martedì 6 gennaio 2015

Il crollo dell'industria petrolifera

DaThe Guardian”. Traduzione di MR

Un articolo di poche settimane fa, reso estremamente attuale dall'ulteriore crollo del prezzo del petrolio (UB 

Le aziende petrolifere del Regno Unito affondano mentre il prezzo del petrolio cade

Le insolvenze fra le società di servizi di petrolio e gas del Regno Unito triplicano nel 2014 fra paure di crollo della domanda e eccesso di offerta




Piattaforma petrolifera nel Mare del Nord. Il greggio Brent ha chiuso al di sotto dei 62 dollari al barile venerdì, il minimo in cinque anni e mezzo. Foto:  Alamy

La caduta del prezzo del petrolio ha portato le insolvenze fra le società di servizi di petrolio e gas a triplicare finora quest'anno, mentre ulteriori progetti per 55 miliardi di sterline sono riportate sotto minaccia. Il greggio Brent ha chiuso al di sotto dei 62 dollari al barile venerdì, il minimo un cinque anni e mezzo, fra paure di crollo della domanda ed eccesso di offerta, mentre l'economia globale rallenta. Una decisione  del mese scorso dell'OPEC, che fornisce circa il 40% del petrolio mondiale, di mantenere la produzione invariata nonostante il crollo del prezzo è servita solo a far scivolare il greggio ancora più in basso. Domenica, il ministro per l'energia degli Emirati Arabi Uniti, Suhail Al-Mazrouei, ha detto che l'OPEC non taglierebbe la produzione di greggio nemmeno se il prezzo scendesse a 40 dollari al barile. Ad una conferenza a Dubai, ha detto a Bloomberg: “Non cambieremo idea perché sono scesi da 60 a 40 dollari. Non stiamo puntando il prezzo, il mercato si stabilizzerà da solo”.

L'industria delle sabbie bituminose al collasso

DaThe Ecologist”. Traduzione di MR

Questo articolo è di circa un mese fa - la situazione attuale dei prezzi del petrolio sotto i 50 dollari al barile lo rende ancora più attuale in una situazione che si sta facendo sempre più disastrosa ogni giorno che passa. Non è più il caso di domandarsi che cosa ha causato il collasso dei prezzi del petrolio. ma che cosa sarà causato dal collasso dei prezzi del petrolio (UB)


L'industria delle sabbie bituminose affronta una perdita 'esistenziale' di 246 miliardi di dollari







La Miniera di Sabbie Bituminose Syncrude 'Aurora', a nord di Fort McMurray, Canada. Foto: Elias Schewel via Flickr. 

L'estrazione delle sabbie bituminose canadesi è più che una semplice catastrofe ambientale, scrive Gregory McGann. Si sta dimostrando anche una disastro economico, con investimenti massicci a rischio mentre il crollo dei prezzi del petrolio fa arenare le sabbie bituminose. Una delle forme più distruttive di produzione petrolifera è finanziariamente priva di senso ed affronta il collasso totale, secondo un nuovo rapporto della Carbon Tracker Initiative (CTI), Sabbie bituminose: schede informative. Il rapporto suggerisce che gli investitori sono stati fuorviati sulla fattibilità economica della produzione di sabbie bituminose, cosa che sta facendo un danno irreparabile alla foresta boreale incontaminata del Canada nord occidentale. La CTI, una società di analisi finanziaria ambientalmente consapevole, sostiene che i progetti futuri di sabbie bituminose, oltre ad essere disastrose ambientalmente, sono anche finanziariamente catastrofiche e stanno portando i loro investitori verso gravi perdite. Nonostante il recente e drammatico crollo dei prezzi del petrolio, le società non hanno tenuto conto del rischio di ulteriori crolli dei prezzi. I progetti di sabbie bituminose, coi loro alti costi di produzione, sono particolarmente vulnerabili, in quanto il prezzo del petrolio che declina può facilmente spazzare via tutta la loro redditività. “Le pressioni del costo che affronta l'industria petrolifera mostra alcuni segni di cedimento”, dichiara il rapporto – eppure le compagnie si rifiutano semplicemente di riconoscerlo.


