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venerdì 19 novembre 2021

Come Utilizzare le Risorse Ambientali: sani principi che nessuno rispetta
























Con l’ erosione del terreno diminuiscono le produzioni agricole

di Silvano Molfese

Negli ultimi decenni le conoscenze sulla biosfera hanno fatto enormi progressi e, nonostante ciò, si sono accumulate quantità sempre maggiori di gas climalteranti e di tante sostanze di sintesi, tossiche per la biosfera stessa che è stata trasformata in una discarica.

Quali criteri si dovrebbero seguire per salvaguardare la biosfera quando utilizziamo le risorse naturali? Per esempio quant’acqua possiamo prelevare senza danneggiare l’ecosistema?

Vandana Shiva nel richiamare l’attenzione sul ciclo dell’acqua e sui principi del prelievo idrico sostenibile si esprimeva così:

“La falda acquifera si abbassa quando il tasso di prelievo dell’acqua sotterranea è superiore al tasso di ricostituzione dei depositi di acqua sotterranea per percolazione. Per assicurare un’offerta continua di acqua sotterranea, il prelievo dovrebbe essere limitato al tasso netto di approvvigionamento della falda acquifera. Se il prelievo è invece superiore si inizia a estrarre l’acqua delle riserve sotterranee, e si verifica una siccità del sottosuolo anche se non c’è siccità dovuta a cause meteorologiche. “ (1).

Rileggendo questo concetto si potrebbe dire che si sfrutta una risorsa naturale quando, da una data superficie, si preleva una quantità della risorsa superiore al tasso netto di approvvigionamento annuo.

Invece si utilizza una risorsa naturale quando da una data superficie si preleva una quantità della risorsa entro il tasso netto di approvvigionamento annuo.

Con l’uso ripetuto della fresa su terreni acclivi si avrà l’erosione del suolo che comporterà un calo produttivo e, nei casi più gravi, l’azzeramento della produzione: in questi casi diremo che la risorsa suolo è stata sfruttata.

Un altro esempio potrebbe essere la disponibilità di seme per la semina in campo.

In un dato ambiente per ottimizzare le rese medie del grano duro, pari a 3,0 tonnellate per ettaro, è necessaria una densità di semina di 200 kg per ettaro.

Se un anno, per condizioni climatiche avverse, la resa di grano fosse di sole 1,5 t/ha il quantitativo di grano da conservare per la semina successiva, volendo mantenere le stesse potenzialità produttive, sarà comunque di 200 kg/ha .

Se il contadino dimezzasse queste scorte di semente, potrà seminare soltanto metà della superficie con il corrispondente calo produttivo.

In questo caso potremo affermare che è stata sfruttata la risorsa seme.

Un aspetto trascurato ma decisamente preoccupante per la stabilità climatica è dato dalla distruzione delle foreste primigenie: a livello mondiale nel 1947 si stimavano 1.500 miliardi di ettari di foreste primigenie mentre allo stato attuale ne sono rimaste circa la metà; tra il 2000 ed il 2018 per incendi e disboscamenti ammontano a ben 230 milioni gli ettari di foreste primigenie perse nel mondo. (2)

Dal 1950 circa, le tecnologie impiegate, la massiccia produzione industriale e la distruzione del manto forestale legate al sistema economico, a cui si somma l’aumento della popolazione mondiale, stanno modificando fortemente gli equilibri naturali

Forse definire le parole utilizzo e sfruttamento, quando ci riferiamo alle risorse naturali, potrà sembrare eccesso di pignoleria; tuttavia credo che nel comune linguaggio tecnico e scientifico sia preferibile una tale distinzione vista la distruzione esponenziale dei beni ambientali.



Note

(1) Shiva V., 1988 – Sopravvivere allo sviluppo. ISEDI, 246

(2) Bertacchi A., 2019 - Intervento al convegno “Resilienza o estinzione? Cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, crisi economica: scegliere il futuro dopo la crescita.” Pisa, 22 marzo 2019.
http://mediaeventi.unipi.it/category/video/Resilienza-o-estinzione-parte-seconda/5eb581096cc392dfdbd8cd35cbec5bcf/206 dal 79’ e 05’’.





sabato 6 novembre 2021

Ma gli Ambientalisti Mangiano i Bambini?


à?Mentre è in corso la COP26 a Glasgow, mi sembra il caso di pubblicare una piccola riflessione sugli errori del passato, che sono stati molti e che sembra difficile che la COP possa rimediare, ma chissà? Per il momento, continuiamo a comportarci come gli antichi Maya che pensavano di poter risolvere i loro problemi con cose del tutto inutili come i sacrifici umani. 
  


Una risposta al Sig. Cortesi


Vi ricordate il film “Apocalypto” del 2006? Fra le altre cose, faceva vedere i sacrifici umani degli antichi Maya. Si estraeva il cuore dal petto di un poveraccio ancora vivo e poi si buttava giù il corpo per i gradini della piramide. Poi, i sacerdoti si mangiavano il cuore fatto alla griglia. Sembra che si facesse perché che “altrimenti il sole non sarebbe sorto il giorno dopo.” Forse è una leggenda, ma c’è chi dice che è vero.

Ora, non è che voglio dire che i nostri ambientalisti fanno i sacrifici umani (l’accusa di “mangiare i bambini” si usava una volta contro i comunisti, ma è un po’ passata di moda, a parte che Vladimir Putin pare lo faccia come hobby). Però, come i Maya, molti ambientalisti sono una bella illustrazione di un detto che si attribuisce a Albert Einstein: “La definizione di insanità mentale è fare la stessa cosa molte volte di seguito e aspettarsi risultati differenti.

