martedì 24 novembre 2015

Marketing e sangue: la strategia dell'ISIS



di Jacopo Simonetta

Sulla strategia dell’ISIL (o ISIS, o Daesh che dir si voglia) vengono quotidianamente scritti fiumi di parole.   Non ho la competenza per farne una rassegna critica, e troppo numerosi sono i fattori in gioco per discuterli in un post.   Vorrei però approfittare di questo spazio per porre in risalto un dettaglio che mi pare interessante: la strategia della comunicazione dello "Stato islamico".  Un dettaglio che credo abbia a che fare con gli attentati in Europa (compresa la Russia).

Secondo il  RSDH (Réseau syrien des droits de l’homme)  nella guerra civile siriana circa l'80% delle vittime civili e la quasi totalità delle distruzioni materiali sono responsabilità del regime di Assad.   ISIL avrebbe commesso circa il 10% dei massacri e tutti gli altri insieme altrettanto.   Altre fondi danno cifre analoghe. Probabilmente non dipende tanto da scelte strategiche, quanto dalla potenza di fuoco e dai mezzi disponibili.   Solo Assad dispone di artiglierie ed aviazione.   ISIL provò a far volare un paio di caccia, ma furono immediatamente abbattuti dagli americani.

Eppure il "califfo" si è fatto una solida fama di super-criminale, tanto che Putin lo ha paragonato a Hitler.   Non è certo la prima volta che in una guerra uno dei contendenti assurge a male assoluto, ma la cosa interessante è che questa tenebrosa reputazione non dipende tanto da una campagna mediatica condotta dai suoi nemici, quanto da una campagna mediatica condotta dallo stesso Deash.   Per essere chiari, mentre gli altri contendenti hanno evitato di coinvolgere gli stranieri ed hanno seguito la strategia classica di nascondere i propri crimini, ISIL ha fatto di questi l'asse portante della sua strategia di comunicazione.   Anzi, sono dell'idea che molti dei suoi delitti più efferati sono stati compiuti esclusivamente ad uso dei media e dei social network.

Un fatto che credo sia assolutamente nuovo nel vasto panorama bellico recente ed attuale.

Riassumendo molto per sommi capi, Daesh nasce nel caos provocato dall'invasione USA dell'Iraq, sostanzialmente per contrastare la crescente ingerenza iraniana in quel paese e, in una prima fase, ha agito in modo da dare nell'occhio il meno possibile.   Ovviamente gli addetti ai lavori lo conoscevano bene, ma l’opinione pubblica occidentale ne era completamente all'oscuro.  Al massimo qualcuno, di tanto in tanto, ci ricordava che c’era stata l’ennesima autobomba ad una moschea irachena od un massacro in Siria.   Ma da quelle parti sono parecchi soggetti adusi a queste cose.

Poi le bandiere nere sono arrivate nella periferia di Baghdad, dopo aver preso il controllo di gran parte delle aree petrolifere irachene e siriane.   Fulmine a ciel sereno!   Nessuno sembrava sapere da dove fosse saltato fuori un intero esercito, bene armato e combattivo.

La reazione iniziale degli americani e dei loro satelliti fu raffazzonata e ben poco efficace, mentre questo gruppo manteneva una vivace iniziativa sia sul campo, sia sui media, passando istantaneamente dai documenti riservati alle prime pagine del mondo intero.

In questa fase, diciamo di emersione di ISIS, furono decapitati alcuni prigionieri.   Perché usare un modo così poco pratico di ammazzare la gente in un’epoca in cui abbondano i fucili?   La mia ipotesi è perché una fucilazione avrebbe prodotto degli articoli in terza pagina e solo in alcuni paesi.   Una decapitazione filmata e postata su internet viene vista da centinaia di migliaia di persone ed assicura le prime pagine sui giornali del mondo intero per parecchi giorni. E tutto ciò a costo zero.

Non solo, ma questa che potrebbe essere semplicemente una strategia di marketing, si è rivelata particolarmente efficace negli effetti prodotti.   I balordi di banlieu hanno infatti letto l’azione omicida come un atto di forza e di coraggio, mentre hanno visto lo strepito dei media internazionali come uno starnazzare di vecchiette spaventate.

L’effetto galvanizzante è stato quindi particolarmente efficace proprio sul target principale: i giovani maschi della piccola borghesia nelle grandi città, sia arabe che europee.   Gente assolutamente normale, ma potenzialmente pericolosa per l’effetto combinato di sovrappopolazione, recessione economica ed una cultura fatta solo di slogan, videogames e propaganda.   Un ambiente in cui vittimismo a buon mercato, delusione e desiderio di rivolta si sposano bene con una situazione economica spesso modesta, ma sufficiente a garantire l’accesso ai gadget tecnologici necessari per seguire le “eroiche imprese del Califfato”.

