martedì 12 gennaio 2010
Galileo Galilei contro i negazionisti
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Ugo Bardi
Una delle scene più interessanti del "Galileo" di Bertolt Brecht è quando Galileo cerca di convincere i suoi oppositori a guardare con i loro occhi dentro il telescopio. Ma questi si rifiutano di mettere l'occhio all'oculare, preferendo credere ai loro arzigogoli filosofici. Questa scena di Brecht è una drammatizzazione di un fatto vero: ovvero che, al tempo di Galileo, molti negarono i suoi risultati su basi puramente filosofiche, senza degnarsi di esaminare i dati.
Sembra che il tempo di Galileo sia passato da un pezzo eppure, come sempre, la storia si ripete. Oggi vediamo il rifiuto di esaminare i dati sperimentali in una polemica apparsa su "Il giornale" del 12 Gennaio 2010 fra Vittorio Barale, ricercatore al Centro di Ricerca Europeo di Ispra, e Paolo Granzotto, giornalista.
Barale mette di fronte a Granzotto i dati sulle temperature del Mediterraneo: dati veri, documentabili, pubblicati su riviste internazionali. E, esattamente come aveva fatto Galileo ai suoi tempi, invita Granzotto a fargli visita; a toccare con mano gli strumenti che usa, a verificare e a documentarsi.
E Granzotto che fa? Reagisce esattamente come gli oppositori di Galileo. Si rifiuta di verificare; si rifiuta di toccare con mano. Si rifugia nelle battute di dubbio gusto ("Calma e gesso, caro Barale"); nell'argomentare su dettagli del tutto marginali ("venti o trenta, Barale?"), nell'arrampicarsi sugli specchi citando i dati che ha ripescato in un vecchio articolo su La Stampa ("Circa. Facciamo 19.6?") nel tirar fuori il complottismo più classico: le email del "climategate" che nulla hanno a che vedere con le temperature del Mediterraneo. Fra le altre cose, citando il preteso imbroglio dei ricercatori del Climate Research Unit, Granzotto da dell'imbroglione anche a Barale - che nulla ha a che fare con il climategate. In effetti, l'insulto gratuito è il rifugio di tutti gli incompetenti.
Per finire, non avendo altri argomenti a disposizione, Granzotto si rifugia nella negazione pura e semplice: "qui non si scalda un bel niente" Sembra di sentire gli oppositori di Galileo che proclamano solennemente "Le lune di Giove non esistono"
Non resta, a questo punto, che qualche equivalente moderno della Santa Inquisizione costringa i climatologi a pentirsi e negare i loro errori, pena essere messi al rogo. Vista la situazione, non sembra che ci siamo neanche tanto lontani - allora l'analogia con il caso di Galileo sarebbe veramente completa.
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Ringrazio Franco Miglietta per la segnalazione dell'articolo sul "Giornale"
domenica 10 gennaio 2010
Perché i Rom hanno tanti figli?
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Ugo Bardi
Un bel gruppetto di piccoli Rom fotografati mentre guardano la televisione nel campo di Sesto Fiorentino il giorno del Natale ortodosso, il 7 Gennaio 2010. Questi bambini sono allegri, intelligenti e in buona salute. Vanno tutti a scuola con risultati discreti.
Più conosci il mondo dei Rom, più ti sembra di fare un viaggio indietro nel tempo; di ritornare all'epoca dei nostri nonni e bisnonni. Se poi penso che una delle mie nonne ha avuto quattro figli e l'altra sei, non mi stupisce troppo che le famiglie Rom che conosco abbiano tutte almeno quattro figli; alcune cinque, e alcune anche sei (mi dicono che ce ne sono anche che ne hanno di più). Il campo Rom, fuori dall'orario scolastico, è pieno di bambini allegri e rumorosi che scorrazzano dappertutto. E' una visione alla quale non siamo abituati in una società come la nostra dove i bambini sono diventati rari.
Perché i Rom fanno tanti figli? Un motivo è una legislazione del tutto assurda che fa si che l'immigrato senza figli sia penalizzato rispetto a uno che ne ha. Ma il motivo più importante è un altro ed è che effettivamente la società Rom somiglia molto di più alla società contadina di una volta che alla nostra società industriale e, ormai, post-industriale. Un tempo, i Rom avevano trovato una loro nicchia economica in cui fornivano certi servizi ai contadini; metallurgia, cavalli e intrattenimento, che evidentemente si gestivano meglio in termini itineranti (o nomadici, se volete) che stanziali. Sparita la società contadina, i Rom non sono riusciti più ad adattarsi se non con espedienti; bloccati da barriere linguistiche, legali e culturali. La loro società è rimasta cristallizzata com'era al tempo dei contadini; un vero fossile (sociale) vivente.