Mi posso immaginare che i sacerdoti Maya reagissero alle varie carestie, pestilenze, e guerre dicendo, “E’ perché non abbiamo fatto abbastanza sacrifici umani. Dobbiamo farne di più!” E così gli ambientalisti, visto che sono trent’anni che si fanno esortazioni a ridurre le emissioni senza vedere alcun effetto, reagiscono dicendo “non abbiamo esortato abbastanza. Dobbiamo esortare di più!

Un buon esempio di questo atteggiamento è un post recente di Fabrizio Cortesi sul “Fatto” https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/08/27/clima-la-prima-cosa-da-combattere-e-lo-spreco-di-energia-e-consumi/6301840/ che critica un mio post precedente dove sostenevo che bisogna cambiare strategia per combattere il cambiamento climatico: bisogna smettere di esortare al risparmio e concentrarsi invece sulla produzione di energia rinnovabile.

Cortesi risponde con un post apprezzabile per la forma che è – nomen omen – cortese. Di certo non come il marasma di insulti che arrivano di solito nei commenti ai post sul “Fatto”. Però, mi dispiace doverlo dire, ma non ci siamo proprio. E’ un post che potrebbe essere stato scritto vent’anni fa e che dimostra come molti degli ambientalisti nostrani non si siano minimamente aggiornati sui progressi della tecnologia negli ultimi anni.

Quando Cortesi parla dell’ “illusione delle energie rinnovabili,” su cosa di basa? Soltanto su studi obsoleti che, purtroppo, hanno lasciato il loro impatto in una certa frazione del mondo ambientalista, al punto che continuano a ripeterne le conclusioni senza rendersi conto che, come si suol dire dalle parti di Amsterdam, “ne è passato di vento attraverso le pale.”

Non è più vero che l’energia rinnovabile è un “palliativo” o solo “greenwashing” come sostiene Cortesi. L’energia rinnovabile è un mezzo di produzione di energia concorrenziale a tutti gli effetti con tutti i metodi di produzione basati sui fossili. Ed è veramente “rinnovabile” perché l’energia che producono gli impianti durante la loro vita operativa è almeno 10 volte (e anche molto di più) superiore a quella necessaria per costruirli e gestirli. Su questo punto potete leggervi questo articolo di Marco Raugei, ricercatore italiano fra i più quotati a livello globale in questo campo: https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0360544209000061. E’ solo uno dei tanti articoli che dimostrano questa capacità delle rinnovabili.

Quanto alla necessità di risorse minerali, non è vero che sono una barriera insormontabile. Le rinnovabili moderne hanno bisogno soltanto di materiali abbondanti sulla crosta terrestre (silicio e alluminio) oppure di facilmente riciclabili (per esempio, le terre rare o il litio). Abbiamo tutto quello che ci serve per rimpiazzare i fossili – quelli si che sono limitati dalla disponibilità finita di risorse!

Non voglio farla lunga con questa risposta. Mi limito a riassumere il mio ragionamento che si basa sul fatto che cercare ottenere qualcosa a furia di esortazioni semplicemente non funziona. Usare decreti e proibizioni è ancora peggio perché è costoso e genera forti resistenze. Viceversa, non c’è bisogno di imporre le energie rinnovabili per decreto: funzionano e producono profitti, quindi, c’è un incentivo economico a installarle. Se non gli mettiamo i bastoni fra le pale con i vari comitati o con la burocrazia distruttiva, le vedremo crescere rapidamente e sostituire i fossili. Altrimenti, rischiamo veramente di fare la fine dei Maya.




giovedì 8 ottobre 2020

Toufic El Asmar (1964-2020): Una Vita per la Scienza e per l'Ambiente

 

Toufic El Asmar (a destra nella foto) e Ugo Bardi davanti a un impianto solare a Colonia, in Germania.

Toufic El Asmar ci ha lasciato ieri. Molti lettori di questo Blog lo conoscevano e sapevano che stava male da tempo, così questa è la conclusione di una lunga e triste odissea. 

Ce lo ricorderemo per le tante cose che ha fatto per l'ambiente e per la scienza, in primis il trattore elettrico "RAMSES" che è stata un po' la sua creatura, Ma lui ha fatto anche molto di più per l'energia solare e per l'agricoltura in Africa e in Medio Oriente. Speriamo ora di poter rimettere in funzione il trattore RAMSES anche in onore alla sua memoria.

Il funerale è domani pomeriggio (9 Ottobre) alle 15:30 a San Miniato al Monte a Firenze.



