domenica 1 settembre 2013

L'apocalisse di Antonio Turiel

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


di Antonio Turiel

Cari lettori,

è già da tempo che al cinema, nei racconti, nelle serie televisive nei fumetti e nei videogiochi – insomma, nei mezzi che attualmente costituiscono l'espressione della cultura popolare – si possono trovare racconti di un futuro più o meno apocalittico. Nel mondo dei videogiochi c'è un termine specifico per i titoli di questo argomento: survival horror, o orrore del sopravvissuto. La cosa più comune è che la disgrazia mondiale sopraggiunga sotto forma di zombi dell'apocalisse (un'infezione trasforma la maggior parte della popolazione in mostruosi antropofagi e i sopravvissuti lottano contro di loro) oppure una catastrofe di portata mondiale (meteoriti, vulcani, esplosioni radioattive ed ogni tipo di fenomeno, a volte compresa una – tipicamente repentina, il che la rende poco realista – scarsità mondiale di petrolio). In tutti i casi la catastrofe presuppone la fine della nostra civiltà e l'inizio di una nuova epoca di scarsità, necessità e grandi pericoli.

Questo tipo di fantasia ha una lunga tradizione nel mondo occidentale. Non per caso una catastrofe che può mettere in ginocchio la civiltà di solito viene chiamata Apocalisse, in riferimento all'ultimo libro del Nuovo Testamento. Le rivelazioni che l'Apostolo San Giovanni e i suoi accoliti lasciarono riflesse in quel libro si riferivano alla desiderata caduta di Roma (la bestia dalle sette teste emersa dal mare, per far cadere la quale, sicuramente, ci vollero diversi secoli) ma sono serviti per secoli come base di tante profezie millenarie. Se si guarda la storia dell'Europa si può vedere che con una certa frequenza i paesi hanno attraversato dure crisi di identità, di messa in discussione profonda del proprio modello di civiltà e proprio in quei momenti l'idea di vivere in una civiltà decadente che sarà purificata dalle fiamme dell'Apocalisse è diventata ricorrente.

L'attrattiva principale della narrativa apocalittica è che offre una via d'uscita ad una civiltà che è giunta ad un punto morto, ad un'impossibilità di continuare per la stessa strada da cui veniva. Siamo tutti in grado di vedere cose che non funzionano intorno a noi, in ciò che percepiamo come “società”, nel nostro paese, nel nostro stato. Solo quando si accumulano troppe cose negative comincia a sembrare desiderabile distruggere tutto e iniziare da zero, cercando di non tornare a commettere gli stessi errori del passato, eliminando tutto ciò che è stato fatto male. Il che, con un certo cinismo, implica anche eliminare milioni di persone che già sono, nella nostra percezione, “male educate”. Per qualche curioso motivo, quelli che credono, fino a desiderarlo, nell'arrivo dell'Apocalisse pensano, che loro saranno fra quelli che sopravviveranno, nonostante ci si aspetti che la carneficina sia estrema ed estesa.

Tuttavia, la narrativa apocalittica si adatta poco alla realtà delle transizioni, comprese quelle dei collassi delle civiltà. Generalmente il collasso di una civiltà impiega molti decenni, anche vari secoli, e la riduzione è abbastanza graduale per la percezione umana, anche se storicamente rappresenta solo alcune generazioni. Proprio perché ogni generazione è una vita completa ed i nuovi venuti danno per scontato che ciò che i grandi chiamano “il nuovo ordine delle cose” sia la normalità. Abbiamo già commentato che la psiche umana ha la tendenza a modellare la propria memoria in forma di stati (visione statica) e non di processi (visione dinamica), così che normalmente vediamo lo stato A e poi lo stato B senza comprendere che c'è stata tutta una successione continua che ci ha portato, ed era prevedibile che ci portasse, da A a B. Quindi, salvo in casi di declino improvviso di alcune risorse fondamentali (cosa che potrebbe accadere durante il tramonto del petrolio già in corso, ma che non è prevedibile che accada nella generalità dei casi), non è l'Apocalisse ciò che potrebbe aspettarci nel futuro, ma uno scenario di degrado continuo del tipo de La Grande Esclusione. Colui che richiama l'Apocalisse sta dicendo che preferisce uno scenario di sangue e fuoco dove potrebbe lottare per una vita più austera ma libera, forse perché intuisce che la cosa più probabile è che senza grandi clamori possa semplicemente diventare uno schiavo.

A margine delle persone che aspettano e desiderano l'Apocalisse come momento personale di redenzione, in generale la società, e in particolare le persone con una migliore posizione sociale in essa, rifiutano in toto una tale narrativa e persino l'uso dell'aggettivo “apocalittico” è considerato dispregiativo, usato per disprezzare chi è ritenuto fuori di senno per il fatto di affermare o credere che una tale cosa possa accadere. La cosa a volte giunge al limite del fanatismo quando qualcuno segnala una difficoltà o un problema e viene tacciato di essere un veggente o un “apocalittico”. Questa è, di fatto, la situazione in cui tante persone che tentano di promuovere la presa di coscienza riguardo alla crisi energetica si sono trovate in miriadi di occasioni. Io stesso mi sono trovato a confronto con gente che, dopo aver proposto la propria soluzione tecnologica al “problema” e dopo aver sentito le mie obbiezioni ad essa, invece di capire che la chiave sta nel ripensare il problema, continua a cercare una crescita infinita in un pianeta finito e mi dice sprezzante: “Lei ha una visione apocalittica”. Senza arrivare a questo, in una discussione non così radicale, molta gente ride – e forse tu, caro lettore, lo farai – quando le dico che io non sono un pessimista.