Altra trovata pubblicitaria geniale.   Evocare il califfato significa immediatamente evocare i tempi in cui l’Islam era la potenza egemone ed il fulcro della civiltà.   Mentre l’Europa occidentale non era che un ricettacolo di banditi poveri ed ignoranti.   Che non fosse esattamente così lo sanno bene i professori di storia, ma non certo i balordi.   Del resto perché stupirsi, se anche fra gli europei d’antica data questa visione un tantino semplicistica passa per buona?   Non è certo una novità che la storia, come strumento politico, funziona tanto meglio quanto meno è conosciuta.

Dunque un grande successo di mercato, con i “Califfo fan club” che sbocciavano come margherite in buona parte del mondo islamico, comprese le comunità insediate in Europa da generazioni.
Nel bombardamento di immagini cui siamo stati sottoposti,  ogni dettaglio era evidentemente curato da professionisti: coreografi, costumisti, registi, eccetera.   Uno staff di professionisti dello spettacolo e della comunicazione che, chissà? Magari sono americani e francesi.  Perché no? Business is now.


E' però risaputo che l’esposizione ad un messaggio provoca un innalzamento della soglia di attenzione.   Dopo un poco, per mantenere la fatidica posizione fra i primi tre posti su Google fu quindi necessario rincarare la dose.   Così siamo passati dalle esecuzioni singole a quelle multiple, poi ai massacri delle minoranze.  

Come abbiamo visto, altri protagonisti della tragedia siriana hanno fatto cose simili ed anche peggiori, ma la differenza è che l'ISIL se ne è fatto un vanto di fronte al mondo.   Col risultato di diventare un polo d'attrazione planetario per una consistente minoranza di mussulmani nel mondo non solo arabo.

Evidentemente, risultati di questo genere non si ottengono da zero.   A monte di tutto ciò ci sono stati trenta anni di capillare diffusione  del wahhabismo a gran forza di petroldollari e, sopratutto, la massiccia presenza mediatica di questa setta capace di impersonare il ruolo di "Islam tadizionale" in tutti quegli ambienti in cui la storia dell'islam è del tutto ignota.   E fra questi anche gran parte delle nuove generazioni in seno alle famiglie mussulmane.    Un altro fattore che i comunicatori del Daesh hanno saputo magistralmente sfruttare sono gli effetti destabilizzanti della sovrappopolazione; oltre alla delusione per le mancate promesse del progresso all'occidentale.    E, soprattutto, la grave crisi economica generata dal globale impatto contro quei "Limiti dello Sviluppo" di cui tanto si parla su questo blog.

Tornando alla campagna mediatica che Daesh ha sviluppato sinergicamente a quella militare, un'altra fase fu caratterizzata dalla formale riduzione in schiavitù delle donne.   Totale o parziale a seconda del credo religioso, con tanto di annunci pubblicitari per la vendita all'asta di lotti di ragazze yazide e cose del genere.   Un altro successo mediatico anche se, bisogna dire, assai più banale.   Maltrattare le donne non è certo un’idea originale, ma come si dice in gergo, è un “evergreen”.   Una cosa che ti assicura comunque un buono share.

E quando anche questo filone ha cominciato a retrocedere verso la seconda pagina sui motori di ricerca, c’è stata la fase della distruzione delle opere d’arte.   Un’altra volta le prime pagine gratis ed una netta divisione fra una massa di persone sgomente ed una minoranza di balordi entusiasti.
Nel mezzo il grosso delle comunità islamiche europee, sempre più strette fra le reazioni dell’opinione pubblica ora buoniste, ora aggressive, ma in entrambi i casi utili alla propaganda jihadista.

Un altro effetto ottenuto con questa strategia è stato quello di contribuire a rivitalizzare in varie parti del mondo un senso di appartenenza basato su di un cristianesimo che, pur essendo perlopiù (ma non sempre) pacifista, sta minando quel laicismo che credevamo essere una conquista definitiva della nostra civiltà.

Ancora più importante è però il successo che l'ISIL sta avendo nel sostenere la crescita della destra xenofoba sia in Europa che in Russia e negli USA.    L'equazione mussulmano = arabo = terrorista (almeno potenziale) è stupida, ma anche rassicurante in quanto identifica un nemico  chiaramente circoscritto e facilmente riconoscibile.   E' bello pensare che hai un nemico, che lo puoi sconfiggere e che dopo andrà tutto bene. Niente di meglio per aumentare il disagio delle comunità islamiche fra cui si raccolgono fondi e si arruolano soldati.

In questo quadro, l’attacco a Charlie Hebdo assicurò daccapo una copertura mediatica globale praticamente gratis.   Ma forse qualcosa cominciò a cambiare nell'atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica europea, compresa quella mussulmana.   La partecipazione di 4 milioni di persone in tutt’Europa alla manifestazione che seguì può essere spiegata solo in parte con la propaganda.   Personalmente ho avuto modo di vedere palestinesi ed israeliani scambiarsi le bandiere ed ho udito importanti imam dire chiaro e tondo che l’integralismo islamico era un pericolo mortale prima di tutto per i mussulmani.   Più di una fatwa è stata formalmente lanciata contro il Daesh.   Per ora apparentemente senza risultato, ma l’evoluzione dei fenomeni storici non necessariamente rispetta il nostro infantile desiderio di veder risolti i problemi in un fiat.

