domenica 22 giugno 2014

Estinzione della specie umana?

di Jacopo Simonetta

      L’apocalisse è un tema sempre di moda, molto spesso a sproposito.   A cominciare dall'ondata di “millenarismo” dell’anno 1.000 dc. che, anziché preludere ad una catastrofe epocale, preluse a due secoli di rigoglio economico ed alla fase culminante di quella civiltà feudale cui ancora oggi dobbiamo buona parte dei nostri monumenti, paesaggi ed archetipi.   La catastrofe poi ci fu davvero, ma 350 anni più tardi.
Dilettante!

Coloro che deridono l’attuale ritorno alla ribalta di questo tema non mancano quindi di argomenti, ma ciò non elimina quella sgradevole sensazione da “game over” che porta sempre più gente ad ipotizzare addirittura l‘estinzione dell’umanità.

Un argomento che vale quindi la pena di approfondire un poco. Fra gli autori che si sono occupati seriamente del tema, è d’obbligo citare J. Diamond che nel suo best-seller “Collasso” analizza le probabili cause di estinzione di vari gruppi umani.   In conclusione del suo libro, Diamond elenca i 5 fattori che, secondo lui,  sono potenzialmente capaci di provocare il collasso e la sparizione anche di popolazioni numerose e di civiltà complesse.

Ricordiamoli:

1 – Drastica modifica dell’habitat, in particolare deforestazione;
2 – Cambiamento del clima;
3 – Eccessiva dipendenza dal commercio estero;
4 – Nemici esterni potenti.
5 – Politica disfunzionale, in particolare con classi dirigenti incapaci di capire cosa sta accadendo e reagire in modo tempestivo ed efficace.

Sicuramente entrano in gioco anche altri fattori, ma il fatto che l’umanità nel suo insieme ed in praticamente tutte le sue articolazioni nazionali sia soggetta a tutti e cinque questi fattori contemporaneamente è obbiettivamente preoccupante. Il collasso delle civiltà del passato non ha portato all'estinzione della specie, ma se questi fenomeni si dovessero abbattere tutti insieme sopra di noi a livello planetario, si potrebbe pensare anche a un risultato del genere.

Possiamo dedurne che davvero la nostra è una specie a rischio?   Per l’appunto i processi di estinzione sono fra quelli che in questi ultimi decenni abbiamo avuto modo di studiare meglio, cosicché la letteratura sull'argomento è oramai vastissima; in queste pagine farò riferimento soprattutto al lavoro di sintesi di M.E. Gilpin , M.E. Soulé e A. Beeby.

In estrema sintesi, possiamo dire che i processi di estinzione derivano dall'interazione di una serie di retroazioni, detti “extinction vortex”, evidenti soprattutto per gli animali ed in particolare per i mammiferi e gli uccelli.   Con altri tipi di organismi (ad esempio con piante e batteri) le cose possono andare anche diversamente, ma qui non ci interessa visto che noi siamo certamente mammiferi.

I trevorticifatali sono i seguenti:

Vortice genetico: Al ridursi della popolazione, si possono presentare crescenti fenomeni di “depressione da consanguineità” (Imbreeding depression), i quali si traducono in una minore vitalità della popolazione (riduzione della natalità, aumento della mortalità giovanile, ecc.) che, a loro volta, riducono la consistenza della popolazione.   Non sempre l’uniformità genetica comporta effetti negativi, ma almeno negli animali comporta quasi sempre una ridotta capacità di adattamento.   Attenzione che esiste anche l’”outbreeding depression”, non meno pericolosa, perlomeno in alcuni casi ben documentati come, ad esempio, la lepre e la starna.


Vortice Ambientale:  Diminuendo la popolazione, gli effetti di incidenti quali maltempo, predazione, malattie, ecc. diventano proporzionalmente maggiori.   Inoltre, se le condizioni ambientali diventano instabili, cambiano i tassi di natalità e di mortalità, il che può riflettersi in fluttuazioni improvvise della popolazione che si può trovare repentinamente molto al di sopra o molto al di sotto rispetto alla capacità di carico che, a sua volta cambia rapidamente, impedendo o limitando la capacità di adattamento.   Tutto ciò si risolve in una ulteriore decrescita della popolazione ed in una sua maggiore instabilità

Vortice demografico:  Al diminuire della popolazione, si riducono le probabilità di incontro fertile fra i sessi e la struttura della popolazione si altera, con una prevalenza di soggetti anziani, meno vitali e meno adattabili dei giovani.



Il peso relativo di queste tre componenti e le retroazioni incrociate fra i diversi vortici cambiano da caso a caso, ma comunque per innescare uno o più vortici sono necessarie due cose:   la prima è che la popolazione diminuisca sensibilmente, la seconda (frequente, ma non universale) è che l’area in cui la specie si trova si riduca notevolmente, oppure che venga frammentata in tante piccole zone isolate fra loro.

Una cosa del genere può dunque accadere ad una specie longeva che è attualmente in fase di rapida crescita?   Ad una specie il cui areale corrisponde praticamente all'intero pianeta e che ha dimostrato una capacità e rapidità di adattamento straordinarie?   La risposta è semplice: No.

Eppure…   Siamo davvero sicuri?

Come al solito, fare delle vere previsioni è impossibile perché troppi sono i fattori in gioco e la maggior parte di questi troppo poco conosciuti, oppure intrinsecamente imprevedibili.   Chiederci se succederà è quindi futile, ma possiamo invece chiederci se potrebbe succedere.   Ed in questo caso la prima domanda che dobbiamo porci è la seguente:   E’ possibile che la consistenza della popolazione umana diminuisca molto rapidamente, fino a ridurre i nostri discendenti a piccoli gruppi isolati fra loro ed immersi in un habitat ostile?
Riprendiamo il 5 fattori di Diamond e vediamo meglio come potrebbero giocare in un contesto storico caratterizzato dagli effetti cumulativi dei limiti alla crescita.

1 – Drastica modifica dell’habitat.   L’uomo ha sempre modificato fortemente il suo habitat, ma nei due secoli di rivoluzione industriale gli ambienti terrestri ed acquatici sono stati sconvolti quasi ovunque in una misura senza precedenti al fine di aumentarne la capacità di carico in termini umani.   Foreste, praterie e paludi sono state convertite in campi coltivati (l’atmosfera, i mari e gli oceani in discariche), creando ecosistemi economicamente molto produttivi, ma estremamente instabili che si reggono esclusivamente sul continuo apporto di energia fossile sotto forma di prodotti chimici, macchine e carburanti.   Venendo progressivamente a mancare questi, molti ecosistemi agricoli possono cambiare molto rapidamente, evolvendo verso formazioni secondarie sub-desertiche pressoché inabitabili; oppure verso arbusteti e macchie anche questi ben poco ospitali.   Naturalmente l’enorme mano d’opera gratuita che probabilmente sarà messa a disposizione dal dilagare della disoccupazione potrebbe contrastare tali fenomeni, ma non dovunque.   Il risultato dipenderà infatti non solo dalla quantità di braccia disponibili, ma anche dalla presenza di teste capaci di guidare costruttivamente quelle braccia.   Inoltre, un limite invalicabile alla disponibilità di mano d’opera sarà la disponibilità di cibo, acqua, riparo, difesa, ecc.

E la disponibilità di acqua rischia di essere molto più limitante di quella di cibo.   E’ vero che l’abbandono degli acquedotti riporterebbe acqua nei fiumi, ma in vastissime regioni del pianeta le sorgenti ed i pozzi superficiali sono stati prosciugati e non è affatto certo che l’acqua vi ritorni, o vi torni ad essere potabile, in tempi che abbiano un senso dal punto di vista umano.

2 – Cambiamento del clima.   Rappresenta certamente una delle maggiori incognite sul nostro futuro.   Accantonando l’idea utopica che i governi e le imprese limitino davvero le emissioni clima-alteranti, rimane la concreta possibilità che lo faccia la crisi economica globale.   Ma potrebbe essere troppo tardi perché oramai abbiamo già attivato una serie di retroazioni che vanno dal collasso di grandi ghiacciai artici, alla riduzione dell’albedo alle alte latitudini, alla liberazione di metano dai fondali marini e dal permafrost, all’esalazione di anidride carbonica dalla biosfera e dai suoli.   Magari non sarà sufficiente per portare alla “sindrome di Venere”, ma di sicuro sarà sufficiente a ridurre in maniera drastica sia la produzione agricola, sia l’acqua in molte regioni, sia la biodiversità ovunque.