Per noi, la vita ruota intorno a certe cose: il nostro lavoro, la nostra casa, i nostri risparmi, la nostra pensione. Sono cose che diamo per scontate anche se, forse, non lo sono poi così tanto. Per i Rom, la vita è molto più incerta: il lavoro è saltuario, se c'è; la casa è una baracca di legno; i risparmi sono quel poco che tengono sotto il materasso e la pensione... quale pensione? I queste condizioni, per un uomo e una donna, la famiglia è un isola in un mare in tempesta. Un posto dove trovare rifugio, risorse, e sostegno. Non è la famiglia dei caroselli: è una famiglia estesa come usava, appunto, nella società contadina. E, se non hai speranza di una pensione dallo stato, la tua sola possibilità di una vecchiaia tranquilla sta nei tuoi figli.
E' un modo di vedere le cose che è stato molto comune nel passato e lo è tuttora in molti paesi. Ma la tendenza delle società industriali e di passare quella che si chiama la "transizione demografica" che ci porta all'attuale situazione. In Italia siamo oggi a circa 1,4 figli per donna. Per i Rom, non ci sono statistiche attendibili, ma certamente è un numero molto più alto. Non che i tanti bambini dei Rom cambino qualcosa alle tendenze della popolazione italiana: i Rom sono soltanto 150.000, circa, in tutta Italia. Ma, certamente, è per il loro stesso bene che i Rom devono cercare di stabilizzare la loro popolazione in un paese già abbastanza sovrappopolato. In sostanza, devono passare anche loro attraverso la transizione demografica e, per fortuna, ci sono sintomi evidenti che è proprio quello che sta avvenendo.
Tutto cambia, e anche la società dei Rom sta cambiando. Molte ragazze Rom dicono chiaramente che non hanno nessuna intenzione di passare la loro vita a fare figli e a ramazzare la casa. C'è poi una cosa che favorisce la transizione: la scolarizzazione dei ragazzi e - soprattutto - delle ragazze. In tutto il mondo, si sa che il modo migliore per ridurre la pressione demografica sta nel dare un'istruzione alle donne. Questo è quello che sta succedendo: i giovani e le giovani Rom stanno ricevendo un'istruzione che i loro padri e i loro nonni non hanno mai avuto.
Abbiamo fatto la cosa giusta, perlomeno in Toscana, mandando i bambini Rom a scuola; alle volte anche forzandoli nonostante delle situazioni familiari che lo rendevano difficile; soprattutto per via della secolare tradizione che voleva che le ragazze non andassero a scuola. Nella media, i bambini Rom stanno facendo benino a scuola. Se continuiamo con questa politica, i Rom passeranno rapidamente la loro transizione demografica e daremo a questi ragazzi, da adulti la possibilità di dare un contributo utile alla società e a loro stessi.
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Quando si parla di bambini Rom, vengono sempre fuori le solite leggende. Quella dei Rom che "rapiscono in bambini" è una sulla quale credo non vale la pena nemmeno di soffermarci: ne hanno già tanti, cosa se ne farebbero di altri ancora? Più antipatica è la leggenda che i Rom addestrino i loro figli a diventare piccoli ladri. Ora, non è che fra i Rom manchino situazioni umane e sociali disperate; povertà estrema, alcolismo, droga, eccetera. In queste condizioni è chiaro che i bambini ne risentono; possono diventare (e diventano) dei piccoli criminali. Questo non vuol dire che la cultura dei Rom incoraggi il furto e il crimine. Assolutamente no; come in tutte le culture contadine, fra i Rom si enfatizzano virtù come l'onestà, l'integrità, il lavoro e l'amicizia. Questo è quello che si insegna ai bambini nelle famiglie Rom e nessuno al mondo vorrebbe educare il proprio figlio a diventare un ladro o un criminale.
sabato 9 gennaio 2010
Cantando dietro i paraventi
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Ugo Bardi
Esce oggi sul blog di ASPO-Italia un mio commento sul film "Cantando dietro i paraventi" di Ermanno Olmi (2003). Qui, ne riproduco una scena ("i sotterfugi di una falsa legalità") che credo valga la pena vedere e ascoltare.
Versione originale su youtube (da Subsumo channel)
Versione originale su youtube (da Subsumo channel)
giovedì 7 gennaio 2010
Gli imperi muoiono di burocrazia (II)
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Ugo Bardi
Mi ha raccontato un mio amico immigrato di quando è andato in questura a ritirare il permesso di soggiorno di sua moglie. Allo sportello, l'impiegato gli ha detto, "non è pronto, torna(*) fra venti giorni".
Uscito dall'ufficio, il mio amico ha telefonato al suo avvocato che, a sua volta, ha telefonato in questura. Ha poi richiamato il mio amico, dicendogli di ripresentarsi allo stesso posto. Allo sportello, lo stesso impiegato di prima ha stampato il permesso seduta stante e glie l'ha dato.
I danni che la società si auto-infligge con questo tipo di cose sono immensi. A titolo di esempio vi racconto un'altra cosetta che mi è successa il mese scorso.
