Visualizzazione post con etichetta natalità. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta natalità. Mostra tutti i post

domenica 20 marzo 2016

Le previsioni demografiche sono diventate impossibili?

di Jacopo Simonetta

Lo studio di come le popolazioni cambiano nel tempo è una delle branche dell’Ecologia e riguarda tutti gli organismi viventi meno uno:  noi.  

In parte questo è dovuto al nostro complesso di superiorità, ma in parte è giustificato dal fatto che le popolazioni umane mostrano dinamiche molto più complesse di quelle degli altri animali.

Principalmente perché rispondono non solo ai fattori ambientali come le altre,  ma anche a fattori culturali e psicologici che riguardano solo noi.

Il problema è che i demografi hanno la spiccata tendenza ad occuparsi solo di quest’ultima categoria, dimenticandosi che siamo comunque una specie animale che interagisce con il suo ambiente.   Non è polemica, è detto chiaro e tondo dal Prof Ronald Lee nientemeno che nella presentazione di un numero speciale di “Science”  del 2011, dedicato proprio alla demografia.  

Ci sono delle ragioni molto precise per questo.   Quando si parla di popolazioni umane le implicazioni politiche sono immediate e consistenti.   Ancora più importanti sono le implicazioni etiche e religiose, per questo è igienico tenersene alla larga.   Per questo chiedo a priori pazienza ai lettori, sperando di riuscire a parlare di cose che ci riguardano tutti senza urtare nessuno.

Dunque, le fluttuazioni delle popolazioni animali, tutte, sono la risultante di tre fattori: natalità, mortalità migrazioni.   Vediamole in ordine.

Natalità
Nell'uomo troviamo caratteristiche riproduttive molto peculiari, come la mancanza dell’estro e la menopausa.   Complessivamente, la natalità è normalmente piuttosto bassa.  

Teoricamente una donna può partorire una dozzina di figli e più nella sua vita (sia pure a rischio della medesima), ma nella realtà pochissimi popoli e solo per finestre temporali limitate hanno avuto tassi di riproduzione così elevati.

Nelle popolazioni primitive che abbiamo conosciuto nei secoli delle grandi esplorazioni, di solito i figli non erano più di 3-5 per donna grazie ad una vasta gamma di comportamenti individuali e sociali, tabù sessuali ed altro che, di fatto, contenevano la riproduzione.  

Anche in Europa sistemi contraccettivi abbastanza efficaci sono stati di uso corrente fino alla Peste Nera, malgrado i fulmini della Chiesa che, viceversa, sosteneva un altro efficace metodo di controllo della natalità: il monachesimo.   Per secoli molto diffuso sia in Europa che in buona parte dell’Asia.

Un altro elemento culturale fondamentale è il grado di autonomia delle donne in materia di riproduzione.  

Nelle società industriali, questo è abbastanza ben correlato con il livello di istruzione femminile, ma vi sono eccezioni e, comunque, in altri tipi di società esistono correlazioni diverse.   Poi vi sono i fattori psicologici: in particolare gli effetti che le condizioni di vita hanno sulla disponibilità delle donne a riprodursi.   Poi ancora fattori economici ed ambientali che non solo influiscono sulla mortalità infantile (ne parliamo dopo), ma anche sul tasso di natalità.

Una regola empirica è che il miglioramento delle condizioni di vita comporta un aumento della natalità, perlomeno finché il livello di benessere (e quindi l’impronta ecologica) non raggiunge livelli estremamente alti e, dunque, ben difficilmente  sostenibili.   Ma lo stesso effetto si verifica quando il miglioramento è solamente immaginato, così come una prospettiva pessimista ha di solito un effetto deprimente sulla natalità, anche se le condizioni attuali sono buone.   Perlomeno, ciò accade nelle società in cui le donne hanno ampio margine di scelta, mentre in società fortemente maschiliste l’effetto può essere addirittura contrario.

La risultante di tutto questo è quindi molto complessa, ma in molto grossolana approssimazione si può dire che spesso limitano la propria natalità le società pre-agricole o parzialmente agricole e quelle post-industriali, quelle in cui le donne hanno un elevato livello di autonomia decisionale, quelle che hanno una visione pessimista del futuro.   Viceversa, tendono ad avere un’elevata riproduzione le società agricole e industriali, quelle fortemente maschiliste e quelle che hanno una visione ottimista del futuro.   Con numerose eccezioni e tutte le combinazioni possibili.