3 – Eccessiva dipendenza dal commercio.   Oramai quasi tutto quel che viene prodotto viene esportato ed importato, cibo compreso, ed è questa una delle strategia che ha permesso alla nostra specie di pullulare sul pianeta.   Man mano che il commercio si ridurrà per la carenza quali-quantitativa di energia o per le crisi politiche e militari, la disponibilità di beni di prima necessità potrebbe diminuire in modo assolutamente drammatico più rapidamente di quanto non possa riorganizzarsi una produzione su scala più locale.   Inoltre, gli impianti industriali hanno una limitata elasticità e sono costretti a produrre all'incirca sempre i medesimi quantitativi.   Una contrazione del mercato potrebbe quindi portarne molti alla chiusura, provocando un brusco passaggio dall'eccesso alla carenza per molti  beni di consumo.

4 – Nemici esterni potenti.   Dopo la pausa degli anni ’90, tutti i principali paesi del mondo hanno ripreso ad incrementare i loro apparati militari, con l’unica eccezione dell’Europa.   Difficilmente questi paesi sostengono un simile sforzo per nulla.   Ciò non è sufficiente per pronosticare una prossima guerra mondiale o qualcosa del genere, ma di sicuro il rischio di conflitti importanti è molto elevato e gli europei si stanno attrezzando per perderla, chiunque la vincesse.   Vi è anche la possibilità che una guerra nucleare di vasta portata cancelli le città e riduca a poca cosa il resto del pianeta, ma ritengo che sia molto meno probabile.

5 – Politica disfunzionale.   Questo è il fattore chiave che rende impossibile reagire agli altri 4.   Sui livelli di gravità e vastità cui siamo giunti in questo campo non credo che sia utile dilungarsi.

Dunque i “Big five” di Diamond possono, complessivamente, provocare una riduzione consistente della popolazione umana, perlomeno su vaste regioni.   Ma l’analisi storica non è sufficiente in quanto, necessariamente, trascura alcuni elementi che, storicamente, non sono stati importanti.   Ma  lo sono adesso o potrebbero diventarlo in futuro.

6 – Collasso della biodiversità.    Oggi siamo nel pieno di un’estinzione di massa che non ha precedenti storici (preistorici invece si).   Non possiamo sapere fino a che punto procederà, ma già oggi sta alterando il funzionamento degli ecosistemi, ma soprattutto ne pregiudica le potenzialità di recupero anche dopo che la pressione umana fosse diminuita.   La biodiversità è infatti l’insieme delle carte con cui la vita gioca la sua partita contro la morte.   Togliere biodiversità ad un ecosistema è come togliere organi e tessuti ad un organismo; anche nel caso in cui questo sopravvive, rimane comunque menomato per sempre.   Finché si perdono specie e generi, almeno teoricamente ci può essere un recupero, sia pure in tempi nell'ordine delle migliaia o dei milioni di anni.   Viceversa, quando si estingue un taxon superiore (ordine, classe o phylum), è certo che niente di simile tornerà mai più ad esistere.   Nei tempi lunghi, l’estinzione di massa ed il riscaldamento climatico rappresentano sicuramente i due pericoli maggiori per la nostra discendenza.

7 – Grave carenza di energia fossile.   E’ vero che l’uomo è straordinariamente adattabile, ma è anche vero che nel corso degli ultimi 200 anni si è specializzato nello sfruttamento dei combustibili fossili, soprattutto del petrolio.   Sostanzialmente, l’agricoltura moderna è un complicato sistema per trasformare petrolio e gas in cose più o meno gradevoli da mangiare.   Ed ogni minimo dettaglio della nostra vita dipende da questi materiali che non sono affatto in procinto di esaurirsi, ma che già da qualche anno hanno cominciato a decadere per qualità e disponibilità.   Le caratteristiche geologiche, chimiche e geografiche dei giacimenti rendono ineluttabile un graduale declino, mentre crisi economiche e/o militari possono provocare delle forti contrazioni dell’offerta, magari temporanee, ma repentine.    Inoltre, praticamente tutti i giacimenti attualmente sfruttati o sfruttabili lo sono solo a condizione di disporre di finanziamenti e tecnologie che solo l’attuale economia globale è in grado di mettere a disposizione.   Il disgregarsi del sistema globale in sistemi regionali porrebbe fuori portata molte delle riserve accertate.
In altre parole, i combustibili fossili ci hanno permesso una crescita incredibilmente superiore alla capacità di carico del pianeta, ma si è trattato di un fatto temporaneo.

8 – Pandemia.   Nella storia ci sono state alcune pandemie fra cui la famigerata “peste nera”, ma raramente hanno portato all'estinzione di gruppi umani consistenti.   Attualmente, il rischio di una pandemia globale è preso molto sul serio dalle autorità nazionali ed internazionali, ma non credo che sia molto probabile.   Finché il sistema economico globale continuerà a funzionare, infatti, ci saranno probabilmente i mezzi per contrastarla, come è stato fatto finora.   Quando il sistema globale sarà collassato, i mezzi sanitari disponibili diminuiranno molto, ma anche i traffici internazionali e, dunque, le probabilità di contagio.   Piuttosto, l’incremento di molti tipi di inquinamento, il peggioramento del clima e dell’alimentazione, il ridimensionamento dei servizi di assistenza ai poveri ed agli ammalati provocheranno certamente una diminuzione dell’aspettativa di vita.   Quali effetti, invece, tutto questo avrà sulla natalità è impossibile da prevedere.   In ogni caso, si avranno situazioni molto diverse da zona a zona.

E dunque?   La mia personale opinione è che l’ipotesi più probabile è un declino relativamente rapido, ma graduale della popolazione globale, ma solo localmente questo processo potrebbe raggiungere la soglia necessaria per avviare dei vortici d’estinzione.   Tuttavia, nel corso dei 2-3 secoli a venire, gli affetti combinati del cambiamento climatico, del collasso della biodiversità e di alcune forme di inquinamento potrebbero anche ridurre la popolazione umana a gruppi abbastanza sparuti e distanti da poter avviare un processo di estinzione completa della nostra specie.

Si obbietterà che nel remoto passato la nostra specie è stata costituita da gruppi sparuti e pressoché isolati di persone per decine di migliaia di anni.   E non solo non si è estinta, ben al contrario è cresciuta fino a dominare il mondo.   Ciò è sicuramente vero, ma i nostri discendenti abiteranno un mondo infinitamente meno ospitale di quello in cui hanno vissuto i nostri antenati.   Come ha scritto Bill McKibben, il dolce pianeta su cui la nostra specie si è evoluta non esiste più; ora viviamo su di un pianeta molto diverso, nettamente più caldo ed arido, povero di cibo e di acqua, squassato dalle tempeste e contaminato da veleni di ogni tipo.   Possiamo farlo grazie ad una tecnologia ed a fonti energetiche che in gran parte ci abbandoneranno; cosa ci accadrà poi non è dato sapere.

venerdì 20 giugno 2014

Renzi combatte contro i mulini a vento



DaWall Streeet Journal”. Traduzione di MR

L'energia rinnovabile non sta determinando i costi energetici italiani, perché quindi attaccare i suoi investitori?

Di Bonte-Friedheim

Apparentemente il governo italiano ha dei rapporti non facili col capitale privato. Piazza Colonna ha recentemente annunciato le prime privatizzazioni del governo in sei anni, per svendere fino a 12 miliardi di euro in patrimoni, per pagare parte del debito pubblico. Finora, tutto bene. Tuttavia, poco più di un mese fa, il governo del nuovo Primo Ministro Matteo Renzi ha anche messo sul tavolo una proposta che mira effettivamente agli investitori azionari istituzionali per finanziare i tagli al prezzo dell'elettricità.

La proposta taglierebbe retroattivamente le tariffe incentivanti per gli impianti di energia rinnovabile fino al 20%. Queste tariffe impostate dal governo funzionano come contratti a prezzo fisso per i produttori di energia rinnovabile. In Italia, i proprietari di impianti di energia rinnovabile sono un mix variegato: fondi pensione nazionali ed internazionali, fondi patrimoniali privati, imprese di investimento energetico globale – molte sostenute da fondi sovrani di investimento e altri investitori istituzionali. La proposta di tagliare retroattivamente i loro ritorno arriva al culmine di altri tentativi governativi di penalizzare i proprietari di impianti di energia rinnovabile, attraverso una serie di nuove tasse e di oneri che hanno ridotto i ritorni degli investitori approssimativamente della metà dal 2011. Ora il governo Renzi raddoppia.