lunedì 5 gennaio 2015

Zone morte nei mari: sempre più diffuse

Da “CBC News”. Traduzione di MR (h/t Alexander Ač)

Il riscaldamento globale aumenta la diffusione di zone morte nei mari e nei fiumi

Il dilavamento dei fertilizzanti e il riscaldamento intasano l'acqua di nutrienti e sottraggono ossigeno alla vita acquatica




Un'anatra nuota nella Green Bay del Lago Michigan nei pressi di un cumulo di alghe. La baia è uno dei tanti bacini d'acqua che hanno sviluppato zone morte, aree in cui il dilavamento di fertilizzanti e acque reflue ha creato livelli eccessivi di nutrienti che accumulano microbi ma sottraggono ossigeno alla vita acquatica. Un nuovo studio ha scoperto che il riscaldamento globale peggiora il problema delle zone morte. (Jim Matthews/Press-Gazette/Associated Press)

Il riscaldamento globale gioca probabilmente un ruolo maggiore di quanto ritenuto precedentemente nelle zone morte in oceani, laghi e fiumi nel mondo e peggiorerà soltanto, secondo un nuovo studio. Le zone morte si verificano quando il dilavamento di fertilizzanti intasano le vie d'acqua con nutrienti, come l'azoto e il fosforo. Ciò porta ad un'esplosione di microbi che consumano ossigeno e ne esauriscono la sua presenza nell'acqua, danneggiando la vita acquatica. Gli scienziati sanno da tempo che l'acqua più calda peggiora questo problema, ma in un nuovo studio pubblicato lunedì sulla rivista Global Change Biology dello Smithsonian, i ricercatori hanno scoperto circa due dozzine di modi diversi – biologicamente, chimicamente e fisicamente – in cui il cambiamento climatico peggiora l'esaurimento di ossigeno. “Abbiamo sottostimato l'effetto del cambiamento climatico sulle zone morte”, ha detto l'autore principale dello studio Andrew Altieri, un ricercatore del centro tropicale dello Smithsonian a Panama.

Riscaldamento nel Golfo di St. Lawrence

Il riscaldamento globale aggrava il problema dell'esaurimento
dell'ossigeno causato dal dilavamento perché le acqua più calde
contengono meno ossigeno. L'eccesso di microbi e la mancanza
di ossigeno nelle zone morte danneggiano i pesci
e l'altra vita acquatica.
(Andrew Altieri/Smithsonian Institution/ Associated Press)
I ricercatori hanno esaminato 476 zone morte in tutto il mondo – 264 negli Stati Uniti. Hanno scoperto che i modelli climatici computerizzati standard prevedono che, in media, la temperatura di superficie intorno a queste zone morte aumenterà di poco più di 2°C dagli anni 80 e 90 alla fine di questo secolo. Il maggior riscaldamento previsto è di circa 4°C dove il fiume St. Lawrence si riversa nell'oceano in Canada. Le zone morte più importanti degli Stati Uniti, il Golfo del Messico e la Baia di Chesapeake, è previsto che si riscaldino rispettivamente di 2,3°C e 2,7°C. L'acqua più calda, che contiene meno ossigeno, si aggiunge al problema del dilavamento, ha detto il coautore Keryn Gedan, che lavora sia allo Smithsonian sia all'Università del Maryland. Ma l'acqua più calda condiziona le zone morte anche mantenendo l'acqua più separata, così che l'acqua profonda povera di ossigeno si mescola di meno.