Che io non sia un pessimista dovrebbe risultare evidente semplicemente vedendo che impiego una quantità significativa del mio tempo libero a fare divulgazione sul problema della crisi energetica (credo sia necessario qui un riconoscimento ed una celebrazione del lavoro di Antonio, di Ugo e di altri –  forse anche del mio e quello di alcuni di voi lettori... ndt.). Se io pensassi che non c'è niente da fare, che senso avrebbe dedicare tanto tempo ad una causa persa? E' proprio perché credo che si possa e si debba fare qualcosa che spiego queste cose. Ovviamente non ho tutte le soluzioni per tutti i problemi; cerco solo di creare consapevolezza, visto che non potremo mettere la conoscenza e la capacità di questa società nella giusta direzione per costruirci un futuro se prima non siamo coscienti del problema che abbiamo. E nonostante gli anni che abbiamo perso già nel tentativo di cambiare una rotta di collisione, continueremo a provarci sempre, perché noi, coloro che si dedicano a questo, crediamo che le cose si possano ancora cambiare in meglio.

Chi è in realtà il vero pessimista? Colui che crede che non si possa cambiare nulla. Il suo comportamento è simile a quello dell'autista del nostro autobus che segue prosegue per la sua strada e all'improvviso vede che il ponte per il quale doveva passare è crollato, ma nonostante questo persiste nel proseguire per la stessa strada. Noi gli diciamo che può svoltare, che può girare a sinistra o a destra per continuare su un'altra strada, o che perlomeno freni, ma lui dice che ha fatto la stessa strada migliaia di volte, che gli ingegneri stradali sono persone molto abili e che se vien fuori un qualche problema lo risolveranno in tempo, che alla fine dei conti siamo solo degli ignoranti e dei catastrofisti... e continua imperturbabile sulla stessa strada, quella che lo porterà nel burrone, e noi con lui. Proprio queste persone che dicono che “nulla cambierà”, che “la crescita economica non è negoziabile” (frase che letteralmente un economista che aveva avuto delle responsabilità importanti nello Stato spagnolo mi ha detto in una riunione qualche mese fa), sono le persone che con più probabilità accusano coloro che avvisano del problema di essere “catastrofisti” ed “apocalittici”. Forse inconsciamente, le loro accuse cercano di nascondere il loro senso di colpa, che in realtà sono loro i catastrofisti. E sono loro stessi, il giorno in cui comprenderanno che il loro beneamato programma di progresso e la loro visione di crescita infinita fanno acqua da tutte le parti, coloro che probabilmente aspetteranno e desidereranno con fervore devoto l'Apocalisse che li redima.

Non ci aspetta l'Apocalisse più avanti; piuttosto un amaro declino ed una miseria crescente, se non sappiamo gestire questa situazione. Ma possiamo gestire correttamente questa situazione difficile. Sì, possiamo. Possiamo trasformare questa crisi storica in un'opportunità storica, quella di ripensare il sistema economico e trasformarlo in qualcosa di più umano e più giusto. Si può passare dall'idea all'azione. Facciamolo.

E se mi dite che non si può far nulla, allora forse dovreste guardarrvi dentro e rendervi conto di chi sia in realtà il pessimista, il catastrofista, l'apocalittico.

Saluti.
AMT

sabato 31 agosto 2013

La crisi dei nostri genitori

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Di Antonio Turiel

Cari lettori,

sicuramente a qualcuno di voi, i più giovani, è capitato di fare in più di una occasione conversazioni in cui i membri più anziani della propria famiglia criticano, in modo generico anche se a volte riferendosi a voi, l'ansia avere sempre di più della gente d'oggi, contrapponendola alla vita più austera e di valori morali più sani che essi hanno vissuto da giovani. Questo tipo di conversazione capitava già anni fa, ma adesso con la crisi sono aumentate in frequenza, visto si entra in una crisi prolungata, come quella attuale, logicamente si comincia a mettere in discussione le basi di tutto in cerca di una via d'uscita. Esiste persino un testo che ha fatto fortuna nei social network, e sul quale mi sono imbattuto già un paio di volte, in cui si critica con grazia sufficiente l'ipocrisia della società attuale rispetto alle questioni ambientali mentre le generazioni dei nostri vecchie erano, effettivamente, molto più sostenibili e senza tanta tracotanza (potete leggerne una trascrizione qui).

La constatazione ovvia che i nostri genitori e nonni vivessero in modo più semplice, più sostenibile e più sensata di noi non deve tuttavia portarci a un certo semplicismo di natural moralizzante. Visot ch molte volte, basandosi su questa maggior austerità dei tempi che furono, si cerca di desumere una certa superiorità morale dei valori di quell'epoca. E qui sta l'errore sostanziale. Perché ciò che è sbagliato nel nostro sistema basato sul consumo e sullo spreco era già sbagliato all'epoca dei nostri predecessori, per la semplice ragione che questo sistema che ora ci sta portando al disastro è lo stesso di allora. Esattamente lo stesso. L'unica differenza fra allora ed oggi è che ci troviamo in un punto diverso della sua curva evolutiva.

E' risaputo che la psiche umana tende a modellare la realtà per stati (visione statica), mentre generalmente questa si descrive meglio per processi (visione dinamica). Nessun punto della nostra vita è un momento invariabile, ma si verificano continuamente dei cambiamenti. Tuttavia, se questi sono sufficientemente lenti, il nostro cervello tende ad astrarre le variabili che caratterizzano il momento (“A quell'epoca non c'era la televisione, i bambini avevano solo giocattoli, i vestiti duravano degli anni”) e a prenderle come costanti, fisse  in quel periodo che conserviamo, semplificato ed idealizzato, nella nostra memoria. La cosa negativa del vedere le cose in questo modo è che crediamo che ciò che caratterizza un certo momento sia il suo stato (i beni che si possedevano allora, il modello di consumo della popolazione in quel momento), mentre col nostro sistema è ugualmente importante, o forse di più, la sua evoluzione (a che ritmo aumenta o diminuisce il consumo, si espande o si contrae la massa monetaria o la disponibilità del credito, ecc.). Detto in altro modo: siccome il nostro cervello funziona in modalità diapositiva, non ci rendiamo conto che per capire cosa succede dobbiamo vedere il film.