Mortalità

Se la natalità è un argomento delicato, la mortalità lo è ancora di più.   In compenso è più facile da capire e da prevedere in quanto risponde in modo molto diretto alle variazioni nelle condizioni di vita.

Migliori condizioni allungano istantaneamente la vita media.   Peggioramenti economici e/o ambientali la accorciano.   Ma gli effetti demografici possono essere molto diversi a seconda se la maggiore mortalità si riscontra nei bambini (come nel caso di carestie), negli adulti (come nel caso di guerre) o nei vecchi (come quando vengono tagliati servizi sanitari e pensioni).  

Naturalmente si possono verificare casi intermedi e diverse combinazioni.   Quello che qui preme far presente è che la grande longevità potenziale dell’uomo (85 di vita media è probabilmente il massimo realisticamente raggiungibile) fa si che la popolazione umana sia sempre molto vicina al massimo possibile.   Cioè, quasi non ci sono periodi in cui la popolazione risulta nettamente al di sotto della capacità di carico del proprio territorio, come si verifica con altre specie.   E questo comporta uno stato di stress permanente sulle risorse che difficilmente hanno occasione di recuperare da periodi di sovra sfruttamento.   In altre parole, la demografia della nostra specie è intrinsecamente destabilizzante.  Tende cioè a creare condizioni di crisi che si risolvono con morìe o con emigrazioni di massa.

Migrazioni

Quando le risorse non sono più sufficienti l’alternativa a morire è emigrare, che quasi sempre è sinonimo di guerra poiché i gruppi in cerca di un territorio o trovano spazi liberi, o li devono liberare.   In alternativa vengono eliminati dagli autoctoni, o dalle avversità locali, ristabilendo comunque un temporaneo equilibrio.

L’intera storia di Homo sapiens è scandita da ricorrenti crisi, seguite da migrazioni di diversa scala ed entità dal paleolitico ai giorni nostri.   Le prime ondate dei nostri antenati diretti spazzarono via tutte le specie umane più primitive e buona parte della megafauna del mondo.    In seguito, successive ondate di popoli tecnologicamente più avanzati hanno sterminato, marginalizzato o assorbito i popoli discendenti dai precedenti invasori.   L’ultima e maggiore migrazione di massa è stata quella che ha portato gli europei ad occupare quasi completamente l’Asia centrale e settentrionale, Quasi del tutto le Americhe, l’Australia ed una miriade di isole grandi e piccole.

La cosa importante da rilevare è che questa migrazione si è svolta in concomitanza con lo sviluppo della civiltà e dell’economia industriale che ha messo a disposizione armi e mezzi fino ad allora inimmaginabili.

La migrazione di massa globale che sta cominciando in questi anni è, per il momento, molto diversa.   I migranti hanno infatti mezzi tecnici e militari molto inferiori a quelli di cui dispongono i paesi di arrivo.   La migrazione è quindi possibile solo in quanto è accettata e facilitata proprio da coloro che ne sono obbiettivo, una situazione che conta ben pochi precedenti storici.

Principali migrazioni paleolitiche

Principali migrazioni storiche.

Principali migrazioni attuali

Uno degli argomenti più tabù oggigiorno sono le conseguenze di questo fenomeno sia nei paesi di partenza che in quelli di arrivo.    Un argomento non solo politicamente ed eticamente minato, ma anche di un’estrema complessità.

Di solito, si trattano esclusivamente gli effetti economici immediati che si pretendono eccellenti o pessimi a seconda di chi scrive.    Al di la di questo, vi sono  altri aspetti che di solito  non vengono considerati e cui vorrei qui accennare.

In primo luogo è molto probabile che l’emigrazione sia un potente fattore per mantenere alta la natalità nei paesi di provenienza, sia per effetto delle rimesse degli emigrati, sia perché mantiene una visione relativamente ottimista del futuro che, come abbiamo visto, è uno degli elementi che contribuiscono ad incrementare la natalità.

Anche nei paesi di arrivo gli effetti non sono solo economici.   A livello politico il fenomeno sta provocando uno scontro che sta assumendo un ruolo chiave sia nella politica interna dei singoli paesi, sia in quella estera.   La recente parziale sospensione del trattato di Schengen ha di fatto delineato una frattura.

