mercoledì 28 novembre 2018

Soluzione Finale. Voci dall'Antropocene.
Un documentario di Natan Feltrin & Pellegrino Dormiente







Cosa significa vivere nell'Antropocene? 
Non credo che nemmeno raccogliendo tutte le testimonianze dei più esperti scienziati potremmo mai davvero averne un'idea. Questo poiché, seppure tutti coinvolti in una tempesta perfetta, ognuno di noi avrà la sua personale esperienza del cambiamento globale. In questo documentario, attraverso numerose interviste, abbiamo provato a mostrare che di fronte all'avanzare di una crisi ecologica, politica ed economica senza precedenti non si hanno soluzioni univoche, semplici, lineari...

Benvenuti nell'Antropocene! 
Sarebbe stupendo avere una formula magica per cambiare le leggi della termodinamica, regolare il clima globale, sfamare un infinito numero di persone e potersi scordare il concetto di "picco". Sfortunatamente, la realtà trascende sempre le logiche troppo umane e, in particolar modo se non si ha l'arguzia e la lungimiranza di guardare oltre a comodi modelli socio-economici, tende a presentare il conto in maniera molto poco gradevole. Questo docu-film, dal titolo volutamente provocatorio, vuole dirci in maniera chiara che la "SOLUZIONE" non esiste.




(Riprese presso il lago di Antrona)

Il cambiamento è in atto e sfuggirvi è impossibile, ma vi è ancora uno spazio di manovra per adattarvisi in modo non eccessivamente traumatico. Quello che potete trovarvi all'interno è un coro di voci che possono essere di ispirazione all'adattamento. Sia ben chiaro, nessuna di esse è portatrice di Verità (in senso assoluto ovviamente). Tuttavia, ognuna di esse contiene una porzione di realismo in un periodo storico in cui il catastrofismo puro e l'ottimismo ignorante occultano ogni ragionamento onesto. Molte sono le riflessioni che potrei trarre dall'esperienza di questo anno e mezzo di stesura, riprese e montaggio di "Soluzione Finale", ma preferisco lasciare ad ognuno di voi una libera interpretazione del lungometraggio. 

Ci tengo solo a riportare un aneddoto legato alle riprese del documentario. Quando mi trovavo a Firenze per seguire la FIRST CLUB OF ROME SUMMER ACADEMY 2017, tra innumerevoli interventi che dipingevano scenari poco rassicuranti, mi presi un giorno di pausa e, con il camper in cui soggiornavo per ammortizzare i costi, mi diressi a Livorno per gustarmi una meritata cinque e cinque (per chi non sapesse di cosa parlo si tratta di una versione livornese della farinata). Decisi poi di trascorre lì la notte onde rientrare a Firenze il giorno seguente, ma non fu esattamente una serata all'insegna del riposo. Quel giorno, come poi riportarono tristemente i giornali, vi fu un'alluvione che provocò la morte di diverse persone ed io ebbi il mio assaggio concreto di Antropocene. Dopo una veglia terrificante, in cui il caravan sembrava accartocciarsi sotto i colpi dei tuoni e del vento e con solo una bottiglia di cannonau a tenermi compagnia, il mattino seguente vidi la realtà plasmata. Una sola notte di cattivo tempo è costata vite ed ingenti danni... 








(Livorno il mattino del 10 settembre 2017)



Quando non lo viviamo sulla nostra pelle è difficile capirlo. Così come oggi ci riesce impossibile capire cosa significa vivere una crisi alimentare in Yemen o un esodo di massa come in Sud America. Nel futuro, forse, queste realtà busseranno alla nostra porta e no, non ci sarà più tempo per una salvifica SOLUZIONE FINALE.



(La pace possibile... Dal Sacro Monte di Varese)


Ps: è nostra intenzione realizzare un secondo documentario sul tema sovrappopolazione. La diffusione e la recensione, anche critica, di questo lavoro sarebbero di grandissimo aiuto. Per quanto riguarda la qualità generale si tratta di un documentario zero-budget per il quale siamo andati in rosso. Abbiate perciò pazienza per i nostri limiti tecnici.

Link del documentario: https://www.youtube.com/watch?time_continue=813&v=KbWoVaweD8A







domenica 25 novembre 2018

Il picco del gasolio, edizione 2018





di Antonio Turiel (dal blog "The Oil Crash") - traduzione di Ugo Bardi

Cari Lettori

Sei anni fa abbiamo commentato in questo stesso blog che, tra tutti i carburanti derivati ​​dal petrolio, il gasolio era quello che probabilmente avrebbe visto prima il suo calo della produzione. Il motivo per cui la produzione di gasolio sarebbe probabilmente diminuita prima di, per esempio, la benzina, ha a che fare con la caduta della produzione di petrolio convenzionale iniziata dal 2005 e il peso crescente dei cosiddetti "oli non convenzionali." Sostituti che non sono sempre adatti alla produzione di diesel. 