Allora: devo portare a demolire la mia vecchia macchina. Telefono al demolitore il quale mi dice, "si, la porti pure da noi, ma - attenzione - c'è una nuova legge che dice che deve portare una visura del pubblico registro automobilistico che costa 5,45 Euro"
Chiedo se non la possono fare loro: mi dicono che, no, la devo fare io andando a uno sportello dell'ACI. Chiedo se si può fare via internet e mi dicono che non lo sanno di sicuro, ma forse si può fare. Allora mi collego al sito dell'ACI. Trovo la pagina del caso. Ti dicono che si può fare sia via internet che allo sportello e che, in entrambe i casi, costa 5.45 Euro. Inserisco i dati della mia macchina, pago i 5,45 Euro con la carta di credito, dopo di che premo "invio" e aspetto. Non succede niente.
Aspetto un po' e continua a non succedere niente. Guardo la mia posta, e non c'è niente. Telefono al numero verde dell'ACI. Trovo che si può soltanto avere informazioni sul traffico o su come farsi socio ACI. Provo a chiamare la sede centrale dell'ACI di Firenze. Sono molto gentili, ma mi dicono che di visure non ne sanno niente.
Spedisco vari messaggi all'ACI chiedendo dov'è finita la visura e aspetto qualche giorno per vedere se mi arriva una risposta. Zero totale. Dopo di che comincio a essere piuttosto innervosito. Telefono alla mia compagnia di carta di credito e gli dico di bloccare il pagamento. Almeno quei 5.45 Euro riesco a non regalarglieli; ma il tempo perso e le telefonate non me le rende nessuno.
A questo punto, non mi resta che andare fisicamente alla sede ACI più vicina per farmi fare questa benedetta visura. Lì, dopo tre quarti d'ora di coda (e mi è andata bene) e un euro di parchimetro, un'impiegata mi stampa un foglino da quattro soldi dove non c'è scritto praticamente niente. Me lo timbra e mi chiede 15 euro. "Ma su internet dice che costa 5,45 Euro" dico. Lei mi risponde "Si, se lo fa su internet, ma qui da noi ci vogliono 15 euro". Senza fiatare, le do i 15 euro e quella mi da il foglino, senza neanche darmi una ricevuta di quanto ho pagato. La sensazione nettissima è quella di aver visitato una sede della Camorra o della 'Ndrangheta o qualcosa del genere.
Come beffa finale, dopo 20 giorni (!!) dal mio tentativo di pagare la visura via internet, mi arriva dall'ACI un messaggio con la risposta alle mie proteste. Mi dicono che la visura era stata spedita al mio indirizzo email via qualcosa tipo "posta certificata". Probabilmente, il mio filtro anti-spam l'aveva immediatamente cestinata.
Incredibilmente, è proprio così che funziona il loro programma di pagamento. L'utente si deve immaginare che la transazione è andata a buon fine, perché non gli viene detto niente e nemmeno dove e come riceverà il documento richiesto. Quello che ha fatto quel programma ha un'idea molto particolare di quello che si chiama "customer satisfaction".
Tutto questo è avvenuto nel Novembre 2009; può darsi che ora abbiano migliorato quel programma (e anche - spero - appeso per i pollici quello che ha fatto la prima versione). Ma non è questo il punto. Magari ci sarà una ragione per chiedere al cittadino una visura al PRA, ma questi 5 euro (o 15 euro) sono proprio un balzello odioso e inutile; un vero furto dalle tasche della gente. E se per ognuno di noi 5 euro (o 15 euro) non sono gran cosa, per chi incassa la somma non è per niente trascurabile. Ha calcolato Leonardo Libero che il decreto sui contributi alle rottamazioni potrebbe portare a rottamare 13 milioni di vecchie macchine. Fatti un po' di conti, sono circa 50 milioni di Euro (o forse 150 se ti prendono 15 euro a visura) che entrano nelle casse del PRA o dell'ACI o non so di chi.
E non è neanche questo il punto, che tanto si sa che la legge fondamentale della burocrazia è "comunque devi pagare". Ma diceva il compianto Carlo Cipolla nel suo indimenticabile "trattato sulla stupidità umana" che il bandito peggiore è quello che ti causa un danno sproporzionato al vantaggio che ne ricava. Faceva l'esempio di uno che ti rompe un vetro e ti demolisce il cruscotto per portarti via l'autoradio: lui ci guadagna 50 euro; a te fa 2000 euro di danni; per non parlare del tempo perso. Lo stesso succede per portarti via questi 5 euro (o 15 euro). Ti fanno perdere ore e ore di tempo per fare la coda all'ACI, per fare telefonate, e anche per scrivere (o leggere) un post come questo che - se al mondo ci fosse un minimo di sanità mentale - non sarebbe necessario scrivere (o leggere)
Questa storia è forse un po' banale, ma credo che abbia molto a che vedere con la pretesa "efficienza" delle nostre istituzioni e si riallaccia con un mio post precedente pubblicato su ASPO-Italia intitolato "le civiltà muoiono di burocrazia"
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* Quello di dare del "tu" immediatamente alle persone di pelle un po' più scura della media è una forma di maleducazione molto diffusa e non soltanto in Italia. Mi raccontava un collega di origine turca, professore all'università di Zurigo, che per via del suo aspetto fisico gli capita non di rado di essere apostrofato con forme verbali confidenziali in tedesco. Forme che, non c'è bisogno di dire, nessuno mai si sognerebbe di usare con un professore di aspetto svizzero autoctono.