Da una parte due paesi, Italia e Grecia, che favoriscono l’immigrazione, ma intendono poi distribuire i flussi sull'intero continente.   Dall'altra tutti gli altri paesi che, in maniera più o meno raffazzonata, cercano di limitare il fenomeno.   Una situazione che, peraltro, può cambiare repentinamente, come ampiamente dimostrato dalla rapidità con cui vari governi hanno cambiato atteggiamento più volte nel giro di pochi mesi.

Comunque la si pensi, un punto che si tende ad ignorare è che la crescita demografica,  il peggioramento del clima, l’innalzamento del mare, il degrado dei suoli, l’impoverimento delle risorse idriche, eccetera sono tutti fattori che contribuiranno ad incrementare la quantità di persone più o meno disperate.   Gli stessi fattori che sono connessi anche con le ricorrenti crisi economiche e militari che sempre accompagnano l’impatto delle popolazioni contro la capacità di carico del loro territorio.

Nel 2013 l'UNFPA stimava in circa 232 milioni il numero di persone che dagli anni ’90 hanno abbandonato il loro paese d’origine, mentre molti di più sono quelli che si sono spostati all'interno dei vari stati.   E negli anni a venire i flussi non potranno che crescere rapidamente.  
Per fare un solo esempio, il collasso dell’Egitto è quanto meno molto probabile e metterà in strada una parte consistente dei suoi 80 milioni di abitanti.

Dinamica

Ad oggi, il miglior modello che abbiamo per descrivere le dinamiche globali continua ad essere Word3, continuamente aggiornato e verificato.   Tuttavia anche questa icona della scienza dei sistemi presenta dei limiti che occorre tener presenti.

Il primo fu dichiarato dagli autori fin dalla prima edizione: il modello non pretende di prevedere il futuro, bensì di capire il funzionamento del sistema globale analizzando come cambiano gli scenari in relazione a come cambiano le variabili.   Scoprire che la realtà ha seguito lo scenario base (Business as usual) con un’approssimazione superiore al 90% ha stupito e costernato gli stessi autori del lavoro.   Significa infatti che avevano fatto un eccellente lavoro, ma anche che dal 1970 ad oggi l’umanità non ha cambiato di una virgola la propria impostazione socio-economica.   E ciò ad onta di turbinosi progressi scientifici e tecnologici, nonché di sconvolgimenti politici epocali e del tutto imprevisti negli anni ’70.

Anche il secondo limite fu subito messo in chiaro dagli autori.   Il modello è valido solo a livello globale e solo finché le curve della popolazione e quelle della produzione salgono.   Superato il picco, gli algoritmi usati perdono rapidamente di affidabilità perché il sistema tende a disarticolarsi in sub-sistemi sempre più piccoli ed indipendenti che possono quindi seguire rotte divergenti nel tempo.

Il terzo è invece emerso con gli anni ’90 e la quasi totalità dei demografi si sforza di ignorarlo.   Word3 ingloba infatti la teoria della “Transizione demografica” e prevede quindi che, a seguito del collasso economico, sia la mortalità che la natalità crescano rapidamente.   All'epoca si trattava di un’ipotesi perfettamente plausibile, ma oggi non è più così.


Il collasso del blocco sovietico e le crescenti difficoltà delle economie “avanzate”, o ex tali, ha infatti dimostrato che, almeno in molti casi, al peggioramento delle condizioni ambientali ed economiche fa riscontro non solo un aumento della mortalità, ma anche una riduzione della natalità.   Ne consegue un decremento demografico che potrebbe rivelarsi molto più rapido di quanto modellizzato dai Meadows e soci, almeno in ampie regioni del pianeta.


Ancora oggi la quasi totalità dei demografi si sforza di ignorare questi fatti e continua a pubblicare proiezioni  comprese fra i 9 ed il 14 miliardi di persone nel 2.100.   A sostegno delle loro ipotesi adducono il fatto che neppure una guerra importante od una grave pandemia sarebbe in grado di flettere sensibilmente la curva della popolazione.

Ciò è molto corretto ed il XX secolo lo dimostra ampiamente, ma un accorciamento della vita media di alcuni anni ed una stabilizzazione della natalità un po’ al di sotto di quella che abbiamo oggi in Italia potrebbe essere sufficiente a dimezzare la popolazione europea in meno di 50 anni (immigrazione permettendo).    Non uno scenario idilliaco, certamente, ma neppure catastrofico.

Speranza.