giovedì 4 giugno 2020

L'impero del cancro del pianeta: il nuovo libro di Bruno Sebastiani

 L'impero del cancro del pianeta


Chi di voi, osservando dal finestrino di un aereo le case, le strade, i capannoni e i campi coltivati sottostanti, non ha avuto l’impressione di trovarsi in presenza di un melanoma, di un vero e proprio tumore maligno ai danni del corpo del pianeta?
In gergo “cancrista” questa si chiama la “prova dell’aeroplano” e ne hanno parlato, tra gli altri, Lewis Mumford e Konrad Lorenz.
Questa raffigurazione terrificante è la conferma visiva di come ormai l’intero globo terracqueo sia diventato un immenso, sconfinato impero dell’essere umano, ovvero del cancro del pianeta.
Ad esso è dedicato il mio nuovo libro, intitolato per l’appunto “L’impero del cancro del pianeta” (Mimesis editore) e sottotitolato “L’organizzazione della società ai tempi dell’ecocidio”.
Per la presentazione dei libri precedenti vedere Il cancro del pianeta e Il cancro del pianeta consapevole.
Ho cercato con questo saggio di scendere metaforicamente dall’aeroplano e di calarmi dentro alla realtà della malattia per vedere come le cellule neoplastiche si sono organizzate al fine di sostenere il loro esorbitante aumento numerico.
Si sa che il cancro è originato da una o più cellule che subiscono un’alterazione genetica tale da rifiutare il meccanismo omeostatico che blocca la proliferazione delle cellule quando il loro numero diventa eccessivo. Venendo meno questo freno, la popolazione delle cellule alterate straborda ovunque, come è accaduto alla nostra specie.
Ogni cellula va nutrita e se il loro numero è elevatissimo, occorre trovare elevatissime quantità di cibo. È il problema con il quale da decenni convive drammaticamente il genere umano, senza che gran parte di esso si renda conto dei problemi e dei drammi che si celano dietro agli scaffali pieni dei supermercati.
Ho cercato di affrontare questa realtà con l’aiuto di altri autori che prima di me l’hanno indagata con grande competenza. Tra questi Raj Patel, Lester R. Brown, Philip Lymbery e Stefano Liberti. Arricchito dai dati, dalle notizie e dai pareri di costoro e di altri autori, ho avuto una ulteriore conferma che quanto accaduto negli ultimi decenni si inquadra perfettamente nell’ottica della teoria cancrista.
Il compito che mi sono assunto, infatti, non è di effettuare una nuova indagine in aggiunta a quelle già esistenti, ma di mostrare all’uomo contemporaneo come i fatti e i processi sociali che si svolgono sotto ai suoi occhi altro non sono che tasselli di un comportamento tipicamente cancerogeno.
Molti autori hanno descritto i mali che affliggono il mondo per cause antropiche, ma poi non sono giunti a trarre le conclusioni più coerenti.
Un nome su tutti, quello di Aurelio Peccei. Il fondatore del Club di Roma nel suo saggio “Cento pagine per l’avvenire” (Giunti Editore, Firenze 2018) scrive:
È […] in uno slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura produce la sua ultima grande specie […] homo sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al controllo della selezione […]? (pag. 56)
Un […] comportamento aberrante della nostra specie la rende gravemente colpevole davanti al tribunale della vita. Si tratta della sua proliferazione esponenziale, che non si può definire che cancerosa.” (pag. 66)
Siamo per caso una specie di geni, destinati in fin dei conti a trionfare su tutto? O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri, magari mostri geniali, che finiranno per restar vittime del loro stesso malsano operare?” (pag. 80)
Questi dubbi e questi atti di accusa non si concretizzano però in una coerente teoria cancrista, ma si stemperano in un atto di fede che sinceramente non condivido:
Pur riconoscendo che questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo. La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.” (pag. 81)
Questa affermazione fa capire come Peccei, nonostante le sue intuizioni sulla nocività del genere umano, sia sempre rimasto sostanzialmente antropocentrico.
La sua preoccupazione non è per la gravità delle condizioni della biosfera, ma per quella del genere umano.
Per un ulteriore approfondimento del pensiero del fondatore del Club di Roma vedere “Aurelio Peccei precursore del Cancrismo?
È come se un medico si preoccupasse dello stato di salute del tumore anziché di quello dell’ammalato.
