Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787 - 1793
sabato 15 agosto 2020
Ma perché ci vergogniamo di certe cose? Le strane usanze di una scimmia nuda
Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787 - 1793
venerdì 7 agosto 2020
Ritirata su tutti i fronti: epicedio per i ghiacciai (e non solo)
L'epicedio (in greco antico: ἐπικήδειον μέλος, epikédion mélos) è un tipo di componimento poetico scritto in morte di qualcuno, tipico della letteratura latina.
Di Luciano Celi
Krzysztof Kieślowski – regista, sceneggiatore, scrittore e documentarista polacco, considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema – diresse e produsse, tra il 1988 e il 1989, 10 brevi film (mediometraggi) di circa 55 minuti, indipendenti per trama l’uno dall’altro: il Decalogo.
Il Decalogo mette in scena, attraverso storie di vita comuni, l’adesione e soprattutto l’infrangere i dieci comandamenti. Tema antico, anzi antichissimo, già specificatamente individuato da una breve parolina greca – hýbris – ed esemplificato piuttosto dettagliatamente anche nella sua letteratura e tragedia.
Il termine hýbris è spesso tradotto con “orgogliosa tracotanza” e davvero è antico quanto l’uomo: la cacciata dall’Eden ne è solo uno degli esempi perché il frutto proibito è quello della conoscenza.
Kieślowski nel primo episodio – «Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro dio all'infuori di me» – narra le vicende del protagonista, suo omonimo perché si chiama Krzysztof, che, fisico e professore universitario separato dalla moglie, deve crescere il figlio Paweł da solo. L’uomo è un grande appassionato di computer e pensa che tutta la vita possa essere descritta matematicamente attraverso l'uso dei calcolatori. Secondo lui non esiste una dimensione trascendente della realtà: non esiste nessun Dio e quando si muore il cervello smette semplicemente di funzionare. Credo che ormai molti siano di questa idea, ma non è qui il caso di divagare sulle credenze di ognuno e atteniamoci alla trama: un giorno il lago vicino a casa ghiaccia e Paweł esprime il desiderio di pattinare.
Il padre, allora, da bravo scienziato esegue una serie di calcoli al computer, che gli permettono di stabilire che il ghiaccio è in grado di reggere il suo peso. Per maggiore sicurezza esegue nuovamente i calcoli e va a verificarne l'esattezza con una prova empirica. Accade però che il ghiaccio si rompe. Il padre non lo sorvegliava (sicuro come era che il ghiaccio non si sarebbe rotto) e non sospetta di nulla nemmeno quando nota dei segnali premonitori (un camion dei pompieri che si dirige verso il lago, gli amici che non lo trovano, la lezione a cui è mancato, le persone che lo cercano per avvisarlo dell'accaduto e dell'inchiostro che si versa in un libro). Comincerà a capire che non tutto è prevedibile quando il calamaio con cui stava scrivendo si rompe senza essere stato toccato. Decide quindi di andare a vedere cosa stava succedendo al lago, vede il buco nel ghiaccio ed i soccorritori ma stenta ancora a crederci (apprende che alcuni ragazzi stavano giocando nelle vicinanze e va a cercare suo figlio). Il padre si arrende all'evidenza solo quando i soccorritori estraggono il corpo senza vita del bambino.1Questo episodio, visto molti anni fa, mi è tornato alla mente leggendo un bel libro di Enrico Camanni, Il grande libro del ghiaccio, Laterza, Bari, 2020. Descrivendo le sorti dei ghiacci nel mondo – da quelli alpini a quelli polari – l’attenzione dell’autore si ferma sulla Siberia dove, notizia più volte descritta e riportata, il riscaldamento climatico procede a velocità più che doppia rispetto al resto del mondo. Questa regione è oggetto dell’attenzione di un documentarista russo, Viktor Kossakovsky, che nel suo Aquarela filma, tra le altre cose, il lago Baikal, la riserva (chiusa) d’acqua dolce più grande del mondo:
Le conseguenze del riscaldamento climatico sono espresse da trombe d’aria improvvise e allagamenti disastrosi, ma è la sequenza girata sulle acque scongelate del Lago Baikal in Siberia a togliere il fiato allo spettatore. Il Baikal è la nuova icona del clima terrestre. Campo largo: un’automobile avanza nell’imperturbabile silenzio della landa siberiana, puntando leggera verso un orizzonte di montagne; di colpo la superficie del lago si spacca e l’auto sprofonda. Campo stretto (invisibile): i passeggeri si dibattono dentro la loro trappola e i soccorritori si sporgono sull’acqua cercando di tirarli in salvo. Campo largo: la sequenza si ripete senza pietà, nuova automobile, nuovo sfondamento, nuovo bagno gelato; uno dopo l’altro i veicoli e i guidatori s’inabissano nelle crepe del disgelo. Auto viene, auto scompare: è la roulette russa.2
Verrebbe da dire che mentre il Dio di Kieślowski è veterotestamentario e non perdona la umana hýbris, quello nella realtà è almeno un poco più misericordioso e fa trovare, almeno nelle scene descritte, qualche aiuto ai malcapitati.