Forse, dal loro punto di vista, fu un errore e forse no.   Ma sta di fatto che nei mesi precedenti il "califfo" aveva subito importanti rovesci ad opera di inedite alleanze, temporanee e parziali, ma efficaci.   Ad esempio la città strategica di Tikrit era stata riconquistata da truppe irregolari iraniane e milizie locali, sostenute dall'aviazione statunitense.

In Siria, sempre grazie agli americani, i Curdi avevano respinto l’ISIL a Kobane, per poi passare alla controffensiva anche in altri settori.   Più di recente, rinforzi iraniani e russi hanno rianimato  le sfinite truppe di Assad che hanno ripreso l’iniziativa in tutto l’ovest del paese.  Anche se l’ISIL non è il loro unico obbiettivo.

Per rilanciare l’immagine del "califfato" e portare nuova linfa alle sue fila occorreva qualcosa di sensazionale.   Purtroppo anche in questo campo vige l’implacabile legge dei ritorni decrescenti e, se un paio di anni fa bastava assassinare un prigioniero per ottenere un successo di pubblico planetario, man mano che la gente si abituava allo spettacolo della violenza gratuita, è stato necessario alzare il tiro.   Finché, forse, si è commesso un errore di valutazione.

Gli attentati in Turchia (Suruc in Luglio, circa 30 morti, ed Ankara in ottobre, 100 morti) sono di difficile lettura perché fra le loro conseguenze ci sono stati il rilancio delle ostilità contro il PKK e la vittoria elettorale di Erdogan che non nasconde le sue ambizioni.   Se non proprio califfo, almeno sultano lo vuole diventare di sicuro.

Poi ci sono stati i due attentati più sanguinosi: quello contro l’aereo russo e quello in centro a Parigi.
Sia la Russia che la Francia sono attori recenti nello scacchiere siriano.   Forse il doppio attentato aveva quindi lo scopo di intimidire questi governi ed indurli a ritirarsi, come era avvenuto con l’attentato di Madrid del 2004 (quasi 200 morti).   Se questo fosse il caso, il risultato ottenuto sembra essere stato quello opposto.

In alternativa, potrebbe essere stato un modo per rilanciare la consolidata strategia di marketing, con azioni tanto spettacolari da assicurare nuovamente uno share globale, provocare reazioni isteriche da parte occidentale, mettere ulteriormente nell'angolo le minoranze islamiche e ridare entusiasmo ai propri sostenitori.   Tutte cose puntualmente successe.

In questa seconda ipotesi, che Francesi e Russi bombardassero  alcuni palazzi ed installazioni a Racca era scontato e, forse, faceva parte della strategia di comunicazione.   Il fatto di resistere ad un attacco portato con mezzi strapotenti non può che convincere ulteriormente i balordi di periferia dell’indomito coraggio e dell’invincibilità dei combattenti del “califfo”.

Ma potrebbe anche darsi che le potenze grandi e piccole che svolazzano sui cieli siriani si siano stufate e trovino un accordo.   Magari parziale ed ingiusto, ma temporaneamente efficace.   Non sarebbe facile per l’intreccio mortale di interessi fra occidentali e Sauditi, ma potrebbe accadere e forse è già accaduto. Se fosse (o se sarà) così i giorni del “califfo” sarebbero contati.   E’ presto per saperlo, lo vedremo nel corso dei prossimo mesi, ma per adesso vediamo un’azione congiunta franco-russa.   Non si vedeva dal 1945 e sfido chiunque a dire che lo aveva previsto.

Ovviamente, l’eventuale fine del Daesh non significherebbe in alcun modo la fine del caos e della violenza in medio Oriente.   E nemmeno la fine dell’immigrazione di massa o degli attentati.
I balordi ad un tempo sfigati e viziati saranno ancora li, mussulmani e non.   Ci sarà ancora l'industria teologico-mediatica del wahhabismo, come saranno ancora li la recessione economica, la delegittimazione della classe politica, l’avidità senza fondo del mercato.   E ci saranno ancora il picco di tutto, la sovrappopolazione, il peggioramento del clima, la desertificazione dei suoli, la morte della Biosfera e molto altro ancora che nessuna alleanza militare, né alcun progetto di integrazione culturale può minimamente scalfire.

