è infatti stata una crescita demografica assolutamente spaventosa, ma in una parte relativamente piccola dell’umanità  si è inoltre verificato un accumulo molto consistente di “grasso”, perlopiù sotto forma di patrimonio.   In particolare, la leggendaria “middle class” occidentale è cresciuta in modo tale da diventare una sorta di “tessuto adiposo” del Leviatano.  

Non è stata l’unica parte del corpo sociale in cui si sia accumulata ricchezza, anzi!   La “upper class” ne ha accumulata ancor di più, ma la vera disfunzione metabolica è avvenuta più tardi, dagli anni ’80 in poi, aprendo una voragine senza precedenti storici fra soggetti sempre più ricchi e sempre più poveri.   Per essere chiari, né l’Europa feudale, né le nazioni industriali del XIX° secolo hanno mai raggiunto livelli di disparità economica neppure paragonabili a quelli attuali.    Per trovare situazioni analoghe bisognerebbe risalire al tardo Impero Romano od alla fasi finali dei ricorrenti imperi cinesi.

E la situazione continua a peggiorare in maniera progressivamente accelerata non solo in occidente, bensì in tutto il mondo.


Perché accade questo?   Se osserviamo come funziona una struttura dissipativa di tipo più semplice, ad esempio un singolo individuo umano, osserviamo che, aumentando l’input di energia, dapprima reagisce aumentando la propria massa muscolare e le proprie prestazioni fisiche; poi comincia ad ingrassare, ma non uniformemente in tutto il corpo: alcune parti accumulano più di altre.   Se dopo un poco cominciamo a ridurre le razioni, l’individuo dimagrisce, a cominciare dalle parti dove l’accumulo di grasso è stato maggiore  ed è meno importante sotto il profilo metabolico.   Ad esempio la “pancetta” viene riassorbita prima del grasso intramuscolare.   Se la dieta diventa carestia, una volta esaurite le riserve di grasso, il fisico comincia a riassorbire anche gli altri tessuti (muscoli, ecc.).   L’ultima parte ad essere alimentata è il cervello che, per rimanere funzionante, ha comunque bisogno di quantità consistenti di energia.   Se necessario, il resto del corpo viene sacrificato per mantenere in vita questo centro da cui, in buona parte, dipende il funzionamento di tutto il resto.   Eventualmente fino a morire.

Passando ad una struttura dissipativa infinitamente più complessa, come la civiltà capitalista globale, è ovvio che molte cose cambiano, ma i principi fisici fondamentali rimangono i medesimi ed in questa chiave diventa molto facile capire quello che sta succedendo.   Diminuendo la qualità, più che la quantità, dell’energia che il Leviatano può assorbire, il suo sistema fisiologico ha cominciato a digerire la ricchezza che aveva accumulato in passato, ma in maniera non uniforme.   Abbiamo detto all’inizio che il Leviatano attuale ha un sistema nervoso centrale costituito da una classe dirigente che detiene la maggior parte della ricchezza e del potere; un fenomeno questo che si ripete modularmente alle differenti scale di riferimento: pianeta, stati o meta-stati, regioni, comuni, ecc.   Un tipico caso di “invarianza in rapporto alla scala” che ci rassicura circa la natura fondamentalmente fisica del fenomeno.   Dunque la priorità assoluta del sistema è mantenere intatto l’afflusso di energia verso la vetta della piramide sociale, alle diverse scale.   Per fare questo, quando necessario, vengono quindi digeriti i livelli inferiori, ma non in misura uniforme, bensì in rapporto alla quantità di ricchezza che può esserne estratta ed in che forma, alla difficoltà di estrarla ed all’utilità che i diversi soggetti hanno nel mantenere in vita la struttura complessiva.

Rielaborando l’apologo di Menenio Agrippa, potremmo dire che operai e contadini corrispondono al tessuto muscolare;  possono quindi essere digeriti sotto forma di peggiori condizioni di lavoro e di licenziamenti, ma solo nella misura in cui questo non pregiudica l’assorbimento e la metabolizzazione dell’energia.   Al limite possono essere ridotti in schiavitù, ma non eliminati.   Altra categoria rilevante è quella rappresentata dagli specialisti nell’uso misurato della violenza: militari e polizia.   Qui sta succedendo qualcosa di interessante.   In gran parte del mondo i bilanci militari crescono di anno in anno, in alcuni casi in maniera spettacolare, segno evidente che le classi dirigenti attribuiscono a questo “organo”  una funzione importante sia per l’accaparramento di fonti di sostentamento per il sistema economico, sia per il controllo delle proprie classi lavoratrici.  