mercoledì 6 gennaio 2010
Internet: non siamo ancora al picco
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Ugo Bardi
Immagine dal sito "netcraft"
Continua ad aumentare la popolazione di internet. Misurati in termini di "host names" siamo a circa 240 milioni. Di questi, quelli "attivi", circa 70 milioni. Il numero di siti è solo uno degli indicatori dell'espansione di internet. Secondo alcuni dati, nel 2008 c'erano oltre mille miliardi di pagine sul web (un trilione di pagine).
Non ho trovato statistiche sull'incremento storico del numero di pagine sul web, ma se prendiamo come un indicatore dell'espansione di internet il numero di host names, è comunque interessante notare come il numero degli hosti attivi, e probabilmente anche quello totale, stiano rallentando la loro crescita. Per gli host attivi, potremmo divertirci a estrapolare la curva di crescita con una logistica e non andremmo oltre gli 80 milioni. Se misurassimo la crescita in termini di numero di host names aggiunti ogni anno vedremmo un "picco di Hubbert" verso il 2007.
Non ho trovato statistiche sull'incremento storico del numero di pagine sul web, ma se prendiamo come un indicatore dell'espansione di internet il numero di host names, è comunque interessante notare come il numero degli hosti attivi, e probabilmente anche quello totale, stiano rallentando la loro crescita. Per gli host attivi, potremmo divertirci a estrapolare la curva di crescita con una logistica e non andremmo oltre gli 80 milioni. Se misurassimo la crescita in termini di numero di host names aggiunti ogni anno vedremmo un "picco di Hubbert" verso il 2007.
Sarà questo il "picco di internet"? Può anche darsi. I server che lo gesticono richiedono molta energia e molte risorse e entrambe le cose esistono in quantità limitate. L'internet, come tutte le cose umane, non può essere infinito. Almeno fintanto che rimane una cosa umana.....
domenica 3 gennaio 2010
2010 - un anno di respiro per l'economia mondiale?
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Ugo Bardi
Negli ultimi anni mi sono provato a fare delle previsioni sull'economia. Mi sono venute talmente bene che quasi mi faccio paura da solo (vedi questo post. riguardo al 2008 e questo riguardo al 2009). Ci sono due possibilità: o mi è andata bene per caso, oppure veramente ho dei modelli che funzionano. Supponendo che la seconda ipotesi sia quella vera, mi provo adesso a farvi qualche previsione per il 2010. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma credo che, con un po' di attenzione, qualcosa sul futuro si possa dire.
Il 2009 è stato un anno molto particolare: non è successo quasi niente. Dopo una decade brutale e turbolenta, come è stato fino ad ora il ventunesimo secolo, è sorprendente vedere un'annata dove non è cominciata nessuna nuova guerra. Certo, c'è stato il bombardamento di Gaza, che però era cominciato nel 2008. Non si è visto nessun rivolgimento politico importante; ovviamente Obama è stato il grande cambiamento ma, anche lui, è stato eletto nel 2008. Sembra che la notizia politica principale da ricordare del 2009 sia la statuetta del duomo di Milano tirata in faccia a Berlusconi. Il che è tutto dire.
Nel 2009, l'economia si è abbastanza stabilizzata dopo la crisi del 2008; anche qui non abbiamo visto grandi crolli e neppure grandi impennate. I prezzi del petrolio si sono stabilizzati a un livello intermedio fra il picco del Luglio 2008 e il crollo di fine 2008. Persino in termini di catastrofi naturali è stato un anno tranquillo, a parte il terremoto dell'Aquila e i soliti allagamenti che in Italia arrivano appena piove un po' di più per via della cementificazione del territorio. Per quanto gravi, tuttavia, nessuna di queste cose si classifica come un disastro di portata planetaria. Ci sono stati soltanto tre uragani sull'Atlantico, dei quali nessuno ha toccato la terraferma degli Stati Uniti.
Insomma, sembra quasi incredibile che abbiamo passato un anno così calmo. Ma per tutto quello che accade ci sono delle ragioni. Non so che cosa abbia calmato i vulcani e gli uragani. Però, sembrerebbe che il picco del petrolio - avvenuto probabilmente nel 2008 - ci abbia lasciati letteralmente senza fiato. Anche per fare guerre e rivoluzioni ci vuole petrolio e sembra che senza petrolio non ci siano le risorse per farle. In un certo senso, questo è bene. In un futuro con meno petrolio, avremo un sacco di problemi ma - forse - meno guerre.