Con i dati del 2012 ho scritto "Il Picco del Diesel". A quel tempo c'era una certa stasi della produzione di diesel, ma sembrava troppo presto per dire se era definitiva o se potesse ancora essere superata. Ho esaminato il problema nel 2015, nel post "Il picco del diesel, edizione del 2015." I nuovi dati disponibili hanno mostrato che nel 2012 il picco non era arrivato in realtà, anche se la produzione di gasolio era cresciuta meno fortemente dal momento che se abbiamo confrontato con il ritmo storico, e anche gli ultimi 18 mesi del periodo in esame, aveva mostrato una certa stagnazione. Ora sono passati altri tre anni, ed è un buon momento per guardare i dati e vedere cosa è successo.

Prima di iniziare, devo ringraziare Rafael Fernández Díez per aver avuto la pazienza di scaricare i dati da JODI, dopo aver disegnato i grafici, qui mostrati con qualche ritocco, e dopo aver notato il problema  con diesel raffinati (come vedremo più sotto). Non ha avuto il tempo di finire il suo post ed è per questo che sono stato io a scriverlo, ma quello che segue è in realtà il suo lavoro.

Come nei due post precedenti, utilizzeremo il database della Joint Oil Data Initiative (JODI). Questo database fornisce informazioni sulla maggior parte dei produttori mondiali di petrolio e prodotti raffinati, ma non tutti. I paesi non inclusi sono paesi con gravi problemi interni e una grande mancanza di trasparenza a causa delle guerre o perché sono dittature molto chiuse. Per questo motivo, le cifre che mostrerò sono inferiori di circa il 10% rispetto a quelle che dovrebbero essere se fossero misurate globalmente. Tuttavia, date le caratteristiche dei paesi che non vengono conteggiati, è molto probabile che i loro dati non abbiano modificato le tendenze osservate, ma piuttosto l'ammontare totale degli importi indicati.

Tutti i grafici che mostrerò sono destagionalizzati, ovvero sono la media dei 12 mesi precedenti. In questo modo si evitano gli effetti della variazione dovuti alla stagione, la grafica è meno rumorosa e le tendenze si vedono meglio. I grafici saranno sempre espressi in milioni di barili al giorno (Mb / g).

Prima di tutto, vi mostro il grafico dell'evoluzione della produzione del gasolio negli ultimi anni:



 
812/5000
ComCome si vede nel grafico, l'anno 2015 ha segnato il massimo produttivo fino ad oggi. Non c'è stato un calo così marcato della produzione di gasolio come dopo la crisi del 2008-2009, ma nel caso della caduta del 2015 scopriamo che 1) non c'è stata una grave recessione economica globale; 2) la discesa dura più a lungo e 3) i livelli di produzione del gasolio non mostrano alcun segno di recupero, anche se è ancora un po' presto per essere sicuri che il picco si sia verificato. Ma il ristagno - anche la caduta - sta cominciando a durare a lungo.

Guardando i dati di JODI si osservano altre due cose molto interessanti. Da un lato, se si analizza la produzione di tutto l'olio combustibile che non è gaslio, si scopre che la sua produzione è in declino da anni.



Come mostra il grafico, dal 2007 (e quindi prima dell'inizio ufficiale della crisi economica) la produzione di altri oli combustibili è in declino e sembra una tendenza perfettamente consolidata. L'interpretazione abituale degli economisti è quella di considerare che semplicemente non c'è una domanda per questi combustibili (sebbene siano della stessa famiglia del gasolio). Quando il petrolio viene raffinato, viene sottoposto a un processo chiamato cracking, in cui le lunghe catene molecolari presenti nel petrolio si rompono (attraverso il calore e altri processi) e quindi le molecole vengono separate dalle loro differenti proprietà di fluidità e densità. 

Il fatto è che se sono state apportate modifiche nelle raffinerie per il cracking del petrolio per ottenere prodotti più leggeri (e quindi meno oli combustibili pesanti), queste molecole prima di andare agli oli combustibili pesanti dovrebbero andare ora ad altri prodotti. Logicamente, tenendo conto del valore aggiunto dei combustibili con molecole più lunghe, è normale che questi oli pesanti vengano usati soprattutto per generare gasolio e possibilmente più cherosene per gli aeroplani e infine più benzina. Non dobbiamo dimenticare che dal 2010 il fracking negli Stati Uniti è decollato con forza e ha inondato il mercato di olio leggero, che non vale la pena di raffinare a gasoliol. È quindi molto probabile che le raffinerie si siano adattate per convertire una quantità crescente di olio combustibile pesante in olio combustibile leggero (gasolio). Rafforza questa idea il fatto che, se sommiamo i volumi dei due grafici precedenti, abbiamo una certa compensazione del piccolo aumento della produzione di gasolio con la diminuzione del resto degli oli combustibili.