Credo che questa metafora renda bene l’idea della inversione di prospettiva operata dalla teoria cancrista: non è del genere umano che ci dobbiamo preoccupare ma della biosfera nel suo complesso, anche perché noi comunque della biosfera facciamo parte e se le sue condizioni di salute migliorassero pure noi ne beneficeremmo.
Ma, al punto in cui siamo, questa opzione non è realistica, al contrario tutto sembra indicare che la strada intrapresa vada esattamente in direzione opposta.
Questo è l’oggetto del mio saggio: vedere come la società si sia strutturata per far fronte alle esigenze alimentari ed energetiche di una popolazione mondiale in costante aumento e, soprattutto, come questa organizzazione non consenta inversioni di rotta, pena l’impossibilità di garantire cibo e energia ai miliardi di uomini e donne che abitano il pianeta.
L’agricoltura intensiva, gli allevamenti concentrazionari e l’acquacoltura sono altrettanti capitoli de “L’impero del cancro del pianeta” dove vengono analizzati origini, sviluppo e prospettive dei sistemi più efficaci per produrre cibo. A guardarli da vicino, questi sistemi non possono che suscitare orrore, ma in un altro capitolo del libro spiego come il pensare di sostituirli con la cosiddetta “agroecologia” sia pura utopia.
È una ulteriore riprova che la via imboccata non ha alternative e non può essere percorsa a ritroso. Anche se la crescita della massa tumorale che noi rappresentiamo per la biosfera un giorno dovesse arrestarsi per mancanza di risorse, ciò avverrebbe al limite di ciò che il Pianeta può offrire in termini di terra coltivabile e di animali macellabili, dopo aver distrutto tutte le cellule sane vegetali e animali esistenti.
Ciò significherebbe comunque il collasso della biosfera, la morte dell’ammalato di cancro.
Il discorso è ancora più drammatico se si pensa alla situazione di quello che ho chiamato il “cibo per le macchine”, ovvero l’energia necessaria a far funzionare i miliardi e miliardi di apparati, dispositivi, congegni e altre attrezzature artificiali realizzate dall’uomo nell’illusione di rendere più comoda la sua vita a tempo indeterminato.
Un apposito capitolo del libro è dedicato a tale realtà e alla disperata ricerca di quelle inesauribili fonti di energia pulita che dovrebbero risolvere ogni nostro problema, ma che appaiono ancora ben lontane dal poter sostituire i combustibili fossili.
A tal proposito il Cancrismo ritiene però che, anche se queste fonti di energia pulita e rinnovabile si rendessero disponibili e fossero in grado di soddisfare le esigenze di tutte le macchine del mondo, la salute della biosfera non ne trarrebbe beneficio.
L’uomo - cancro del pianeta ne approfitterebbe infatti per dilatare a dismisura i suoi consumi ai danni di ogni altra residua realtà sana della biosfera, e con questo suo comportamento non farebbe che affrettare i tempi del collasso.
Non si tratta di pessimismo né di visione cupa della vita. È solo oggettivo realismo che trova la sua spiegazione nella metafora che assimila l’essere umano a una cellula tumorale e l’intera umanità alla massa neoplastica che divora lentamente l’organismo dell’ammalato di cancro.
Pochi pensatori, e non tra i più famosi, hanno sin qui avuto il coraggio di esplicitare una teoria così radicale, e io, giunto al termine della mia “trilogia” su “Il cancro del pianeta”, ho avvertito il desiderio di curiosare in rete per vedere chi mi avesse preceduto nel denunciare il comportamento cancerogeno di Homo sapiens.
È nata così la corposa Appendice su “I precursori del cancrismo” posta in calce al volume. Si tratta del primo documento che riunisce personaggi provenienti da esperienze diverse ma uniti nella visione cancrista dell’essere umano.
Di ognuno ho analizzato i punti di contatto e quelli di divergenza rispetto alla teoria sviluppata nei miei tre saggi.
Ma un elemento su tutti accomuna gli autori presi in considerazione: nessuno di essi ha mai sistematizzato le proprie intuizioni in uno o più lavori storico - dottrinali di ampio respiro, tali cioè da configurare la nascita di una teoria o corrente filosofica sulla nocività dell’essere umano per la biosfera.
Con questo mio nuovo libro e con i due precedenti mi auguro di essere riuscito a colmare almeno in parte questa lacuna nella storia del pensiero, in attesa che altri riprendano questo tema per svilupparlo e diffonderlo in modo ancor più autorevole.