Questo libro, in generale, è molto bello: ricco di riferimenti che vanno dalla scienza alla letteratura, passando per un po’ di antropologia e storia, mi ha stupito perché in primo luogo ci ho letto una specie di “inconscia” descrizione di me stesso.
Il 20 agosto 2009 Chamonix era una città rovente. […] Era un mondo capovolto. Nella capitale dell’alpinismo i turisti cercavano refrigerio nei negozi con l’aria condizionata, dove maneggiavano ramponi e maglioni con le mani sudate, oppure sfogliavano i libri che raccontavano di neve, gelo e seracchi. Alle Aiguilles e ai ghiacciai preferivano le vecchie fotografie. Si era rotta la relazione logica tra i panorami delle pagine illustrate e gli stessi panorami inquadrati dalle finestre […]. Fuori il sole era talmente bollente che i turisti preferivano rifugiarsi tra gli scaffali del grande magazzino, e alla fine, sfogliando e sfogliando, trovavano più attraenti gli scenari patinati dei libri e delle cartoline dei fondali svaporati della montagna vera.3
Non ero a Chamonix ma al bookshop del Forte di Bard, nella “bassa” valdostana; non era il 20 agosto 2009, ma il 29 luglio 2020 e questo libro, per il titolo e la bella confezione, mi è sembrata subito un’ottima evasione dal caldo e forse il suo acquisto è stato anche inconsciamente dettato dal percorso psicologico che l’autore stesso racconta in queste righe.
Certo in Val d’Ayas, poco sotto Brusson, la casa era fresca e abbiamo dormito con un piumino leggero la sera; in almeno una escursione nella quale ci siamo avventurati, abbiamo potuto godere della vista del massico del Monte Rosa, ancora innevato, ma tutto questo non è consolatorio perché le vicende e i fatti descritti nel libro sono, purtroppo, terribili e reali.
Lo è (stato) il “canto funebre” (epicedio) del ghiacciaio islandese lo scorso anno (qui si trova ancora la notizia), “replicato”, in Italia, da due iniziative simili: lo scioglimento del ghiacciaio dei Forni in alta Valtellina, che ha avuto, come dice Camanni, «un riverbero mediatico più da evento folcloristico che da allarme epocale» e ha portato in quota, alla capanna Branca, un’intera orchestra di “musicisti-montanari” devoti alla causa il 20 luglio 2019 e, due mesi dopo, alle sorgenti del Lys, davanti ai seracchi del Monte Rosa.
La targa per la scomparsa del ghiacciaio Ok. |
Fino ad arrivare alla notizia, sempre riportata da Camanni, che il parroco di Fiesch, in Svizzera, non pregava più che il ghiacciaio lasciasse in pace i suoi fedeli. I montanari della Fieschertal – racconta Camanni – si erano rivolti formalmente a papa Benedetto XVI per avere il permesso di modificare il rito di Sant’Ignazio, perché la preghiera storica non aveva più senso. Una volta la processione invocava la ritirata del fiume gelato, adesso volevano pregare Dio che gli restituisse il loro ghiacciaio.
