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mercoledì 4 marzo 2020

Filtri identitari, nazionalismo e crisi ecologica




Un post di Federico Tabellini

Nei momenti di grande incertezza, negli esseri umani cresce il bisogno d'identità. Gli eventi politici recenti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, ne sono la prova. Uno spirito anti-globale e localistico ha preso d’assedio le due sponde dell’atlantico. Nonostante la globalizzazione dell’informazione, e forse in parte per sua causa, lo stato-nazione – questo binomio in apparenza inscindibile nel nostro tempo – è riemerso prepotentemente come il frame interpretativo egemone sulla realtà: un vero e proprio manto ideologico che ricopre ogni cosa, alterandone la fisionomia.

Gli stati fanno appello all’identità nazionale per rafforzare la propria coesione interna. Le nazioni che non sono organizzate in stati (la Catalogna, per esempio) rivendicano un riconoscimento istituzionale: vogliono costituirsi come stati. Oggi più che quindici anni fa, vediamo attraverso le lenti distorsive dello stato-nazione, ci sentiamo parte di esso, e in base a esso ci auto-definiamo nelle nostre interazioni con gli altri. Persino chi nel proprio intimo non vede, non sente e non si definisce in rapporto allo stato-nazione, ne è costretto nei propri rapporti sociali da un lessico culturale comune. L’alternativa è l’incomprensione, l’isolamento socio-semantico. Siamo italiani, cinesi, statunitensi o indiani prima che esseri umani. La domanda ‘sei italiano?’ utilizza il verbo essere in quasi tutte le lingue indoeuropee. Se l’io è un individuo, il noi, quando non specificato, è una nazione; il loro è una nazione.

L’identità, è fatto noto, nasce dalla distinzione. Per fare parte di qualcosa, occorre auto-escludersi da una realtà più ampia. La mera somiglianza raramente accende la scintilla identitaria. Tutti siamo umani, solo alcuni sono italiani: per ciò, mentre con la specie umana non intratteniamo una relazione emozionale, essere italiani è un sentimento identitario. Essere italiani è un’esperienza, essere umani una mera constatazione. Sappiamo di essere umani ma sentiamo di essere italiani. E poco importa che essere umani costituisca una realtà tangibile, biologica, laddove essere italiani rappresenti un mero costrutto storico-culturale. I costrutti storico-culturali appaiono spesso più reali della realtà, non è forse vero?

Sì – è vero –, ma cosa c’entra tutto questo con i temi trattati sul blog? C’entra, c’entra eccome. La rinnovata importanza delle identità nazionali si ripercuote sul modo in cui i grandi problemi del presente vengono non solo percepiti, ma anche affrontati (o  ignorati). I problemi locali diventano magicamente problemi nazionali, problemi degli italiani. Lo stato se ne deve assumere la responsabilità legale, certamente, ma sono gli individui ad attribuire ad esso una responsabilità morale. E i problemi globali, o anche solo transnazionali, non avendo un referente identitario chiaro cui fare appello, sono avvertiti come seccature esterne da delegare, o di cui liberarsi al più presto. La colpa è degli indiani, si dice, dei cinesi, o di un altro esterno che, guarda caso, è sempre rinchiuso nei confini semantici dello stato-nazione.

In Italia tanto il voto alle elezioni regionali quanto quello alle europee è di norma ridotto a un terreno di prova per le elezioni nazionali, le uniche che sembrano avere valore. La stampa e i media di massa privilegiano le notizie di portata nazionale, relegando alle pagine interne tanto quelle locali quanto quelle di portata globale, oppure ponendo l’attenzione su loro aspetti di livello nazionale. I problemi degli italiani diventano così più importanti di quelli dei milanesi o degli europei. La crisi ecologica globale, invece, acquista cogenza e riceve la maggiore attenzione solo quando la sempre più frequente alluvione o (inserisci-qui-un-disastro) colpisce la penisola.

Il doppio binario con cui si considera lo stato-nazione e qualsiasi altra entità politica fa sì che una riforma sgradita a livello europeo spinga ampie frange della popolazione a voler mandare all’aria l’intera Unione, laddove la medesima riforma a livello nazionale provocherebbe al più la richiesta di un cambio nella gestione dello stato. Dai problemi sovra-nazionali si scappa, solo i problemi nazionali vengono affrontati – spesso male, ma questo è un altro discorso. Tale atteggiamento è uno dei principali fattori alla base della paralisi politica di fronte alle grandi sfide globali del nostro tempo, crisi ecologica in primis. (E la colpa del fallimento, superfluo ribadirlo, è sempre dell’altro, e l’altro è sempre, immancabilmente, uno stato-nazione).

Vuoi un esempio? Eccone qua uno: accecati dalla nostra visione stato-centrica del mondo, dimentichiamo che i cinesi, pur contribuendo per un quarto alle emissioni globali di Co2, inquinano assai meno degli statunitensi, che concorrono per un ‘mero’ 15%. Eh sì, perché i cinesi sono 1 miliardo e 400 milioni, gli statunitensi ‘solo’ 320 milioni. Però a noi usare gli stati come metro di giudizio fa assai comodo. Utilizzare le emissioni pro capite come metro di giudizio farebbe ricadere la responsabilità sui nostri consumi, sui nostri stili di vita insostenibili. Utilizzare gli stati ci permette di andare in piazza a protestare contro il riscaldamento climatico dopo un pranzo veloce al MacDonald. Grazie alla loro visione stato-centrica del mondo, gli statunitensi possono illudersi di essere virtuosi. Loro (il ‘popolo americano’, non i singoli americani) inquinano meno dei cinesi! E gli australiani? Hanno le più alte emissioni pro capite al mondo dopo l’Arabia Saudita, ma ci sono solo 25 milioni di australiani. Un altro popolo virtuoso. 