Quello che ci mostra questa figura è che, dopo il crollo del 2008-2009, è stato molto difficile aumentare la produzione totale di oli combustibili, che avevano raggiunto il picco nel 2014, rimanendo stabili per quasi un anno. Al momento siamo in una fase di caduta abbastanza clamorosa (circa 2,5 Mb / d in meno dai livelli del 2014).

Quest'ultima osservazione è abbastanza pertinente, perché se si può intuire che se c'è meno olio combustibile pesante da trattare per garantire che la produzione di gasolio non si abbassi, la rapida caduta di olio combustibile pesante trascinerà rapidamente anche il gasolio verso il basso. Infatti, il grafico mostra che, dopo la caduta nel 2015 e nel 2016, nel 2017 è stato possibile stabilizzare la produzione di tutti gli oli combustibili, ma si è visto anche che negli ultimi mesi la loro caduta è piuttosto rapida. Sicuramente, nella scarsità di gasolio si comincia a notare la mancanza dei 2,5 Mb / g di petrolio convenzionale (più versatile per la raffinazione e quindi più adatto alla produzione di olio combustibile), come aveva detto l'Agenzia Internazionale per l'Energia  nella sua ultima relazione annuale. Questo spiega l'urgenza di sbarazzarsi del gasolio che ha recentemente scosso le cancellerie d'Europa: si nascondono dietro reali problemi ambientali (che il motore diesel ha sempre causato, ma finora gli importava un piffero) per cercare di adattarsi rapidamente a una situazione di scarsità. Carenza che può essere brutale per non aver preso provvedimenti per una situazione che si sapeva doveva arrivare.

I seguaci di quella religione che si chiama liberalismo economico insisteranno a pieni polmoni che ciò che si vede qui è un picco della domanda, quella vecchia fallacia che non regge con i dati (chi pensa che qualcuno stia smettendo di consumare olio perché lo vuole, crede che ci siano alternative migliori?). Sosterranno che c'è una minore domanda di gasolio ed è per questo che la produzione ristagna e che la produzione di oli combustibili diminuisce perché, poiché sono più inquinanti, le nuove normative ambientali non ne consentono l'uso. È un po 'il vecchio problema di chi è venuto prima, l'uovo o la gallina. Per quanto riguarda il fatto che la domanda di gasolio non aumenta, il suo prezzo ha un'influenza considerevole: è così che le carenze sono regolate in un'economia di mercato. E per quanto riguarda le ragioni ambientali, la produzione di gasolio pesante scende dal 2007, quando non c'era un interesse a regolamentarlo, come sembra esserlci ora. 

C'è un aspetto del nuovo regolamento che ritengo sia interessante evidenziare qui: dal 2020 in poi, tutte le navi dovranno usare carburante con un contenuto di zolfo più basso di quello consentito oggi. Dato che di solito le grandi navi da trasporto hanno utilizzato oli combustibili molto pesanti, questo requisito, dicono, fa temere che si verifichi una carenza di gasolio. In effetti, da quello che abbiamo discusso in questo post, quello che sembra accadere è che gli oli combustibili pesanti stanno decadendo molto velocemente e le navi non avranno altra scelta che passare al gasolio. Che ciò causerà problemi di carenza di gasolio è più che evidente. È un problema imminente, ancor più dei picchi dei prezzi del petrolio che, secondo quanto annunciato dall'IEA, saranno prodotti entro il 2025.

La seconda delle cose interessanti che i dati JODI ci mostrano è come si è evoluto il volume prodotto da tutti i prodotti petroliferi.




Il volume prodotto ha potuto continuare ad aumentare durante questi anni grazie al sussidio energetico che stanno facendo gli Stati Uniti. al mondo attraverso il fracking. Tuttavia, l'il petrolio di fracking serve solo a produrre benzina ed è per questo che non allevia il problema del gasolio. Ma è anche che la fine del grafico su queste linee finisce con lo scendere allo stesso modo della produzione di gasolio, con un calo di oltre 2 Mb / d. Cosa significa? Il contributo del fracking all'intero volume tocca il tetto, non si alza più. È un'ulteriore indicazione che stiamo già raggiungendo il picco del petrolio di tutti i liquidi combustibili.

Ecco perché, caro lettore, quando ti annunciano che le tasse sulla tua auto diesel saranno aumentate in modo brutale, ora capirai perché. Perché è preferibile regolare questi squilibri con un meccanismo che apparentemente sembra di mercato (sebbene questo sia in realtà meno libero e più regolato) che dire la verità. Il fatto è che d'ora in poi quello che ci si può aspettare è una vera persecuzione contro l'auto con un motore a combustione interna (la benzina arrivera alcuni anni dopo il diesel). Non dire che non sei stato avvisato (e non sono stato nemmeno io il primo a farlo in questo blog). E se non sembra giusto, forse quello che dovresti fare è chiedere ai tuoi rappresentanti di spiegare la verità.