Pale eoliche in Toscana. Getty Images/iStockphoto
Anche se le tatiffe incentivanti sono un capro espiatorio popolare, i prezzi medi dell'energia elettrica all'ingrosso in Italia sono già diminuiti a 48 euro a megawatt-ora nel 2014, dai 76 euro del 2008. Questa riduzione è stata determinata in parte dalla costruzione di nuovi impianti di produzione di energia rinnovabile. Ma per qualche ragione queste riduzioni non sono arrivate ai consumatori. Negli ultimi 5 anni, gli investitori hanno versato più di 50 miliardi di euro nell'energia rinnovabile italiana, costruendo circa 17 gigawatt di capacità di energia solare. Le rinnovabili hanno generato il 34% dell'energia elettrica italiana nel 2012, dal 20% del 2008 – il più grande salto fra le grandi economie europee in quel lasso di tempo.

Come con tutti gli investimenti a lungo termine, un chiaro quadro legale è stata la chiave per attrarre i finanziamenti per le rinnovabili italiane. Ora che i soldi sono stati spesi e gli impianti sono operativi, il Signor Renzi vuole strappare i contratti e spazzare via selettivamente gli investitori azionari, anche se i costi delle rinnovabili sono solo una piccola parte del costo energetico italiano. Puntualmente, il governo italiano non sta puntando i servizi inefficienti e costosi forniti dalle grandi compagnie energetiche, come il conglomerato elettrico Enel. Di recente, Enel ha presentato un piano strategico per investire più di 9 miliardi di euro nei mercati emergenti . Finanziati in gran parte dagli introiti generati dai consumatori italiani. La proposta di Piazza Colonna non affronta neanche la distribuzione locale e le aziende di fornitura controllate dai comuni italiani. Alla fine, la proposta delle tariffe incentivanti è fatta su misura per non colpire le banche italiane che fanno prestiti per la costruzione di impianti rinnovabili. (Ogni scrittura di portafogli di credito da parte delle banche porterebbe solo ad ulteriori aumenti di capitale da parte della banche italiane, cosa che il governo italiano vuole evitare). Col tipico finanziamento debt-to-equity che va da 80-20 a 70-30, un taglio del 20% delle tariffe incentivanti permette nettamente a gran parte dei prestiti bancari, se non a tutti, di essere ripagati, mentre gli investitori azionari sopportano il peso dei tagli retroattivi. Legalmente, il governo italiano potrebbe non avere la forza di sostenere i tagli: i cambiamenti di regolamento retroattivi e la riscrittura delle tariffe precedentemente contrattate potrebbe contravvenire al Trattato Charter sull'Energia della UE. Il governo spagnolo ha tentato una manovra simile con le proprie tariffe incentivanti lo scorso anno. Gli investitori hanno prontamente denunciato e il caso ora è di fronte alla Corte Europea di Giustizia. Se Madrid perde, la sentenza potrebbe innescare pagamenti di compensazioni multi miliardari.

Una tale manovra capricciosa del governo italiano sarebbe un fenomeno negativo per l'ulteriore investimento in infrastruttura rinnovabile, o di fatto in ogni settore in Italia. Se succede, il nuovo programma di privatizzazioni italiane comprende aziende soggette al potere legislativo del governo, come le Poste nazionali, l'operatore di rete Terna e il gigante Eni. Il Signor Renzi potrebbe credere che i mercati abbiano la memoria corta e che questa strada sia più facile che non riformare le palesi inefficienze energetiche nel settore energetico italiano e di tagliare tasse terribilmente alte sugli utenti energetici. Forse ha ragione, ma buona fortuna nell'attrarre investitori stranieri in futuro. Che non venga a bussare alla mia porta.

Bonte-Friedheim è l'AD del Gruppo di capitale NextEnergy.

giovedì 19 giugno 2014

Dodici regole per sopravvivere

Di Jacopo Simonetta

Quando si pianifica un viaggio in una regione sconosciuta, ci prepariamo con mappe, portolani e guide, chiediamo informazioni a chi ci è già stato.   Ma noi stiamo partendo per un’epoca storica sconosciuta e nessuno ci può dare informazioni perché nessuno ci è già stato.   Sacerdoti, maghi e professori possono al massimo delineare degli scenari generali più o meno realistici, ma cosa accadrà ad ognuno di noi rimarrà un mistero finché non sarà accaduto.  
Così, non potendo chiedere consiglio agli uomini del futuro, siamo costretti a chiederne a quelli che nel passato hanno affrontato con successo periodi particolarmente difficili.   Cosa ci possono insegnare di utile?

Secondo me, la cosa principale che possiamo imparare da loro è che le capacità manuali, le conoscenze, le dotazioni tecniche e le riserve economiche sono importanti, ma solo se supportate da un adeguato modo di pensare e di sentire; direi un modo resiliente di porsi nei confronti dell’ambiente e degli altri umani.   Direi anzi che la capacità psicologica e spirituale di affrontare le difficoltà è la primissima cosa da porre nel nostro bagaglio dato che servirà sempre e comunque, mentre non possiamo sapere quali capacità pratiche, quali attrezzature, quali scorte ci potranno davvero servire.   Ad esempio, le armi possono costituire una protezione, ma anche attirare terribili minacce.   L’oro può essere un ottima riserva, ma può essere requisito o messo fuori legge; i campi possono nutrire, ma i contadini possono essere scacciati o schiavizzati e così via.    Invece, la capacità di vivere esperienze traumatizzanti senza perdere la voglia di vivere e la forza di reagire efficacemente saranno utili in qualsiasi situazione.

Quindi, abbiamo bisogno di un atteggiamento mentale tagliato su misura per i tempi difficili, ma quali sono gli ingredienti di un tale atteggiamento?   Senza alcuna pretesa di completezza, ne elenco qui una dozzina.   Ovviamente, come tutte le virtù, anche queste richiedono soprattutto misura, perché se si eccede, le virtù diventano vizi.   La parsimonia diventa tirchieria, la prudenza viltà, il coraggio ferocia, ecc.  E la misura è da sempre la suprema e più difficile delle virtù.

Dunque, in ordine sparso, dodici regole per la sopravvivenza:

1 – Parsimonia.   Tutti i poveri della storia hanno sviluppato una sapiente parsimonia, ma in alcuni popoli questa abitudine accomuna anche la maggior parte delle persone agiate e perfino molte fra quelle ricche.   Probabilmente perché coscienti del fatto che, in qualunque momento e con poco o punto preavviso, condizioni favorevoli possono diventare decisamente ostili.   E quando questo succede, la sopravvivenza dipende in gran parte dalla rapidità con cui ci si riesce ad adattare cambiando stile di vita, lavoro, oppure fuggendo altrove; ma anche dall’aver accumulato delle riserve che aiutino a superare i momenti peggiori.

2 – Pazienza.   Quando le cattive notizie, o più semplicemente le seccature, sono la regola; oppure quando gli ostacoli da superare per ottenere cose semplici sono assurdamente alti, solo un lungo addestramento alla pazienza può evitare gesti che facilmente provocano situazioni ancor peggiori di quelle contro le quali si lotta.

3 – Memoria.   La memoria è lo spazio protetto entro il quale si conserva il proprio tesoro, la propria identità personale e collettiva.   I soldi, le proprietà, la libertà e la vita possono essere perdute, ma finché rimane la memoria una comunità continua a vivere.   Memoria è anche ricordare chi ti ha fatto del male e chi del bene; ed attendere pazientemente l’occasione per poter ripagare entrambi.

4 – Solidarietà.   Strettamente correlato alla memoria è il sentimento di identità che accomuna tutti i membri della famiglia e della comunità.   Fra i singoli individui è normale che vi siano delle antipatie od anche delle inimicizie, ma di fronte ad un pericolo esterno far fronte comune è vitale per la sopravvivenza di tutti.   Così come, anche in tempi tranquilli, il mutuo sostegno fra persone socialmente diverse è fondamentale per consolidare la solidarietà ed il senso di identità.   La generosità verso gli altri del gruppo non contrasta, ma anzi è sinergica con la parsimonia nei confronti propri, a condizione che la generosità sia accortamente reciproca come sempre avviene nei gruppi coesi.   Ma soprattutto solidarietà significa che nessuno della comunità sarà abbandonato nel bisogno; il che implica anche l’obbligo per ognuno di sostenere gli altri.