“E' come una salsa italiana che non avete agitato, in cui l'olio e l'acqua sono separati”, ha detto Altieri. Quando l'acqua si riscalda, il metabolismo della vita acquatica aumenta, facendogli richiedere più ossigeno proprio mentre i livelli di ossigeno stanno già diminuendo. Altri modi in cui il cambiamento climatico condiziona le zone morte sono le estati più lunghe, l'acidificazione dell'oceano e il cambiamento degli schemi di venti e correnti, dice lo studio. Donald Boesch, un ecologo dell'Università del Maryland che non ha fatto parte dello studio e lavora in un altro dipartimento rispetto a Gedan, ha detto che non ci sono prove sufficienti per dire che il cambiamento climatico ha già giocato un ruola così grande nella diffusione delle zone morte. Ma ha detto che lo studio ha probabilmente ragione nell'avvertire che il riscaldamento futuro renderà il problema anche peggiore.

Il mistero del metano marino

Da “Scientific American”. Traduzione di MR









Misterioso metano sul fondo del mare al largo della costa di Washington  comincia a fondersi

Gli scienziati sondano gli oceani al largo della Costa Ocidentale e vedono segni di una fusione di metano ghiacciato di dimensioni analoghe a quella della perdita di petrolio della BP

Di Gayathri Vaidyanathan e ClimateWire





Il riscaldamento dell'Oceano al largo dello Stato di Washington potrebbe destabilizzare i depositi di metano sul fondo dell'oceano e innescare un rilascio del gas serra in atmosfera. Foto: Sam Beebe via Flickr

Il riscaldamento dell'Oceano Pacifico al largo dello Stato di Washington potrebbe destabilizzare i depositi di metano sul fondo del mare ed innescare un rilascio di gas serra in atmosfera, secondo un nuovo studio pubblicato su Geophysical Research Letters. Nello scenario peggiore, se gli oceani si scaldano fino a 2,4°C per il 2100, il volume di metano rilasciato ogni anno per il 2100 quadruplicherebbe la quantità della perdita di petrolio della Deepwater Horizon, stima lo studio. In gioco ci sono gli idrati di metano, che sono complessi di metano intrappolati nel ghiaccio sepolti sotto i fondali dell'oceano. Gli idrati si trovano in tutti gli oceani del mondo e vengono conservati da acqua fredda e da immense pressioni. Ma quando gli oceani si scaldano, gli idrati vengono destabilizzati e il metano liberato.

Il metano è un gas serra significativo, con un potenziale di riscaldamento globale di 86 volte quello del CO2 su una scala temporale di 20 anni. Alcuni scienziati temono che un rilascio significativo dagli oceani possa inasprire il cambiamento climatico. “Gli idrati di metano sono delle riserva molto grandi e fragili di carbonio che può essere rilasciato se cambiano le temperature”, ha detto in una dichiarazione Evan Soloman, un ricercatore  dell'Università di Washington. “All'inizio ero scettico, ma quando abbiamo visto le quantità, la cosa è significativa”. Altri studi hanno osservato un potenziale rilascio di metano nell'Oceano Artico, ma questo è il primo a studiare il rilascio a latitudini più basse.

Bolle di gas risalgono dalle profondità

Lo studio si concentra sulla pendice continentale superiore al largo di Washington in una regione della piattaforma chiamata “margine di Cascadia”. Lì l'oceano si è riscaldato, probabilmente a causa a causa di una corrente che porta acqua dal Mare di Okhotsk che si trova fra Russia e Giappone. Il mare si è riscaldato nell'ultimo mezzo secolo. Usando le temperature dell'oceano fino ad una profondità di 200 metri registrate fra il 1970e il 2013, gli scienziati hanno modellato la quantità di metano che è stato rilasciato storicamente. Le stime preliminari hanno suggerito potrebbero essere stati rilasciati 4,35 teragrammi (4,35 miliardi di kg) di metano all'anno, lungo il margine di Cascadia. Ciò eguaglia il rilascio della perdita di petrolio della Deepwater Horizon del 2010, scopre il rapporto. Gli scienziati hanno anche proiettato il rilascio di metano in futuro ipotizzando che l'oceano si riscaldi da 0,88 a 2,4°C per il 2100. Mentre l'oceano si scalda, il rilascio di metano quadruplicherebbe, suggerisce lo studio. Il metano rilasciato potrebbe essere ingerito da batteri, ma parte di esso potrebbe finire in atmosfera ed accelerare il cambiamento climatico. Gli scienziati avvertono che le loro stime sono preliminari, perché si sa ancora poco sul volume di idrati di metano e la loro densità a Cascadia. Serve ulteriore ricerca per capire meglio la portata del problema, dichiara lo studio.