Una di quelle frasi tipiche che riflettono l'incomprensione del momento e del sistema potrebbe essere sullo stile di quella che segue: “Non manca la pazzia e lo spreco, per esempio nel 1960 non consumavamo quello che consumiamo oggi , sprecavamo molto meno petrolio e la verità è che non vivevamo male. Si doveva lavorare molto, quello sì. Quello che succede è che la gente ora non vuole lavorare”. Chi formula questa frase non si rende conto che non possiamo tornare al 1960 semplicemente adottando uno stile di vita e il modello di consumo del 1960, quindi il “non vivere male anche se fosse lavorando molto” perché quello che faceva del 1960 un momento vibrante e con molto impiego non era in realtà la ricchezza di allora, ma più precisamente la crescita di allora (notate i grafici seguenti , presi dal sito web Politikon.es).



Il grafico in basso ci da la visione statica (livello del PIL in ogni momento), mentre quello in alto ci fornisce una visione dinamica (variazione annuale del PIL). Anche dopo diversi anni di crisi il nostro PIL a parità di potere di acquisto è di circa 5 volte più grande (s', cinque volte!) del PIL del 1960. Tuttavia, se guardiamo alla variazione del PIL pro capite vediamo una storia molto diversa fra il decennio degli anni 60 del secolo scorso e gli ultimi anni. Ora ci troviamo in una situazione di decrescita forzata perché questa crisi non finirà mai, per cui anziché aumentare le opportunità di impiego e di investimento, al posto di avere l'economia vibrante degli anni 60, abbiamo la situazione contraria: contrazione, distruzione, paralisi. In più, ora la popolazione è maggiore, quindi in realtà allo stesso livello del PIL il rapporto pro capite sarebbe inferiore e per mantenere il livello di allora un PIL maggiore è inutile. Dobbiamo pensare, anche, che in realtà i salari diminuiscono in termini reali dall'inizio degli anni 80, quindi anche se il reddito medio avesse aumentato il reddito tipico (cioè quello che ha la maggior parte della gente, i salariati) continua a diminuire da 30 anni. Come vedete, si idealizza il passato, soprattutto perché in quell'epoca si era giovani, le opportunità abbondavano e tutto sembrava meraviglioso.

La prova più chiara che il discorso collettivo di allora non è moralmente superiore a quello di adesso si vede nella Spagna odierna, con la raccomandazione ripetuta di “investire i risparmi” per “comprare un appartamentino” che qualche anno fa e anche oggi i genitori sono soliti fare al figlio che giunge all'età dell'emancipazione. Più di un genitore ha ripreso il figlio che ha appena lasciato il suo lavoro da 1000 euro terminale perché quando lui era giovane si è sacrificato per poter comprare l'appartamento di famiglia e che ciò che il figlio deve fare è esattamente la stessa cosa. Con questo discorso è chiaro che il padre presume che le variabili macroeconomiche di allora e di adesso sono le stesse e che pertanto gli unici fattori importanti per conseguire il fine sognato sono le capacità di sacrificio e lo sforzo di suo figlio (c'è un trafiletto su burbuja.info che spiega molto bene questo colossale errore di concettuale). Questa pressione sociale, esercitata da tutti i livelli ma anche da quello di questa generazione anteriore che si crede moralmente superiore, ha contribuito al fatto che una grande massa di lavoratori si schianti contro la bolla immobiliare più grande d'Europa e che finisca impegnata a vita, quando non sfrattata.

Comincia ad essere ora che ci scrolliamo di dosso certi atavismi morali giudeo-cristiani che ci portano a riprendere colui che subisce le conseguenze come se queste fossero colpa sua e solo sua, visto che il problema è di valori morali e incombe su tutta la società. Come abbiamo visto, il problema è cominciato tempo fa, poco su scala storica (poco meno di due secoli) ma molto su scala umana (circa 6 generazioni). La relazione fra le generazioni successive si potrebbe assimilare al gioco del palloncino d'acqua: i giocatori formano una fila e si passano un palloncino che è sempre più pieno d'acqua che arriva da un tubo flessibile a cui è collegato. Nessuno discute le regole del gioco, nessuno discute la loro moralità, tutti afferrano il palloncino nel momento in cui gli tocca e lo passano a chi segue. A un certo punto a un povero idiota gli esplode il palloncino e si inzuppa tutto, per pura casualità. A qualcuno doveva capitare ed è successo a lui.

Curiosamente io sono abbastanza d'accordo sul fatto che questa crisi sia una crisi di valori e che solo cambiando i valori ne usciremo. Ma questa crisi di valori è iniziata da molto e per superarla non bisogna guardare al passato ma al futuro. Non c'è nessuna persona viva che abbia vissuto in un sistema diverso da quello attuale e ciò ha demolito tutti i valori tradizionali di rispetto dei limiti naturali, salvo in alcune aree rurali più “arretrate”. Per questo bisogna guardarsi dalle ricette semplicistiche dei più populisti, quelle che dicono di tornare a buoni vecchi valori ma che in realtà cercano solo di rimanere indietro nella catena di coloro che gonfiano il palloncino e non pensano di smettere di gonfiarlo. Perché oltretutto disgraziatamente il palloncino è già scoppiato e questo non è possibile.

I valori di cui abbiamo bisogno per ricostruire la società hanno le loro radici nel nostro passato un po' più lontano, cento o duecento anni di età, ma non sono quegli stessi valori. I valori dell'epoca preindustriale devono aggiornarsi, perché sarebbe anche molto sciocco credere che tutti i valori di un'epoca pre democratica e dominata dalla superstizione e dalla beatitudine possano o debbano essere trasposti tali e quali ai giorni nostri. Come dicevo, dobbiamo costruire il futuro, salvando in modo critico quei valori del passato più lontano ed allo stesso tempo salvando le nostre conoscenze tecniche e i nostri convincimenti morali attuali, al di là dell'ipocrisia dei nostri giorni.