Viceversa,  in Europa i bilanci della difesa diminuiscono e sono oramai da tempo finalizzati più al sovvenzionamento dell’industria nazionale piuttosto che all’efficacia dello strumento.   Segno evidente della decisione strategica di rimettere questa funzione alla discrezione ed alla disponibilità degli USA: nipoti-pardoni del nostro continente.   Una strategia che se permette di dirigere su altri settori risorse importanti, ci pone collettivamente nella scomoda posizione di essere non solo un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, ma anche un vaso pieno di grasso cui la crescente fame del ramo americano del Leviatano ha appena cominciato ad attingere.     Discorso analogo per i servizi di polizia deputati al controllo dell’ordine pubblico e simili incombenze, mentre non si lesinano finanziamenti a quei servizi il cui scopo è il reperimento di risorse per alimentare le parti più vitali del sistema; in particolare i principali gruppi finanziari e la macchina politico-amministrativa che controlla gli stati.

E questo ci riporta alla leggendaria classe media, vera trionfatrice nei decenni di “pasciona” ed oggi principale tessuto di riserva cui attingere.   Non è difficile capire perché:   a) se individualmente la ricchezza accumulata di solito non è molta, collettivamente lo è, specialmente in Europa ed in USA.   b) Il radicato individualismo, la divisione in una miriade di sotto-classi spesso ostili fra loro e la totale impreparazione ad affrontare situazioni di effettivo pericolo rendono questa categoria più facile di altre da digerire.   c) Il sistema può fare tranquillamente a meno della maggior parte di queste persone (professionisti, professori, piccoli commercianti, artigiani, ecc.).   Sono “spendibili”.
Si tratta, evidentemente, di una schematizzazione estrema.   Il sistema è in realtà molto complesso e, come abbiamo accennato, articolato in una miriade di sotto-sistemi tipo “scatole cinesi” all’interno dei quali si riproducono le stesse dinamiche fondamentali.   Ma se qualcuno ha l’impressione di essere finito in un meccanismo che ne drena inesorabilmente la qualità della vita ed il patrimonio non pensi di essere paranoico: è esattamente quello che sta succedendo.   Riduzione degli stipendi ed aumento di imposte od affini sono solo due degli strumenti messi in atto dalla fisiologia famelica del Leviatano.   Un altro importantissimo settore in pieno sviluppo è, ad esempio, il profluvio di regolamenti e leggi che, con pretesti che variano dalla sicurezza alla tutela dell’ambiente, sono in realtà  finalizzati ad obbligare la gente a comprare cose che non desiderano e di cui non hanno bisogno.

Un altro sistema particolarmente perverso è quello delle pensioni, un argomento che esemplifica in modo molto efficace come l’effetto dei “Ritorni decrescenti” possa pervertire il funzionamento delle strutture portanti del sistema economico e sociale.   Mediamente, chi lavora oggi deve versare circa il 50% dei propri introiti non già per assicurare la propria vecchiaia, bensì quella di chi lo ha preceduto e che, avendo guadagnato meglio di lui, oggi usufruisce di una pensione che il lavoratore attuale non avrà mai.   In pratica, un sistema concepito per assicurare una decente vecchiaia agli anziani in un periodo in cui i giovani erano nettamente più numerosi e mediamente più ricchi dei vecchi, si è trasformato in un sistema tramite il quale i pensionati stanno parassitando i giovani e gli adulti del loro stesso paese; della loro stessa famiglia.   Un paradosso ormai chiaro a tutti, ma che non sarà corretto perché i giovani sono politicamente meno importanti degli anziani e, dunque, più spendibili.
Si potrebbe riassumere tutto ciò con quattro immagini rappresentative delle diverse fasi nell'evoluzione del Leviatano:


XVII secolo, è l’immagine di copertina dell’omonimo trattato di Hobbes che ci mostra un organismo giovane e dinamico, in piena fase di sviluppo.

XIX – XX secolo, Il Leviatano è diventato una macchina da guerra invincibile, lanciato alla completa conquista del Pianeta, travolgendo non solo le altre civiltà, ma soprattutto appropriandosi di ogni possibile risorsa e devastando la struttura vitale degli ecosistemi terrestri e marini.

Fine del XX secolo, il Leviatano è ancora una macchina da guerra terribile, ma è decisamente obeso, malgrado alcune sue parti siano scheletriche.   Inoltre, comincia a subire seriamente le conseguenze delle conquiste precedenti sotto forma di inquinamento, diffusione di parassiti e patogeni resistenti, ecc.   La sua forza è ancora tremenda, ma la sua salute vacilla.

XXI secolo.   Ridotto alla fame dalla decadenza quali-quantitativa delle risorse e dall’ipertrofia del suo enorme corpo, divora i suoi stessi componenti per sopravvivere.   Ma differenza di Kronos con i suoi figli, non li rigenera e dunque è destinato ad esaurirli in modo non dissimile da come sta esaurendo tutte le altre risorse.    Un fatto questo che a priori condanna il Leviatano ad una morte lenta ed atroce, ma non l’umanità con lui.   La sua esistenza cesserà man mano che la struttura socio-ecomonico che ne assembla le varie parti ed i singoli individui verrà meno.    Alla fine di questo processo certamente il numero di umani sarà molto inferiore all’attuale, ma comunque consistente: ci potrebbero essere i presupposti per costruire nuove civiltà.   In che modo la fame del Leviatano morente può pregiudicare questa possibilità?    Ce ne occuperemo nel prossimo post.



martedì 4 marzo 2014

Ecco la Fine della Crescita

Post di Mauro Bonaiuti, originariamente pubblicato sul "Fatto"




Ecco la fine della crescita

ovvero: tecnocrazia stadio supremo del capitalismo?