Il picco dell'unica risorsa della quale non possiamo assolutamente fare a meno (e non è il petrolio)

Da “trust.org”. Traduzione di MR

Rimangono solo 60 anni di agricoltura se il degrado del suolo continua
 
Di Chris Arsenault



I funzionari del locale Ufficio per la Conservazione dell'Acqua camminano ai margini di un deserto in cui è stata piantata erba per prevenire la desertificazione. Contea di Mingin, nordest della provincia Gansu  in Cina, 8 dicembre 2010. REUTERS/Stringer

Roma (Thomson Reuters Foundation) – Generare tre centimetri di suolo richiede 1.000 anni e se gli attuali tassi di degrado continuano, tutto il suolo mondiale potrebbe scomparire entro 60 anni, ha detto venerdì un alto funzionario dell'ONU. Circa un terzo del suolo mondiale è stato già degradato, ha detto Maria-Helena Semedo della FAO ad un forum che contrassegnava la Giornata Mondiale del Suolo. Le cause della distruzione del suolo comprendono le pesanti tecniche di agricoltura chimica, la deforestazione che aumenta l'erosione e il riscaldamento globale. La Terra sotto i nostri piedi viene troppo spesso ignorata dai politici, dicono gli esperti.

“I suoli sono la base della vita”, ha detto Semedo, vice direttore generale della FAO delle risorse naturali. “Il 95% del nostro cibo proviene dal suolo”. A meno che non vengano adottati nuovi approcci, la quantità globale di terra coltivabile e produttiva per persona nel 2050 sarà solo un quarto del livello del 1960, ha detto la FAO, a causa della crescita delle popolazioni e del degrado del suolo. I suoli giocano un ruolo chiave nell'assorbire carbonio e nel filtrare l'acqua, ha detto la FAO. La distruzione del suolo crea un circolo vizioso, in cui viene immagazzinato meno carbonio, il mondo si riscalda e la terra si degrada ulteriormente. “Stiamo perdendo 30 campi di calcio al minuto di suolo, principalmente a causa dell'agricoltura intensiva”, ha detto Volkert Engelsman, un attivista della Federazione Internazionale dei Movimenti per l'Agricoltura Biologica al forum nel quartier generale della FAO a Roma. “L'agricoltura biologica potrebbe non essere la sola soluzione, ma è la migliore opzione a cui possa pensare”.

domenica 4 gennaio 2015

L'effetto dei vulcani sul clima

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

I vulcani potrebbero essere responsabili di gran parte del rallentamento del riscaldamento della temperatura di superficie



Di Dana Nuccitelli

Un nuovo studio stima il raffreddamento della temperatura di superficie dovuta ai vulcani fra 0,05 e 0,12°C dal 2000




Eruzione vulcanica vista da lontano il 12 settembre 2014 a Holuhraun, Irlanda. Un nuovo studio conclude che le piccole eruzioni vulcaniche sono state un contributo significativo al rallentamento del riscaldamento globale della superficie. Foto:   Einar Gudmann / Barcroft Media/Einar Gudmann / Barcroft Media