D'altra parte, tutto quello che accade ha una ragione di accadere e quindi nel 2009 abbiamo visto le conseguenze di alcuni fenomeni che si stavano sviluppando ormai da decenni. Di fronte a un costo di produzione sempre più elevato dell'energia fossile, il sistema economico si adatta. Inizialmente, aveva reagito in modo aggressivo con una serie di guerre costose e inutili. Adesso, sta reagendo contraendosi e riducendo i consumi. Allo stesso tempo, si sta cercando di investire nello sviluppo di nuove risorse - nuovi giacimenti e nuove tecnologie di estrazione. Soprattutto con il gas naturale, lo sviluppo della tecnologia dello "shale gas" associato al drilling orizzontale ha ridato fiato alla produzione negli Stati Uniti, che era in grossa difficoltà.
Quindi, che cosa ci possiamo aspettare per il 2010? Beh, l'arte della previsione è l'estrapolazione intelligente. Nessuno può fare previsioni precise, come pretendono di fare i maghi con gli oroscopi. Le previsioni non possono mai essere precise e se lo sono, sono sbagliate. Le previsioni veramente utili sono degli "scenari"; delle interpretazioni delle tendenze del sistema che possono accadere con buona probabilità.
Allora, cominciamo con il sistema economico. Durerà la ripresa che abbiamo visto a partire dal Marzo del 2009? Qui, bisogna vedere come si adatterà il sistema alla crisi di disponibilità di energia e di materie prime. Per questo, ci sono due possibilità: una è contrarre i consumi; l'altra è cercare di mantenere i livelli di produzione allocando più risorse verso l'esplorazione e l'estrazione. Questa seconda strategia si esprime con l'aumento dei prezzi delle materie prime ed è quello che il sistema ha fatto nella prima metà de 2008. A questa fase, è seguita una contrazione economica dato che il sistema non ce la faceva ad allocare risorse sufficienti per aumentare la produzione. In sostanza, il sistema ha oscillato fra le due strategie; è quello che in Inglese si chiama "boom and bust".
Ora, la crisi economica ha fatto abbassare i prezzi e questo, a sua volta, ha permesso all'economia di ripartire. A questo punto, ci sono tutti i presupposti per un nuovo ciclo di boom and bust. Ovvero, se l'economia continua a crescere, la domanda di petrolio e di materie prime salirà di nuovo e questo farà ripartire i prezzi. Questo potrebbe portare a una nuova impennata di prezzi, seguita da una nuova crisi.
D'altra parte, è anche vero che, a partire dalla seconda metà del 2009, il sistema sembra essersi stabilizzato su un livello di prezzi del petrolio che corrisponde - approssimativamente - al valore "giusto", ovvero vicino ai costi di esplorazione/estrazione. Il sistema non è completamente privo di memoria e quindi può imparare dal passato. Quindi non è detto che sia condannato a un altro ciclo di boom and bust; potrebbe stabilizzarsi. Il controllo dei prezzi petroliferi è ritornato - per ora - nelle mani dei paesi produttori, OPEC soprattutto. Questi non hanno nessun interesse in un nuovo ciclo di boom and bust e potrebbero riuscire a controllare l'offerta in modo da evitarlo.
Fra queste due ipotesi: nuovo ciclo di boom and bust oppure stabilizzazione, è impossibile al momento fare una scelta. Vedremo che cosa succederà via via che il 2010 avanza. In ogni caso, possiamo dire con certezza che nel 2010 non vedremo (ancora) l'inzio del declino terminale dell'economia che gli scenari dei "Limiti dello Sviluppo" prevedono per la decade 2010-2020. Per quello, dovremo aspettare qualche anno ancora.
In alcuni campi dell'economia, i fenomeni iniziati nel 2009 continueranno e si intensificheranno nel 2010. In particolare, il 2009 è stato l'anno dell'inversione di tendenza nel rapporto fra produzione alimentare e popolazione. Fino al 2009, la produzione tendeva ad aumentare più della popolazione, ma nel 2009 ci siamo accorti che il numero di persone affamate nel mondo ha avuto un brusco aumento. Era inevitabile: il sistema agricolo sta raggiungendo i limiti possibili di produzione, pur gonfiati artificialmente a furia di fertilizzanti di origine fossile. La produzione di cibo non sta diminuendo, almeno per ora, ma rimane approssimativamente costante. La popolazione, invece, continua ad aumentare sia pure a ritmi sempre più ridotti. Al problema dell'aumento di popolazione si aggiunge l'aumento dei costi di trasporto che rende difficile distribuire il cibo prodotto. Questo ha generato il fenomeno apparentemente contraddittorio del crollo dei prezzi delle derrate agricole. In sostanza, abbiamo una doppia crisi: una crisi alimentare nei paesi importatori che non possono comprare cibo a sufficienza e una crisi agricola nei paesi produttori che non trovano mercato per la loro produzione.