5 – Responsabilità.   Dopo 50 anni di sistematica deresponsabilizzazione del cittadino troviamo che è difficile far funzionare qualcosa.   Strano!    Un’occhiata anche superficiale alle culture che hanno saputo sopravvivere nelle difficoltà rivela un atteggiamento del tutto opposto, spesso spinto fino ai limiti della tollerabilità.   Che ognuno si faccia carico delle proprie responsabilità è però un ingrediente indispensabile affinché le persone possano fidarsi le une delle altre ed una società qualsiasi possa funzionare.

6 - Discrezione.   La mimesi è una strategia di sopravvivenza molto diffusa ed efficace.   Proprio per questo quando un governo ha interesse a discriminare o perseguitare qualcuno comincia con il costringerlo ad essere facilmente riconoscibile.   Per chi si pone in un’ottica di resilienza, questo significa prima di tutto cercare di non dare nell’occhio alle autorità.   Ad oggi questa è una regola di igiene fondamentale in molti paesi del mondo e non è detto che in futuro non lo diventi anche qui.   Abbiamo già visto come il livello di controllo dello stato sui cittadini si stia facendo di giorno in giorno più capillare.   Per il momento con effetti complessivamente positivi in quanto ha permesso di smascherare un buon numero di delinquenti, ma cambiando le cose, in futuro, gli stessi strumenti potrebbero essere utilizzati per scopi diversi.

7 – Adattabilità.   Noi siamo abituati a pensare che il domani sarà simile all’oggi; una fitta rete di consuetudini e di regole ci proteggono dagli imprevisti.   Troveremmo insopportabile sapere che in qualunque momento la nostra vita può cambiare drasticamente, ma questa è già la realtà per molte persone e lo diventerà per molte di più.   Si pone quindi la necessità di perdere ogni rigidità ed imparare a vivere sapendo che non possiamo avere certezze circa dove saremo e cosa faremo domani.   Le certezze minime indispensabili dovremo cercarle esclusivamente dentro di noi e nei nostri sodali.

8 – Gratitudine.   Noi siamo abituati a dare per scontato che ci sarà del cibo in tavola, dell’acqua dal rubinetto, dell’elettricità nella presa, degli abiti nell’armadio ecc.; siamo anzi abituati a pensare che questi siano dei diritti inalienabili e che perciò qualcuno ce li deve garantire.   Ma cosa, in realtà, ce li ha garantiti finora?   Semplicemente un sistema di mercato che, pezzo per pezzo, si sta disintegrando.   Alcuni, anzi, sono felici di questo giudicando il mercato colpevole di infiniti misfatti il che è sicuramente vero, come è anche vero che per decenni ha garantito molti dei nostri pretesi diritti.   Man mano che l’economia attuale andrà sfaldandosi, ci renderemo conto che niente o quasi può essere dato per scontato e, men che meno, preteso.   Dovrà invece essere procurato in modi probabilmente faticosi ed ingegnosi.   Per questo provare gratitudine per tutto ciò che di buono o di utile ci capita era un atteggiamento basilare delle culture antiche.   E con un buon motivo: il sentimento di gratitudine permette di apprezzare e di godere profondamente di cose come mangiare, bere, svegliarsi la mattina nel proprio letto.

9 – Cinismo.    Nella nostra cultura è considerato un grave difetto e non di rado viene usato come insulto.   Eppure cinismo vuol dire semplicemente guardare in faccia i fatti per come appaiono (non necessariamente come sono) senza cercare di abbellire o sminuire quelli che non ci piacciono.   Significa, anche, aspettarsi che le cose è più facile che vadano male,piuttosto che bene per noi.   Se non si esagera, si tratta di un atteggiamento di grande aiuto per non farsi cogliere del tutto impreparati ad eventi nocivi.

10 – Autoironia.   La capacità di ridere dei propri difetti e delle proprie calamità aiuta a ridimensionare e tollerare sia gli uni che le altre.   Inoltre, quasi ogni tragedia contiene aspetti ridicoli o lascia lo spazio per uno scherzo, una battuta, un momento di rilassamento che è necessario saper cogliere e gustare.   Ridere di sé stessi e delle proprie fissazioni è un eccellente (anche se parziale) antidoto alla paranoia.

11 – Mobilità.   Il radicamento sul territorio, così forte nelle culture contadine, può rivelarsi una trappola mortale in caso di grave crisi.   La capacità di abbandonare tempestivamente una zona per andare a cercare miglior fortuna altrove è una delle caratteristiche che da secoli contribuiscono alla resilienza di parecchi popoli.

12 – Coraggio.   Questa è una delle virtù fondamentali presso tutti i popoli che intendano sopravvivere.   Coraggio vuol dire innanzitutto essere disponibili a rischiare la propria incolumità, la propria vita ed i beni per proteggere altri membri del gruppo.   E’ questa una pulsione atavica sempre presente, ma che certe culture hanno coltivato e promosso, mentre altre la hanno repressa ed inibita.   Può sembrare in contrasto con la prudenza, ma non lo è.    Un conto è, infatti, essere disponibile a sacrificarsi quando necessario, altro conto è creare rischi supplementari con inutili smargiassate.


Ho più volte fatto riferimento alla comunità come unità di base della sopravvivenza, ma quali sono i limiti che definiscono la propria comunità?   In passato l’appartenenza era definita dalla tradizione.   Oggi non credo che avrebbe molto senso cercare di recuperare identità morte e sepolte, credo piuttosto che sarà l’effetto combinato delle scelte individuali e degli eventi che costruiranno ex-novo o quasi le comunità del futuro le quali, se saranno sufficientemente resilienti, diventeranno tradizionali nel giro di poche generazioni.   Del resto, oggi i sociologi parlano molto di “neo-tribalismo” e può darsi che si tratti proprio della fase preliminare di questo processo.
Ma, ammesso che queste caratteristiche siano strumenti utili alla resilienza, come acquisirle?

Tradizionalmente, gli atteggiamenti mentali radicati fra la propria gente si assimilavano inconsciamente durante l’infanzia, per la forza della tradizione e per la quotidiana lotta contro le difficoltà.   Ed è proprio la sostanziale mancanza di difficoltà reali per un periodo di oltre 50 anni che ci ha resi così vulnerabili.   E’ impressionante come situazioni del tutto normali come la presenza di un insetto od uno scroscio di pioggia siano oggi sufficienti a spaventare molte persone.   Anche il solo pensiero di un’ipotetica difficoltà può essere sufficiente a creare angoscia.   Lo sa bene chi si occupa di divulgazione in campo ambientale che, normalmente, si trova davanti un rifiuto ad ascoltare perché per molti è insopportabile anche solo parlare del fatto che il nostro modo di vivere potrebbe essere agli sgoccioli, oppure che il tenore di vita desiderato potrebbe non essere mai raggiunto.

Come abbiamo perso la capacità di provvedere ai nostri bisogni materiali, abbiamo perso anche la capacità psicologica di fronteggiare le difficoltà   Una menomazione ancor più grave perché come recuperarla?

Solo l’esercizio quotidiano può sviluppare le capacità fisiche e cognitive; analogamente, solo l’esercizio  quotidiano che possiamo fare fronteggiando difficoltà reali ci può permettere di sviluppare le nostre capacità latenti nei campi sopra citati.   Possiamo quindi cercare delle difficoltà opportunamente scelte e dosate, come ad esempio esporsi alle intemperie, alla fame od a rischi di vario genere, e potrebbe essere utile.   Ma soprattutto saranno gli eventi stessi della storia che ci offriranno le condizioni migliori per allenarci e che ci sottoporranno agli esami di maturità.   Non dobbiamo temere di mancare di occasioni in tal senso.

Come dice Carolyn Baker: “Il collasso della civiltà industriale ci costringerà a fare o non fare molte cose, ma sopra di tutto, ci costringerà a dirci la verità – la verità sul nostro ambiente, le nostre risorse, il nostro uso ed abuso del denaro, la nostra disconnessione con la comunità terrestre – e soprattutto, ci costringerà a dirci la verità su noi stessi” (Collapsing consciously North Atlantic Books 2013).  