Saluti


AMT

sabato 17 novembre 2018

Disparità della ricchezza fra realtà e fantasia – Agonia del capitalismo 3 –

di Jacopo Simonetta

Terzo articolo di una serie di 10.  Per i precedenti si veda qui: primo; secondo.
Questo articolo è già apparso su Apocalottimismo in data 12/19/2018.

Il livello di disparità della ricchezza è uno degli argomenti oggi più sentiti e dibattuti, ma viene di solito trattato in modo molto approssimativo.  Rimandando al testo di Piketty per una trattazione approfondita dell’argomento, qui riassumeremo molto per sommi capi i punti fondamentali.

Reddito da capitale e reddito da lavoro.

Sembra una distinzione netta, ma non lo è.   Vi sono infatti casi evidenti: lo stipendio mensile è un reddito da lavoro, mentre l’affitto percepito da un inquilino è un reddito da capitale.  Ma in effetti la distinzione è chiara solo ai due estremi della classe sociale: i nullatenenti il cui reddito è quindi interamente da lavoro, ed i multimilionari, che generalmente pagano dei professionisti per gestire i loro patrimoni.   Nel mezzo le cose si complicano parecchio.

Per esempio, gli imprenditori che dirigono le proprie aziende hanno tipicamente un reddito misto: in parte derivante dal loro lavoro dirigenziale ed in parte dal fatto che posseggono impianti, brevetti, ecc.   Un caso che è in realtà molto diffuso, specialmente fra professionisti, artigiani e consulenti che sono pagati a fattura per delle prestazioni, ma che per svolgere il proprio lavoro investono cifre consistenti in apparecchiature ed attrezzi, programmi, studi, automezzi, immobili, ecc.   I contadini, a fronte di redditi netti spesso molto ridotti, investono capitali consistenti in terreni, bestiame, macchine ed altro.  Ma anche il tizio che ha semplicemente ereditato un piccolo appartamento dalla nonna e che lo affitta su B&B ha un reddito misto in cui è impossibile distinguere la parte ascrivibile al valore dell’immobile e quella ascrivibile al suo lavoro di gestione e manutenzione. 

Perfino l’operaio o l’impiegato che hanno comprato casa propria godono di una rendita indiretta dalla proprietà, a meno che non stiano ancora pagando il mutuo.

Dunque, tenendo ben presenti queste difficoltà, si può procedere ad una molto sommaria ripartizione fra reddito da capitale e reddito da lavoro.  Sempre prendendo ad esempio la Francia e tenendo conto che gli altri paesi europei hanno vissuto evoluzioni analoghe, relativamente poco influenzate dagli eventi politici che, invece, sono stati molto diversi da un paese all’altro.
agonia del capitale

Dunque, in Europa, il periodo di massimo potere economico del capitale fu sostanzialmente alla metà del XIX secolo (fig. Piketty), guarda caso quando l’internazionale socialista prima si formava e poi si sfasciava.   Durante i “30 terribili” (1914-1945) il reddito da capitale precipitò ai minimi storici, per poi recuperare molte delle posizioni perdute, ma assolutamente non tutte.  Oggi fornisce circa il 25% del reddito nazionale francese (in altri paesi la cifra è analoga), cioè poco più della metà di quello che rendeva nelle economie “belle epoque”.

Un punto questo su cui ritorneremo perché è molto importante:  Il rapporto al PIL, la quantità di capitale oggi è quasi altrettanto alta che alla fine del XIX secolo, ma la quota di reddito che fornisce è molto inferiore.  Forse qualcuno troverà la cosa sorprendente.

La ripartizione del capitale.

Ma come è ripartito fra le diverse classi sociali il capitale?  Confrontando la media dei paesi europei e gli Stati Uniti si notano alcuni dettagli interessanti.

In Europa la concentrazione del capitale era già molto alta nel 1810 (80% del capitale detenuto dal 10% della popolazione) ed è salito fino al 90% nel 1910, picco storico della concentrazione.  Il 50% era concentrato nelle mani di solo l’1% dei nostri concittadini.   Negli USA la situazione era meno esasperata, ma la tendenza esattamente la medesima.
In Europa, le due guerre mondiali e le altre crisi correlate provocarono non solo la massiccia distruzione di capitale che abbiamo già visto, ma anche una drastica riduzione dei livelli di ineguaglianza che, si badi bene, è proseguita fino a tutti gli anni ’60; cioè per tutto il periodo della ricostruzione e del seguente “miracolo economico”.   E’ interessante notare anche che “’a livella” colpì in proporzione più gli altissimi capitali: la quota di proprietà del 10% più ricco diminuì infatti del 30%, mentre la quota di proprietà dell’1% più ricco diminuì di circa il doppio.   A far data dagli anni ’80 la tendenza si è invertita, ma di poco in rapporto ai dati storici.

Negli USA la tendenza è stata molto simile, ma meno esacerbata, visto che le guerre si sono combattute in casa nostra.   Per questo a partire dagli anni ’60 il grado di concentrazione del capitale è stato maggiore oltre Atlantico, ma anche in questo caso permane a livelli nettamente inferiori di quelli di cento anni fa.

Per capire meglio, nella tabella si mostrano quattro situazioni tipiche: la ripartizione della proprietà in società diverse.  quattro sono situazione reali ed una è ipotetica.  Consiglio di studiarla e meditarla con calma.
L’utilità della tabella è che non illustra solo la situazione del 10% più ricco (la classe superiore), ma anche come la proprietà si articola all'interno di questa classe, con una tendenza alla concentrazione nei livelli più alti, anche fra i membri privilegiati della società.

Illustra anche cosa succede negli strati intermedi e inferiori della società.  Osserviamo così un fenomeno fondamentale del secondo dopoguerra: la formazione di una classe di mini e micro capitalisti molto diffusa.   Mentre nel 1910 la classe media europea deteneva qualcosa come il 5% del capitale, negli anni successivi al boom economico deteneva il 35-40% dei beni.    Nello stesso periodo, migliorò anche la situazione patrimoniale delle classi povere, anche se in misura molto minore.

Un cambiamento epocale poiché si passò da una società strutturata su due sole classi: ricchissimi e poveri o quasi; ad una strutturata su tre classi, con una classe media numericamente molto consistente (i leggendari “piccolo borghesi” di sessantottina memoria).

Una situazione che a noi sembra normale, ma che rappresenta invece una forte anomalia storica.  Del resto, per il poco che si sa della maggioranza dei paesi non occidentali, le società continuano ad essere sostanzialmente bi-stratificate, tranne che in alcuni paesi che hanno recentemente avuto una tumultuosa crescita economica.


 La ripartizione del reddito.

Andiamo ora a dare un’occhiata a come è invece ripartito il reddito da lavoro, fra le diverse classi sociali.

Anche in questo caso il prof. Piketty ci fornisce una tabella da cui si arguisce che il reddito da lavoro è assai meno concentrato della proprietà del capitale.   Per esempio, oggi in Europa il 10% più ricco detiene circa il 60% del capitale, ma percepisce solo il 25% del monte-stipendi complessivo.  Vice versa, il 50% più povero della popolazione possiede, complessivamente, solo il 5% del capitale, ma si ripartisce il 25% del monte-stipendi.
Se ora andiamo a vedere il reddito totale (lavoro più capitale) troviamo che la disparità della ricchezza è ovviamente superiore rispetto ai soli stipendi, ma inferiore rispetto al valore del capitale detenuto.   In pratica, la classe superiore detiene il 60% del capitale, ma questo aggiunge solo un 10% circa al reddito che percepisce.
Prima di chiudere su questo argomento, diamo ancora un’attenta occhiata ad un altro grafico che confronta la percentuale di reddito nazionale afferente al 10% più ricco (N. B. L’incremento europeo è perlopiù dovuto alla traiettoria del Regno Unito, assai più simile a quella americana che a quella dell’Europa continentale).   Per quanto possa sorprendere, nel “primo mondo”, l’esplosione delle disparità retributive rimane per ora un fenomeno principalmente anglo-americano.

Nel resto d’Europa il fenomeno è presente, ma per ora appare molto più mitigato, anche se bisogna tener conto che i dati di Piketty si fermano al 2013 e negli ultimi anni la situazione è peggiorata.

Per gli altri paesi bisogna accontentarsi dell’indice Gini, assai meno preciso, ma comunque interessante.

Ciò non significa che non vi siano nella UE persone che percepiscono stipendi inverecondi (esistono e sui giornali talvolta se ne parla).  Significa però che la struttura sociale, legale e fiscale europea per ora limita un fenomeno che, viceversa, in altri paesi ha un andamento decisamente impressionante.


Conclusioni 3

Nel 1914 la classe dirigente capitalista commise un vero e proprio suicidio politico-economico (spesso anche fisico).   Ben poche delle famiglie che erano ricche nel 1910 lo erano ancora nel 1950.   Molte, anzi, erano letteralmente estinte.

Nei decenni successivi il capitalismo risorse, ma era radicalmente cambiato.

In primo luogo, in USA e nei paesi suoi satelliti, si venne formando una consistente classe di mini e micro capitalisti, proprietari di un’ abitazione, di almeno un’automobile e di consistenti dotazioni di elettrodomestici; più tardi anche di computer e vari gadget tecnologici.   Oltre che di risparmi sotto forma di fondi pensione, BOT e cose simili.

In secondo luogo, il reddito fornito dal capitale è proporzionalmente molto più basso di un tempo e la classe dominante, il famigerato 1%, deve il suo alto ed altissimo reddito anche al possesso di cospicui patrimoni, ma soprattutto grazie al fatto di percepire degli stipendi altissimi, spesso pagati proprio dai detentori dei capitali che costoro amministrano.

Prima di pensare che tutto ciò sia molto democratico, riflettiamo però su di un fatto: le carriere che permettono di raggiungere stipendi molto alti sono accessibili quasi esclusivamente ai figli di coloro che possono investire cifre molto alte per far laureare i propri pargoli in una decina di università costosissime ed esclusive, oltre ad avere un giro di conoscenze ed amicizie negli ambienti che contano.   “L’uomo che si è fatto da solo” esiste, ma è sempre più raro, man mano che la crescita economica rallenta ed il divario fra i “vincenti” e tutti gli altri si allarga.

Per saperne di più: Picco per Capre


venerdì 9 novembre 2018

La De-differenziazione: Una Riflessione di Bruno Sebastiani.


Un contributo di Bruno Sebastiani. Partendo da una riflessione di Konrad Lorenz, nota come il tessuto sociale, urbano e linguistico della nostra società stia gradualmente perdendo differenziazione. Una caratteristica tipica delle neoplasie maligne, ovvero dei tumori. L'analogia è interessante e per molti versi corretta, ma è anche vero che si potrebbe arguire il contrario notando la frammentazione in isole culturali separate del Web. Insomma, sta succedendo di tutto e il contrario di tutto in un mondo che evolve sempre più rapidamente verso nessuno sa dove.


Di Bruno Sebastiani.


Warren M. Hern nel suo articolo del 1989 “Why Are There So Many of Us” (da me tradotto e pubblicato in https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2018/08/31/perche-siamo-cosi-tanti/), enumera le quattro caratteristiche principali delle neoplasie maligne:

  1. Crescita rapida e incontrollata
  2. Invasione e distruzione dei tessuti sani adiacenti
  3. De-differenziazione
  4. Metastasi a diversi siti

Successivamente passa ad esaminare il comportamento del genere umano su questo pianeta e ritrova tutte e quattro le caratteristiche in modo sorprendentemente analogo.

Relativamente alle prime due l’analogia è palese: è sotto gli occhi di tutti come negli ultimi tempi l’uomo si sia moltiplicato in modo iperbolico ed abbia sottomesso o distrutto ogni bioma a lui circostante.

Anche la quarta caratteristica è facilmente ascrivibile al modo di procedere della nostra specie che costruisce strade e mezzi di comunicazione per raggiungere i punti più remoti della Terra ove portare la cosiddetta “civiltà”. Sulla mia pagina Facebook ho proposto sette post “tematici” dedicati alle grandi metastasi. Chi volesse consultarli li trova ora riepilogati nel blog https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/grandi_metastasi/.

La terza caratteristica – la de-differenziazione - merita un discorso un po’ più approfondito, non essendo di per sé evidente come le altre.

Senza scendere in descrizioni eccessivamente particolareggiate, ricordiamo che le cellule dei corpi viventi non sono tra loro tutte uguali, ma, in base agli organi e ai tessuti di cui fanno parte, hanno una propria morfologia.

Non nascono differenziate. Come sappiamo, lo sviluppo degli esseri viventi più complessi procede dall’incontro di due sole cellule (i gameti) che sono all’origine dell’embrione. Ed è qui, nello stato embrionale, che prende avvio il processo di differenziazione cellulare, cioè la maturazione da una forma primitiva o indifferenziata a una forma matura o differenziata, con funzioni specializzate, processo che le cellule di un organismo pluricellulare multiforme subiscono per ripartirsi i compiti.

Se questo è lo stato naturale delle cose, sappiamo anche che la mutazione del materiale genetico di cellule normali è all’origine dei tumori.

Ebbene, le cellule che subiscono la mutazione carcinogenetica, oltre a replicarsi in modo incontrollato e ad invadere i tessuti sani, perdono gradualmente la loro particolarità morfologica, ovvero la differenziazione che madre natura aveva loro assegnato per svolgere i compiti propri degli organi di appartenenza.

Diventano de-differenziate, ovvero vanno rassomigliandosi tutte le une alle altre, perdono ogni loro caratteristica distintiva.

Ecco come il grande etologo Konrad Lorenz descrive questo processo:
«I cancerologi, per caratterizzare una delle proprietà fondamentali del tumore maligno, parlano di immaturità. Quando una cellula respinge tutte quelle proprietà che le permettevano di integrarsi in un determinato tessuto organico … essa ‘regredisce’ necessariamente a una fase filogeneticamente o ontogeneticamente più antica; essa si comporta cioè come un organismo unicellulare o come una cellula embrionale, e incomincia a riprodursi senza riguardo per la totalità dell’organismo. Più si accentua la regressione, più il tessuto di nuova formazione si distingue da quello normale, più maligno sarà il tumore. Un papilloma che conserva ancora molte proprietà dell’epidermide normale, pur invadendo come verruca la sua superficie, è un tumore benigno; un sarcoma, che è formato da cellule mesodermiche tutte uguali e completamente indifferenziate, è un tumore maligno.» (K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano, 1974, p. 84)

Per determinare la gravità dei tumori è stata elaborata una apposita ‘scala’ o ‘grading’ che misura il grado di aggressività delle neoplasie in base al loro grado di differenziazione cellulare.

Il sistema di grading più utilizzato prevede 4 gradi possibili:

GX Grado non determinato
G1 Ben differenziato (grado basso): < 25% di cellule non differenziate
G2 Moderatamente differenziato (grado intermedio) < 50% di cellule non differenziate
G3 Scarsamente differenziato (grado alto) 50-75% di cellule non differenziate
G4 Indifferenziato (grado alto) cioè anaplastico: > 75% di cellule non differenziate
(fonte Wikipedia)

Questo per quanto riguarda i tumori.

E per quanto riguarda gli esseri umani?

Non stiamo andando verso la più completa indifferenziazione di tutte le caratteristiche che un tempo costituivano gli elementi distintivi di ogni raggruppamento antropico e, all’interno del medesimo, di ogni ceto o casta sociale?

Il discorso è delicato. Sappiamo che i fautori del “progresso senza fine” sbandierano questo livellamento come uno dei risultati più positivi dell’avanzata della ragione, della marcia trionfale della cosiddetta civiltà.

Per ottenerlo si sono combattute guerre e sono scoppiate sanguinose rivoluzioni. Poi, da un certo punto in avanti, il livellamento è iniziato e progredisce a ritmo crescente.

Ma vediamo separatamente quali erano gli elementi principali che connotavano la differenziazione degli esseri umani, quando non erano cellule malignamente aggressive come oggi.

1.    Innanzitutto la differenziazione dei tratti somatici (altezza, dimensione corporea, colore della pelle, taglio degli occhi ecc. ecc.), in una parola tutte quelle caratteristiche che un tempo venivano definite “razziali”.
2.    Oltre all’aspetto fisico, l’elemento che maggiormente distingueva e separava i vari gruppi umani era il linguaggio. All’interno di ogni popolazione, di ogni etnìa, di ogni tribù si comunicava con idiomi specifici, comprensibili solo dagli appartenenti al gruppo. Ciò innalzava delle vere e proprie barriere all’interscambio di informazioni e contribuiva a preservare la specificità dei singoli raggruppamenti.
3.    Infine le varie popolazioni si differenziavano in base alle tradizioni, agli usi, ai costumi, ai rituali, alle credenze religiose, alle superstizioni, al modo di abbigliarsi e di ornarsi, a tutto l’insieme di elementi che le culture locali avevano elaborato e tramandato in migliaia e migliaia di anni.

Ebbene, come nel tumore maligno i tratti caratteristici delle singole cellule vanno scomparendo per lasciare il posto ad un unico tipo di cellula indifferenziata, così nel tumore planetario di cui l’uomo è cellula cancerogena si verifica un analogo processo attraverso:

1.    L’omologazione dei tratti somatici
2.    L’abolizione delle barriere linguistiche
3.    L’abbattimento di ogni tradizione e cultura autoctona

Vediamo punto per punto come avviene il processo e perché è destinato a proseguire sino al suo tragico esito finale.

1.    L’omologazione dei tratti somatici

Nonostante il colore della pelle e le caratteristiche fisiche collettive siano tra gli elementi che contraddistinguono gli esseri umani in modo più evidente, la loro omologazione rappresenta per il cancro del pianeta un elemento di minore importanza rispetto ai restanti due di cui parleremo. Un uomo può essere bianco, nero o giallo, ma se parla inglese, veste in giacca e cravatta, guarda le serie TV, passa gran parte del suo tempo su Facebook e mangia hamburger e pop corn è pronto a contribuire in modo aggressivo (passivamente o attivamente) all’opera di distruzione della biosfera.

Ciò premesso vi è da dire che il rimescolamento dei popoli, iniziato già da qualche secolo ma in corso di intensificazione avanzata, condurrà inevitabilmente all’omologazione anche fisica degli appartenenti alla famiglia umana.

La tendenza ad uniformare l’aspetto corporeo riguarda oggi persino i rappresentanti dei due sessi, che in numero sempre maggiore tendono a nascondere le differenze che un tempo venivano messe in risalto e a ostentare i tratti comuni. Ma questo è un fenomeno più culturale che fisico, conseguente a quell’abbattimento delle tradizioni di cui parleremo più sotto.

2.    L’abolizione delle barriere linguistiche

Il grande tumore planetario, di cui siamo gli agenti inconsapevoli, trova un grave ostacolo al suo avanzamento nelle barriere linguistiche che da sempre hanno separato i vari popoli.

La malattia per progredire richiede un’organizzazione sociale la più coesa possibile. Il suo ideale sarebbe che l’orbe terracqueo fosse governato da un’Autorità unica mondiale tramite organi di comando gerarchicamente disciplinati e capillarmente diffusi.

Questa visione orwelliana si completerebbe con la diffusione di un unico linguaggio universale. Questo era l’obiettivo di chi ideò l’Esperanto, ma all’epoca (seconda metà dell’Ottocento) i tempi non erano maturi, e il tentativo fallì.

Oggi l’omologazione linguistica ha fatto passi da gigante. Secondo Ethnologue.com delle 7.000 lingue parlate nel mondo solo 359 sono veramente globali, parlate da milioni di persone. Le altre sono a rischio estinzione. Pare che scompaia una lingua ogni due settimane. E il 94% della popolazione mondiale parla il 6% delle lingue esistenti, mentre il restante 6% degli umani comunicano attraverso il 94% delle altre lingue.

All’interno dei circa 200 Stati nazionali esistenti al mondo, costituitisi durante l’800, dopo la fine della prima guerra mondiale e dopo la seconda con la decolonizzazione, le autorità statali hanno provveduto a far tabula rasa della enorme pluralità di dialetti e idiomi locali esistenti. Gli strumenti di eradicazione sono stati molteplici, dall’istruzione obbligatoria, al servizio militare, alla pubblica amministrazione, finchè poi è intervenuta la televisione che, parlando sempre e solo la lingua ufficiale dello Stato, ha definitivamente rimosso l’uso delle parlate locali nelle nuove generazioni.

Ora esistono ancora importanti barriere ma già l’inglese si profila all’orizzonte come lingua universale, in conseguenza della capillare diffusione dell’impero coloniale britannico.
Il World Wide Web gioca in tal senso un ruolo importante. Permane il problema del cinese e dell’arabo, ma il processo di omologazione linguistica è avviato e non potrà che progredire.

3.    L’abbattimento delle tradizioni e culture autoctone

Parallelamente all’uniformazione dei linguaggi si è susseguita quella di mode, costumi e tradizioni.

In questo caso gli strumenti più efficaci di livellamento sono stati i mezzi di comunicazione di massa, dapprima i giornali e le riviste illustrate, poi il cinema e la televisione.

Ma già l’istruzione obbligatoria e il trasferimento dei funzionari statali e non statali (compresi i preti) da regione a regione, da città a città, avevano fortemente contribuito ad estinguere gran parte delle tradizioni folcloristiche paesane.

Lo spopolamento delle campagne e l’emigrazione di massa hanno poi assestato alle culture locali gravi colpi, finchè anche in questo caso la rete globale dei computer ha inferto il colpo mortale.

Oramai quasi tutti ci vestiamo allo stesso modo, mangiamo cibi standardizzati, seguiamo gli stessi ritmi lavorativi e abitiamo in case pressochè identiche le une alle altre, sia che si viva in città sia che si viva in campagna o in montagna.

Due marchi tra tutti, McDonald e Ikea, insieme a mille altri, danno l’idea di come le nostre abitudini alimentari e abitative si stiano ormai omologando a livello mondiale.

Le grandi religioni, prima di divenire esse stesse obsolete, avevano già iniziato a spazzare i miti locali, a volte anche inglobandoli.

Ora il processo di omologazione ha quasi raggiunto il suo obiettivo, e cioè renderci il più possibile simili gli uni agli altri. In tal modo sarà più semplice nonché inevitabile giungere all’istituzione di un Governo Unico Mondiale.

La previsione è terrificante, ma ha una sua logica. Solo un’Autorità globale potrà gestire i problemi globali che ci aspettano e per farlo avrà bisogno di una platea di sudditi sufficientemente omogenea.

Questa impressionante ‘macchina da combattimento’ sarà in grado di completare l’opera di devastazione dell’intera ecosfera, esattamente come il tumore maligno riesce a distruggere tutti i tessuti sani dell’ammalato di cancro,

Le cellule de-differenziate sono le più maligne e aggressive di tutte, e noi uomini siamo decisamente incamminati su quella strada.

Dobbiamo prendere atto di questa realtà e divenire ‘cellule maligne consapevoli’, così come ho cercato di suggerire nella mia nuova opera “Il Cancro del Pianeta Consapevole”.