Un nuovo studio ha scoperto che quando il particolato di una piccola eruzione vulcanica viene adeguatamente tenuto in considerazione, i vulcani potrebbero essere responsabili di gran parte del rallentamento del riscaldamento globale delle superficie negli ultimi 15 anni. I particolati di aerosol di zolfo immessi in atmosfera da eruzioni vulcaniche causano raffreddamenti a breve termine bloccando la luce solare. Fino a poco tempo fa, gli scienziati del clima pensavano che solo le grandi eruzioni avessero un impatto significativo sulle temperature globali. Non ci sono state grandi eruzioni da quella del Monte Pinatubo nel 1991. Tuttavia, gli studi pubblicati negli ultimi anni hanno scoperto che anche eruzioni vulcaniche moderate possono immettere quantità significative di particolati di aerosol nell'atmosfera. Virtualmente ogni ricerca sull'influenza sul clima degli aerosol vulcanici ha usato misurazioni satellitari dei particolati nell'atmosfera superiore (la stratosfera). Queste misurazioni satellitari monitorano soltanto gli aerosol vulcanici ad altezze di 15 km ed oltre. Il nuovo saggio di David Ridley e dei suoi colleghi, ha studiato la quantità di aerosol vulcanici in parti della stratosfera che si trovano al di sotto dei 15 km.

Per fare questo, i ricercatori hanno unito i dati satellitari, dagli strumenti a terra del programma AERONET e dagli strumenti delle sonde meteorologiche. Lo studio ha avuto come coautori 17 scienziati climatici, compresi alcuni massimi esperti nella ricerca sugli aerosol. Unendo tutte queste misurazioni, gli scienziati hanno scoperto che c'è una quantità significativa di aerosol vulcanici anche in parti della stratosfera al di sotto dei 15 km. Hanno concluso che per le recenti eruzioni, fra il 30 e il 70% della quantità complessiva di aerosol vulcanici nella stratosfera proviene dalla parte al di sotto i 15 km. Dal 2000, lo studio stima che i vulcani abbiano avuto un'influenza raffreddante sulle temperature globali di superficie. La gamma probabile di questa influenza di raffreddamento dei vulcani si trova fra 0,05 e 0,12°C. Come osservano gli autori del saggio, questa influenza di raffreddamento non viene tenuta in considerazione nella simulazioni del modello climatico incorporate nell'ultimo rapporto del IPCC.

“Le simulazioni del modello climatico valutate nel quinto rapporto di valutazione del IPCC [Stocker et al., 2013] ipotizza aerosol stratosferici pari a zero dopo circa il 2000 e quindi trascura qualsiasi effetto raffreddante delle recenti eruzioni vulcaniche”

Anche se i dati della temperatura di superficie sono stati entro la gamma delle simulazioni del modello, sono stati verso l'estremo basso di quei run del modello negli ultimi 10-15 anni.


Figura 1.4 del AR5 del IPCC. Linee intere e quadretti rappresentano i cambiamenti della temperatura globale di superficie media misurati dalla NASA (blu), dal NOAA (giallo) e dall'Hadley Center del Regno Unito (verde). L'ombreggiatura colorata mostra la gamma prevista di riscaldamento di superficie nel primo rapporto di Valutazione del IPCC (FAR, giallo), del Secondo (SAR, verde), del Terzo (TAR, blue) e del Quarto (AR4, rosso).

Il riscaldamento di superficie misurato è stato di circa 0,13°C inferiore della media delle simulazioni del modello dal 2000. Il raffreddamento vulcanico stimato da questo nuovo saggio (0,05 – 0,12°C), non incluso in quei modelli climatici, potrebbe coprire gran parte di quella discrepanza. Unite questo ai circa 0,06°C di raffreddamento della superficie dovuti al maggiore calore immagazzinato negli oceani profondi e il rallentamento è pienamente spiegato e temporaneo. Gli scienziati del clima credono che i cicli oceanici passeranno presto ad uno stato in cui viene trasferito meno calore agli oceani profondi, lasciando più calore a riscaldare la superficie. Come cambierà in futuro l'attività vulcanica naturalmente non si sa, ma gli aerosol vulcanici hanno una vita relativamente breve nell'atmosfera. Se non ci sono altre eruzioni moderate nel prossimo futuro, la quantità di aerosol vulcanici nella stratosfera dovrebbe tornare ai valori di base entro pochi anni. Date le temperature globali record che abbiamo visto nel 2014, il rallentamento potrebbe già essere finito. In ogni caso, sembra che i modelli climatici abbiano difficoltà a valutare il rallentamento perché non hanno incluso né l'aumento di raffreddamento vulcanico né l'accumulo di calore nell'oceano profondo, nessuno dei quali condizionerà il riscaldamento globale a lungo termine. In breve, quando si tiene conto di questi cambiamenti degli aerosol vulcanici e dell'accumulo di calore nell'oceano, il clima si sta generalmente comportando come si aspettano gli scienziati. Abbiamo pochi motivi di mettere in dubbio le proiezioni molto preoccupanti del riscaldamento globale a lungo termine dei modelli climatici.