Alcuni troveranno questa prospettiva deprimente, mentre è la nostra maggiore speranza.   Nel modello citato, infatti, la popolazione diminuisce più lentamente delle risorse, mantenendo quindi una situazione di disequilibrio che condurrebbe l’umanità del futuro ad un’esistenza di nera miseria senza speranza e senza fine.   Viceversa, se la popolazione decrescesse abbastanza rapidamente, una parte consistente della biosfera potrebbe salvarsi e potrebbe anche avvenire un parziale recupero di alcune risorse rinnovabili come banchi di pesca, suoli, foreste, acqua, eccetera.

Ne conseguirebbe la possibilità, in un futuro non troppo remoto, di una vita tutto sommato gradevole per i nostri discendenti e, chissà?   Anche il fiorire di nuove civiltà.


“La morte è l’artificio mediante il quale si mantiene la Vita”    
Goethe

mercoledì 24 febbraio 2016

Espulsi dal Paese dei Balocchi. Il destino degli anziani nel mondo post-picco



Di Jacopo Simonetta.

“L’86 per cento dei decessi è provocato da malattie croniche, che colpiscono più dell’80 per cento
delle persone oltre i 65 anni. Una vera piaga, che costa alla sanità 700 miliardi di euro all'anno”
Questa frase, letta in un articolino di agenzia, mi ha molto colpito perché solo una cinquantina di anni fa questi stessi dati si sarebbero letti più o meno in questo senso: “L’86% della gente muore di vecchiaia. “  
Sarebbe stato considerato un bel progresso e ci si sarebbe preoccupati di quel 14% di persone che muoiono giovani o quasi.    Che cosa è cambiato?

Per cominciare è aumentata la vita media che, in Italia, in questi 50 anni è passata da circa 65 a quasi 85 anni.   Questo ha cambiato la nostra prospettiva.   Quando ero bambino, un settantenne veniva complimentato per la sua veneranda età, mentre oggi si dice che “è ancora giovane” e si pretende che lavori e produca come quando di anni ne aveva 40.

Questo ci porta alla seconda considerazione.  

Sicuramente l’aumento della vita media è dovuto all’aumento del benessere, ma in modo un po’ diverso a seconda delle classi di età.   Nel bambini, infatti, la drastica riduzione della mortalità è dipesa sia da una migliore alimentazione media che, soprattutto, dalle campagne di vaccinazione di massa.   Per i vecchi i fattori principali sono invece stati il pensionamento ad un’età attorno ai 60 anni ed il miglioramento delle cure per le malattie croniche, da cui siamo partiti.  

Questo ha però provocato un’esplosione dei costi sanitari e sociali che, malgrado le ristrettezze di bilancio, continuano a crescere.    In media, il costo sanitario di ognuno di noi cresce esponenzialmente dopo i 50 anni, il che è semplicemente naturale.   A 50 anni il fisico comincia infatti a deperire e gli effetti dei fattori avversi ad accumularsi.   La spesa sanitaria nell’ultimo anno di vita di ognuno di noi costa alla società praticamente quanto tutta la sua vita precedente.

Costi che necessariamente ricadono sui giovani sotto varie forme, principalmente una  pressione fiscale crescente.   Né il tentativo di tamponare la spesa sociale alzando l’età pensionabile ha dato buoni risultati poiché riduce drasticamente le opportunità di impiego dei giovani.

Ma proprio la crescente età media dell’elettorato preclude qualunque cambiamento di rotta.   La politica non va solo per classi sociali, ma anche per classi di età e non è un caso se, in tutta Europa, oggi circa il 40% della spesa sociale è per gli anziani e poco più del 2% per i giovani.   In Italia, pensioni e sanità assorbono  quasi il 45% del bilancio statale, contro un 9% all’istruzione, uno scarso 10% alla manutenzione delle infrastrutture vitali e poco più del 3% alla difesa.   Nient’altro che la nostra imprevidenza ha creato una situazione in cui gli anziani, volenti o nolenti, sono diventati un peso anziché un sostegno per i giovani.

Nei prossimi decenni le cose andranno rapidamente peggio per il convergere di tre fattori avversi.

  Il primo è il giungere “in dirittura d’arrivo” dei “baby boomers”.    Tra una ventina di anni la maggior parte della popolazione sarà composta da vecchi, né l’immigrazione o una fiammata di natalità potrebbero mitigare la situazione.   Aumentare i bambine ed i giovani di oggi significa semplicemente aumentare i vecchi di domani, con l’unico risultato di gonfiare ulteriormente la bolla demografica e di farla esplodere in condizioni ancora peggiori.   Insomma sarebbe il classico saltare dalla padella nella brace.