Dobbiamo confrontarci con questo problema in modo serio, senza superbia e senza uno sguardo semplicistico e compiacente sul passato. Si può uscire solo con ricette nuove, con una migliore comprensione di che cos'è l'uomo e come si rapporta al proprio ambiente, comprendendo alla fine che l'uomo non ha alcun diritto divino che gli permette di sopraffare illimitatamente la Natura.

Saluti.
AMT

giovedì 29 agosto 2013

Caldo artico

Il fumo degli incendi ricopre la Siberia, l'Alaska frantuma i record di temperatura, il calore dell'oceano Artico innesca la proliferazione di alghe

Da “robertscribbler”. Traduzione di MR

Il fumo degli incendi siberiani ora ricopre gran parte dell'Artico russo. Fonte dell'immagine: Lance-Modis.

C'è molto rumore in questi giorni sul problema del riscaldamento globale e del cambiamento climatico antropogenico. La cosa include l'intransigenza dell'industria sostenuta dai negazionisti del cambiamento climatico, una grande confusione sul contesto climatico all'interno di alcune parti dei media, numerosi attacchi sempre più personali ai messaggeri – scienziati, giornalisti, blogger e esperti emergenti delle minacce – che comunicano informazioni cruciali collegate al cambiamento climatico e persino un certo grado di disaccordo professionale fra le scienze e gli esperti sui problemi chiave come il tasso potenziale di rilascio di metano dovuto al riscaldamento umano (leggete l'eccellente articolo su questo dibatto sul Guardian). Nonostante tutto questo vetriolo, la controversia e la confusione, i segnali in arrivo dal sistema terrestre non potrebbero essere più chiari – l'Artico sta mostrando tutti i segni di una rapida amplificazione del calore, di feedback emergenti relativi e di cambiamenti ambientali.

L'anello di fuoco dell'Artico

Sui continenti che circondano l'Oceano Artico che si sta riscaldando, una fascia da circa 70 gradi nord a 55 gradi nord è diventata sempre più soggetta a ondate di calore e incendi giganteschi. Quest'anno, enormi incendi hanno ricoperto sia il Canada sia la Russia, con una recente esplosione molto vasta che si sta diffondendo in Siberia.

Durante le ultime due settimane, numerosi incendi sono divampati nella tundra artica e analogamente nelle foreste boreali su una fascia sempre più grande della Russia settentrionale. Le fiamme si sono rapidamente moltiplicate fino a circa 200 incendi che hanno coperto gran parte della Russia con fumo pallido, denso e spesso. Lo nuvola di smog che ricopre la Siberia si sta allungando di quasi 3000 miglia in lunghezza e 1500 in larghezza, ricoprendo un'immensa fetta dell'Artico e delle regioni adiacenti. Gli incendi hanno coinciso con un grande impulso di metano che ha portato le letture locali a 2000 parti per miliardo, quasi 200 ppmiliardo al di sopra della media globale. Se questi alti livelli di metano siano stati dovuti da una prolungata ondata di calore sull'Artico, insediatasi sulla Siberia sin da giugno, o sono stati la conseguenza del contatto diretto degli incendi con la tundra che si scongela rimane poco chiaro. Ma la fusione della tundra ed il conseguente rilascio di carbonio ha quasi certamente scatenato le temperature sopra la media di questa area dell'Artico, essendo risultata chiaramente in condizioni che hanno favorito ed innalzato il livello di emissione (potete tracciare le attuali emissioni globali di metano su questo eccellente sito: Methane Tracker.) Queste fiamme enormi sono continuate oggi nella recente foto scattata da Modis che mostra un'ondata di punti rossi al di sotto di una copertura di fumo sempre più spessa:

(Fonte dell'immagine: Lance-Modis)

Gli incendi artici sono l'importante e pericoloso feedback di un clima polare che si riscalda. Gli incendi producono una fuliggine che intrappola ulteriore calore nell'aria mentre in quota e attraverso la riduzione dell'albedo delle superfici ricade dall'alto in basso. Se la fuliggine cade sulle calotte di ghiaccio, può amplificare grandemente il sole estivo, formando grandi buchi ed accelerando la fusione (il Progetto Neve Scura - Dark Snow Project – sta studiando questa dinamica molto preoccupante). Gli incendi rilasciano anche le riserve di carbonio racchiuse nella foresta e nell tundra attraverso la combustione diretta. Come tali, gli incendi risultano essere delle grandi fonti di emissione di CO2 aggiuntiva. Gli attuali incendi in Siberia sembrano anche aumentare il rilascio di metano dalla tundra che si scongela, in quanto sono apparsi grandi fuoriuscite di metano nelle regioni affette dagli incendi. Il risultato è che viene intrappolato più calore nell'Artico ed in un ambiente globale già vulnerabili.

L'Alaska sta frantumando i record di temperatura

Nel frattempo, lungo l'Artico, le Fairbanks riportano il quattordicesimo giorno di fila con temperature al di sopra dei 70°F, frantumando il precedente record di 13 giorni che risale al 2004. La località artica ha anche visto 80°F meteo per 29 giorni, finora durante questa estate e 85°F meteo per 12 giorni. Il record di giorni con 80°F in un'estate è di 30 in un'estate ed i precedente record di giorni con 85°F era di 1o. Un'estate 'normale' in Alaska ha aveva 11 giorni con 80°F e il numero attuale del 2013 quasi triplica quel limite. Quindi le Fairbanks hanno frantumato due record estivi di durata della temperatura e si sta avvicinando al terzo. Siccome le previsioni dicono che ci saranno 70°F in alto e 80°F in basso per almeno un'altra settimana, sembra probabile che anche questo ultimo record crolli. Si pensa che il caldo dell'Alaska continui almeno per questo fine settimana, dopo il quale le temperature dovrebbero scendere fino al di sotto dei 70°F, ancora al di sopra della media. 