Questo, se scrutiamo in fondo a noi stessi, è forse la cosa che spaventa di più molti di noi.

Cambiamento climatico brusco ed estinzioni di massa

DaSkeptical science”. Traduzione di MR. 

 


Il collegamento fra rapidi cambiamenti climatici ed estinzioni di massa è stato rafforzato in un saggio recente di Jourdan et al su “Geology". Gli autori dimostrano che le eruzioni vulcaniche straordinariamente grandi della Grande Provincia Ignea del Kalkarindi (GPI) in Australia sono state sincrone con un grande evento di estinzioni a metà del Periodo Cambriano e mostrano anche che le estinzioni più gravi nel Fanerozoico (il tempo dall'inizio del Periodo Cambriano) sono coincise con rapidi cambiamenti climatici provocati da gas serra ed emissioni di zolfo da PGI come Kalkarindji, Trappole Siberiane ed altre.

“L'Esplosione del Cambriano”, 541 milioni di anni fa è stata l'alba del tipo di vita complessa animale sulla Terra che riconosceremmo oggi – comprese creature con conchiglie e scheletri – che proprompe nei ritrovamenti fossili di quel tempo. Eppure, questa prima proliferazione di vita animale è stata tagliata 510 milioni di anni fa dall'estinzione di metà Cambriano in cui circa il 45% dei generi si è estinto. Lo hanno fatto esattamente allo stesso tempo in cui le violente eruzioni di Kalkarindji si sono scatenate su un'area di circa un terzo della dimensione dell'Australia, un un istante geologico (meno di 3 milioni di anni, probabilmente anche meno, ma questo è il limite della risoluzione della datazione). Non è stato che 25 milioni di anni dopo, nel Periodo Ordoviciano, che la vita ha ripreso il suo impulso nella Grande Evento di Biodiversificazione Ordoviciana (GEBO).

Jourdan et al dichiarano che: “Anche se cambiamenti climatici rapidi e oscillazioni climatiche è probabile che siano la causa ultima delle estinzioni di massa, lo stesso meccanismo di innesco che emerge dalle postazioni del GPI che sono responsabili di questi spostamenti climatici sono meno chiari”. Osservano che le grandi quantità di magma di per sé risulterebbero in enormi rilasci di CO2 e SO2 e la straordinaria violenza delle eruzioni avrebbe rilasciato questi gas nella stratosfera. Inoltre, strati di magma iniettate nel sottosuolo avrebbero cotto sedimenti ricchi di petrolio, rilasciando m etano ed altro CO2. Infatti, si possono vedere grumi di asfalto nella lava australiana. Queste caratteristiche sono notevolmente simili alle circostanze che circondano l'Estinzione di Massa del Permiano, in cui la vita più complessa sulla Terra si è estinta, come descritto in un post precedente su questo blog.




Una Grande Provincia Ignea (GPI) durante l'eruzione, liberamente tratto da Svensen et al EPSL 2009, Howarth et al Lithos 2014, Elkins-Tanton GSA Spec Pub 2005, Keller et al J Geol Soc India 2011, Li et al Nature Geoscience 2014.

Le eruzioni GPI sono molto diverse dalle eruzioni vulcaniche che sono avvenute nel corso della storia umana. L'ultima GPI è stata l'eruzione dei Basalti del Fiume Columbia nel nordest degli Stati Uniti, 16 milioni di anni fa, molto prima dell'evoluzione degli ominidi dalle scimmie. Gran parte delle eruzioni vulcaniche hanno un effetto raffreddante temporaneo a causa delle loro emissioni di zolfo e collettivamente per molti milioni di anni le loro emissioni di CO2 hanno evitato che il pianeta diventasse un blocco di ghiaccio. I GPI, al contrario, tendono a generare un forte riscaldamento globale attraverso enormi quantità di gas serra che emettono in un tempo relativamente breve. Il lavoro di Jourdan et al si aggiunge all'elenco degli eventi estintivi che sono coincisi coi fenomeni GPI e con le gravi fluttuazioni climatiche che li hanno accompagnati. Anche alla fine del Cretaceo, quando gran parte degli scienziati sono d'accordo sul fatto che un grande impatto di un asteroide ha spazzato via i dinosauri, un episodio di riscaldamento globale aveva già innescato un grande evento di estinzione di massa poco prima dell'impatto. Gli autori osservano che la correlazione fra GPI e gravi estinzioni ora è così forte che c'è un “trascurabile 6×10–9% di probabilità che tale correlazione sia dovuta solo al caso”, il che “sostiene fortemente una relazione causale fra i GPI e le gravi estinzioni dorante il Fanerozoico”.

L'estinzione di metà Cambriano, avvenuta prima della colonizzazione della terra da parte di piante ed animali, a sua volta suggerisce che il meccanismo killer del GPI è improbabile che si stato associato col collasso dello strato di ozono, come è stato recentemente suggerito per l'Estinzione di Massa del Permiano. Così gli oceani devono essere cruciali per il meccanismo di estinzione (vedi questo post), che punta il dito anche più chiaramente verso fluttuazioni climatiche generate da gas serra e aerosol di zolfo come causa delle più grandi estinzioni di massa della Terra.

Gli impatti di asteroidi, al contrario, hanno costellato il nostro pianeta relativamente spesso durante lo stesso periodo di tempo, ma la sola estinzione di massa che ha coinciso con un grande impatto è stata quella della fine del Cretaceo (che è avvenuta in cima ad un cambiamento climatico innescato da un GPI, come detto in precedenza). L'immagine popolare dell'impatto di un asteroide come annientatore finale della vita può essere drammatica ed adatta a film stimolanti, ma la dura realtà è che i cambiamenti climatici rapidi, come quello che gli esseri umani stanno scatenando sul pianeta oggi, sono stati consistentemente più mortali per la vita sulla Terra.


Sincronicità fra eruzioni di Grandi Provincie Ignee (GPI) e grandi eventi estintivi.  Il rosso denota la durata datata, il rosa denota l'incertezza della data . Vedi  Jourdan et al per la spiegazione del GPI di Paranà-Etendeka. Ridisegnato da Jourdan et al, Geology 2014

mercoledì 18 giugno 2014

Michael Klare: cosa si fuma Big Energy?

DaTomdispach”. Traduzione di MR


 “La posizione dell'industria era che non ci sono “prove” che il tabacco facesse male ed hanno promosso quella posizione creando un “dibattito”, convincendo i mass media che i giornalisti responsabili avevano il dovere di presentare 'entrambe le parti' dello stesso”. Usando un pugno di scienziati come propri testimoni esperti, le grandi compagnie del tabacco hanno anche negato la scienza che collega fumo e cancro ed hanno dichiarato che le scoperte anti tabacco erano guidate da un piano politico. Usando marchi pubblicitari, gruppi di pensiero e quegli scienziati “obbiettivi” da loro pagati o asserviti, hanno messo i loro soldi dove si trovavano le loro bocche ed hanno finanziato una massiccia campagna di ciò che, col senno di poi, può essere chiamata solo disinformazione sugli effetti del fumare tabacco sulla salute umana. In questo senso, hanno creato il dubbio e il dibattito che volevano, posticipando con successo una resa dei conti dell'industria per anni.

Suona familiare oggi? Dovrebbe. Come hanno documentato Naomi Oreskes e Erik Conway nel loro classico Mercanti di dubbio, seminare il dubbio nella controversia delle sigarette si è rivelata una mossa brillante. I due autori la chiamano “la strategia del tabacco”. Ha avuto così successo per le compagnie del tabacco che sarebbe stata imitata e replicata in situazioni simili come la pioggia acida, il buco dell'ozono e alla fine il riscaldamento globale, un “dibattito” ancora in corso e, come chiariscono Oreskes e Conway, con lo stesso ridotto cast di scienziati dubbiosi, che si sono spostati per convenienza da un problema a quello successivo (senza fare un lavoro originale di proprio), finendo fra la fila dell'industria dei combustibili fossili. E' una storia di uomini che rappresentano intere industrie che sono ripetutamente finiti dalla parte sbagliata della scienza. Sugli effetti del tabacco, della pioggia acida e delle sostanze chimiche che distruggono lo strato di ozono, hanno notoriamente sbagliato eppure, per le industrie che li hanno sostenuti, avevano notoriamente ragione. E' sufficientemente chiaro come il quarto di questi “dibattiti” sul cambiamento climatico sarà deciso. La domanda è solo quando – e da questa domanda dipende la salute umana su scala globale.