Ma se vogliamo essere ottimisti a tutti i costi, possiamo forse sperare che gli europei, di tutte le confessioni e colori, capiscano che l’unione non fa solo la forza per reagire agli attacchi criminali.   E’ anche l’unico strumento che abbiamo per mitigare gli effetti del rendiconto che il Pianeta ha appena cominciato a presentaci.




domenica 22 novembre 2015

Cambiamento climatico: una gran brutta figura dei chimici e dei fisici italiani



Galileo, Avogadro, Fermi e tanti altri si staranno rivoltando nelle loro tombe. 


Dal blog della società chimica italiana. 

Gli scienziati italiani sul clima ma senza la SCI e la SIF.

(di  Claudio Della Volpe)
Si è tenuta a Roma la conferenza “ROME2015 – SCIENCE SYMPOSIUM on CLIMATE”, che per la prima volta in Italia è una conferenza organizzata  dalle più importanti Società e Associazioni Scientifiche Nazionali per avere una unica voce sulla scienza dei cambiamenti climatici e i suoi vari aspetti.
Le Società e Associazioni Scientifiche Nazionali che hanno partecipato all’organizzazione dell’evento sono:
  1.  SISC – Società Italiana per le Scienze del Clima,
  2.  AGI – Associazione Geofisica Italiana,
  3.  AIAM – Associazione Italiana di AgroMeteorologia,
  4.  AIEAR – Associazione Italiana degli Economisti dell’Ambiente e delle Risorse naturali,
  5.  ATIt – Associazione Teriologica Italiana,
  6.  CATAP – Coordinamento delle Associazioni Tecnico-scientifiche per l’Ambiente ed il Paesaggio,
  7.  COI – Commissione Oceanografica Italiana,
  8.  FLA – Fondazione Lombardia Ambiente,
  9.  GII – Gruppo italiano di Idraulica,
  10. HOS – Historical Oceanography Society,
  11. SIDEA – Società Italiana di Economia Agraria,
  12. SIF – Società Italiana di Fisica,
  13. SMI – Società Meteorologica Italiana,
  14. UNASA – Unione delle Accademie di Agricoltura.
Il comitato scientifico di questa conferenza, che ha incluso i rappresentanti di tutte queste societa ha preparato la “Dichiarazione scientifica sui cambiamenti climatici“, che vi allego in fondo.
La SIF in questa conferenza è stata rappresentata dalla sua presidente: prof.ssa Luisa Cifarelli. Alla fine non ha firmato il testo finale insieme con UNASA ed HOS.
Ma ancor più brilla per la sua assenza perfino ai lavori la Società Chimica Italiana.
Sarebbe bello sapere dal Presidente Riccio la ragione di questa assenza anche ai lavori preparativi; come mai non ci siamo andati? C’è un motivo specifico? Siamo stati invitati o consultati? Non sappiamo I dettagli per cui alcune società scientifiche non hanno frmato, ma rimane che apparentemente la SCI è fuori da queste iniziative.
Cosa ne pensano I due candidati alla presidenza? Continueremo così o cercheremo di partecipare anche noi al generale movimento di iniziative scientifiche e comunicative sul cambiamento climatico, rinunciando a farci rappresentare presso il grande pubblico essenzialmente da posizioni “personali” ed essenzialmente critico-neghiste come quelle presenti sull’ultimo numero de La Chimica e l’industria (Carrà e Mazzullo)?
 Clima: l’appello degli scienziati italiani
dichiarazione che, nell’ambito della conferenza SISC 2015, le società e le associazioni scientifiche italiane hanno sottoscritto per inviare alla COP21 di Parigi un messaggio chiaro dall’Italia: un messaggio di collaborazione e di integrazione transdisciplinare
I cambiamenti climatici costituiscono per la comunità internazionale una delle sfide più complesse e importanti, le cui conseguenze negative hanno un’elevata rilevanza per economie e società, non solo per l’ambiente. Allo stesso tempo, rappresentano anche un’opportunità per rinnovare i sistemi economici e introdurre innovazioni tecnologiche e sociali.
Il Quinto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici dell’IPCC, la più esaustiva e aggiornata raccolta delle conoscenze scientifiche sul clima, contiene un’ampia collezione di dati, informazioni e risultati sui quali converge un consenso condiviso all’interno della comunità scientifica.
I principali risultati possono essere riassunti nel modo seguente:
  • l’influenza umana sul sistema climatico è inequivocabile ed è estremamente probabile che le attività umane siano la causa dominante del riscaldamento verificatosi a partire dalla metà del XX secolo. Il continuo riscaldamento del pianeta aumenta i rischi di impatti gravi, pervasivi e irreversibili sul sistema climatico;
  • gli impatti dei cambiamenti climatici si stanno già manifestando e interessano sia i Paesi in via di sviluppo che i Paesi più sviluppati. Le comunità più deboli da un punto di vista sociale, economico, culturale, politico, istituzionale sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici;