Nei prossimi anni, la crisi alimentare si farà sempre più grave e, a lungo andare, porterà a un'inversione di tendenza demografica, ovvero a un picco della popolazione umana sul pianeta. Questo, però, non lo vedremo ancora nel 2010. Vedremo la crisi alimentare colpire molto duramente nei paesi del cosidetto "terzo mondo". Colpirà anche duramente le minoranze (per ora) economicamente svantaggiate dei paesi "ricchi". In paesi come l'Italia non vedremo rivolte alimentari di gente affamata, ma un peggioramento della dieta delle fasce sociali più deboli, questo si.
Sarà anche un anno in cui la crisi dell'edilizia si farà sempre più evidente anche se si continuerà a cercare di ignorarla. In paesi dove l'economia è particolarmente legata all'edilizia, per esempio l'Italia, il crollo potrebbe diventare così grave che non sarebbe più possibile negarlo. Questo potrebbe portare a dei contraccolpi economici molto forti. I gruppi industriali legati al cemento andrebbero al collasso e quelli che avevano investito nel cosiddetto "mattone" vedrebbero i loro risparmi evaporare e scomparire. La botta economica conseguente, a sua volta potrebbe essere accompagnata da rivolgimenti politici importanti; considerando che l'attuale classe politica è fortemente legata alla lobby del cemento.
Il 2010 vedrà anche l'intensificarsi della crisi climatica. Se il 2009 è stato un anno senza fenomeni meteorologici drammatici; questo non vuol dire che la crisi non ci sia e non sia gravissima. Se il 2008 aveva visto un leggero calo della temperatura rispetto agli anni precedenti, il 2009 è ritornato in linea con la tendenza all'aumento globale. Il 2010 potrebbe vedere un ulteriore salto in avanti. Questo potrebbe avere dei forti contraccolpi sull'agricoltura e - di conseguenza - sull'economia, accellerando le tendenze attuali. Il 2010 potrebbe essere l'anno in cui si arriva finalmente ad accettare l'inevitabile realtà dell'effetto umano sul clima: troppo tardi, ma meglio tardi che mai.
Tutto quello che avviene, avviene per una ragione e quello che stiamo vedendo ha le sue radici in un fenomeno molto semplice: il progressivo esaurimento delle risorse a buon mercato che sta lentamente strangolando l'economia mondiale. Queste risorse includono la capacità dell'atmosfera di assorbire la CO2 emessa dalla combustione di idrocarburi fossili senza generare gravi danni da surriscaldamento. Anno dopo anno, quello che succede si spiega tenendo conto di questa tendenza. Il 2010 potrebbe non essere drammatico in questo senso, ma non ci possiamo aspettare che cambi qualcosa finchè, in un futuro per ora non vicinissimo, non riusciremo a invertire la tendenza con le energie rinnovabili.
sabato 2 gennaio 2010
Galatea dei blog
Posted by
Ugo Bardi
Galatea, dal blog Il nuovo mondo di Galatea, ha scritto una riflessione veramente interessante sui blog e sul nuovo modo di fare informazione che rappresentano. Se pensate che solo pochi anni fa i blog non si sapeva nemmeno cosa fossero, la cosa è veramente impressionante. Mi ha fatto ricordare di un tempo, ormai remoto, in cui leggevo caratteri stampati su fogli di carta di cattiva qualità e guardavo lo schermo di un curioso oggetto luminoso che stava in soggiorno.
Vi passo il testo di Galatea senza ulteriori commenti; merita di essere letto.
Vi passo il testo di Galatea senza ulteriori commenti; merita di essere letto.
La stanchezza del blog. Dal blog al social network: perché tutti vogliono censurare Fb oggi?
Di Galatea
29 Dicembre 2009
Se ne è accorto persino Gasparri, e questo dovrebbe farci riflettere. Dovendo scegliere un obbiettivo contro cui scagliarsi nelle sue crociate contro internet, invocando la censura, il nemico principale è stato identificato nei Social Network (anzi, nel Social Network: Gasparri ed il resto dei politici pare conoscano solo Fb, forse in parlamento FriendFeed è sconosciuto e Twitter poco “usabile” perché fino a pochi giorni fa solo in inglese, e si sa che ila maggior parte dei nostri politici ha seri problemi persino con l’italiano). I blog, che fino a qualche mese fa erano l’orrore che avanza, sono passati, fra le emergenze di questo paese, in secondo piano: si invoca, certo, una legge censoria “spalmabile” anche su di loro, ma, se si leggono le dichiarazioni, vengono ora trattati come una postilla, per quanto fastidiosa. E l’impressione è che poi, mentre fino a qualche tempo fa tutti i blog ed i blogger erano considerati ugualmente “pericolosi”, ora ciò che preme alla politica, o meglio ai politici, sia mettere semmai il bagaglio, o almeno qualche bel bastone fra le ruote, giusto ad un paio di siti noti alle masse, tenuti per lo più da personaggi pubblici, come Gilioli o Grillo o lo stesso di Pietro. Personaggi che certo sono blogger e anche famosi, ma, in fin dei conti, vengono attaccati e iscritti nel registro dei “cattivi” per la loro attività politica/informativa in senso lato, di cui il web è solo un aspetto, anche se non secondario.