Nel frattempo, 'Big Energy' non ha mai smesso di imparare dal successo di 'Big Tobacco'. Come rivela oggi l'editorialista abituale di TomDispatch Michael Klare, autore di La competizione per ciò che è rimasto, si stanno ancora una volta adattando e stanno sfruttando la strategia ultima dell'industria del tabacco in un modo nuovo e devastante. Non c'è storia più vergognosa e nessuno l'ha raccontata – finora. Tom.

Che mangino carbonio. In che modo Big Tobacco e Big Energy puntano sul mondo in via di sviluppo come futuro obbiettivo per fare profitti

Di Michael T. Klare

Negli anni 80, incontrando restrizioni normative e resistenza pubblica al fumo negli Stati Uniti, le grandi compagnie del tabacco hanno inventato una strategia particolarmente efficace per sostenere i propri livelli di profitto: vendere più sigarette nel mondo in via di sviluppo, dove la domanda era forte e le leggi anti tabacco deboli o inesistenti. Ora, le grandi compagnie energetiche stanno prendendo esempio da Big Tobacco. Mentre la preoccupazione per il cambiamento climatico comincia a ridurre la domanda di combustibili fossili negli Stati uniti e in Europa, stanno accelerando le proprie vendite ai paesi in via di sviluppo, dove la domanda è forte e le misure di controllo delle emissioni di carbonio climalteranti deboli o inesistenti. Questo produrrà un aumento colossale delle emissioni di carbonio climalteranti che non li preoccupa di più i quanto il balzo delle malattie legate al fumo avesse preoccupato le compagnie del tabacco.

Lo spostamento dell'industria del tabacco dai paesi ricchi e sviluppati ai paesi a salario medio-basso è stato ben documentato. “Con l'uso del tabacco che declina nei paesi più ricchi, le compagnie del tabacco stanno spendendo decine di miliardi di dollari all'anno in pubblicità, e sponsorizzazioni, gran parte delle quali per aumentare le vendite nei... paesi in via di sviluppo, “ ha osservato il New York Times in un editoriale del 2008. Per incrementare le loro vendite, marchi come Philip Morris International e British American Tobacco hanno anche portato il loro peso legale e finanziario a sostenere il blocco dell'attuazione dei regolamenti anti fumo in quei luoghi. “Stanno usando le cause per minacciare i paesi salario medio-basso”, ha detto al NYTimes il dottor Douglas Bettcher, capo della Iniziativa per la Liberazione dal Tabacco dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.

Le compagnie di combustibili fossili – produttori di petrolio, carbone e gas naturale – stanno espandendo le loro operazioni in modo analogo in paesi a reddito medio basso dove assicurare la crescita delle forniture energetiche è considerato più cruciale che non prevenire la catastrofe climatica. “C'è un chiaro passaggio a lungo termine della crescita energetica dai paesi OCSE [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, il club delle nazioni ricche] a quelli non OCSE”, ha osservato il gigante petrolifero BP nel suo rapporto sulla Prospettiva Energetica per il 2014. “Virtualmente tutta (95%) la crescita prevista [del consumo di energia] è nei paesi non OCSE”, ha aggiunto, usando il nuovo termine garbato per ciò che veniva chiamato Terzo Mondo.

Come nel caso della vendita di sigarette, l'aumento della consegna di combustibili fossili ai paesi in via di sviluppo e doppiamente dannosa. Il loro essere presi di mira da Big Tobacco ha prodotto un forte aumento delle malattie collegate al fumo fra i poveri in luoghi in cui i sistemi sanitari sono particolarmente mal equipaggiati per chi si trova ad averne bisogno. “Se l'attuale tendenza continua”, ha riportato l'OMS nel 2011, “entro il 2030 il tabacco ucciderà più di 8 milioni di persone nel mondo all'anno, con l'80% di queste morti premature fra le persone che vivono in paesi dai redditi medio-bassi”. In un modo analogo, un aumento delle vendite di carbonio a tali nazioni aiuterà a produrre tempeste più forti e siccità più lunghe e devastanti in luoghi che sono meno preparati a resistere o ad affrontare i pericoli del cambiamento climatico.

La crescente enfasi dell'industria energetica sulle vendite a queste terre particolarmente vulnerabili è evidente nella pianificazione strategica di ExxonMobil, la più grande compagnia petrolifera privata. “Per il 2040, si prevede che la popolazione mondiale cresca approssimativamente fino a 8,8 miliardi di persone”, ha osservato la Exxon nel suo rapporto finanziario del 2013 agli azionisti. “Visto che le economie e le popolazioni crescono e gli standard di vita migliorano per miliardi di persone, la necessità di energia continuerà ad aumentare... Questo aumento della domanda è previsto essere concentrato nei paesi in via di sviluppo”.

Questa valutazione, ha spiegato l'AD della Exxon Tillerson, governerà i piani commerciali della compagnia negli anni a venire. “Il contesto economico globale continua a fornire una miscela di sfide e opportunità”, ha detto l'analista finanziario alla Borsa di New York nel marzo 2013. Mentre la domanda di energia nelle economie sviluppate “rimane relativamente piatta”, ha osservato, “la domanda di energia delle economie dei paesi non OCSE è attesa in crescita di circa il 65% per sostenere l'attesa prevista”.

A riconoscimento di questa tendenza, la Exxon ha intrapreso un'ampia varietà di iniziative intese ad aumentare le proprie capacità di vendita in Cina, Sudest Asiatico ed altre aree in rapido sviluppo. A Singapore, per esempio, la compagnia sta ampliando una raffineria ed un impianto petrolchimico che costituisce il suo “più grande sito integrato di produzione nel mondo”. La raffineria è stata modificata per produrre più gasolio, di modo da servire meglio le flotte di camion, autobus ed altri veicoli pesanti nella regione. Nel frattempo, l'impianto di lavorazione degli idrocarburi nell'impianto chimico è stato raddoppiato per soddisfare l'aumento della domanda di prodotti petrolchimici usati per fare plastiche ed altri beni di consumo, specialmente in Cina. (Ci si attende che la Cina da sola rappresenti oltre metà della crescita della domanda mondiale” di questi prodotti, ha osservato Tillerson lo scorso anno).

Per promuovere i propri prodotti in Cina, la Exxon ha stabilito una “alleanza strategica” con la China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec), uno dei giganti energetici cinesi di proprietà del governo. Un obbiettivo chiave dell'alleanza è la costruzione di una “raffineria integrata su scala mondiale e di un complesso petrolchimico” nella Cina orientale che, hanno osservato i funzionari Exxon, “diventerà un grande rivenditore di prodotti petrolchimici in tutta la Cina e di prodotti petroliferi nella provincia di Fujian. Una grande componente di questo sforzo congiunto, il progetto per la raffinazione e la produzione di etilene integrati di Fujian, è cominciato nel settembre 2009.

La Exxon sta anche espandendo le proprie capacità di fornire gas naturale liquefatto (GNL) all'Asia. In collaborazione con Qatar Petroleum, ha costruito il più grande impianto per l'esportazione di GNL del mondo a Ras Laffan in Qatar e sta costruendo un'enorme operazione di GNL in Papua Nuova Guinea. Questo progetto da 19 miliardi di dollari, diventato operativo da aprile, comprende un gasdotto di 430 miglia per consegnare gas dagli altipiani interni dell'isola ad un terminal di esportazione vicino a Port Moresby, la capitale. “Il progetto è ottimamente localizzato per servire i mercati asiati in crescita in cui la domanda di GNL è attesa in crescita di circa il 165% fra il 2010 e il 2025”, ha detto Neil W. Duffin, presidente dell'Azienda di Sviluppo della ExxonMobil.

La prossima cosa nel programma della compagnia è in piano per attingere dal gas naturale che viene estratto in quantità sempre maggiori dalle formazioni di scisto interne degli Stati Uniti attraverso l'idrofratturazione e convertirlo in GNL da esportare in Asia. Anche se vari politici americani hanno spinto l'esportazione strategica di tali forniture all'Europa per “salvare” quel continente dalla propria dipendenza dal gas russo, la Exxon ha altre idee. Vede l'Asia, dove i prezzi del gas sono più alti, come il mercato naturale del GNL – e si fotta la politica estera degli Stati Uniti. “Esportando gas naturale”, ha detto Tillerson alla Società Asiatica nel giugno 2013, “gli Stati Uniti potrebbero consolidare la sicurezza energetica degli alleati asiatici e dei partner commerciali e stimolare l'investimento della produzione interna americana”.

La missione “Umanitaria” di Big Energy

Promuovendo tali politiche, i dirigenti della Exxon sono attenti a riconoscere che le preoccupazioni crescenti sul cambiamento climatico stanno generando una maggiore resistenza al consumo dei combustibili fossili in Europa e in altre del Primo Mondo. Quando si tratta del resto del pianeta, tuttavia, tali preoccupazioni, sostengono, dovrebbero essere controbilanciata da un impulso “umanitario” a fornire energia fossile a buon mercato alla gente povera. Attingendo agli argomenti del rinnegato ambientale danese Bjørn Lomborg, autore de “L'ambientalista scettico”, sostengono che tendere ai bisogni dei poveri costituisce una priorità maggiore che non frenare il riscaldamento globale. “Dobbiamo anche riconoscere che c'è un imperativo umanitario nel soddisfare queste necessità globali crescenti”, ha tipicamente asserito Tillerson nel 2013.

Alla domanda se il riscaldamento globale non debba essere una preoccupazione più grande, l'AD di Exxon ha ripetuto a pappagallo la prospettiva anti-ambientalista di Lomberg. “Penso che ci siano molte più priorità stringenti con le quali... dobbiamo confrontarci”, ha detto Tillerson al Consiglio per le relazioni Estere nel giugno 2012. “Ci sono ancora centinaia di milioni, miliardi di persone che vivono in una povertà abietta nel mondo. Hanno bisogno di elettricità... Hanno biosgno di combustibile per cucinare il loro cibo che non sia sterco di animale... A loro piacerebbe bruciare combustibili fossili perché la loro qualità di vita aumenterebbe incommensurabilmente, la qualità della loro salute, la salute dei loro figli e il loro futuro aumenterebbero incommensurabilmente. Si salverebbero milioni e milioni di vite rendendo i combustibili fossili maggiormente disponibili a gran parte del mondo che non li ha”.

Anche se i leader della altre grandi ditte, comprese BP, Chevron e Royal Dutch Shell, sono meno dirette di Tillerson, stanno perseguendo una strategia di mercato analoga. “La crescita della domanda [di prodotti petroliferi] proviene esclusivamente da economie non OCSE in rapida crescita”, ha osservato la BP nel suo recente rapporto sulla prospettiva energetica globale. Cina, India e Medio Oriente costituiscono quasi tutto l'aumento globale”. Come ExxonMobil, BP e le altre duramente al lavoro per espandere la loro capacità di vendere combustibili fossili in questi mercati in crescita.

E non sono solo le compagnie di petrolio egas che perseguono questa strategia. Lo fa anche 'Big Coal'. Con la domanda di carbone in declino negli Stati uniti, grazie alla crescente disponibilità di gas naturale a basso costo generata dal fracking, le ditte di carbone stanno spedendo sempre di più della loro produzione in Asia, cosa che contribuirà significativamente ad incrementare lì le emissioni. Secondo la EIA del Dipartimento per l'Energia, le esportazioni di carbone statunitense verso la Cina sono aumentate da praticamente zero nel 2007 a 10 milioni di tonnellate nel 2012. Le esportazioni verso l'India sono aumentate da 1,5 milioni a 7 milioni di tonnellate e verso la Corea del Sud da praticamente niente a 9 milioni. Le esportazioni a questi paesi solamente è aumentata di più del 1000% in questi anni.

La EIA riassume la situazione così: “Le compagnie nelle zone chiave dell'approvvigionamento di carbone negli Stati Uniti – sia produttori sia ferrovie – hanno aumentato le vendite verso l'Asia a causa dell'aumento della domanda di carbone asiatica, forti prezzi di esportazione complessivi e minor consumo degli Stati Uniti di carbone per produrre energia elettrica”. Visto da un'altra prospettiva, le diminuite emissioni di carbonio dal carbone negli Stati Uniti – tanto propagandate dal presidente Obama nel suo abbracciare il gas naturale – non ha significato quando si tratta di cambiamento climatico, a causa dei gas serra prodotti quando tutto quel carbone viene consumato in Asia.

Per aumentare ancor di più le vendite, le grandi compagnie di carbone promuovono la costruzione di nuovi terminal di spedizione sulla costa occidentale, comprese le due in Oregon e le due nello stato di Washington. La più grande di queste, il Gateway Pacific Terminal vicino a Bellingham, Washington, gestirà fino a 48 milioni di tonnellate di carbone all'anno, gran parte del quale destinato alla Cina ed altri paesi asiatici.

Anche se i terminal vengono spesso promossi dai funzionari locali come fonti di nuovi lavori, innescano una dura opposizione da parte degli attivisti della comunità e dai Nativi Americani che le vedono come una grave minaccia all'ambiente. Dichiarando che la polvere di carbone, le perdite dai treni e gli impianti di carico danneggeranno i siti di pesca che ritengono vitali, membri della tribu Lumni citano diritti trattati da lungo tempo nei loro tentativi di bloccare il Terminal di Cherry Point, uno degli impianti pianificati nello stato di Washington.

Nel Pacifico nordoccidentale, l'opposizione ai terminal del carbone e alle linee ferroviarie che saranno così cruciali per il loro funzionamento – alcune delle quali attraverseranno riserve indiane e passeranno attraverso città dall'atteggiamento verde come Seattle – sta prendendo forza. Il processo è stato simile al modo in cui gli attivisti del clima si sono mobilitati contro l'oleodotto Keystone XL che, se costruito, è previsto che trasporti sabbie bituminose dense di carbonio dal Canada alla Costa del Golfo degli Stati Uniti. Ma le compagnie del carbone e i loro alleati stanno spingendo, insistendo che le loro esportazioni sono essenziali per la vitalità economica del paese. “A meno che i porti non vengano costruiti sulla costa occidentale”, ha detto Jason Hayes, un portavoce del Consiglio Americano del Carbone, i fornitori statunitensi non saranno visti come 'partner d'affari affidabili' in Asia.

Anche se l'opposizione della comunità e tribale potrebbe avere successo nel bloccare o ritardare un terminal o due, gran parte degli analisti che che, alla fine, diversi ne verranno costruiti. “Ci sono due miliardi di persone in Asia che hanno bisogno di più corrente, quindi alla fine nei mercati finirà più carbone statunitense “, dice Matt Preston, un analista della ditta di consulenza energetica di Wood Mackenzie.

Perpetuare l'era dei combustibili fossili

Alla fine, tutti questi tentativi di aumentare le vendite di combustibili fossili in Asia e in altre aree in via di sviluppo avrà un risultato inequivocabile: un forte aumento delle emissioni globali di carbonio, con gran parte della crescita nei paesi non OCSE. Secondo la EIA, fra il 2010 e il 2040 le missioni mondiali di carbonio provenienti dall'uso di energia – la fonte principale di gas serra - aumenteranno del 46%, da 31,2 miliardi di tonnellate a 45,5 miliardi di tonnellate. Poco di questo aumento verrà ufficialmente generato dai paesi più ricchi del pianeta, dove la domanda di energia è stagnante e vengono approvate regole più severe sulle emissioni di carbonio. Invece, quasi tutta la crescita del CO2 in atmosfera – il 94% - sarà lasciato al mondo in via di sviluppo, anche se una parte significativa di quelle emissioni proverrà dalla combustione di combustibili fossili statunitensi esportati.

Dal punto di vista di molti scienziati, un aumento delle emissioni di carbonio di questa scala porterà quasi sicuramente ad un aumento della temperatura globale di almeno 4°C e probabilmente di più per la fine del secolo. E' abbastanza da assicurare che i cambiamenti che stiamo già vedendo, comprese le gravi siccità, le tempeste più forti, gli incendi e l'aumento dei livelli del mare, saranno eclissati da pericoli esponenzialmente più grandi in futuro.

Condivideremo tutti il dolore di tali catastrofi indotte dal riscaldamento. Ma le persone nelle terre in via di sviluppo – specialmente le più povere fra loro – soffriranno di più, perché le società in cui vivono sono meno preparate ad affrontare gravi catastrofi. “I pericoli collegati al clima peggiorano altri fattori di stress [socioeconomico], spesso con conseguenze negative per i mezzi di sussistenza, specialmente per le persone che vivono in povertà”, ha osservato l'IPCC nella sua più recente valutazione di ciò che il riscaldamento globale significherà per il pianeta Terra. “I pericoli collegati al clima colpiscono le vite della persone povere direttamente, attraverso l'impatto sui mezzi di sussistenza, la riduzione dei rendimenti agricoli e la distruzione di case e indirettamente attraverso, per esempio, l'aumento dei prezzi del cibo e l'insicurezza alimentare”.

Di certo, le grandi compagnie di combustibili fossili hanno una responsabilità morale, se non anche una legale, per l'intensificazione del cambiamento climatico e la mancanza di una risposta seria ad esso. Oltre a questo, il loro pianificare con cura una strategia per vendere prodotti di carbonio a coloro che sono più a rischio può essere solo vista come completa immoralità. Proprio come i funzionari della sanità ora condannano l'enfasi di Big Tobacco sulla vendita di sigarette alle persone povere in paesi con un inadeguato sistema sanitario, così un giorno la nuova abitudine “di fumare” di Big Energy sarà ritenuta una enorme minaccia alla sopravvivenza umana.

Soprattutto, Big Energy sta assicurando che una piccola parentesi di buone notizie per quanto riguarda il cambiamento climatico – la contrazione dell'uso di carbone, petrolio e gas nel mondo sviluppato – si rivelerà insignificante. L'incentivo economico a vendere combustibili fossili ai paesi in via di sviluppo e innegabilmente forte. Il bisogno di maggiore energia nei paesi in via di sviluppo non è meno indiscutibile. Nel lungo periodo, il solo modo di soddisfare questi bisogni senza mettere in pericolo il nostro futuro globale sarebbe attraverso una spinta enorme ad espandere le opzioni di energia rinnovabile lì, non spingendo prodotti di carbonio nelle loro gole. Rex Tillerson e le sue coorti continueranno a dichiarare che stanno dando un servizio “umanitario” con la loro nuova strategia del “tabacco”. Invece, stanno di fatto perpetuando l'era dei combustibili fossili e contribuendo a creare una futura catastrofe umanitaria di dimensioni apocalittiche.

Michael T. Klare, una presenza regolare su TomDispatch, è un professore di studi di pace e sicurezza mondiale al Hampshire College ed è autore, più di recente, de “La competizione per ciò che è rimasto”. Un versione sotto forma di documentario del suo libro “Sangue e petrolio” è disponibile su the Media Education Foundation.


martedì 17 giugno 2014

Esaurimento del capitale morale come limite della crescita

DaThe Daly News”. Aprile 2014, Traduzione di MR


Di Herman Daly

 









Su I limiti sociali della crescita, Fred Hirsh sostiene che:

La moralità dell'ordine minimo necessario per il funzionamento di un sistema di mercato è stata ipotizzata, quasi sempre implicitamente, come se fosse una specie di bene gratuito permanente, una risorsa naturale di tipo non esauribile. 

Elaborando la relazione sulla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith per il suo Ricchezza delle Nazioni, Hirsh evidenzia che per Smith ci si potrebbe tranquillamente fidare del fatto che gli uomini non siano un pericolo per la comunità quando perseguono il loro interesse personale non solo a causa della mano invisibile della competizione, ma anche a causa dei vincoli intrinseci sul comportamento individuale derivati da morali, morali, costumi ed educazione condivisi. Il problema è che Hirsh vede che

La continuazione del processo di crescita in sé poggia su certe precondizioni che il suo stesso successo ha messo in pericolo per via della sua etica individualistica. La crescita economica mina le sue basi sociali. 

Il fatto di minare i vincoli morali ha fonti sia dalla parte della domanda sia da quell dell'offerta del mercato dei beni. Nel suo saggio, “La crescita dell'abbondanza e il declino del benessere”, E. J. Mishan ha osservato che:

Una società in cui “tutto va bene” è ipso facto una società in cui si vende qualsiasi cosa. (Economia, Ecologia, Etica

Un corollario è che autolimitazione o l'astinenza nell'interesse di richieste superiori rispetto alla gratificazione immediata per il consumo fa male alle vendite, pertento fa male alla produzione, all'impiego, alle entrate fiscali e a tutto il resto. L'economia della crescita non può crescere a meno che non possa vendere. L'idea che qualcosa non dovrebbe essere comprata perché è frivola, degradante, di cattivo gusto o immorale è sovversiva per l'imperativo della crescita. Se la domanda dev'essere sufficiente per la crescita continua, allora si deve vendere tutto, il che richiede che “vada tutto bene”.

Da parte dell'offerta, il successo della tecnologia basata sulla scienza ha favorito la pseudo religione dello “scientismo”, per esempio l'elevazione del programma di ricerca della scienza deterministico, materialistico, meccanicistico e riduzionistico allo stato di una Visione del Mondo finale. Innegabilmente, l'approccio metodologico del materialismo scientifico ha portato a grandi miglioramenti della nostra abilità tecnologica. Il suo successo pratico sostiene la sua promozione da ipotesi di lavoro o programma di ricerca a Visione del Mondo. Ma una Visione del Mondo di materialismo scientifico non lascia spazio allo scopo, al bene e al male, agli stati del mondo migliori o peggiori. Erode la moralità in generale e il vincolo morale nella vita economica in particolare. Il potere è aumentato parallelamente alla contrazione dello scopo. La conseguenza funesta di questa frammentazione dell'ordine morale, che stiamo esaurendo con la stessa certezza con la quale stiamo distruggendo l'ordine ecologico è, come evidenzia Misham, che

L'argomentazione efficace [rispetto alla politica] diventa impossibile se non c'è più una serie comune di valori finali o di convinzioni alle quali fare appello nel tentativo di persuadere gli altri.

Proprio come tutta la ricerca nelle scienza fisiche devono dogmaticamente assumere l'esistenza di un ordine oggettivo nel mondo fisico, così la ricerca nelle scienza politiche deve dogmaticamente assumere l'esistenza di un valore oggettivo nel mondo morale. La politica dev'essere mirata a spostare il mondo verso uno stato migliore delle cose, altrimenti non ha senso. Se “migliore” o “peggiore” non hanno un significato oggettivo, allora la politica può solo essere arbitraria e capricciosa. C. S. Lewis ha dichiarato con forza questa verità fondamentale:

Una credenza dogmatica nel valore obbiettivo è necessaria per l'idea stessa di una regola che non sia tirannia o un'obbedienza che non sia schiavitù.

Allo stesso modo, Mishan sostiene che

Un consenso morale che sia duraturo ed efficace è il prodotto della sola credenza nella sua origine divina.

In altre parole, un'etica duratura dev'essere qualcosa di più di una convenzione sociale. Deve avere qualche obbiettivo, autorità trascendentale, a prescindere dal fatto che si chiami quell'autorità “Dio”, o “La Forza” o qualsiasi altra cosa. Tutti i tentativi di trattare il valore morale come se fosse una interamente una parte della natura da manipolare e programmare da parte della psicologia o della genetica finisce solo in una circolarità logica.

Il valore morale non può essere ridotto a qualcosa o spiegato come mero risultato di un cambiamento genetico e alla selezione naturale senza allo stesso tempo perdere la sua autorità. Anche se sappiamo come rifare i valori morali come artefatti umani, dobbiamo tuttavia avere un criterio per decidere quali valori dovrebbero essere enfatizzati e quali soffocati nel nuovo ordine. Ma se questo criterio necessario è in sé stesso un artefatto della mutazione e della selezione mutate da mano umana, allora anche questo criterio è candidato ad essere rifatto. Non si sfugge.

Una volta che la falsa credenza si diffonde (ed è già successo) quella moralità non ha altre basi se non la possibilità aleatoria e la selezione naturale in condizioni ambientali impermanenti, quindi avrà altrettanta autorità e pretesa della verità del Coniglio di Pasqua.  Insomma, gli atteggiamenti del materialismo scientifico e del relativismo culturale tagliano attivamente la credenza su una base trascendentale del valore oggettivo, che a sua volta taglia il consenso morale. Mancando quel consenso, non c'è più la “moralità dell'ordine minimo necessario per il funzionamento di un sistema di mercato”presupposto da Adam Smith e dai suoi seguaci.