Date queste condizioni di caldo record in Alaska, ci si deve chiedere anche quale sia il potenziale di incendi che possono divampare in questa regione. In giugno, grandi incendi si sono divampati e si sono diffusi nella regione. Ma in confronto a Canada e Russia, che hanno entrambe assistito al divampare di grandi incendi, l'Alaska è rimasta relativamente tranquilla. Methane Tracker mostra poco nell'ordine delle 1950 ppmiliardo o di letture maggiori sull'Alaska, al momento. Ma questa è un'indicazione a dir poco incerta. L'attuale Mappa Meteo dell'Artico mostra vaste regioni di caldo nelle ore diurne calde lungo gran parte dell'Artico. Le aree con le temperature più alte si trovano in Alaska, Canada nord occidentale, Siberia e Europa Settentrionale. Queste condizioni artiche da ondata di calore sono persistite per tutta l'estate del 2013, alla deriva in un cerchio lento, con i loro picchi di calore e impulsi di grande ampiezza della corrente a getto. Finora, queste condizioni hanno mostrato pochi segni di cedimento. 

       

Le immagini sopra mostrano la previsione delle rispettive temperature diurne fornite da Arctic Weather Maps. Le aree in rosso indicano temperature che oscillano dai 77 agli 86°F. La prima immagina mostra le ore diurne per giovedì 1 agosto in Alaska e Canada. La seconda immagine mostra le temperature diurne prevista per Siberia ed Europa per la stessa data.

L'anomalia dell'Oceano Artico aumenta

In aggiunta ad un immensa esplosione di incendi che producono enormi pennacchi di fumo che ora ricprono gran parte della Russia Settentrionale e le fasce di temperature record in Alaska, continuiamo a vedere un'aumento di temperatura anomalo su una vasta regione dell'Oceano Artico. Questa region comprende il Bacino Centrale Artico ha visto aree ampie ed anomale di copertura dei ghiacci più sottile e più dispersa. Le regioni isolate stanno mostrando temperature dai 2 ai 4°C più alte della media, risultando la regione sul mare di Barents e sul mare di Kara, vicino alla Norvegia e alla Russia Settentrionale, la più calda.
(Fonte dell'immagine: NOAA)

La regione dove sono apparse le misure della più grande anomali di calore, mostra anche una fioritura di alghe molto grande. Questa specie di macchia d'olio è chiaramente visibile come un bizzarro cambiamento di colore rispetto alle acqua tipicamente scure dell'Artico. Il più alto contenuto di calore dell'oceano e l'aggiunta di nutrienti alimentano sempre di più questo tipo di fioritura che può portare alla moria di pesci e all'anossia del mare, nelle aree colpite. Questa particolare fioritura è molto ampia e si allunga per circa 700 miglia in lunghezza e 200 miglia in larghezza lungo un'area lungo la costa settentrionale della Scandinavia. 

Fioritura molto ampia di alghe al nord della Scandinavia. Fonte dell'immagine: Lance Modis.

Mentre l'oceano si scalda a causa delle forzanti climatiche antropogeniche, c'è un rischio sempre maggiore che grandi fioriture di alghe e aree di anossia dell'oceano sempre più vaste continueranno a diffondersi e a crescere nel sistema oceanico mondiale. Nel caso più estremo, l'attuale ambiente misto oceanico può trasformarsi in un pericoloso ambiente oceanico anossico stratificato. Casi passati di tali eventi sono avvenuti durante il Paleocene e durante le età precedenti. Gli oceani che vanno verso uno stato più anossico pongono un forte stress su numerose creature che abitano i vari livelli oceanici ed è un stress ulteriore da aggiungere allo sbiancamento del corallo causato dal riscaldamento e dall'acidificazione dell'oceano dovuti all'aumento della dissoluzione di CO2. 
Il rimescolamento dell'oceano è guidato da enormi correnti di calore e sale conosciute come circolazione termoalina. Gli schemi di rallentamento e cambiamento possono risultare in passaggi da un ambiente oceanico mescolato ed ossigenato ad uno stratificato ed anossico. Attualmente, alcune della maggiori correnti, comprese la Corrente del Golfo e la corrente di acqua calda vicino all'Antartico, hanno rallentato in qualche modo a causa dell'aggiunta della fusione di acqua dolce causata dal cambiamento climatico antropogenico. 

Il movimento verso uno stato anossico dell'oceano è un ulteriore stress sul sistema climatico mondiale ed un'altra fra le miriadi di impatti scatenati dal riscaldamento umano. Sebbene un passaggio completo da un oceano miscelato ad uno anossico sia ancora lontano, è comunque un importante rischio a lungo termine da considerare. Forse, uno dei peggiori effetti in assoluto del consumo senza sosta di combustibili fossili e della relativa emissione di carbonio da parte degli esseri umani sarebbe l'emergere di un terribile stato dell'oceano chiamato Canfield Ocean. Ma questo è un altro tema, piuttosto sgradevole, che probabilmente vale la pena di esaminare in un altro post (un accenno ai procarioti che hanno paurosamente accennato a questi rischi associati a questo meccanismo climatico particolarmente sgradevole su schede internet, nei blog e nei commenti per anni). Nel frattempo, vale la pena considerare gli effetti chiari e visibili dell'amplificazione artica attualmente in atto: massicci incendi in Siberia insieme a immensi pennacchi di fumo e preoccupanti impulsi di metano, un'ondata di calore artico in corso che continua a battere i record di temperatura e temperature dell'Oceano Artico molto alte che stanno scatenando enormi fioriture di alghe a nord del Circolo Polare Artico. 


mercoledì 28 agosto 2013

L'Egitto e la bomba malthusiana

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Di Antonio Turiel 

Cari lettori,

Oggi aggiungiamo un'altra penna all'elenco di coloro che contribuiscono a questo blog. Vicent Ortega ha fatto un'analisi molto interessante della situazione egiziana, sulla falsariga dei precedenti contributi di Gail Tverberg e Heading Out, apportando nuovi dati molto significativi. Le conclusioni sono davvero preoccupanti. Vi lascio con Vicent.