Mauro Bonaiuti

Il fatto

Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.

Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia. Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman.

L'analisi del problema

Chiariamo per cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi del sistema. È un po come se, argomenta Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate. Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione, bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato.

In altre parole, dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare.

La tentazione tecnocratica

Anche il non economista potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro. La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti).

Su questo ultimo punto Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”. La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza speculazione finanziaria non c'è più crescita, e lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese.

Naturalmente Krugman e Summers si guardano bene dal trarre conclusioni pessimistiche sulla salute di lungo termine del capitalismo, come evitano con cura di allargare l'analisi sulle cause del malessere economico fino a comprendere tutti quei costi sociali ed ambientali che non rientrano nel calcolo degli indicatori economici tradizionali.

Tuttavia, anche limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario presentato è estremante serio e foriero di conseguenze. Questo quadro si chiarisce ulteriormente analizzando le proposte di intervento pensate dai due economisti, che indicano come sarebbe concretamente possibile rianimare un'economia nelle nuove condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente negativo.

La prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica dei tradizionali incentivi keynesiani alla spesa. Secondo Krugman si potrebbe decidere, ad esempio, di dotare tutti gli impiegati di Google Glass (una sorta di occhiale multimediale) e altri strumenti che consentono di essere perennemente connessi ad internet. Anche se poi ci si accorgesse che si tratta di una spesa inutile, questa decisione politica sarebbe comunque positiva in quanto costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente sarebbero preferibili speseproduttive, ma nello scenario attuale non si può andare tanto per il sottile: anche spese improduttive sono meglio di niente.

Ma questo evidentemente non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse naturale stabilmente negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman un modo ci sarebbe: “si potrebbe ricostruire l'intero sistema monetario, eliminare la cartamoneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi.” Traducendo per i non economisti questo significherebbe niente meno che togliere la possibilità ai cittadini di comprare e vendere attraverso la moneta cartacea (che per definizione non costa nulla) e rendere forzose la transazioni con carta di credito, appoggiata necessariamente su conti correnti sui quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo forzoso di alcuni punti percentuali l'anno. In questo modo si costringerebbe la gente a spendere di più (la ricchezza infatti si deprezza restando immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse invece di riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato, le imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo ancora più subdolo e surrettizio.

Se queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale” (per riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far fronte all'incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere, non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo. E' evidente che, una volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull'altare di qualche punto percentuale di PIL. La prospettiva è chiara: tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista.

Quanto detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe incamminare il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli ex neoliberisti alla Summers) nell'era dei rendimenti decrescenti. Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo. E qui veniamo al secondo punto fondamentale.

Rendimenti decrescenti e l'impossibile ritorno al passato

Anche se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe questa scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui fondare il rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due economisti non spendono una sola parola. Perché è evidente che per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente, tutto per tenere in movimento - da una bolla speculativa all'altra - la macchina economica globale.

Qui si evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo terminale di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato, (peraltro con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes. Quello che gli economisti tardo keynesiani sembrano non capire è quanto il contesto sia completamente mutato rispetto all'età della crescita: dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi, dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato, come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?

Se, come credo, le economie capitalistiche avanzate sono entrate già da quaranta anni in una fase di rendimenti decrescenti questo non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali. Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più vasta portata che comprende la riduzione della produttività dell'energia (EROEI), dell'estrazione mineraria, dell'innovazione, delle rese agricole, dell'efficienza dell'attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), oltre che di una sostanziale riduzione della produttività legata al passaggio da un'economia industriale a una fondata sostanzialmente sui servizi. E sopratutto, cosa che manca completamente nell'analisi di Summers e Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e dunque incrementale.

I rendimenti decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale aumento del malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della megamacchina tecnoeconomica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici. Occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di PIL, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica).

In conclusione, benché sia un fatto di per sé eccezionale che i sostenitori dello status quo (sia di ispirazione neoliberista che keynesiana) siano disposti ad ammettere, pragmaticamente, la “fine della crescita”, questi non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica). Insomma dove il capitalismo è una cosa seria, come negli Stati Uniti, si riconoscere pragmaticamente il problema, e ci si attrezza per affrontarlo. Credo tuttavia che il problema dovrebbe cominciare ad interessare anche quelli che, nella vecchia Europa come in Italia (e sono moltissimi, a sinistra, ma anche nelle reti e nell'associazionismo di base) credono ancora alla possibilità di un capitalismo addomesticato, ad un modello di "mercato regolato" che dovrebbe produrre insieme occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.

Dal nostro punto di vista il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita.