Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR
Cari lettori,
questo 2016 è stato segnato da una notizia che ha occupato una parte apprezzabile del sempre conteso spazio mediatico: la volatilità della borsa cinese. Nell'Impero di Mezzo si sono vissuti giorni di grande ribasso, fino al punto che si è dovuta sospendere la sessione per un paio di giorni, essendo il ribasso oltre il 7%. La borsa cinese aveva avuto un'evoluzione abbastanza mediocre nel 2015 e a quello che sembra tutti i problemi accumulati sono sempre più evidenti nel 2016. Le borse occidentali hanno accusato l'impatto con diminuzioni accumulate che ammontano alla metà di quelle cinesi, ma dimostrano che l'evoluzione del gigante asiatico ha molta influenza in ciò che avviene nel mondo.
Ma che succede alla Cina? Semplicemente che la Cina, la fabbrica del mondo, sta accusando con forza la diminuzione della domanda mondiale di ogni tipo di bene. Cosa logica, se si tiene conto del fatto che la riduzione della leva finanziaria del debito iniziata nel 2008 è andata a minare progressivamente la rendita disponibile delle classi medie (tramite la diminuzione delle prestazioni ed il degrado della qualità del lavoro salariato). E quella classe media, sempre più impoverita, compra meno cose e consuma di meno.
Durante i primi mesi del 2015, la pianificazione del flusso di merci su scala mondiale ha seguito gli schemi dettati quasi all'unisono dalla pletora di consulenze economiche di questo mondo: la domanda continuerà a crescere, la domanda di beni seguirà i canali previsti. Tuttavia, la domanda è diminuita e i prodotti e le materie prime hanno cominciato ad accumularsi, perché quello che usciva era di meno di quello che entrava. E' un fenomeno generalizzato in tutto il mondo. Ha portato ad una drastica diminuzione del commercio mondiale. Il Baltic Dry Index (un indice che misura la quantità di materie prime che viene spostata via mare) si trova ai minimi mai visti per un paio di decenni (nemmeno nel 2008) e in generale il commercio su strada, treno, aereo, ecc. si trova su valori molto, molto bassi (per esempio, il commercio fra Cina ed Africa, sua principale fornitrice di materie prime, lo scorso anno è diminuito del 40%). Indizio del fatto che il commercio mondiale sta subendo un grande ribasso e che stiamo entrando in una grande recessione globale.
Come è successo durante l'ultima grande recessione, nel 2008, il prezzo del petrolio è sceso molto e il barile di Brent attualmente si attesta al di sotto dei 30 dollari, persino meno di quanto sia sceso nel 2008. Una tale caduta precipitosa porterà conseguenze molto negative per il settore visto che contrariamente al 2008, quando il prezzo del petrolio scese fortemente da luglio a dicembre per poi risalire relativamente in fretta e stabilizzarsi intorno ai 100 dollari al barile alla fine del 2009, in questa occasione la diminuzione dura da più di un anno e sta minando l'economia dei paesi produttori di materie prime, non solo di petrolio. Per esempio, negli Stati Uniti ha appena fallito la seconda società produttrice di carbone di quel paese e non proprio perché gli Stati Uniti si stiano decarbonizzando, ma perché seguono la tendenza generale. Ma il settore dove si sente odore di sangue negli Stati Uniti è quello della produzione di petrolio, specialmente in quelle società che avevano scommesso forte sul fracking. Oltre al fallimento prossimo di Chesapeake, una società di media importanza, che molti analisti danno per gli inizi del 2016 (le sue azioni sono crollate dell'80% durante l'ultimo anno, in parallelo coi suoi introiti), altre società importanti del settore potrebbero fallire nel 2016. Non si scommette ancora su nessuna delle grandi, ma ovviamente quest'anno soffriranno e in parallelo riducono le loro spese per cercare di sopravvivere il più a lungo possibile.
Il problema non è circoscritto agli Stati Uniti. Per esempio, la BP ha appena annunciato che licenzierà il 15% del proprio personale occupato nella divisione di esplorazione e sviluppo, circa 4.000 lavoratori. E il problema non colpisce solo le società private. Per esempio, apprendiamo da poco che la Pemex licenzierà 13.000 lavoratori. Alcune società, soprattutto le più grandi e diversificate, ricorrono alla vendita delle attività in sofferenza, ottenendo così il doppio beneficio di fare cassa e diminuire il rischio, e si concentrano a partire da lì sulle proprie attività più sicure. Genereranno meno soldi, è vero, ma con molto meno rischio. Tuttavia, le società come quelle che si dedicano al fracking non hanno niente di buono da offrire e cercano disperatamente più finanziamenti con cui mantenersi a galla, mentre alcune si impegnano in imbarazzanti campagne pubblicitarie per far credere al pubblico che il fracking è ancora redditizio (quando, in realtà, non lo è mai stato).
E' in questo un contesto di lotta per la sopravvivenza che va inteso il recente annuncio che l'Arabia Saudita farà un'offerta pubblica di azioni della propria società nazionali di petrolio, Aramco, la più grande del mondo. Mentre viene chiarito il contesto di questa privatizzazione (si parla del fatto che verrebbe venduta solo la divisione che si occupa delle raffinerie), cresce la tensione bellica nella zona. Lasciando da parte ciò che sta succedendo in Siria ed Iraq, non si tratta solo del confronto crescente fra Arabia Saudita ed Iran: la guerra che l'Arabia Saudita porta avanti in Yemen non accenna a finire (e in alcune occasioni i ribelli yemeniti hanno l'audacia di colpire l'Arabia Saudita nel suo stesso territorio). Nel frattempo, l'Arabia Saudita mantiene la situazione di protettorato di fatto in Bahrein (paese che "ha liberato" manu militari nel 2011). Tutto questo carico militare dell'Arabia Saudita acutizza pericolosamente i problemi economici derivati dalla discesa degli introiti della vendita di petrolio, cosa che ha obbligato a ridurre le prestazioni sociali e ad aumentare il costo del carburante nel regno. Il potenziale destabilizzante di queste misure è enorme. Vi immaginate quali conseguenze avrebbe se scoppiasse una rivolta in Arabia Saudita?
Da un punto di vista meramente economico, la gravità della situazione attuale è l'ostinata contrazione dell'investimento in esplorazione e sviluppo di nuovi giacimenti petroliferi e non solo di quelli non convenzionali. Proprio in questo momento, in cui più che mai si dovrebbe aumentare l'investimento in esplorazione e sviluppo (upstream) perché i giacimenti sono sempre più difficili da trovare e da sfruttare, abbiamo inanellato una serie di anni di contrazione dell'investimento molto forte nel settore petrolifero. Secondo la IEA, l'investimento in upstream si è ridotto del 15% nel 2014 rispetto al 2013 e del 20% in più nel 2015 rispetto al 2014. E la serie negativa non si ferma qui, tanto che la stessa IEA prevede una nuova diminuzione del 15% nel 2016. A livello mondiale, crolla il numero dei rigs (piattaforme di trivellazione). Il problema non è tanto il crollo catastrofico delle piattaforme attive negli Stati Uniti, ma il crollo comincia ad essere monumentale (circa il 50% a livello del mondo intero.
Anche se la maggioranza degli analisti economici non lo percepiscono, è abbastanza ovvio che ci stiamo incamminando a tappe forzate verso una scarsità di petrolio che non solo è imminente, ma che che sarà irreversibile. La combinazione di disinvestimento nel ricambio dei pozzi oggi imprescindibile e il fallimento delle società che estraggono risorse di idrocarburi liquidi più cari da produrre (la cui percentuale nella produzione mondiale è già del 10% e dovrebbe crescere nei prossimi anni semplicemente per mantenere la produzione totale costante) garantiscono non solo che non recupereremo mai il livello di produzione del 2015 (la cosa è questa, il picco del petrolio si è verificato lo scorso anno), ma che la discesa a partire da qui sarà abbastanza rapida.
Il fallimento delle società che sfruttano giacimenti di idrocarburi diversi non fa scomparire la risorsa, naturalmente. Tuttavia ci parla della difficile fattibilità dello sfruttamento di queste risorse ai prezzi che l'economia si può realmente permettere. Ma il fatto è che questi fallimenti fanno scomparire qualcosa di fondamentale: investitori disposti a rischiare i propri soldi in un affare che, all'improvviso, non sembra più tanto sicuro com'era sempre sembrato. Per questo, realmente, il fallimento di società petrolifere implica la scomparsa effettiva di tutta la produzione attuale che stava realizzando in modo antieconomico, semplicemente perché si avevano prospettive per il futuro molto buone. E questa è una percentuale crescente di tutto il petrolio che si può produrre...
Pertanto ci troviamo di fronte ad una rapida discesa della produzione di petrolio che si andrà evidenziando nei prossimi anni. E cosa raccontano nei media della situazione attuale? Poca cosa. Poche voci osano avvertir che se si manterranno i prezzi bassi attuali ci sarà una forte scarsità nel giro di un paio d'anni. La stragrande maggioranza delle analisi economiche che possiamo leggere scommettono che il prezzo del petrolio si manterrà basso a medio termine, cioè, per i prossimi 2-5 o persino 10 anni. E' ovvio che non capiscono niente di quello che sta succedendo (servirebbe raccomandare loro, di nuovo, la nostra guida?). Ed alcuni di tanto in tanto si permettono anche di fare battute sulla “teoria ridicola del picco del petrolio”, a loro modo di vedere smentita dai prezzi bassi del petrolio.
Da un punto di vista economicistico, il picco del petrolio dovrebbe tradursi in prezzi permanentemente alti. Si tratta di una visione semplicistica, tipica del pensiero economico liberale, che non capisce il ruolo dell'energia nell'economia. La cosa più curiosa è che non pochi degli studiosi del picco del petrolio è da anni che affermano che l'arrivo del massimo di produzione del petrolio genera volatilità del prezzo (io stesso lo dicevo nel quinto post che ho scritto su questo blog, il 3 febbraio del 2010). Nel mio caso concreto e come se non bastasse, quando la fase dei prezzi alti si è prolungata un po' di più di quanto atteso, mi hanno criticato perché non arrivava la diminuzione dei prezzi che prevedevo (vedete il post del 28 marzo del 2014, sei mesi prima che cominciasse l'attuale episodio di prezzi bassi). Tornerò a ripeterlo ancora una volta: il problema della scarsità di petrolio non è che il prezzo salga molto in modo permanente. Perché il prezzo si mantenga permanentemente alto, il petrolio deve diventare un articolo di lusso e smettere di essere ciò che è ora, cioè il motore dell'economia e, anche se un giorno arriveremo a questa situazione, ci troviamo ancora lontani da quel momento. Nei prossimo anni, ciò che caratterizzerà il prezzo del petrolio è una volatilità brutale, nella misura in cui scendiamo in profondità nella spirale di distruzione della domanda – distruzione dell'offerta. Non si tratta semplicemente di dire che il prezzo del petrolio a volte sale e a volte scende, no. La questione è che durante certi periodi si manterrà troppo alto, in modo che danneggerà le società produttrici. Questa oscillazione selvaggia, senza mezzi termini (la maggior parte del tempo il prezzo o sarà molto alto o sarà molto basso, situandosi su valori intermedi solo nel suo rapido cammino verso l'alto o verso il basso), è ciò che caratterizzerà l'evoluzione del prezzo durante i prossimi anni, con un periodo di ripetizione tipico che nel post del 2010 stimavamo in circa 3-4 anni, anche se nella misura in cui accelera la discesa della produzione, i cicli di salita e discesa saranno sempre più rapidi. Osservate il grafico (del tutto qualitativo) che disegnava Dave Cohen 8 anni fa:
Cari lettori,
questo 2016 è stato segnato da una notizia che ha occupato una parte apprezzabile del sempre conteso spazio mediatico: la volatilità della borsa cinese. Nell'Impero di Mezzo si sono vissuti giorni di grande ribasso, fino al punto che si è dovuta sospendere la sessione per un paio di giorni, essendo il ribasso oltre il 7%. La borsa cinese aveva avuto un'evoluzione abbastanza mediocre nel 2015 e a quello che sembra tutti i problemi accumulati sono sempre più evidenti nel 2016. Le borse occidentali hanno accusato l'impatto con diminuzioni accumulate che ammontano alla metà di quelle cinesi, ma dimostrano che l'evoluzione del gigante asiatico ha molta influenza in ciò che avviene nel mondo.
Ma che succede alla Cina? Semplicemente che la Cina, la fabbrica del mondo, sta accusando con forza la diminuzione della domanda mondiale di ogni tipo di bene. Cosa logica, se si tiene conto del fatto che la riduzione della leva finanziaria del debito iniziata nel 2008 è andata a minare progressivamente la rendita disponibile delle classi medie (tramite la diminuzione delle prestazioni ed il degrado della qualità del lavoro salariato). E quella classe media, sempre più impoverita, compra meno cose e consuma di meno.
Durante i primi mesi del 2015, la pianificazione del flusso di merci su scala mondiale ha seguito gli schemi dettati quasi all'unisono dalla pletora di consulenze economiche di questo mondo: la domanda continuerà a crescere, la domanda di beni seguirà i canali previsti. Tuttavia, la domanda è diminuita e i prodotti e le materie prime hanno cominciato ad accumularsi, perché quello che usciva era di meno di quello che entrava. E' un fenomeno generalizzato in tutto il mondo. Ha portato ad una drastica diminuzione del commercio mondiale. Il Baltic Dry Index (un indice che misura la quantità di materie prime che viene spostata via mare) si trova ai minimi mai visti per un paio di decenni (nemmeno nel 2008) e in generale il commercio su strada, treno, aereo, ecc. si trova su valori molto, molto bassi (per esempio, il commercio fra Cina ed Africa, sua principale fornitrice di materie prime, lo scorso anno è diminuito del 40%). Indizio del fatto che il commercio mondiale sta subendo un grande ribasso e che stiamo entrando in una grande recessione globale.
Come è successo durante l'ultima grande recessione, nel 2008, il prezzo del petrolio è sceso molto e il barile di Brent attualmente si attesta al di sotto dei 30 dollari, persino meno di quanto sia sceso nel 2008. Una tale caduta precipitosa porterà conseguenze molto negative per il settore visto che contrariamente al 2008, quando il prezzo del petrolio scese fortemente da luglio a dicembre per poi risalire relativamente in fretta e stabilizzarsi intorno ai 100 dollari al barile alla fine del 2009, in questa occasione la diminuzione dura da più di un anno e sta minando l'economia dei paesi produttori di materie prime, non solo di petrolio. Per esempio, negli Stati Uniti ha appena fallito la seconda società produttrice di carbone di quel paese e non proprio perché gli Stati Uniti si stiano decarbonizzando, ma perché seguono la tendenza generale. Ma il settore dove si sente odore di sangue negli Stati Uniti è quello della produzione di petrolio, specialmente in quelle società che avevano scommesso forte sul fracking. Oltre al fallimento prossimo di Chesapeake, una società di media importanza, che molti analisti danno per gli inizi del 2016 (le sue azioni sono crollate dell'80% durante l'ultimo anno, in parallelo coi suoi introiti), altre società importanti del settore potrebbero fallire nel 2016. Non si scommette ancora su nessuna delle grandi, ma ovviamente quest'anno soffriranno e in parallelo riducono le loro spese per cercare di sopravvivere il più a lungo possibile.
Il problema non è circoscritto agli Stati Uniti. Per esempio, la BP ha appena annunciato che licenzierà il 15% del proprio personale occupato nella divisione di esplorazione e sviluppo, circa 4.000 lavoratori. E il problema non colpisce solo le società private. Per esempio, apprendiamo da poco che la Pemex licenzierà 13.000 lavoratori. Alcune società, soprattutto le più grandi e diversificate, ricorrono alla vendita delle attività in sofferenza, ottenendo così il doppio beneficio di fare cassa e diminuire il rischio, e si concentrano a partire da lì sulle proprie attività più sicure. Genereranno meno soldi, è vero, ma con molto meno rischio. Tuttavia, le società come quelle che si dedicano al fracking non hanno niente di buono da offrire e cercano disperatamente più finanziamenti con cui mantenersi a galla, mentre alcune si impegnano in imbarazzanti campagne pubblicitarie per far credere al pubblico che il fracking è ancora redditizio (quando, in realtà, non lo è mai stato).
E' in questo un contesto di lotta per la sopravvivenza che va inteso il recente annuncio che l'Arabia Saudita farà un'offerta pubblica di azioni della propria società nazionali di petrolio, Aramco, la più grande del mondo. Mentre viene chiarito il contesto di questa privatizzazione (si parla del fatto che verrebbe venduta solo la divisione che si occupa delle raffinerie), cresce la tensione bellica nella zona. Lasciando da parte ciò che sta succedendo in Siria ed Iraq, non si tratta solo del confronto crescente fra Arabia Saudita ed Iran: la guerra che l'Arabia Saudita porta avanti in Yemen non accenna a finire (e in alcune occasioni i ribelli yemeniti hanno l'audacia di colpire l'Arabia Saudita nel suo stesso territorio). Nel frattempo, l'Arabia Saudita mantiene la situazione di protettorato di fatto in Bahrein (paese che "ha liberato" manu militari nel 2011). Tutto questo carico militare dell'Arabia Saudita acutizza pericolosamente i problemi economici derivati dalla discesa degli introiti della vendita di petrolio, cosa che ha obbligato a ridurre le prestazioni sociali e ad aumentare il costo del carburante nel regno. Il potenziale destabilizzante di queste misure è enorme. Vi immaginate quali conseguenze avrebbe se scoppiasse una rivolta in Arabia Saudita?
Da un punto di vista meramente economico, la gravità della situazione attuale è l'ostinata contrazione dell'investimento in esplorazione e sviluppo di nuovi giacimenti petroliferi e non solo di quelli non convenzionali. Proprio in questo momento, in cui più che mai si dovrebbe aumentare l'investimento in esplorazione e sviluppo (upstream) perché i giacimenti sono sempre più difficili da trovare e da sfruttare, abbiamo inanellato una serie di anni di contrazione dell'investimento molto forte nel settore petrolifero. Secondo la IEA, l'investimento in upstream si è ridotto del 15% nel 2014 rispetto al 2013 e del 20% in più nel 2015 rispetto al 2014. E la serie negativa non si ferma qui, tanto che la stessa IEA prevede una nuova diminuzione del 15% nel 2016. A livello mondiale, crolla il numero dei rigs (piattaforme di trivellazione). Il problema non è tanto il crollo catastrofico delle piattaforme attive negli Stati Uniti, ma il crollo comincia ad essere monumentale (circa il 50% a livello del mondo intero.
Anche se la maggioranza degli analisti economici non lo percepiscono, è abbastanza ovvio che ci stiamo incamminando a tappe forzate verso una scarsità di petrolio che non solo è imminente, ma che che sarà irreversibile. La combinazione di disinvestimento nel ricambio dei pozzi oggi imprescindibile e il fallimento delle società che estraggono risorse di idrocarburi liquidi più cari da produrre (la cui percentuale nella produzione mondiale è già del 10% e dovrebbe crescere nei prossimi anni semplicemente per mantenere la produzione totale costante) garantiscono non solo che non recupereremo mai il livello di produzione del 2015 (la cosa è questa, il picco del petrolio si è verificato lo scorso anno), ma che la discesa a partire da qui sarà abbastanza rapida.
Il fallimento delle società che sfruttano giacimenti di idrocarburi diversi non fa scomparire la risorsa, naturalmente. Tuttavia ci parla della difficile fattibilità dello sfruttamento di queste risorse ai prezzi che l'economia si può realmente permettere. Ma il fatto è che questi fallimenti fanno scomparire qualcosa di fondamentale: investitori disposti a rischiare i propri soldi in un affare che, all'improvviso, non sembra più tanto sicuro com'era sempre sembrato. Per questo, realmente, il fallimento di società petrolifere implica la scomparsa effettiva di tutta la produzione attuale che stava realizzando in modo antieconomico, semplicemente perché si avevano prospettive per il futuro molto buone. E questa è una percentuale crescente di tutto il petrolio che si può produrre...
Pertanto ci troviamo di fronte ad una rapida discesa della produzione di petrolio che si andrà evidenziando nei prossimi anni. E cosa raccontano nei media della situazione attuale? Poca cosa. Poche voci osano avvertir che se si manterranno i prezzi bassi attuali ci sarà una forte scarsità nel giro di un paio d'anni. La stragrande maggioranza delle analisi economiche che possiamo leggere scommettono che il prezzo del petrolio si manterrà basso a medio termine, cioè, per i prossimi 2-5 o persino 10 anni. E' ovvio che non capiscono niente di quello che sta succedendo (servirebbe raccomandare loro, di nuovo, la nostra guida?). Ed alcuni di tanto in tanto si permettono anche di fare battute sulla “teoria ridicola del picco del petrolio”, a loro modo di vedere smentita dai prezzi bassi del petrolio.
Da un punto di vista economicistico, il picco del petrolio dovrebbe tradursi in prezzi permanentemente alti. Si tratta di una visione semplicistica, tipica del pensiero economico liberale, che non capisce il ruolo dell'energia nell'economia. La cosa più curiosa è che non pochi degli studiosi del picco del petrolio è da anni che affermano che l'arrivo del massimo di produzione del petrolio genera volatilità del prezzo (io stesso lo dicevo nel quinto post che ho scritto su questo blog, il 3 febbraio del 2010). Nel mio caso concreto e come se non bastasse, quando la fase dei prezzi alti si è prolungata un po' di più di quanto atteso, mi hanno criticato perché non arrivava la diminuzione dei prezzi che prevedevo (vedete il post del 28 marzo del 2014, sei mesi prima che cominciasse l'attuale episodio di prezzi bassi). Tornerò a ripeterlo ancora una volta: il problema della scarsità di petrolio non è che il prezzo salga molto in modo permanente. Perché il prezzo si mantenga permanentemente alto, il petrolio deve diventare un articolo di lusso e smettere di essere ciò che è ora, cioè il motore dell'economia e, anche se un giorno arriveremo a questa situazione, ci troviamo ancora lontani da quel momento. Nei prossimo anni, ciò che caratterizzerà il prezzo del petrolio è una volatilità brutale, nella misura in cui scendiamo in profondità nella spirale di distruzione della domanda – distruzione dell'offerta. Non si tratta semplicemente di dire che il prezzo del petrolio a volte sale e a volte scende, no. La questione è che durante certi periodi si manterrà troppo alto, in modo che danneggerà le società produttrici. Questa oscillazione selvaggia, senza mezzi termini (la maggior parte del tempo il prezzo o sarà molto alto o sarà molto basso, situandosi su valori intermedi solo nel suo rapido cammino verso l'alto o verso il basso), è ciò che caratterizzerà l'evoluzione del prezzo durante i prossimi anni, con un periodo di ripetizione tipico che nel post del 2010 stimavamo in circa 3-4 anni, anche se nella misura in cui accelera la discesa della produzione, i cicli di salita e discesa saranno sempre più rapidi. Osservate il grafico (del tutto qualitativo) che disegnava Dave Cohen 8 anni fa:
E osservate cosa ha fatto il prezzo del petrolio negli ultimi 10 anni:
Come vedete, fino al 2011 la forma qualitativa di entrambi i grafici erano molto simili. Nel 2011 viene introdotto il fracking in modo massiccio negli Stati Uniti e, nonostante sia un affare disastroso, si riescono a mantenere i prezzi poco al di sopra dei 100 dollari al barile, ma senza superare il tetto dei 149 dollari al barile del 2008. Tuttavia, 100 dollari al barile è un prezzo troppo alto perché non pregiudichi l'economia in generale a medio termine. Con l'introduzione forzata del fracking abbiamo posticipato il crollo dei prezzi di circa 3 anni, ma ora ci troviamo con un'economia danneggiata (come mostrano i dati che fornisco all'inizio del post) ed alcune società petrolifere eccessivamente indebitate e che falliscono (come avevamo già avvertito a settembre del 2014). Pertanto, ci siamo risparmiati uno dei cicli di 3 anni, ma lo abbiamo fatto al costo di mettere in una situazione precaria le nostre società petrolifere, per cui in questo momento stiamo avendo una fase di distruzione della domanda e dell'offerta contemporaneamente.
E' importante evidenziare che dal punto di vista dell'evoluzione del picco del petrolio non abbiamo guadagnato assolutamente niente: producendo in perdita idrocarburi subprime, come il LTO (Light Thigt Oil) o le sabbie bituminose, abbiamo mantenuto un livello totale di idrocarburi in questi anni, ma adesso la caduta sarà più brusca e arriveremo direttamente al punto della curva dove dovremmo essere se si fosse sfruttato soltanto ciò che era economicamente redditizio. O forse più in basso, perché nel processo abbiamo danneggiato l'equilibrio delle società ed estrazioni che potevano essere fattibili. E la cosa peggiore: la rapidità dei cambiamenti rende più probabili i conflitti geopolitici e le guerre per le risorse, perché gli economisti che consigliano i governi di tutto il mondo non comprendono la situazione e vedono fantasmi di “guerre dei prezzi” e “intenzioni di destabilizzazione” dove la sola cosa che c'è è fondamentalmente l'impero della termodinamica dura e pura ed una cattiva comprensione della realtà economica da parte di coloro che si dicono suoi specialisti.
Per questo motivo, tutti coloro che prevedono scenari di prezzi bassi del petrolio a 5 anni si sbagliano senza ombra di dubbio: i prezzi si manterranno bassi quest'anno fino a che non scoppi una nuova guerra o fino a che non falliscano abbastanza società del settore e, al diminuire dell'offerta, il prezzo schizzerà alle stelle, aggravando la crisi economica globale in atto (ricordate che lo scorso anno il PIL globale si è contratto di circa il 5%). Inizierà così il ciclo successivo dell'oscillazione del prezzo, che sarà più duro del precedente perché gli investitori, già scottati, non torneranno tanto rapidamente ad investire nelle società petrolifere.
La cosa più triste di questo processo è che nessuno guarderà la produzione di petrolio, al fatto che questa sta già decadendo per non recuperare mai più ai livelli attuali e per seguire una tendenza generale al ribasso con piccole riprese transitorie. L'ossessione economicista per il prezzo farà sì che venga ignorata la variabile che in realtà è fondamentale, poiché l'energia è il vero motore dell'economia, mentre i soldi (fra le altre cose) sono solo una rappresentazione del valore e non il valore in sé stessi. Le rare volte che venga detto che la produzione è scesa, gli economisti se ne usciranno dicendo che ciò è dovuto alla recessione e che quando ne usciremo la produzione tornerà a salire, mettendo così il carro davanti ai buoi, ignorando che il problema è che sta diminuendo la quantità di energia a prezzi accessibili per alimentare questo sistema, incapaci di comprendere che bisogna cambiare paradigma economico completamente per adattarlo ad una realtà nella quale abbiamo già sbattuto contro i limiti del pianeta.
Ebbene sì, signori, le conseguenze del picco del petrolio erano queste, ciò che da tempo io chiamo l'oil crash: l'impossibilità della nostra società di mantenere il sistema attuale una volta che siamo giunti allo zenit della produzione di petrolio. E' a questo, a quanto sembra, è questo l'odore e il sapore. E questo è solo l'inizio: se non lo capiamo e non cominciamo ad intraprendere da subito misure per adattarci, arriveranno guerre, scarsità, carenza...Io personalmente è da tempo che punto sul fatto che la Spagna si metterà in avventure militari in vari paesi e particolarmente in Algeria, quando lì scoppierà la guerra civile attualmente agli inizi. Guerre che esauriranno più rapidamente la Spagna e che ci faranno sprofondare con maggiore celerità nel fango.
Ma, ripetiamolo ancora una volta: niente di tutto questo è necessario, non abbiamo bisogno di sprofondare nella miseria, non è inciso sulla pietra che il nostro destino inevitabile sia il collasso. Non è vero. Possiamo ancora cambiare la direzione delle cose. Dobbiamo dire e dirci la verità in faccia, passare dall'idea all'azione, fare una proposta di futuro. E' possibile, facciamolo.
Non lo sentite? E' il rumore del picco del petrolio. Affrettiamoci, prima che sia un fragore, prima che la prevedibile valanga ci travolga.
Saluti.
AMT