giovedì 31 ottobre 2019

Il Vero Responsabile


Guest post di Bruno Sebastiani.  

La gran parte degli ambientalisti accusa la rivoluzione industriale e il capitalismo di essere i responsabili del dissesto che sta conducendo verso il baratro la biosfera di questo pianeta.
Questi due sistemi, uno tecnologico e l’altro economico, sarebbero i “super colpevoli” impersonali che, di generazione in generazione, si tramandano la responsabilità della crescente distruzione planetaria.
Calandoci poi nei singoli periodi storici degli ultimi duecento anni, nel corso dei quali è maggiormente esplosa l’aggressività dell’uomo contro la natura, constatiamo che industrialismo e capitalismo si sono impersonificati in singoli personaggi del mondo produttivo, politico e finanziario, via via accusati di essere i responsabili “fisici” della catastrofe.
Da Napoleone Bonaparte a Edison, dai Rothschild ai Krupp, da Benz a Ford, dagli Agnelli a Berlusconi, solo per citare una serie di nomi estratti a casaccio da un elenco di centinaia, migliaia di personaggi che, per un verso o per un altro, avrebbero contribuito allo stravolgimento dell’equilibrio che regolava la vita di tutti gli esseri viventi.
Ora è la volta di Trump e di Bolsonaro.
Il primo è accusato di essere il numero uno di tutti gli imperialisti che negano i danni del cambiamento climatico e dello sfruttamento eccessivo delle risorse.
Il secondo viene ritenuto colpevole di un danno circoscritto ma di estrema gravità: la dissoluzione dell’ultimo polmone verde del pianeta, la foresta amazzonica.
Ma davvero sono costoro i veri responsabili dei guai che stiamo passando noi e tutte le altre specie di piante ed animali?
Relativamente al sistema produttivo – economico che sta divorando le cellule sane del pianeta sarà appena il caso di accennare a alcuni differenti contesti storico-politici che ci inducono quantomeno a dubitare sulla unilateralità delle colpe.
Il comunismo, ad esempio, cercò in tutti i modi di accelerare l’industrializzazione dell’URSS con i famosi piani quinquennali di staliniana memoria e, relativamente ai Paesi aderenti all’ex Patto di Varsavia, sono ben note le tragiche condizioni ecologiche in cui furono lasciati dopo il dissolvimento dell’Impero sovietico (il disastro di Chernobyl ne fu la testimonianza più eclatante);
Inoltre i maggiori inquinatori attuali del pianeta sono i Paesi asiatici, con la Cina in prima fila. Dei dieci fiumi che riversano negli oceani il maggior quantitativo in assoluto di materie plastiche ben otto sono asiatici (e due africani). Anche riguardo al dramma della deforestazione dell’Amazzonia la Cina ha gravi responsabilità: gran parte della soia colà prodotta è infatti destinata ad ingrassare i maiali che si trasformano in cibo sulle tavole dei cinesi.
Quest’ultima annotazione ci introduce all’approfondimento di ciò che sta accadendo nel cuore del Brasile.
Da semplici ricerche in rete apprendiamo che l’opera di deforestazione dell’Amazzonia è iniziata a partire dagli anni Quaranta del Novecento, con il fine dichiarato di avere più terra a disposizione per l’agricoltura, di guadagnare con la vendita del legname e di sfruttare i giacimenti minerari esistenti.
Anche la costruzione di numerose vie di comunicazione per collegare le grandi città ha contribuito all’opera di disboscamento ed ha incoraggiato la costruzione di nuovi villaggi, peggiorando la situazione.
All'inizio del XXI secolo l’opera di deforestazione ha subìto una consistente riduzione, salvo ripartire negli ultimi mesi mediante l’incendio di vaste aree.
Complessivamente in poco meno di un secolo più di un quinto della foresta è stato distrutto.
Tutto ciò, ovviamente, non assolve Bolsonaro per le sue azioni nefaste, ma sta a significare che il problema era preesistente e continuerà ad esistere dopo la dipartita del signor Bolsonaro, ammesso che la biosfera del pianeta sopravviva a tale data.
Sul tema della deforestazione sarà utile fare anche un’altra riflessione.
L’Europa, il continente in cui viviamo, era completamente ricoperto da foreste fin quando “homo sapiens” introdusse l’agricoltura 10-12 mila anni fa, costruì villaggi, città e vie di comunicazione, nonché fece spazio ad ampi pascoli per gli animali destinati a nutrirlo.
Ho già trattato questo tema nell’articolo “La distruzione della natura nell’antichità”, pubblicato su Effetto Cassandra il 13 luglio 2019.
Il “delitto” di Jair Bolsonaro, dunque, è stato già commesso dai nostri padri migliaia di anni fa e, nel nostro piccolo, anche noi continuiamo a commetterlo ogni volta che abbattiamo un albero perché le sue radici sollevano l’asfalto di una strada o perché intralcia il passaggio delle onde della rete 5G.
Chiedere ai brasiliani di non deforestare o ai cinesi di non mangiar carne è come dire: noi abbiamo sfruttato tutte le nostre risorse, ci siamo abbuffati fino ad ora e continuiamo a farlo, ma voi, per cortesia, non fatelo, sennò il clima cambia e la biosfera, noi compresi, muore.
Noi abbiamo sfruttato le vostre risorse anche a casa vostra, con il colonialismo e l’imperialismo ed oggi vorremmo continuare a farlo con il “land grabbing”, ma voi per cortesia rispettate l’ambiente e mangiate poco, altrimenti andiamo incontro al collasso.
Non avvertite l’ipocrisia di un tale ragionamento?
Ma quindi la colpa di tutti i disastri che ci circondano è di Trump, di Bolsonaro e dei loro simili o non siamo piuttosto noi, tutti noi, specie “homo sapiens”, ad essere i veri responsabili di ciò che accade?
E più in particolare. Lo siamo sempre stati o vi fu un momento nella nostra preistoria in cui deviammo dalla strada maestra per imboccare il vicolo cieco e senza ritorno in cui ci troviamo?
Il secondo capitolo del mio libro Il Cancro del Pianeta è titolato: “Il cervello: l’origine di tutti i mali”. In esso ho cercato di argomentare come il nostro encefalo a un certo punto della preistoria abbia iniziato gradualmente ad accrescersi, fino a consentirci di contravvenire alle leggi di natura (alias, a deviare dalla strada maestra).
È lui il vero responsabile, e con esso tutti noi che lo ospitiamo.
Prendersela con Trump e Bolsonaro o contro il capitalismo e l’industrialismo significa individuare falsi bersagli per cercare di sfuggire alle nostre responsabilità di specie.
Io combatto questi cattivi capi di stato, quindi sto dalla parte dei buoni. Purtroppo non è così!
Solo una teoria che dimostri all’essere umano la sua vera natura di cellula maligna di Gaia può renderci consapevoli della nocività di “homo sapiens” in quanto “homo sapiens”.
A tale teoria ho dato il nome di cancrismo. Spero che possa contribuire a risvegliare le coscienze e quantomeno a rallentare la nostra folle corsa verso il baratro.

sabato 12 ottobre 2019

Il Prezzo per la Vita è la Morte. Come Mantenere i Servizi Ecosistemici.


Al netto di qualche ricercatore e di pochi professionisti, nessuno in fondo sa cosa siano i servizi ecosistemici e nemmeno gli interessa saperlo.   Eppure un sacco di gente (funzionari, professionisti, politici, sacerdoti ecc.) se ne occupano senza nemmeno saperlo, di solito per demolirli.     
Perfino per chi li studia è difficile parlarne.  Perché?

Una risposta parte, credo, dalla struttura del nostro sistema nervoso.   

Mi risulta che il nostro cervello riesca a processare circa 500 bit al secondo, mentre gli organi di senso ne inviano parecchie migliaia, che già sono una minima parte dell’informazione presente intorno a noi.   Per evitare un blocco per “overflow”, ci sono dunque dei filtri che selezionano le informazioni più urgenti prima che sia raggiunto il livello cosciente.   Una funzione questa presente in tutti gli animali e che evolve coi tempi della biologia, dunque centinaia di migliaia di anni.
Da sempre le informazioni più urgenti sono quelle che riguardano oggetti in movimento.  Per i nostri avi qualcosa che si muove era qualcosa che potevi mangiare, o qualcosa che ti poteva mangiare.   Per noi è magari un’auto che ci viene addosso, ma resta il fatto che prestare attenzione a ciò che si muove è generalmente interessante, spesso salubre.   Di qui la nostra attenzione agli animali assai più che alle piante ed alle piante più che alle pietre.  Di qui il successo degli youtuber, assai più che degli scrittori.   Il successo dei videogiochi, ecc.   