Sembrano notizie di folklore, ma è lo zeitgeist, lo spirito di un tempo che, pretendendo di fare a meno del rispetto dell’ecosistema in cui vive – senza scomodare Dio… – non può che intonare canti funebri.
1 Wikipedia, alla voce: «Decalogo 1».
2 Camanni, Il grande libro del ghiaccio, Laterza, Bari, 2020, p. 294.
3 Op. cit., p. 302.
Ma è vero che stiamo finendo il pesce? Si, se continuiamo a sovrasfruttare il mare.
(riprodotto dal "Fatto Quotidiano" con leggere modifiche)
Il WWF ha recentemente comunicato che a Luglio c’è stato il “Fish Dependence Day,” ovvero, “il limite oltre il quale i consumatori europei terminano virtualmente il consumo di pesce pescato nei mari della regione.” Detto così, ha l’aria di una cosa preoccupante, ma non è che sia chiarissimo cosa sta succedendo. Allora vediamo di spiegare.
Il “Fish Dependence Day” è stato proposto nel 2010 da una fondazione chiamata “NEF” (New Economic Foundation). L’idea è abbastanza semplice: si misura la quantità di pesce pescato in “acque europee”, incluso l’acquacoltura, e la si rapporta al consumo di pesce in Europa. Ne viene fuori che il totale del pesce pescato nei mari Europei (o allevato in Europa) potrebbe soddisfare il consumo soltanto fino a una certa data, ovvero fino ai primi di Luglio – da allora in poi, possiamo considerare che mangiamo tutto pesce importato o pescato in acque internazionali. Per l’Italia, la data fatidica è ancora prima, ai primi di Aprile. E, come vi potete aspettare, la data si sposta all’indietro ogni anno. Il tempo in cui l’Europa produceva abbastanza pesce per il suo consumo interno è ormai remoto, parecchi decenni nel passato e la “forbice” fra consumi e produzione continua ad aumentare.
Ma è veramente un problema se produciamo meno pesce di quello che consumiamo? Che cosa ci impedisce di importarlo? E perché non potremmo semplicemente pescare di più? Ma le cose non sono così semplici. Il Fish Dependence Day è un indicazione di un profondo squilibrio in tutta la questione della pesca a livello mondiale.
Su questo argomento, io e la mia collaboratrice Ilaria Perissi abbiamo scritto un libro intero (“Il Mare Svuotato”, Editori Riuniti 2020), dove trovate descritto come stiamo letteralmente “svuotando il mare” di pesce. E’ per via del “sovrasfruttamento,” ovvero consumare una risorsa naturale a un ritmo superiore a quello con cui si riforma. Succede anche con i conti in banca: se uno preleva più di quanto non deposita, alla fine non rimane più niente. (A Firenze, diciamo, “Leva e non metti fa la spia”).
Questo è quello che sta succedendo col mare. Semplicemente, si sta pescando troppo ovunque e il risultato è che gli stock di pesce si stanno riducendo e tendono a collassare. Avete fatto caso a come sia diventato comune essere punti da una medusa mentre fate il bagno in mare? Ma se avete più di 50 anni, vi ricordate che, quando eravate bambini, il problema delle meduse era molto meno importante. Ma perché tante meduse, oggi? Semplice: i pesci si nutrono di meduse, ma con meno pesci in mare, le meduse hanno potuto riprodursi in tranquillità.
Ma come è possibile che siamo arrivati a questo punto? Governi, scienziati, le agenzie che si occupano di pesca, non avrebbero potuto evitare quello che è successo? In teoria si, ma i politici sono esseri umani e sono sensibili ai ritorni economici che vengono dall’industria della pesca. Il risultato è stato che, spesso, le risorse ittiche sono state sovrastimate, come pure le quote allocate ai pescatori. E’ il caso ben noto, per esempio, della distruzione del merluzzo di Terranova negli anni 1990. Per non parlare degli effetti disastrosi della pesca illegale, dell’inquinamento chimico, della plastica in mare, del riscaldamento globale, e molte altre cose.