  • dal 1950 ad oggi sono aumentati gli eventi climatici estremi (ad esempio ondate di calore, innalzamento del livello del mare, precipitazioni violente, gravi siccità) e molti di questi sono attribuibili all’influenza delle attività umane;
  • l’esposizione e la vulnerabilità ai cambiamenti climatici e agli eventi estremi, insieme ad eventi pericolosi connessi al clima, costituiscono componenti cruciali per la valutazione e la gestione del rischio di ogni attività economica o sociale.
La comunità internazionale ha incluso i cambiamenti climatici tra i Sustainable Development Goals, l’insieme di obiettivi universalmente riconosciuti per bilanciare le dimensioni ambientale, sociale ed economica dello sviluppo sostenibile. Affrontare i cambiamenti climatici è quindi uno degli obiettivi definiti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite in cui si esprime chiaramente l’urgenza di ridurre le emissioni di gas serra e di affrontare il tema dell’adattamento agli impatti negativi dei cambiamenti climatici.
Le scelte che adottiamo oggi e nel prossimo futuro risulteranno decisive: i rischi legati ai cambiamenti climatici per i sistemi umani e naturali dipendono dalle emissioni complessive di gas serra, che a loro volta dipendono dalle emissioni annuali dei prossimi decenni. Maggiori emissioni di gas serra condurranno a un maggior riscaldamento che amplificherà i rischi esistenti per i sistemi umani e naturali e ne creerà di nuovi.
Strategie di mitigazione e di adattamento sono necessarie per affrontare gli impatti negativi dei cambiamenti climatici, e dovranno necessariamente essere parte di un processo decisionale che prenda in considerazione la percezione del rischio e i bisogni di specifici territori, bilanciando costi e benefici. Il coinvolgimento di governi nazionali e regionali, così come dei settori privati, è indispensabile al fine di sviluppare e implementare politiche climatiche adeguate.
Le società e le associazioni scientifiche che sottoscrivono questo documento richiamano:
  • i decisori politici, a livello nazionale e internazionale, ad assumere la guida delle iniziative sul clima e ad adottare misure efficaci per limitare le emissioni di gas serra. Le scelte politiche dovrebbero definire e realizzare risposte di mitigazione e di adattamento su scale diverse, necessarie ad affrontare i cambiamenti climatici;
  • le istituzioni nazionali e internazionali a sostenere l’impegno della ricerca nell’ambito delle scienze del clima, degli impatti e delle tecnologie, lo sviluppo istituzionale di discipline convergenti sul piano scientifico e tecnologico, e specifici programmi di training e di alta formazione sulle scienze e sull’economia del clima;
  • la comunità internazionale a trovare un accordo alla COP21 di Parigi su efficaci ed equi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, sui meccanismi per la misurazione e la verifica dei progressi verso gli obiettivi definiti, sulle risorse finanziarie necessarie a sostenere la transizione dei Paesi in via di sviluppo verso un’economia “zero carbon”;
  • il settore privato a ridurre il consumo di carburanti derivanti da fonti fossili, ad incrementare l’efficienza energetica in tutte le attività e tutti i settori, ad adottare velocemente tecnologie e processi organizzativi a basso contenuto di carbonio;
  • i settori finanziari a potenziare il sostegno a investimenti in energie rinnovabili e ad integrare i rischi connessi ai cambiamenti climatici nelle proprie strategie di investimento;
  • tutti i cittadini a migliorare la consapevolezza dei rischi derivanti dai cambiamenti climatici per le nostre società e ad accrescere la pressione sui decisori politici e sugli elettori per una rapida ed efficace azione volta alla riduzione delle emissioni di gas serra e a limitarne gli impatti più disastrosi.
Le Società e Associazioni Scientifiche che hanno espresso la loro dichiarazione a ROME2015 – SCIENCE SYMPOSIUM ON CLIMATE sono: SISC – Società Italiana per le Scienze del Clima, AGI – Associazione Geofisica Italiana, AIAM – Associazione Italiana di AgroMeteorologia, AIEAR – Associazione Italiana degli Economisti dell’Ambiente e delle Risorse naturali, ATIt – Associazione Teriologica Italiana, CATAP – Coordinamento delle Associazioni Tecnico-scientifiche per l’Ambiente ed il Paesaggio, COI – Commissione Oceanografica Italiana, FLA – Fondazione Lombardia Ambiente, GII – Gruppo italiano di Idraulica, SIDEA – Società Italiana di Economia Agraria, SMI – Società Meteorologica Italiana.

giovedì 19 novembre 2015

Siria, cambiamento climatico e l'orrore di Parigi

Da “Resource Insight”. Traduzione di MR

Di Kurt Cobb

Mentre il mondo piange coloro che sono morti a Parigi la scorsa settimana con una follia omicida per la quale lo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS) ha già rivendicato la responsabilità, giornalisti e commentatori hanno discusso le motivazioni che stanno dietro agli attacchi. Non sono certo se qualcuno finora abbia considerato se si possa disegnare una linea che va dalla grave siccità in Siria a queste uccisioni di massa. La mia personale risposta è che se c'è una linea – e credo che ci sia – questa deve avere preso molte curve e deviazioni prima di arrivare a Parigi. Anche così, potrebbe avere senso, per coloro che tra poco si raccoglieranno in questa città in lutto per negoziare un nuovo trattato climatico, capire ogni connessione del genere. Perché sullo sfondo di questi eventi, c'è una Siria assetata di acqua, quasi sicuramente a causa del cambiamento climatico. Uno studio pubblicato all'inizio dell'anno suggeriva che il primo collegamento nella catena causale che ha portato all'attuale conflitto in Siria è stata una grave siccità durata dal 2006 al 2009, una siccità che ha fornito una delle prove più forti fino a questo momento del collegamento fra cambiamento climatico e siccità sempre più estreme. Come ha scritto il The New York Times nel marzo scorso:

Alcuni scienziati sociali, politici ed altri hanno precedentemente suggerito che la siccità ha giocato un ruolo nei disordini in Siria e i ricercatori si sono occupati anche di questo, dicendo che la siccità “ha avuto un effetto catalizzatore”. Hanno citato studi che hanno mostrato che l'aridità estrema, insieme ad altri fattori, comprese politiche agricole e di uso dell'acqua sbagliate da parte del governo siriano, hanno causato la perdita dei raccolti che hanno portato alla migrazione di 1,5 milioni di persone dalle aree rurali a quelle urbane. Questo si andato ad aggiungere agli stress sociali che alla fine sono sfociati nella rivolta contro il presidente Bashar al-Assad nel marzxo del 2011.
Così, il cambiamento climatico non è una spiegazione sufficiente per il conflitto siriano né per gli orribili e brutali attacchi sui civili francesi. Di fatto, l'ISIS aveva minacciato la Francia molto prima che l'esercito francese entrasse nel conflitto alla fine di settembre. Ciononostante, il cambiamento climatico sembra essere il primo collegamento in una lunga catena di eventi che coinvolgono una miriade di gruppi e paesi che alla fine ha portato agli attacchi a Parigi, attacchi che si crede siano una rappresaglia contro gli attacchi aerei francesi contro l'ISIS. Non è tanto che il cambiamento climatico fa diventare violente le persone, quanto che inasprisce le loro tendenze violente. La mancanza d'acqua e la perdita dei raccolti possono rendere le persone molto, molto arrabbiate – arrabbiate e suscettibili con coloro che promettono vendetta contro coloro che vengono percepiti come i perpetratori dei loro problemi. Ma non si può combattere il cambiamento climatico con le pistole. Così, quando escono fuori le pistole, queste vengono puntate contro le persone per motivi che pochi fanno risalire al cambiamento climatico. Rimostranze latenti, vecchie e nuove, possono trovare espressione, pare, nel conflitto armato, quando il calore del riscaldamento globale viene alzato così tanto.

La principale preoccupazione a Parigi ora è per la sicurezza delle migliaia di scienziati, politici, persone in affari, giornalisti e capi mondiali che arriveranno in città per la United Nations Framework Convention on Climate Change fra il 30 novembre e l'11 dicembre. Entrerà nella mente dei partecipanti che i selvaggi attacchi di Parigi sono in qualche modo collegati al cambiamento climatico? La più ampia opinione pubblica mondiale vedrà il collegamento? Noi umani abbiamo una naturale tendenza a combattere per le cose che vogliamo e di cui abbiamo bisogno, come acqua, cibo e risorse energetiche. Il cambiamento climatico renderà la nostra capacità di ottenere tutto questo o più difficile (cibo ed acqua) o più problematica (gas serra da risorse energetiche da combustibili fossili). Un maggiore conflitto su questi fondamentali collegati al cambiamento climatico non possono essere lontani. E ciò significa che i colloqui sul clima in arrivo a Parigi non saranno solo sul clima. Saranno anche sul conflitto e la pace. Senza un progresso sostanziale sul cambiamento climatico è probabile che vedremo sempre più conflitti che cominciano con la privazione portata dal cambiamento climatico, che si trasformano rapidamente in guerra con dimensioni ideologiche, etniche e religiose che inghiottiranno intere regioni. Molti lettori forse conoscono il vecchio adagio sulla relazione fra pace e giustizia: “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia”. A questo oggi dobbiamo aggiungere una nuova variazione: “Se vuoi la pace, devi lavorare per politiche e pratiche che affrontino seriamente il cambiamento climatico”. Che i negoziatori di Parigi possano trovare il coraggio di fare proprio questo.



giovedì 12 novembre 2015

I dieci anni che hanno cambiato tutto ed hanno impedito ogni cambiamento

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Manca un mese dalla COP-21, a Parigi, che dovrebbe cambiare tutto – e che probabilmente non cambierà niente di rilevante. Ma il cambiamento avviene, anche se in modi che spesso ci sorprendono e che potrebbe non farci piacere di vedere. Il decennio scorso è stato un periodo di enormi cambiamenti ed anche un decennio di giganteschi sforzi mirati ad evitare il cambiamento a tutti i costi. E' una delle molte contraddizioni del nostro mondo. Lasciate quindi che vi racconti la storia di questi anni difficili.


- L'accelerazione del cambiamento climatico. Nel 2005, il cambiamento climatico sembrava essere ancora un'animale relativamente domabile. Gli scenari presentati dal IPCC (a quel tempo aggiornati al 2001) mostravano aumenti della temperatura graduali e i problemi sembravano essere lontani decenni – se non secoli. Ma il 2005 è stato anche l'anno in cui è diventato chiaro che limitare il riscaldamento a non più di 2°C era molto più difficile di quanto si pensasse in precedenza. Allo stesso tempo, il concetto che il cambiamento climatico è un processo non lineare ha iniziato a penetrare nel dibattito e il pericolo di un “cambiamento climatico fuori controllo” e stato sempre più compreso. Gli eventi del decennio hanno mostrato la rapida progressione del cambiamento climatico. Uragani (Katrina nel 2005, Sandy nel 2012 e molti altri), la fusione delle calotte glaciali, la fusione del permafrost, che rilascia il suo carico mortale di metano immagazzinato, enormi incendi forestali, stati interi che si prosciugano, la perdita di biodiversità, l'acidificazione degli oceani e molto altro. E' stato scoperto che le temperature alte condizionano gli esseri umani di più di quanto si credesse e, come colpo di grazia, che gli effetti negativi sul comportamento umano dell'aumento della concentrazione di CO2 sono molto più importanti di quanto si credesse. Stiamo scoprendo con orrore che stiamo trasformando il nostro pianeta in una camera a gas e non sappiamo come fermarci.

- L'insorgere del negazionismo. Nel 2005, Il negazionismo della scienza del clima sembrava essere in declino, da seppellire nella pattumiera della storia a causa dell'accumulo di conoscenza scientifica sul clima. Non sarebbe stato così. La campagna contro la scienza ha aumentato il ritmo, usando la gamma completa di tecniche di propaganda a disposizione. Nel 2008, abbiamo visto il cosiddetto scandalo del “climategate”, probabilmente la campagna di PR negativa di maggior successo mai montata. Nel 2011, il meme della “pausa” è stato diffuso dal Daily Mail ed è stato un altro attacco propagandistico di notevole  successo. Poi, i singolo scienziati del clima sono stati molestati, demonizzati, investigati e persino minacciati fisicamente, mentre l'opinione pubblica è stata l'obbiettivo di un bombardamento di informazioni contraddittorie atte a creare incertezza e dubbio. La campagna ha avuto successo, specialmente negli Stati Uniti. Durante la campagna presidenziale del 2012, abbiamo visto entrambi i candidati evitare il problema del cambiamento climatico come se fosse avvelenato. E, nel 2015, vediamo qualcosa di mai visto prima: nessuno dei candidati repubblicani alle presidenziali ammette che il cambiamento climatico sia causato dalle attività umane. E questo è un problema. Il negazionismo rimane un fardello pesante nel cercare di fare qualcosa di pratico per fermare il cambiamento climatico.

- Il picco che non c'è stato. Nel 1998, Colin Campbell e Jean Laherrere hanno riesaminato le idee di Marion King Hubbert che, negli anni 50, aveva introdotto il concetto di “picco” di produzione del petrolio greggio. I loro calcoli indicavano che il picco mondiale – che hanno denominato “picco del petrolio” - sarebbe avvenuto nel 2004-2005. E' stata una previsione ragionevolmente buona in termini di petrolio “convenzionale”, che sembra aver raggiunto il picco fra il 2005 e il 2008. Ma Campbell e Laherrere non avevano considerato il ruolo del petrolio “non convenzionale”, combustibili liquidi come il petrolio di scisto (o tight oil). Usando queste nuove fonti, la produzione di “tutti i liquidi” ha continuato ad aumentare e ciò ha reso il concetto di picco del petrolio popolare più o meno quanto lo era Saddam Hussein  nel decennio precedente. Il tentativo dell'industria petrolifera di produrre da risorse difficili ha portato a diverse conseguenze negative per l'ecosistema (ricordate Macondo nel 2010?), ma quello principale è che le emissioni di CO2 non sono declinate in conseguenza dell'esaurimento, come ci si sarebbe potuto aspettare.