Siamo perfettamente adattati a individuare opportunità a minacce impellenti, quando si muovono, mentre siamo quasi del tutto disarmati quando le opportunità e le minacce vengono da qualcosa di scarsamente visibile, poco rumoroso e/o  molto lento.
Il problema sorge dal fatto che non sempre l’urgenza coincide con l’importanza e qui arriviamo ai servizi ecosistemici.   Non ci facciamo mai caso, addirittura ci viene difficile osservarli anche quando vogliamo, perché sono qualcosa che il nostro cervello automaticamente elimina dal flusso di bit come “rumore di fondo”.  Con ragione, perché sono li da sempre e, su scala globale, finora pressoché immutati.   Il guaio è però che non saranno lì per sempre e che non sono immutabili.  Non a caso, cominciamo ad accorgerci di essi adesso che hanno cominciato a venire meno.

Per fare un’analogia, le persone che vivono vicino ad una cascata o ad un’autostrada non odono il rumore dell’acqua o del traffico, ma si allertano immediatamente se per qualche ragione quel suono così abituale cambia o vien meno.  

I servizi ecosistemici sono così: ti accorgi di loro solo quando non ci sono più.  Ci succede un poco come a quelli che si accorgono della moglie solo quando se lei ne è andata; solo ma senza moglie si può vivere, senza servizi ecosistemici no.  E difatti, se andiamo a studiare le civiltà scomparse, troviamo che sempre, sottostante la crisi che le ha travolte, c’è stato un consistente venir meno dei servizi ecosistemici.

Dunque cosa sono?

Tutto ciò che ci mantiene in vita.  Per esempio energia, acqua, aria, cibo, clima non sono prodotti del nostro ingegno e del nostro lavoro, bensì del funzionamento degli ecosistemi di cui siamo parte.  Ingegno e lavoro contano, ovviamente, ma nella misura in cui riescono ad estrarre qualcosa di utile dal funzionamento della biosfera.  Vale a dire che i servizi ecosistemici sono il risultato complessivo di una miriade di costanti interazioni fra organismi viventi, rocce, acqua, aria ed astri celesti che conosciamo solo in modo molto parziale. 
Vediamone meglio alcuni:

Energia.  Quasi 8 miliardi di noi vivono su questo pianeta dissipando l’energia messaci a disposizione dagli ecosistemi.   Per le fonti fossili (petrolio, gas e carbone) si tratta del prodotto della fotosintesi in ere geologiche passate; biomassa e cibo sono invece prodotti della fotosintesi attuale.  La luce del Sole viene filtrata da un’atmosfera che è il risultato di miliardi di anni di fotosintesi e,  senza questi filtri, ben poco di vivente ci sarebbe sulle terre emerse.   Annualmente consumiamo l’energia fossile accumulatasi in molte centinaia di migliaia di anni di fotosintesi  del passato oltre a circa il 50% della biomassa prodotta dalla fotosintesi attuale.  A far data dall’ “Overshoot day” consumiamo anche quota parte del capitale di biosfera che ci fornisce quell'energia, riducendone quindi la produzione.  Un po’ come qualcuno che ogni anno spenda più di quel che guadagna, attingendo ad un capitale ereditato degli avi.

Acqua.  A scuola ci insegnano che l’acqua è una risorsa rinnovabile perché ricircola costantemente fra il mare e la terraferma.   Vero, ma allora come mai in quasi tutto il mondo la portata di fiumi e sorgenti diminuisce; le falde acquifere sono più o meno depresse ovunque?   Semplice: perché ne pompiamo in mare più di quanta non riesca a tornare indietro e, contemporaneamente, smantelliamo pezzo per pazzo il sistema che porta la pioggia nell'entroterra.   Il ciclo dell’acqua infatti funziona a condizione che vi siano degli ecosistemi funzionanti, in particolare foreste, laghi e paludi, altrimenti le precipitazioni diventano scarse ed irregolari.  

Il meccanismo è complesso e ancora non del tutto compreso, ma in sintesi, l’acqua che evapora dal mare ripiove in mare, salvo una percentuale che piove sulle zone costiere.  Se qui viene intercettata e trattenuta dalla vegetazione e dalle paludi, rievapora e piove più verso l’interno e così via.  Altrimenti se ne torna presto in mare e amen.

I fiumi rappresentano il “troppo pieno” di questo sistema, le falde acquifere sono invece le riserve che possono tamponare le fluttuazioni temporanee, a condizione di non venire prosciugate e/o inquinate. La tecnologia e l’energia fossile ci permettono di andare a pompare riserve sempre più profonde, dimenticate dal tempo, ma meglio ci riesce di fare questo, più alteriamo irreparabilmente il ciclo, spostando acqua dalla terraferma al mare, senza che possa poi tornare.

Certo, questo è solo uno schema e si applica in modo molto di verso a seconda delle regioni e delle stagioni, ma resta sempre valido il fatto che quando la portata dei fiumi diminuisce, significa che abbiamo già superato la soglia di pericolo.  L’unica cosa intelligente da fare sarebbe ridurre i consumi ed aumentare foreste e paludi.  La cosa più stupida è pompare di più e più in profondità, anche se può essere molto redditizio.

Aria.  La composizione dell’atmosfera ha alcune implicazioni su cui raramente si riflette. Rende possibile alle piante di fotosintetizzare ed a praticamente tutto ciò che vive di respirare, ma non solo.  Come abbiamo accennato, filtra i raggi cosmici, impedendo che le cellule vangano uccise ed assicura al Pianeta una temperatura media compatibile con la presenza di acqua allo stato liquido e di vita biologica.  Una composizione dell’atmosfera relativamente costante è un servizio eco-sistemico. 