E allora? Vuol dire che non dobbiamo mangiare più pesce? No, il pesce è un alimento importante che è stato parte della dieta umana fin dai nostri remoti antenati. Vuol dire però che dobbiamo gestire molto meglio le risorse marine. Già possiamo fare qualcosa di utile mangiando pesce locale, evitando pesce esotico e costoso che viene da lontano. Soprattutto, non dobbiamo dare retta a quelli che ci parlano dell’”Economia Blu” come se fosse un miracolo che risolverà tutti i problemi del mare in modo anche sostenibile. Il mondo reale non ammette miracoli e la crescita economica a tutti i costi non è una cosa buona. Il mare ha ancora grandi risorse, ma dobbiamo lasciarlo un po’ in pace se vogliamo che si riprenda dai danni che ha subito negli ultimi decenni.
sabato 1 agosto 2020
Siamo virus o cellule cancerogene?
-
crescita
rapida e incontrollata delle cellule malate
- invasione
e distruzione dei tessuti sani adiacenti
- de-differenziazione
tra i vari tipi di cellule
- migrazione
in altri siti del corpo (metastasi)
mercoledì 29 luglio 2020
Un olobionte felice è un olobionte che si prende cura del proprio microbioma
Anche se non hai ancora letto a proposito del nostro microbioma - i trilioni di microbi che conducono vite simbiotiche con gli umani, colonizzando la nostra pelle e il nostro intestino - potresti aver notato scritte un po' vaghe come "delicato sui microbiomi" stampato su bottiglie di gel doccia. Questo perché i microbiologi - e le ditte - stanno imparando sempre di più sulla complessa relazione che abbiamo con i nostri germi. Questi includono i loro ruoli da protagonista nello sviluppo del nostro sistema immunitario, proteggendoci dagli agenti patogeni (creando sostanze antimicrobiche e competendo con loro per spazio e risorse) e diminuendo la probabilità di condizioni autoimmuni come l'eczema. Quindi, c'è una crescente consapevolezza che rimuoverli, insieme agli oli naturali di cui si nutrono, o bagnarli con prodotti antibatterici, potrebbe non essere l'idea migliore dopo tutto.
venerdì 24 luglio 2020
La adattabilità del genere umano
- le
glaciazioni. L’ultima, Wurm, interessò il pianeta tra 110.000 e 12.000
anni fa. Nel periodo che va dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo la
Terra fu caratterizzata da un clima freddo denominato PEG, piccola era
glaciale
- le pandemie.
Andando a ritroso nel tempo, il genere umano è stato afflitto dal virus
dell’Hiv/Aids (tra i 25 e 35 milioni di morti), dall’influenza Spagnola
(tra i 40 e i 50 milioni di morti), dal Vaiolo (oltre 50 milioni di morti),
dalla Peste e dal Colera (oltre 200 milioni di morti), solo per citare le
malattie più letali
- le guerre.
Inutile qui fare il riassunto degli eventi e del numero di morti di cui è
pieno ogni manuale di storia.
mercoledì 22 luglio 2020
A cosa servono i modelli? Pillole di ottimismo di Sara Gandini e Ugo Bardi
Questo post è il risultato di una collaborazione con Sara Gandini, direttrice dell’unità "Molecular and Pharmaco-Epidemiology" presso il dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO). E' un grande onore per me avere la possibilità di collaborare con una persona di tale livello scientifico. E' anche un grande piacere notare come Sara trovi il tempo e la voglia di dedicarsi alla divulgazione scientifica, cosa che tutti gli scienziati dovrebbero fare ma che, purtroppo, molti ancora considerano al di sotto della loro dignità professionale. (e poi non si lamentino se qualcuno protesta).
Dal sito Facebook Pillole di Ottimismo
Covid, i modelli predittivi servono? Ecco cosa è andato storto.