Che i politici di internet e di tutto ciò che ci frulla dentro capiscano un beneamato nel 90% dei casi è palese a chiunque navighi anche solo poche ore al giorno; ma i politici hanno però, e questo va riconosciuto loro, una antenna sensibilissima per sintonizzarsi sugli stati d’animo della massa e sulle nuove tendenze. Per cui se passano dagli alti lai contro i blogger ed i blog a quelli contro i social network si può sorridere per la loro manifesta impreparazione su cosa siano questi ultimi, ma è meglio interrogarsi sui motivi che determinano il cambio di bersaglio.
Il blog, in effetti, pare essere arrivato negli ultimi tempi ad un punto di svolta; forse, semplicemente, ad un necessario momento di ridefinizione. In Italia c’è stata la fase pionieristica, in cui ad aprire un blog e mantenerlo aggiornato erano pochi nerd che si parlavano essenzialmente fra loro; superata quella, c’è stato il periodo della curiosità creativa, in cui molti, sia professionisti dell’informazione sia persone comuni, si sono buttati sul nuovo strumento, alle volte mettendo in piedi, in maniera più o meno consapevole – o anche più o meno inconsapevole – laboratori di sperimentazione comunicativa; è seguita la fase del vero e proprio “impatto di massa”; quella in cui, per dire, tutti coloro che avevano una connessione adsl e un minimo interesse per la rete hanno aperto un blog (magari per lasciarlo morire d’inedia dopo un post e mezzo). Un periodo di sbornia, insomma, e di simpatici dilettanti allo sbaraglio, di cui ho fatto parte e faccio parte anche io.
Solo che il blog richiede, per sua stessa natura, non solo una minima abilità comunicativa da parte dello scrivente – che deve scrivere un contenuto almeno in parte originale, per invogliare i passanti a leggere il suo blog – ma anche una dose di dedizione, di costanza e di “mestiere” per fideizzare il giro di lettori. Doti che in Italia sono rarissime, ad ogni livello, a causa di una impostazione culturale che ha sempre ritenuto il saper scrivere ed il saper comunicare in senso lato una sorta di abilità innata dell’individuo, che uno ha o non ha a prescindere: qualcosa di simile alla fiammella dello Spirito Santo scesa sugli apostoli, non il risultato dell’apprendimento di specifiche tecniche che sono alla portata di tutti. Siamo un paese in cui, a scuola, ancora si sentono insegnanti spiegare ai genitori che il figlio non raggiunge la sufficienza nel tema perché non è “portato per la scrittura”, mentre la sufficienza in un tema non è questione di predisposizione, ma solo di tecnica; per avere un voto superiore al sei, uno deve scrivere qualcosa di buono; per arrivare alla sufficienza basta che sappia comporre un testo ordinato, corretto e chiaro: cose alla portata di chiunque, se gli hanno insegnato le regole per farlo.
Ecco, in Italia questa capacità di scrittura-comunicazione elementare non è diffusa, nemmeno fra coloro che poi hanno un buon livello di scolarizzazione: ci sono medici ed avvocati che sanno dare pareri tecnici professionali perfetti, ma non sono capaci di scrivere un biglietto di auguri originale; direi di più: la capacità di essere comunicativamente diretti ed efficaci latita persino fra gli intellettuali “alti”. I quali, nel Bel paese dove il sì suona, ma è sempre accompagnato da una pletora di parole ridondanti attorno, sono famosi per considerare il “farsi capire” una forma di degrado del sapere, uno svilimento della cultura.
Per tutti costoro il blog era ed è uno strumento faticoso da gestire e da comprendere, mentre il social network è un ambiente più familiare, se vogliamo meno sperimentale. Il sn è una forma chiusa in sé, e non solo per il numero di caratteri prefissato per il twit o lo status; è proprio pensato e nato come un contenitore più preciso, con a disposizione un certo numero di funzioni, per quanto poi espandibili. Non richiede per sua natura una particolare dose di originalità o una specifica abilità comunicativa: non la esclude, alle volte la stimola (alcuni twit o status sono geniali), ma nemmeno la pretende. Facebook è pieno di gente che si limita a postare: “Quanto mi rompo in ufficio!” ogni santa mattina in cui sono alla scrivania.