- Lo svanire del verde. Negli anni 90, la sostenibilità era ancora un'idea di moda e i partiti Verdi avevano una rappresentanza considerevole in molti parlamenti europei. Col tempo, tuttavia, il peso politico del movimento ambientalista è stato eroso costantemente. Il destino dei partiti Verdi segue da vicino quello di tutte le idee sulla sostenibilità ambientale, che non sono più parte dell'arsenale degli slogan dei politici vincenti. Persino l'Unione Europea, un tempo bastione della ragione e della consapevolezza ambientale, ha perduto il proprio focus, in particolare con la folle speranza di importare gas naturale dagli Stati Uniti. La maggior parte delle persone sembra essere così impegnata con le proprie preoccupazioni economiche quotidiane da non avere tempo o inclinazione per preoccuparsi di un'entità astratta chiamata “Ambiente”, che sembra essere un lusso costoso che al momento non possiamo permetterci. Sembra che il concetto di “crescita” abbia spazzato via l'Ambiente ovunque, in quanto alla cosa cui teniamo di più.

- Il collasso finanziario. Le cause profonde della grande crisi finanziaria del 2008 non sono mai state comprese realmente e sono state ridotte alla contingenza di cattive pratiche in campo finanziario. Tuttavia, non si è trattato solo di una crisi finanziaria, ha portato la macchina economica mondiale reale quasi all'arresto totale. La crisi è stata superata stampando più soldi e l'economia ha ricominciato a funzionare, ma non si è mai ripresa completamente. E nessuno sa se un altro collasso finanziario sia dietro l'angolo e cosa si possa fare se arriverà. Il collasso finanziario ha mostrato la fragilità dell'intero sistema ed ha fissato l'attenzione della maggior parte delle persone sui fattori finanziari/monetari, portandole spesso a dimenticare che c'è anche il mondo reale, la fuori, e che “l'economia” non sono solo transazioni finanziarie, ma significa anche fornitura di risorse materiali perché la società sopravviva.

 - L'aumento dei conflitti. Il confronto militare e e il conflitto violento sono in aumento. Abbiamo visto carri armati manovrare nel cuore stesso dell'Europa ed una immensa fascia di terra in un confronto militare quasi continuo, dal Nord Africa al Medio Oriente, fino ad arrivare all'Afghanistan. Intere nazioni si stanno sbriciolando sotto i bombardamenti aerei massicci e del conflitto civile, producendo la fuga di centinaia di migliaia di profughi. E' come un fuoco che si è acceso tempo fa e ora sta crescendo, inghiottendo un paese dopo l'altro. E nessuno può dire dove si fermerà il fuoco, se si fermerà. La sola cosa che possiamo dire è che il conflitto distruttivo tende ad esplodere in quegli stati in cui l'economia è stata in gran parte sostenuta dai proventi dell'esportazione dei combustibili fossili e dove l'esaurimento ha portato alla perdita totale o parziale di questi proventi. E' stato il caso, per esempio, di Egitto, Yemen e Siria. La lotta può essere anche collegata al cambiamento climatico ed alla conseguente siccità, come nel caso della Siria. Non possiamo dire con certezza se tutto questo sia il precursore di cose in arrivo in altri luoghi, ma potrebbe tranquillamente essere così.

- Ed altro... Quanto sopra non è un elenco esauriente di tutte le cose che sono successe nel decennio passato. Si potrebbe aggiungere l'erosione della democrazia e della libertà personale in Occidente, il declino o persino il collasso di diverse economie nazionali, la deglobalizzazione in corso, l'aumento della competizione per risorse minerali rare e limitate e molto altro. Ma tutti questi eventi hanno un'origine comune. In tutti i casi, le persone e le istituzioni hanno reagito raddoppiando lo sforzo per trovare più risorse, a tutti i costi, sia dal punto di vista finanziario che ambientale. Ed hanno anche aumentato il loro sforzo per negare l'esistenza e il pericolo del cambiamento climatico. Poi, la maggior parte delle persone hanno cercato di risolvere le proprie difficoltà economiche immediate lavorando duramente ed ignorando le ragioni profonde dei loro guai. Ed eccoci qua: dopo un decennio di sforzo per ignorare e limitare i cambiamenti, siamo di fronte a cambiamenti inevitabili e drastici. E non sappiamo esattamente come adattarci a questi cambiamenti. E' un momento difficile quello che abbiamo di fronte.

D'altra parte, c'è stata almeno una tendenza positiva durante gli ultimi dieci anni.

- La rivoluzione rinnovabile. Le tecnologie solare ed eolica sono migliorate in modo eccezionale sia in termini di costi sia in termini di efficienza. Non ci sono stati miracoli tecnologici, soltanto miglioramenti costanti. Il risultato è che, in dieci anni, le rinnovabili come il fotovoltaico basato sul silicio e le centrali eoliche sono passate dall'essere dei giocattoli per ambientalisti a tecnologie serie che possono produrre energia a costi competitivi con quelli dei combustibili fossili. L'energia rinnovabile è la più grande speranza che abbiamo per un adattamento non distruttivo agli inevitabili cambiamenti che ci aspettano. Non sarà facile, ma è possibile; dobbiamo lavoraci sodo.