Di Ugo Bardi e Sara Gandini.Molte decisioni prese per fronteggiare l’epidemia di Covid-19 sono state basate su modelli predittivi. Questi modelli sono stati criticati per non aver preso in considerazione una serie di variabili che avrebbero migliorato le previsioni, ma anche per non avere tenuto in conto il benessere della comunità nel suo complesso, non solo la salute dei singoli, ma anche il benessere sociale ed economico della società intera. Che cosa è andato storto? È mancata l’intelligenza collettiva che arriva dal coinvolgimento di tutta la comunità scientifica e i politici hanno preferito affidarsi ad una ‘epidemiologia difensiva’ basata sullo scenario peggiore, alle volte a spese del reale benessere della popolazione.
Molto tempo fa, i nostri antenati aruspici cercavano di prevedere il futuro esaminando il fegato di una pecora. C’erano poi varie sibille, profetesse e pitonesse che facevano del loro meglio basandosi sulle stelle, le foglie degli alberi, il volo degli uccelli, o chissà che altro. Oggi, tendiamo a non dare molta retta a questo tipo di approccio alle previsioni però, pur con tutto il rispetto per la scienza moderna, va detto che la previsione del futuro rimane una cosa molto difficile e che, certe volte, la scienza non sembra fare molto meglio dell’antica pitonessa di Delfi.
Questo è vero soprattutto considerando come si tende a usare modelli per descrivere quei sistemi che chiamiamo “complessi” che hanno come caratteristica principale quella di sorprenderti sempre. Per questi sistemi, non c’è un’equazione semplice che li descriva, come c’è invece per esempio, per il moto dei corpi celesti nello spazio. Immaginatevi cercare un’equazione che descriva, per esempio, il vostro gatto. Non facile, di certo! Tuttavia, non è che il comportamento di un gatto sia del tutto imprevedibile. Provate ad agitare la scatola dei croccantini e sapete benissimo cosa succede. Si tratta di capire che non bisogna avere la pretesa di fare previsioni quantitative a lungo termine quando sappiamo bene che tutto può cambiare alla svelta.
Un buon esempio della difficoltà che abbiamo nel prevedere il futuro si è visto con i modelli epidemiologici applicati alla pandemia di coronavirus, che sono risultati spesso troppo ottimisti o troppo pessimisti. Tanto per fare un paio di esempi, il modello di IHME (Institute for Health Metrics and Evaluation) in Aprile, prevedeva meno di 20.000 vittime dell’epidemia in Italia mentre, a oggi, il numero reale è stato di 35.000. Al contrario, Greco riporta come “Il modello [dell’Imperial College di Londra] prevedeva in Italia oltre mezzo milione di morti per Covid-19 se non si fosse preso alcun provvedimento, e “soltanto” 283 mila decessi applicando, come di fatto è stato fatto, “il più rigido lockdown.” Per fare un altro esempio, per la Svezia il modello di IHME era arrivato a prevedere quasi 20.000 morti in Aprile, mentre il numero reale si è assestato a poco oltre 5000.
Sulla base di questi e altri risultati Guido Silvestri è arrivato al punto di proporre che bisognerebbe promettere che tali modelli non saranno più usati per prendere decisioni politiche. Si riferiva ai modelli che sono stati usati per prevedere l’andamento di COVID-19 in Italia con la “riapertura” e che non hanno tenuto sufficientemente conto di fattori come “la stagionalità dei coronavirus, la migliorata capacità di gestire COVID-19 dal punto di vista medico/epidemiologico, e la herd immunity, a cui potrebbero contribuire la cross-reactivity con altri coronavirus umani”. Altrettanto critico è stato l’epidemiologo Donato Greco su Scienza in Rete dove ha descritto il fallimento del modello dell’Imperial College che è stato alla base delle decisioni politiche che sono state prese in Italia e in altri paesi. Donato Greco sottolinea l’importanza di prendere decisioni che riguardano il benessere della comunità tenendo conto non solo della salute dei singoli, ma anche del benessere sociale ed economico della società intera.
Mentre con il coronavirus i modelli hanno semplicemente “dato i numeri.” Se volete la nostra opinione, che su dati e modelli ci traffichiamo da un pezzo, questi modelli non hanno aiutato perché dipendono da dati e assunzioni in larga parte non verificabili, da una parte hanno tenuto fuori dal quadro aspetti importanti, come ad esempio le enormi differenze geografiche che si osservano anche per la mortalità da influenza stagionale, dall’altra hanno inserito troppi parametri che rendono difficile interpretare i modelli. E il risultato è un po’ quello che succede quando uno va a vedere un museo tipo il Louvre a Parigi. Dopo che hai visto centinaia di quadri e sculture, non capisci più nemmeno cosa stai vedendo.
Ora, non è che i modelli non siano utili per prevedere il futuro, ma vanno capiti. Vi ricordate quando il ministro Francesco Boccia chiedeva alla comunità scientifica “certezze inconfutabili” sull’epidemia? Evidentemente, pensava che gli scienziati potessero vedere il futuro nel fegato di qualche pecora e venirsene fuori spiattellando il volere degli Dei, ma non funziona così. Il ministro non aveva capito nulla di come funzionano i modelli. Ma non era solo un problema del ministro. Succede spesso che, invece di usare i modelli come fonte di informazione e comprensione della realtà, i politici li strumentalizzano per supportare programmi di “epidemiologia difensiva” che soffre dello stesso problema della “medicina difensiva,” ovvero la volontà di agire principalmente con lo scopo difendersi da possibili rischi giuridici, alle volte a spese del reale benessere del paziente. Così l'epidemiologia difensiva segue la strategia di adottare lo scenario peggiore come se fosse esente da rischi. Ma ogni scelta comporta effetti sulle persone che sono non meno importanti e non meno drammatici dell’impatto diretto del virus. Questo problema è descritto in una recente “Pillola di Ottimismo.”
I modellisti dovrebbero quindi sottrarsi al gioco di presentare le proiezioni ottenute dai modelli come se fossero certezze in modo tale che ai politici non sia più consentito scaricare la responsabilità sui modelli o sugli scienziati stessi. Al contrario i ricercatori dovrebbero mettere in chiaro le ipotesi da cui si parte, e le misure di precisione, quindi di variabilità delle stime che si fanno, inclusi i limiti intrinsechi in ogni lavoro. In particolare, una grave limitazione dei modelli epidemiologici è stata quella di non tentare di quantificare gli effetti collaterali dei rimedi proposti sulla base dei risultati delle simulazioni: danni alla salute causati dal lockdown, dal trascurare altre forme di malattie, dalla depressione causata dall’isolamento delle persone anziane e molti altri effetti. Questo problema non è stato capito né dai politici né dal pubblico
Su questo punto, è uscito recentemente su Nature un articolo interessante che presenta un manifesto per le migliori pratiche per la modellazione matematica responsabile: Cinque semplici principi per aiutare la società a richiedere la qualità di cui ha bisogno dalla modellistica:
-attenzione alle assunzioni
-attenzione all’arroganza
-attenzione al contesto
-attenzione alle conseguenze
-attenzione a tutti gli aspetti sconosciuti
-attenzione a usare i modelli per porre domande non per dare risposte
Nelle conclusioni gli autori spiegano che questo testo non auspica la fine della modellistica quantitativa, né modelli apolitici, ma una divulgazione completa, schietta e responsabile. Soprattutto bisogna fare in modo che i modelli siano discussi all’interno della comunità scientifica in modo che si crei una intelligenza collettiva che includa come scrive Donato Greco “l’incertezza, i rischi, gli effetti collaterali, quindi l’assunzione di responsabilità pesanti”. Per questo, quanto più ricca è “l’Intelligence” più appropriate saranno le scelte che questa emergenza richiede.
Alla fine dei conti, ricordiamoci che se è vero che il futuro non si può prevedere, è anche vero che per il futuro si può sempre essere preparati.
https://covid19.healthdata.org/italy
https://www.scienzainrete.it/…/scar…/donato-greco/2020-05-11
http://maddmaths.simai.eu/comu…/risposta-di-guido-silvestri/
https://www.ilfattoquotidiano.it/…/coronavirus-il-…/5769710/
https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/143815370692276
https://www.nature.com/articles/d41586-020-01812-9