Riscaldamento globale: il passato rispecchia il presente.

Da “Phys.org”. Traduzione di MR


Carotaggi di sedimenti estratti dal Bacino di Bighorn in Wyoming e quindi sezionati per lo studio, vengono mostrati in un deposito all'Università di Brema, in Germania. Uno studio dei carotaggi condotto dal geochimico Gave Bowen dell'Università dello Utah ha scoperto che le emissioni di carbonio in atmosfera durante un periodo di riscaldamento globale di quasi 56 milioni di anni fa è stato più simile al cambiamento climatico antropogenico di oggi di quanto si credesse precedentemente. Foto: Bianca Maibauer, Università dello Utah.

Il tasso al quale le emissioni di carbonio hanno riscaldato il clima terrestre quasi 56 milioni di anni fa somiglia al riscaldamento globale moderno ed antropogenico molto di più di quanto si credesse precedentemente, ma ha coinvolto due inpulsi di carbonio in atmosfera, hanno scoperto i ricercatori dell'Università dello Utah ed i loro colleghi. Le scoperte significano che il cosiddetto Massimo Termico del Paleocene-Eocene (PETM)può fornire indizi sul futuro del moderno cambiamento climatico. La buona notizia è che la Terra e gran parte delle specie sono sopravvissute. La cattiva notizia è che ci sono voluti millenni per recuperare da quell'episodio, quando le temperature sono aumentate di 5-8°C. “C'è una nota positiva nel fatto che il mondo ha tenuto, non è finito in fiamme, ha sempre un modo per autocorreggersi e rimettersi in piedi”, dice la geochimica Gabe Bowen dell'Università dello Utah, autore principale dello studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience. “Tuttavia, in questo evento ci sono voluti quasi 200.000 anni perché le cose tornassero alla normalità”.

La Bowen e i suoi colleghi riportano che il carbonato o i noduli di calcare nei carotaggi dei sedimenti del Wyoming mostrano il l'episodio di riscaldamento globale di 55,5 milioni di anni fa hanno coinvolto un rilascio annuale medio di un minimo di 0,9 petagrammi (900 miliardi di kg) di carbonio in atmosfera e probabilmente molto di più su periodi  più brevi. Cioè, “entro un ordine di grandezza di (e forse gli si è avvicinato) dei 9,5 petagrammi (9,5 x 10+12 kg) all'anno associati alle emissioni di carbonio antropogenico moderne”, hanno scritto i ricercatori. Dal 1900, la combustione dei combustibili fossili da parte degli esseri umani ha emesso una media di 3 petagrammi all'anno – anche più prossima al tasso di 55,5 milioni di anni fa. Ogni impulso di emissioni di carbonio è durato non più di 1.500 anni. Le precedenti prove contrastanti indicavano che il rilascio di carbonio è durato un valore che va da meno di un anno decine di migliaia di anni. La nuova ricerca mostra che i livelli di carbonio atmosferico sono tornati alla normalità entro poche migliaia di anni dopo il primo impulso, probabilmente quando il carbonio si è dissolto nell'oceano. Ci sono voluti fino a 200.000 anni perché le condizioni si normalizzassero dopo il secondo impulso.