Qualcuno comincia a rendersi conto che averla alterata anche di poco sta scatenando una specie di anteprima d’inferno in molte regioni.   Questa alterazione deriva solo in parte dalla combustione di biomassa fossile; per una parte consistente deriva da disboscamento e incendi, degrado dei suoli ecc.  
Su quali siano le rispettive percentuali non c’è accordo fra i ricercatori, ma che siano entrambe determinanti è assodato.   Quello su cui non si riflette abbastanza è che tutto ciò ha già scatenato una serie di retroazioni auto-rinforzanti di ulteriore riscaldamento e che solo ed esclusivamente il ripristino dei servizi ecosistemici potrebbe, forse, fermare prima che la maggior parte del pianeta diventi un deserto.  Quindi, abbiamo bisogno soprattutto di foreste e paludi.

Cibo.  In effetti, oggi la base alimentare dell’umanità è costituita da petrolio e gas naturale, ma per rendere digeribile questa roba abbiamo bisogno di trasformarla in tessuti vegetali o animali sfruttando dei servizi ecosistemici.   E troppo petrolio e gas stanno demolendo pezzo per pezzo gli ecosistemi che ci forniscono questo servizio.  Per non parlare dell’effetto definitivo rappresentato da quella coltre di cemento ed asfalto che siamo soliti chiamare “città”.

Clima.   Già molto tempo fa, gli storici si sono accorti che le società complesse, capaci di produrre quelle che chiamiamo “grandi civiltà”, sono sempre state vincolate ad aree caratterizzate da clima mite.   Il motivo è semplice e non c’entra con l’intelligenza umana, semmai con la stupidità.  Un clima temperato è infatti un presupposto per suoli non solo fertili, ma anche dotati di una forte resilienza allo sfruttamento agricolo, a sua volta presupposto per il sostentamento di elevate concentrazioni di persone e, quindi, per lo sviluppo di società complesse, in grado di produrre i capolavori di arte e di scienza che tanto ci affascinano.   Non a caso, man mano che i suoli sono stati erosi ed il clima è diventato più ostile, le “società avanzate” sono fiorite altrove, tendenzialmente più verso nord, laddove il clima era ancora compatibile con elevate densità di popolazione.

Proprio ora, per la prima volta nella storia, climi e suoli stanno diventando inadatti a sostentare una società numerosa e tecnologicamente avanzata in praticamente tutto il mondo contemporaneamente. Si, perché la tecnologia, tanto più è avanzata, quanto più ha bisogno di una base sociale numerosa, il che significa dare da mangiare e da bere alle tante formichine che concorrono a far funzionare una grande città.   Mangiare e bere che sono servizi ecosistemici che la città sistematicamente distrugge.

Sostituire i servizi ecosistemici

Si possono costruire depuratori per riciclare l’acqua, si possono sintetizzare fertilizzanti per produrre cibo su terreni esausti; plastiche e metalli possono sostituire il legno, anzi fare di meglio assai.  Si sono costruite macchine che possono produrre elettricità senza emissioni climalteranti e perfino macchine che pompano CO2 dall’atmosfera nelle viscere della Terra.  Certo, ma tutto ciò ha dei costi.   

Costi in primo luogo energetici, perché mentre la fotosintesi trasforma CO2 in biomassa usando la luce del sole, le nostre macchine sono alimentate comunque da combustibili fossili ed è quanto meno improbabile che si possa fare altrimenti.   Oggi, le fonti rinnovabili coprono infatti meno del 10% del consumo globale (5% idroelettrico, 3% eolico, 2% solare) ed esistono solo grazie ad un’industria potentissima che usa grandi quantità di materiali.   Incrementarne l’uso per sopperire ai consumi attuali comporterebbe l’estrazione ed il consumo di milioni di tonnellate di cemento, acciaio, rame eccetera, compresi parecchi minerali rari provenienti da immense miniere poste ai quattro angoli del mondo.   L’unico modo di ridurre sensibilmente le emissioni climalteranti sarebbe tagliare drasticamente i consumi finali, cioè liquidare buona parte dell’industria e tutte le grandi città, per poi fare i conti con la mostruosa sovrappopolazione che ottenebra il Pianeta e che continuiamo ad ignorare.
Costi finanziari.  Se a qualcuno sembra di dover correre sempre di più per ottenere sempre di meno non è pazzo.  Anzi è uno dei pochi che si è accorto di un fenomeno ben reale: in gergo si chiama “Sindrome della Regina Rossa”.  Ci sono diversi fattori concomitanti e sinergici alla base di questo fenomeno, ma i principali sono due:
Il primo è il degrado qualitativo delle risorse energetiche e minerarie che ci costringe a scavare, pompare, trasportare sempre di più per ottenere ciò che ci serve.  Detto in altri termini, lo sforzo di produzione cresce più rapidamente del prodotto.

Il secondo è il venire meno dei servizi ecosistemici, che ci costringe a ricorrere a succedanei tecnologici.  Macchine ed impianti però costano ed i soldi vengono prodotti dalle banche mediante l’accensione di debiti e che devono poi essere restituiti con l’interesse, altrimenti il sistema grippa ed il denaro scompare.   Per pagare gli interessi è necessario che l’economia cresca, solo che il degrado delle risorse ed il venir meno dei servizi ecosistemici si mangiano parte crescente della produttività, lasciando sempre meno per la crescita.

I servizi ecosistemici, invece, sono gratis.  Ma lo sono davvero?  Come disse giustamente Milton Friedman:  In Natura non esistono pasti gratis”.  E quale è allora il prezzo da pagare?  

Il prezzo è accettare di rimanere degli elementi marginali della Biosfera.   