Il secondo fattore è la decrescita di parecchie economie, fra cui quelle dei paesi cosiddetti avanzati.   Non possiamo prevedere i modi ed i tempi con cui questo avverrà, ma che il declino economico in corso sia reversibile non ci crede più nessuno.   Nemmeno le roccaforti del BAU, come l’FMI e la World Bank che parlano eufemisticamente di “stagnazione secolare”.   Dunque, con perfetto contrappasso, l’onda dei nati nel periodo di massima crescita economica morirà povera.   E con chi viene non condivideremo benessere.

Il terzo fattore è il peggioramento delle condizioni ambientali come la circolazione di sostanze tossiche, il clima, le tensioni sociali ed i livelli di stress psicologico.   Forse ancora più importante è il fatto che i vecchi attuali hanno cominciato ad esser esposti a molti di questi fattori avversi in età già avanzata, al contrario delle generazioni successive.   Con quali effetti  sanitari è ancora presto per dirlo.

In molti paesi europei (fra cui l’Italia),  nel 2015 si è verificata la prima molto modesta  riduzione dell’aspettativa di vita dalla fine della guerra mondiale.   Solo fra alcuni anni sapremo se si è trattato di un incidente o di un’inversione di tendenza, ma poco importa perché comunque la tendenza si invertirà .   Tanto vale farsene una ragione ed organizzarsi di conseguenza.

Da una parte, dire a qualcuno che per tutta la vita ha lavorato e pagato “non c’è niente per te” è un evidente tradimento.   Dall’altra coloro che oggi hanno dai 50 anni in su si sono goduti i gli anni migliori dell’intera storia dell’umanità; una festa che non è stata per tutti e che non tornerà mai più per nessuno.    Ed ora che abbiamo finito di mangiare la mela, ci troviamo a contenderci il torsolo coi nostri stessi figli.
Volenti o nolenti, saremo costretti a tagliare servizi e pensioni in misura molto più drastica di quanto non si sia fatto finora.   Eliminare le evidenti sacche di sfacciato privilegio in questo campo sarebbe di vitale importanza politica, ma non cambierebbe gran che sotto il profilo strettamente economico.    Dunque quali scenari possiamo prospettare?    Ci sono società in cui gli anziani vengono soppressi o abbandonati negli interstizi delle megalopoli, dove sopravvivono finché possono e come possono, ma io credo che potremmo evitarlo.   A condizione naturalmente di piantarla di fingere che in futuro le cose andranno come ora o perfino meglio.   Ed a condizione di smettere di considerare “normali” degli standard di vita che, nella storia, non si sono mai visti.  La prima cosa da capire è che non è strano quello che sta accadendo.   Molto strano è quello che è accaduto fra il 1950 ed il 2000; ora stiamo tornando alla normalità.

Negarlo od ignorarlo vale solo ad impattare contro la realtà nel modo più duro possibile.   Viceversa, ammetterlo può essere deprimente, ma apre anche delle possibilità per mitigare questo impatto.    Per fare un esempio,  l’Italia è punteggiata di caserme abbandonate, spesso in città.   Invece di cederle alla speculazione edilizia, con poca spesa vi si potrebbero organizzare degli ospizi e delle mense gratuite o quasi, da fare gestire direttamente da chi ne usufruisce.  

 Certo vitto ed alloggio sarebbero frugali, ma poco è infinitamente meglio di niente.

Non pretendo che questa sia necessariamente una buona idea.   Ciò di cui sono però sicuro è che fare finta di niente per 50 anni non ha portato buoni risultati.   Continuare per altri 20 condurrà milioni di persone al disastro.  

Pinocchio pagò caro il soggiorno nel Paese dei Balocchi.   Già con le orecchi d’asino in testa,  preferì giocare ancora un poco.    Il risultato lo sappiamo e se lui se la cavò fu solo perché era di legno e perché era il protagonista del romanzo.   Noi siamo di carne e siamo tutti personaggi di contorno, esattamente come Lucignolo.

L'unica cosa sensata che possiamo fare è buon viso a cattivo gioco ed organizzarci perché questa bufera passi il meno peggio possibile.   Cercare di contrastarla farebbe solo peggio.