L’adesione di massa (a livello mondiale, e italiano) a questo tipo di contenitore è pertanto fenomeno comprensibile. Rispetto al blog il social network consente un soddisfacente livello di interazione anche a persone che hanno abilità comunicative abbastanza limitate e mette loro in mano la possibilità di divulgare automaticamente il loro prodotto comunicativo (lo status o il twit) presso un pubblico vasto senza doversi confrontare con il problema pratico della diffusione. Chi ha un blog ha dovuto fare esperienza di aggregatori, trackback, feed, link eccetera, chi entra in un social network no, ha degli strumenti già preimpostati e si limita a sfruttarli senza spesso avere neppure una coscienza precisa di come funzionino. La differenza fra chi arriva al social network dopo l’esperienza del blog e chi ci arriva direttamente è spesso visibile ad occhio nudo dalle pagine del social network: i blogger usano il social network per “spammare” i post dei loro blog e solo in seconda battuta creano dei contenuti originali per la pagina del social network; gli altri, pure se hanno magari un blog aperto per curiosità, usano il social come strumento di creazione di status o twit originali; i blogger “vecchia maniera” (chiamiamoli così) tendono a portare la discussione dell’argomento nei commenti del loro blog; gli altri commentano e discutono quasi esclusivamente sul social anche il post comparso sul blog: in sostanza, i blogger di vecchia generazione (e la definizione fa ridere, perché le “generazioni” si sono formate nel corso di nemmeno due anni) vivono il social come appendice del blog; gli altri vivono il blog come appendice del social. Sono due tribù che bazzicano lo stesso territorio, ma hanno approcci diversi.
L’abbandono da parte della grande massa della forma-blog, perché il social dà loro più soddisfazione, ha però creato contraccolpi anche nella blogosfera. Che, si nota, si sta professionalizzando. I blogger di un qualche successo, anche quando non sono nati come professionisti della comunicazione (giornalisti, opinionisti, etc.) – o, quelli che magari, essendo già professionisti della comunicazione, avevano però originariamente aperto il blog come “privati”- ora si trovano a dover rendere il loro sito più professionale: se vogliono limitarsi a “cazzeggiare”, si trasferiscono anche loro sul social network, come tutti.
La blogosfera in senso stretto sta diventando un luogo di comunicazione “seria”, dove il dilettante allo sbaraglio si trova come un pesce fuor d’acqua. Il giro dei blog che contano è formato da gente che comunica per professione, anche quando ha imparato il mestiere della comunicazione facendosi le ossa con il blog. I blogger di successo diventano opinionisti delle testate giornalistiche, oppure scrittori, o conduttori televisivi o politici; in un certo senso si stanno trasformando e si comportano come una aristocrazia del web. Come tutte le aristocrazie, stanno diventando una casta chiusa: mentre fino ad un paio di anni fa anche per lo sconosciuto di turno entrare nel giro dei “grandi” blogger era relativamente facile (e l’ascesa del Nuovo Mondo di Galatea è un esempio pratico di tutto ciò), ora i blogger che contano si linkano quasi esclusivamente fra loro, si rispondono fra loro, spesso addirittura non rispondono ai commenti dei lettori, hanno la blogroll blindata, e sono diventati più autoreferenziali, sia sul blog che nei social. La massa – che in Italia non è ancora la “grande massa”: quella resta a guardare la tv – legge, quando legge i blog, ma non ha in realtà grandi occasioni di interagire con i “signori del web”, non più di quanta ne abbia di interagire con l’opinionista del grande quotidiano cartaceo. Al massimo, sul social posta status inerenti la propria vita privata, commenta post altrui, aderisce a gruppi più o meno sciocchi (dal “Viva Tartaglia” al “Voglio trovare 10mila persone che amano i bignè”) o si iscrive ad iniziative come il NoBDay che però sono pubblicizzate tramite il social, ma non nascono, o nascono solo in parte, da esso.
Pur non capendo granché di internet, i nostri politici, con il fiuto che gli è proprio, hanno capito l’aria che tira: si preoccupano oggi di censurare Facebook ben più dei blog: il blog, che non è mai stato un vero e proprio fenomeno di massa, si sta però ulteriormente trasformando in qualcosa che è decisamente per l’élite. Il numero di utenti che leggerà i signori della blogosfera direttamente è lo stesso che, nei tempi passati, leggeva gli editoriali del grande quotidiano e il post del blog è comunque uno spazio di possibile riflessione più approfondita rispetto allo spot di uno status o di un twit:la massa è su Facebook, su Facebook, eventualmente, si troveranno pillole dei blog o delle comunicazioni create per il social network, che parcellizzate e diffuse, possono avere una diffusione capillare e ridondante, virale. Ridotte a slogan o a puro moto di pancia, deprivate di un contesto più ampio che rinvii ad un ragionamento più approfondito, possono acquistare semmai incisività e forza persuasiva, martellante.
Nel frattempo, i blog ed i blogger diventeranno qualcosa d’altro, se vorranno sopravvivere: rubriche ed opinionisti, di vario genere e di nuova natura, più settoriali, meno amatoriali, se vorranno attirare il pubblico dei lettori via dal mainstream del social network, o crearsi una propria platea, per quanto piccola, di appassionati. Non più brutti o più belli di quello che erano prima: ma diversi sì.
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