Il nuovo studio ha anche escluso come improbabili alcune cause teorizzate dell'episodio di riscaldamento, fra i quali l'impatto di un asteroide, la fusione del permafrost, la combustione di suoli ricchi di materia organica o il prosciugamento dei canali marittimi. Piuttosto, le scoperte suggeriscono, in termini di tempistica, che le cause più probabili abbiano compreso la fusione degli idrati di metano nel fondo del mare, conosciuti come clatrati, o l'attività vulcanica che ha riscaldato rocce ricche di materiale organico rilasciando metano. “Il PETM si è distinto come esempio lampante, anche se contestato, di come l'accumulo di biossido di carbonio atmosferico del 21° secolo possa alterare il clima, gli ambienti e gli ecosistemi in tutto il mondo”, dice la Bowen, professoressa associata di geologia e geofisica all'Università dello Utah. “Questo nuovo studio rafforza il collegamento”, aggiunge. “Il rilascio di carbonio di allora è stato molto simile alle emissioni umane da combustibili fossili di oggi, quindi potremmo imparare molto sul futuro dai cambiamenti nel clima, dalle piante e dalle comunità di animali di 55,5 milioni di anni fa”. La Bowen ha tuttavia avvertito che il clima globale era già molto più caldo di oggi quando è cominciato il riscaldamento del Paleocene-Eocene e che non c'erano calotte glaciali, “quindi il tutto si è svolto su un campo di gioco diverso di quello che abbiamo oggi”.



Questa immagine mostra la geochimica Gabe Bowen dell'Università dello Utah mentre lavora sui carotaggi dei sedimenti del Wyoming in un laboratorio in Germania per uno studio che ha mostrato che il riscaldamento globale di oggi è più simile all'episodio di cambiamento climatico di quasi 56 milioni di anni fa di quanto avessimo pensato. Foto: Gabe Bowen, Università dello Utah.


Il coautore dello studio Scott Wing, un paleobiologo della Smithsonian Institution a Washington, aggiunge: “Questo studio ci fornisce la migliore idea fino a questo momento di quanto rapidamente sia stata rilasciata questa grande quantità di carbonio all'inizio dell'evento di riscaldamento globale che chiamiamo PETM. La risposta è solo qualche migliaio di anni o meno. Ciò è importante perché significa che l'antico evento è avvenuto ad un tasso più simile a quello del riscaldamento globale antropogenico di quanto ci siamo mai resi conto”. La Bowen e Wing hanno condotto lo studio con dottoressa in geologia e geofisica dell'Università dello Utah Bianca Maibauer e con il tecnico Amy Steimke; con Mary Kraus dell'Università del Colorado, a Boulder; Ursula Rohl eThomas Westerhold dell'Università di Brema, in Germania; Philip Gingerich dell'Universita del Michigan e William Clyde dell'Università del New Hampshire. Lo studio è stato finanziato dalla Fondazione Nazionale delle Scienze e dalla Fondazione di Ricerca Tedesca.

Effetti del riscaldamento del Paleocene-Eocene

La Bowen dice che la ricerca precedente ha mostrato che durante il perido caldo del Paleocene-Eocene c'è stato “un aumento della tempestosità in alcune aree e di aridità in altre. Vediamo una migrazione su scala continentale di animali e piante, le gamme variano. Vediamo solo una piccola di estinzione – alcuni gruppi di foraminiferi delle profondità marine, organismi unicellulari che si estinguono all'inizio di questo evento. Non molto altro si è estinto. Vediamo emergere la prima ondata di mammiferi moderni, compresi gli antichi primati e gli ungulati”, aggiunge. Gli oceani sono diventati più acidi, come lo sono ora. “Abbiamo guardato attraverso il tempo registrato nelle rocce, e questo evento di riscaldamento spicca, e tutto accade contemporaneamente”, dice la Bowen. “Possiamo tornare indietro nella storia della Terra e dire com'era quel mondo, ed è del tutto coerente con l'aspettativa che il cambiamento climatico di oggi sarà associato con questi altri tipi di cambiamento”. Il PETM indica anche la possibilità di un cambiamento climatico fuori controllo peggiorato da retroazioni. “Il fatto che abbiamo due rilasci potrebbe suggerire che il secondo sia stato alimentato dal primo”, forse, per esempio, se il primo riscaldamento ha aumentato le temperature del mare a sufficienza da fondere enormi quantità di metano ghiacciato, dice la Bowen.