Oggi però noi, i nostri simbionti e le nostre escrescenze di acciaio, vetro, catrame e cemento, copriamo circa il 50% circa delle terre emerse; il 100% se consideriamo che oramai qualunque angolo della Terra è sfruttato per qualcosa e/o inquinato da qualcosa: dalla troposfera agli abissi oceanici.

Teoricamente sarebbe possibile un “rientro”, ma oramai non “dolce”.   Bisognerebbe infatti che i ricchi accettassero di diventare poveri ed i poveri di restare tali, bisognerebbe anche che tutti accettassimo di fare al massimo due figli e di morire alla prima malattia seria che ci prende.  

Alla fine, il prezzo per la vita è la morte. Non possiamo non pagarlo, ma possiamo scegliere se andarcene tranquillamente, alla spicciolata, oppure se ardere l'intera Biosfera e noi stessi sulla pira.


sabato 30 giugno 2018

Ogni resistenza è futile: siamo invasi e stanno vincendo loro!



Siamo invasi dalla plastica. E gli invasori stanno vincendo!

Vediamo qualche dato. In tutto il mondo abbiamo prodotto fino ad oggi circa 9 miliardi di tonnellate di plastica. Forse il 10% è stato incenerito legalmente o bruciato illegalmente. Rimane circa una tonnellata di plastica a persona, in tutto il mondo, sparpagliata in giro. Ogni anno se ne producono oltre 300 milioni di tonnellate di nuova.

E ora qualche dato per l'Italia. Consumiamo oggi circa 6 milioni di tonnellate di plastica all anno (fonte: polimerica). Il conto è presto fatto: sono 100 kg a testa da smaltire ogni anno. Di questi qualcosa viene incenerito, qualcosa riciclato, e qualcosa va in discarica. Ma sono comunque svariate decine di kg di plastica per persona che finiscono sparpagliati in giro ogni anno.

Come si risolve il problema? Beh, il ministro Costa propone un bell'esercizio di resistenza futile, invitando gli Italiani a raccogliere qualche pezzo di plastica ciascuno quest'anno. Si, mettiamo che ognuno di noi, vecchi, bambini, disabili, arbitri di calcio e politicanti inclusi, raccolga 100 grammi di plastica ciascuno (2-3 bottiglie di plastica) e la metta nel contenitore giusto. Bene, e gli altri 99,9 kg che verranno prodotti e venduti quest'anno? E la tonnellata prodotta in precedenza?

Forse un po' meglio - ma altrettanto futile - l'iniziativa di Greenpace che invita a segnalare con una telefonata la presenza di plastica. E mandare anche la foto!  

 

Si tratterebbe, secondo Greenpeace, di fare un "brand audit" che dovrebbe permettere di localizzare i peggiori inquinatori e cominciare a convincerli a fare di meglio. Si, ma è una logica discutibile, come minimo. Come potrebbe essere che un certo produttore di oggetti in plastiche faccia di peggio o di meglio di altri? Siamo strapieni di plastica: guardate gli scaffali di qualsiasi supermercato dalle vostre parti: vi sembra che ci sia qualcuno che fa più danni di altri? 

Non so voi, ma a me queste cose fanno venire in mente la frase dei Borg di Star Trek: "Ogni resistenza è futile." La plastica sta vincendo: ci ha invasi, circondati, ce la stiamo mangiando, la stiamo respirando, non sappiamo più dove scappare. E non sappiamo nemmeno cosa fare, eccetto sentirsi virtuosi invitando il nostro prossimo a raccogliere qualche pezzetto di plastica qua e la (è quello che ho chiamato "la maledizione del colibrì"). Vi vengono in mente cose come mangiare la zuppa con la forchetta? Ecco, tipo quelle.

Però, se per caso qualcuno al governo o fra i cosiddetti "opinion leader" avesse in mente di fare qualcosa di serio per fermare l'invasione, bisognerebbe:

a) Sbrigarsi a tirar fuori dei provvedimenti legislativi per ridurre drasticamente la produzione di plastica di origine fossile. E, quanto prima, eliminarla del tutto.

b) Smetterla di prendere in giro la gente dicendogli di mettersi a fare gli spazzini o i vigili della plastica.




venerdì 23 gennaio 2015

.....oppure torniamo tutti a guardare il TG1?





"Effetto Risorse" sta avendo un notevole successo; con una crescita nel numero dei contatti a dir poco impressionante. Siamo oggi consistentemente a oltre 50.000 contatti al mese - e cresciamo ancora. Nelle varie classifiche dei blog, per quanto possano valere, siamo costantemente entro i primi 10-20 fra i blog scientifici italiani. Da notare anche che "Effetto Risorse" fa quasi il doppio dei contatti della sua versione in inglese (resource crisis), nonostante che il potenziale di un blog in inglese sia enormemente superiore.

Sono risultati quasi incredibili per un blog che non ha nessuna promozione professionale, nessun SEO, niente del genere. La cosa più importante, direi e che con il blog stiamo coprendo dei soggetti che quasi nessun altro blog copre; quindi credo che a parte i numeri, la qualità di quelli che ci seguono sia il vero valore dello sforzo che stiamo facendo.

D'altra parte, va anche detto che rimaniamo qualcosa di estemamente marginale nel panorama dell'informazione in Italia. Quindi, ci dovremmo domandare che cosa vogliamo fare di questi numeri e di questi risultati.

Dobbiamo espanderci in un progetto editoriale più articolato e più professionale? E se si, come? (e, soprattutto, con quali risorse finanziarie?)

Oppure, torniamo tutti a guardare il TG1?

Che ne pensate?