Saluti. AMT


Egitto, bomba malthusiana


Le particolarità geografiche dell'Egitto, determinate dalle piene di un grande fiume come il Nilo nel bel mezzo del deserto del Sahara (capace di dissuadere da qualsiasi tentativo di attacco qualsiasi vicino ostile), hanno contribuito allo sviluppo di una delle prime e più straordinarie civiltà che l'umanità abbia mai conosciuto. Tuttavia, questo paese dall'illustre passato attualmente si trova di fronte ad un groviglio la cui soluzione è complessa e che può sfociare facilmente in guerra civile. Non parlerò quindi della storia di questo popolo magnifico, ma mi limiterò a dare uno sguardo alla situazione attuale e ad alcuni dati allarmanti che ci devono invitare alla riflessione.

Demografia

Gli storici stimano che la popolazione egiziana è oscillata nella storia a seconda del contesto storico, dei problemi politici, climatici o bellici.


Pertanto, il numero di cittadini egiziani ha vissuto i suoi naturali alti e bassi, passando dal milione di persone dell'antico Impero ai due milioni durante il periodo di Ramsete II, raggiungendo il suo picco durante l'epoca dell'Impero Romano durante il quale raggiunse i dieci milioni di abitanti. In seguito, che fosse per le continue guerre, invasioni, collassi o problemi economici di diversa natura, la popolazione si sarebbe ridotta fino ad un minimo di 2,5 milioni di persone.

L'Egitto entrava così nell'età contemporanea (l'età dei combustibili fossili) con una popolazione che allora si aggirava sui quattro milioni di persone e che all'inizio del ventesimo secolo, grazie alla rivoluzione industriale, sarebbe aumentata fino a 11,3 milioni. Questa popolazione avrebbe continuato ad aumentare - stimolata dai successi tecnologici, dall'energia a buon mercato e da un contesto di pace relativa – fino a raggiungere i 33,3 milioni di abitanti durante il 1970. Quello stesso anno, per fare un esempio, la Spagna aveva una popolazione di 33.956,004 persone. Cioè, la Spagna e l'Egitto avevano popolazioni simili appena 40 anni fa.

Tuttavia, oggi si ritiene che l'Egitto sia il quindicesimo paese più popolato al mondo, coi sui 83 milioni di abitanti, visto che ha moltiplicato per tre la propria popolazione negli ultimi 50 anni.


Se guardiamo la piramide demografica, l'Egitto ha inoltre un gran numero di abitanti intorno ai 25 anni, cioè, il suo impeto demografico (potenziale di procreazione) è più che significativo, fatto che, sommato ad un'aspettativa di vita che attualmente si aggira sui 70 anni, ci fa pensare che nei prossimi decenni la popolazione egiziana continuerà a crescere ad un ritmo vertiginoso.

Terre arabili

La cosa più preoccupante, per qualsiasi osservatore attento, è constatare come il paese africano abbia superato ampiamente la propria capacità di carico, fatto che è determinato tanto dalla già citata crescita incontrollata della popolazione quanto dal limite fissato dalla superficie arabile disponibile e ancora di più dal fatto che l'Egitto è un paese che nasce e vive dal e per il proprio fiume, il  Nilo, al confine del deserto del Sahara che riduce in modo significativo la sua possibile espansione agricola.

La scarsità di acqua e l'eccessiva urbanizzazione che comporta la concentrazione della maggior parte della popolazione, cioè 60 milioni di persone, nel milione di chilometri quadrati che corrono lungo il bacino del Nilo, di cui solo il 3% è fertile, esauriscono significativamente la sua già depauperata capacità di autosufficienza alimentare.

Pertanto non deve sorprendere nessuno che la superficie di terreno coltivabile pro capite in Egitto sia una delle più basse del mondo, fra 0,03 e 0,06 ettari per abitante. In Spagna, tanto per fare un confronto, il terreno arabile pro capite è di 0,27 ettari per abitante, cioè fra le 5 e le 10 volte in più di un cittadino egiziano. Di fronte ad una situazione di per sé complicata, visto che hanno perso l'autosufficienza alimentare, la soluzione passa necessariamente dall'ottenimento del capitale necessario dall'estero, che garantisca loro l'accesso ai prodotti fondamentali tramite l'indebitamento, il commercio o il turismo.

Bilancio commerciale, petrolio e grano

L'eccesso di popolazione dell'Egitto ha pertanto generato un deficit commerciale strutturale endemico, dove le importazioni di prodotti alimentari continuano ad avere un peso decisivo. Il suo saldo negativo è stato compensato nel recente passato con gli introiti del turismo, del Canale di Suez e delle esportazioni di petrolio. Tuttavia, da relativamente poco tempo, un parametro essenziale della difficile situazione dello stato nordafricano è cambiato in modo determinante, l'Egitto è passato dall'essere esportatore a importatore netto di petrolio greggio nel 2007-2008. Questo fatto ha generato una serie di devastanti effetti a catena che porteranno in modo quasi inevitabile al collasso del paese.



La scarsità energetica sta colpendo il turismo, visto che il carico e trasporto dei passeggeri si vede condizionato dall'eccesso di camion, autobus e minubus a gasolio. A Luxor, per fare un esempio, i conduttori di autobus possono passare fino a due giorni ad aspettare in coda a causa della scarsità di carburante, provocando il malessere dei turisti che, numerosi, rimangono bloccati. Gli autisti di autobus spesso si vedono obbligati e ricorrere al mercato nero e ad ottenere così il gasolio necessario a far muovere le loro macchine a prezzi esorbitanti. Inoltre, la mancanza di gasolio preoccupa alcuni agricoltori che dipendono dallo stesso per far funzionare le loro attrezzature di semina e raccolta. Alcuni panifici che producono il “baladí”, pane, hanno dovuto smettere di lavorare a causa dell'aumento dei prezzi dei cereali.  La crisi energetica ha provocato quindi una destabilizzazione del paese che mette a rischio tanto l'industria del turismo quanto l'agricoltura autoctona. Alla congiuntura del paese si aggiunge il rincaro dei cereali e dei carburanti all'interno di mercati internazionali convulsi a causa dell'attuale crisi.

L'Egitto si vede pertanto immerso in una bancarotta endemica che non gli permette di importare il grano di cui ha bisogno, essendo il più grande importatore mondiale di questo cereale. Senza combustibile non funziona né il turismo, né l'agricoltura, né l'industria e senza cibo emerge la fame, che provoca rivolte e può degenerare in una guerra civile che se è possibile accrescerà i suoi problemi economici.




Conclusione

Questi fatti comportano attualmente cambiamenti politici in un paese immerso in una zona geo-strategica convulsa, sia per la sua vicinanza ad Israele sia per il fatto che è il centro di una rete di regimi arabi repressivi che sia i britannici che gli statunitensi hanno appoggiato tacitamente (il controllo della zona dall'inizio del ventesimo secolo ha permesso di mantenere il controllo sul petrolio a basso costo) o per il controllo del Canale di Suez (attraverso il quale si trasporta il 14% dei prodotti che muovono l'economia mondiale e il 26% del petrolio di importazione). I movimenti sociali conosciuti come “primavera araba” e che ci vengono mostrati dai media come una legittima aspirazione alla democrazia, obbediscono in realtà ad una causa molto più banale: la fame. Il deposto dittatore Mubarak, la successiva caduta del governo formato dai fratelli musulmani o il colpo di stato militare, sono stati causati in ultima istanza dalla mancanza di petrolio a basso prezzo. La situazione attuale del paese è prebellica e minaccia di trasformare il Medio Oriente e il Nord Africa in un'autentica polveriera.

L'Egitto è entrato nelle sua personale era delle conseguenze, come diceva Churchill, e le tensioni attuali che sono state preparate per un anno, ora stanno esplodendo, nel tempo dell'aumento del prezzo degli alimenti provocato dal cambiamento climatico, dalla diminuzione progressiva di terreno agricolo, dalla competizione coi biocombustibili e in special modo dalla dipendenza dai combustibili fossili in quella che è conosciuta come agricoltura industriale. Mentre le cause non vengono analizzate in profondità, i problemi saranno ricorrenti e la crisi si perpetuerà sia nel paese africano sia nel resto dei paesi che si trovano in una situazione analoga (e sono davvero tanti). Questo fatto porterà inevitabilmente al collasso e alla perdita di popolazione di questi stati fino al recupero della loro capacità di carico.

Siamo testimoni della decadenza di uno stato le cui soluzioni passano necessariamente per la solidarietà internazionale e per il controllo demografico. Sta a noi agire, anzi, abbiamo l'obbligo morale di agire mediante l'informazione, il cambiamento di mentalità e la ricerca congiunta di soluzioni che ci preparino ad un futuro che si fa ogni giorno più vicino ed oscuro.

Vicent Ortega Bataller


Riferimenti

http://ugobardi.blogspot.it/2012/10/le-guerre-della-fame.html 

http://mondediplo.com/blogs/tunisia-egypt-and-the-protracted-collapse-of-theReferencias

http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Egypt_demography.png

https://it.wikipedia.org/wiki/Egitto 

http://es.wikipedia.org/wiki/Demograf%C3%ADa_de_Egipto

http://politikon.es/2011/02/14/10-graficas-sobre-egipto/

http://conocegipto.blogspot.fr/p/productos-de-importacion-y-exportacion.html

http://www.spain-noticias.com/noticias-internacionales/diesel-escasez-provoca-la-ira-y-la-ansiedad-en-egipto/


http://fluidos.eia.edu.co/hidraulica/articuloses/historia/suez/suez.html







martedì 27 agosto 2013

Il picco del petrolio è morto: lunga vita al picco del petrolio!

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Forse le notizie sulla morte del Picco del Petrolio sono state un leggermente esagerate. Nonostante lo tsunami mediatico relativo ai nuovi sogni di abbondanza, il concetto di picco del petrolio rimane radicato semplicemente perché ha senso.

Alcuni economisti hanno sostenuto per decenni che l'esaurimento non fosse un problema urgente e a volte che non fosse affatto un problema. Fra questi, Julian Simon ha conseguito una fama internazionale per aver dichiarato che le risorse minerali sarebbero durate per “miliardi di anni” (o forse per sempre) sulla base delle tendenze dei prezzi di cinque beni minerali durante pochi decenni. Argomento sottile che gioca sulla nostra tendenza a preferire le buone notizie. Tuttavia, non è possibile scacciare completamente la semplice e fastidiosa idea che quando usi qualcosa che non può essere sostituito, alla fine lo finirai.

Come testimone della penetrazione del concetto di picco del petrolio, potete dare un'occhiata al recente libro di  Vladimir Lopez Arismendi, “La fine dell'era del petrolio” (che, sfortunatamente, esiste solo in spagnolo al momento). Si tratta di una rassegna di tutto ciò che sappiamo sul picco del petrolio, visto nel modo giusto, cioè come conseguenza di forze dinamiche create da un declino graduale dell'EROEI della fonte.

Per Lopez-Arismendi, il picco del petrolio è una cosa ovvia, parte della sua visione del mondo. Lo è così tanto che egli analizza le conseguenze per il proprio paese, il Venezuela. Secondo lui, le risorse petrolifere venezuelane potrebbero sopravvivere al picco mondiale per almeno qualche decennio e dare al paese una possibilità di investire in infrastrutture sostenibili e passare senza problemi nel mondo post petrolio.

Vedete? Il picco del pensiero genera pensieri simili. Dopo tutto, questo è ciò che gran parte di noi hanno pensato: che il picco del petrolio non fosse solo un problema, ma anche un'opportunità per portare l'umanità in un mondo più pulito e migliore. Non è accaduto: non potevamo immaginare la reazione rabbiosa della società. Non potevamo pensare che gli esseri umani avrebbero deciso di sacrificare letteralmente tutto ciò che hanno per spremere le ultime gocce di combustibili liquidi da un pianeta esausto.

Il Venezuela può fare meglio di così? Dalla passata esperienza, sembra difficile. Ma il futuro ci sorprende sempre. Quindi, chi può dirlo?




lunedì 26 agosto 2013

Chi ha detto che i modelli del picco del petrolio erano sbagliati?

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

Un grafico impressionante da una recente presentazione di Jean Laherrere. Il testo è parzialmente in francese, ma è facile capire i principali risultati dello studio. Nella figura in alto, vediamo come la produzione mondiale di petrolio abbia seguito bene i modelli in nove anni. Su questo punto, Laherrere dice “C'è un differenza minima fra le previsioni del 2004 e quelle del 2013. La differenza è più piccola delle precisione delle misurazioni”. Un risultato rimarchevole che vendica la solidità della teoria del “picco del petrolio”.

La principale differenza fra oggi e nove anni fa è la comparsa nel quadro delle risorse “non convenzionali”. Con queste nuove risorse, potremmo essere in grado di allungare la disponibilità di combustibili liquidi per qualche anno in più, finché saremo in grado di pagare i loro alti costi. Ma continuiamo a seguire il percorso previsto e le notizie sulla morte del picco del petrolio sembrano essere davvero un pochino esagerate.



sabato 24 agosto 2013

Il grande “rutto” del metano Artico: una catastrofe da 60 trilioni di dollari

Un nuovo studio esamina gli impatti planetari, sociali ed economici della sempre più pericolosa fusione dell'Artico

Di Jon Queally

Da “Common Dreams”. Traduzione di MR


Il Permafrost sul lato nordorientale di Spitsbergen, alle Svalbard, un'isola nella regione artica fra la Norvegia e il Polo Nord. (Foto: Olafur Ingolfsson.)

Mettendo in guardia sul fatto che un drammatico “rutto” o “impulso” da sotto il fragile permafrost dell'Artico - causato dal continuo riscaldamento globale - potrebbe scatenare una “catastrofe climatica”, un nuovo studio dice che la continua fusione è anche una “bomba ad orologeria” economica che potrebbe costare all'economia globale 60 trilioni di dollari. Miliardi e miliardi di tonnellate di metano sono immagazzinate nel permafrost in tutte le regioni dell'Artico, ma è stato posto un interesse particolare sulle enormi riserve che stanno chiuse sotto la Piattaforma Artica della Siberia Orientale. Gli scienziati hanno ripetutamente avvertito che se questi depositi – molti congelati all'interno sotto forma di idrati di metano – venissero liberati, innescherebbero enormi retroazioni positive ed aumenterebbero drammaticamente il tasso di riscaldamento globale. Il nuovo studio conferma queste paure che si sono instaurate, ma valuta anche ai costi economici e sociali potenziali che ne seguirebbero. 

Anche se i netturbini delle multinazionali dei combustibili fossili e delle compagnie minerarie sbavano alla prospettiva di una fusione dell'Artico per poter sfruttare le riserve di risorse minerali ed energetiche precedentemente inaccessibili, i ricercatori climatici dicono che sia gli impatti planetari sia quelli economici dovrebbero essere presi in modo estremamente serio. Gli autori del rapporto dicono che i leader globali finanziari e politici continuano ad evitare gli avvertimenti degli scienziati quando si tratta dei pericoli posti della fusione dell'Artico. Come dice il rapporto di John Vidal del Guardian:

I Governi e l'industria si aspettavano che il riscaldamento diffuso della regione dell'Artico negli scorsi 20 anni perché fosse un vantaggio economico, in quanto avrebbe permesso lo sfruttamento di nuovi pozzi di gas e petrolio ed avrebbe consentito la navigazione per viaggiare più rapidamente fra Europa e Asia. Ma il rilascio di un singolo “impulso” gigante di metano dal permafrost dell'Artico che si scongela al di sotto del mare Siberiano Orientale “potrebbe portare un cartellino del prezzo complessivo di 60 trilioni di dollari”, secondo i ricercatori che hanno quantificato per la prima volta gli effetti sull'economia globale. Anche l'emissione più lenta di parti più piccole delle vaste quantità di metano rinchiuse nel permafrost artico e nelle acque al largo potrebbero innescare un cambiamento climatico catastrofico e “far impennare” le perdite economiche, dicono.

“L'impatto globale di un Artico che si scalda è una bomba economica a orologeria”, ha detto Gail Whiteman, un analista di politiche climatiche all'Università Erasmus di Rotterdam ed uno degli autori del rapporto. “L'imminente scomparsa del ghiaccio marino estivo nell'Artico avrà enormi implicazioni sia sull'accelerazione del cambiamento climatico sia sul rilascio di metano dalle acque al largo, che ora in estate sono in grado di riscaldarsi”, ha aggiunto Peter Wadhams dell'Università di Cambridge, un altro coautore. Come osserva Vidal:

Il ghiaccio marino dell'Artico, che si fonde in gran parte e si riforma ogni anno, sta declinando ad un tasso senza precedenti. Nel 2012, è crollato al di sotto dei 3,5 milioni di kmq a metà settembre, solo il 40% della sua estensione negli anni 70. Siccome il ghiaccio sta anche perdendo il suo spessore, alcuni scienziati prevedono che l'oceano Artico sia in gran parte libero dal ghiaccio estivo dal 2020. La paura crescente è che, mentre il ghiaccio si ritira, il riscaldamento del mare permetterà al permafrost in mare aperto di liberare quantità di metano sempre più grandi. Una riserva gigantesca di gas serra, sotto forma di idrati di gas sulla Piattaforma Artica della Siberia Orientale potrebbe essere rilasciata, o lentamente nel giro di 50 anni o in modo catastroficamente rapido in un quadro temporale più breve, dicono i ricercatori. 

“Un impulso massiccio di metano”, ha spiegato Wadhams, “avrà grandi implicazioni per le società e le economie globali. Gran parte di quei costi sarebbero sostenuti dai paesi in via di sviluppo sotto forma di eventi atmosferici estremi, inondazioni ed impatti sulla salute e sulla produzione agricola”.