Trivellare nel passato della Terra

Il nuovo studio è parte di un grande progetto di trivellazioni per capire l'episodio di riscaldamento di 56 milioni di anni fa, che la Bowen dice essere stato scoperto per la prima volta nel 1991. I ricercatori hanno trivellato lunghi campioni di sedimento in forma cilindrica da due sondaggi a Polecat Bench nel bacino di Bighorn nel nord del Wyoming, ad est di Cody e appena a nord di Powell.


Un arcobaleno appare sul sito di trivellazione finanziato dalla Fondazione Nazionale delle Scienze nel bacino di Bighorn, in Wyoming. In uno studio condotto dalla geochimica dell'Università dello Utah Gabe Bowen, i carotaggi del sedimento trivellati nel sito hanno rilevato che un episodio di riscaldamento globale di quasi 56 milioni di anni fa somiglia a quello di oggi in termini di dimensione e durata di rilasci di carbonio in atmosfera. Foto: Elisabeth Denis, Università di Stato della Pennsylvania.


“Questo sito è stato scavato per oltre 100 anni dai paleontologi che studiavano i fossili dei mammiferi”, dice la Bowen. “Esso documenta la transizione dai primi mammiferi che vediamo dopo l'estinzione dei dinosauri ai mammiferi dell'Eocene, che sono in gruppi oggi familiari. C'è una grande sequenza stratigrafica di più di 2 km di rocce, da 65 milioni a 52 milioni di anni fa”. Il riscaldamento del Paleocene-Eocene è registrato negli strati di suolo alluvionale di roccia rossa, marrone e ruggine della formazione di Willwood, specificatamente intorno ai noduli di carbonato grigi e grigio-marroni presenti in quelle rocce. Hanno un diametro che va da 5 a 0,25 cm. Misurando i rapporti degli isotopi di carbonio nei noduli, i ricercatori hanno scoperto che durante ognuno dei rilasci di carbonio di 1.500 anni, il rapporto del carbonio-13 rispetto al carbonio-12 nell'atmosfera è declinato, indicando due grandi rilasci di biossido di carbonio o metano, entrambi gas serra da materiale vegetale. Il declino è stato di tre parti per 1000 nel primo impulso e di 5,7 parti per 1000 nel secondo. Le prove precedenti provenienti dai sedimenti marini di altri siti sono coerenti coi due impulsi di carbonio dell Paleocene-Eocene, il che “significa che non pensiamo che sia qualcosa di specifico del Wyoming del nord”, dice la Bowen. “Pensiamo che rifletta un segnale globale”.

Cosa ha causato il riscaldamento preistorico?

Il doppio rilascio di carbonio al confine temporale del Paleocene-Eocene praticamente esclude l'impatto di un asteroide o di una cometa perché una tale catastrofe sarebbe stata “troppo rapida” per spiegare i 1.500 anni di durata di ognuno dei due impulsi di carbonio, dice la Bowen. Un'altra teoria è che l'ossidazione della materia organica – quando il permafrost si è fuso, quando i suoli torbosi sono bruciati o quando le vie marittime si sono prosciugate – possa aver causato il riscaldamento del Paleocene-Eocene. Ma ciò avrebbe impiegato decine di migliaia di anni, di gran lunga più lento di quanto abbia scoperto lo studio, aggiunge. I vulcani che rilasciano gas di carbonio sarebbero stati a loro volta troppo lenti. La Bowen dice che i due rilasci di carbonio relativamente rapidi (circa 1.500 anni) sono più coerenti con un riscaldamento dell'oceano o una sommovimento sottomarino che ha innescato la fusione del metano ghiacciato nel fondo dell'oceano e grandi emissioni in atmosfera, dove è diventato nei decenni biossido di carbonio. Un'altra possibilità è un'intrusione massiccia di roccia fusa che ha riscaldato le sottostanti rocce ricche di sostanza organica e rilasciato molto metano.