Se solo avessimo il coraggio di scostarci per un istante dagli occhi le nostre preziose lenti identitarie, il mondo ci apparirebbe diverso, assai diverso. Chissà, potremmo persino arrivare a condannare gli australiani più dei cinesi, i tedeschi più degli italiani, gli italiani più degli indiani. Ma sarebbe un errore. Perché non è questo il punto. Non il principale, almeno. Il punto è che sono gli individui che inquinano, non i popoli. Ciò non vuol dire che i governi nazionali, in quanto nucleo del potere politico globale, non abbiano la responsabilità più grande di avviare il cambiamento. Significa però che la ripartizione dell’onere di quel cambiamento non può avere come punto di riferimento esclusivo gli stati. Dividere la popolazione mondiale per le emissioni globali e vedere di quanto sono superiori a un livello di emissioni pro capite sostenibile per il pianeta, e usare quel numero come referente individuale, ha più senso che parlare delle emissioni della Cina, dell’India e degli Stati Uniti. È anche probabile che ci faccia passare dalla parte del tort… ah! Hai visto com’è facile? Ci sono quasi cascato anch'io. Stavo parlando ancora di noi-italiani; mi stavo rimettendo le lenti davanti agli occhi. Invece proviamo a guardarci come individui, e a giudicarci come tali, e a usare un plurale (se proprio dobbiamo) che trascenda i confini immaginari delle nazioni. Un plurale inclusivo, che responsabilizzi tutti in egual misura, senza discriminare secondo la categoria più idiota di tutte: il luogo di nascita. Dovremmo farlo a maggior ragione in questo momento d’incertezza, di crisi identitaria (espressione paradossale, visto che l’identità l’alimenta, la crisi).

Noi europei, che in gran parte non sentiamo di esserlo, ripudiamo l’Europa invece di renderla, come sarebbe auspicabile, il fulcro  di uno sforzo comune e coordinato verso il cambiamento. Ci rifugiamo nei nazionalismi, quando ciò di cui avremmo disperatamente bisogno è un meta-nazionalismo che ponga al centro l’essere umano. Un eco-umanismo globalizzato che ci faccia vedere il mondo in termini di individui (presenti e futuri) e specie – non solo quella umana, ma anche le numerose altre che stiamo distruggendo giorno per giorno –, anziché in termini di nazioni. Un meta-nazionalismo che ci faccia sentire più europei che italiani, e più umani che europei. E che ci faccia vedere in faccia la realtà.

Come dici? Non riesci proprio a vederla? Guarda qua, l’ho compressa in una frase e ripulita per bene dalle incrostazioni sovraniste, che di questi tempi quelle si appiccicano ovunque come la muffa. Ecco, sta qui sotto:

‘Il futuro dell’Europa conta più del futuro dell’Italia, e il futuro del pianeta infinitamente più di entrambi.’

Abbiamo fatto l’Italia, abbiamo fatto gli italiani. Ora è tempo di fare l’Europa e gli europei, e l’umanità soprattutto, e gli esseri umani.

domenica 16 marzo 2014

Cosa sono i norvegesi senza neve?

Da “Yr.no” Traduzione di MR (da una precedente traduzione in inglese di Francesca Ruscillo)


Cosa sono  i norvegesi senza neve? Inverno, neve e sci significano per noi tanto quanto la famiglia reale o la bandiera norvegese, dicono gli storici. Se la neve scompare, cosa ne sarà di noi? 


Metri e metri di neve e una capacità popolare di gestirla perfettamente. Questo è un tratto tipico dei norvegesi e di come pensiamo noi stessi, secondo lo storico Karsten Alnæs. 

Se il riscaldamento globale continua, per la fine di questo secolo la neve potrebbe essere storia nella Norvegia invernale. 

Se la neve scompare creerà molta frustrazione, dice lo storico, che spiega anche che la neve è un importante simbolo di identificazione come la bandiera o il Re.

18° secolo: la neve comincia ad essere parte dell'identità norvegese già nella seconda metà del secolo. 

La Norvegia era sotto la dominazione danese e a Copenhagen gli studenti norvegesi cercavano qualcosa che fosse tipicamente norvegese. E' quando vai in giro e incontri degli stranieri che cominci a vedere chi sei, dice Karsten Alnæs. 

Gli studenti si aggrappavano all'essenza norvegese: un clima rigido, freddo e neve. Scrivevano canzoni e poesie. Le leggende raccontano che Johan Nordal Brun andava in giro solo con la maglietta in pieno inverno, vantandosi di quanto poteva resistere. Il messaggio è chiaro: l'inverno e la neve rendono i norvegesi duri e resistenti, mentre i danesi e la gente delle latitudini più meridionali sono “deboli”. 

Più tardi nel 18° secolo, l'interesse per la neve e il freddo ha subito un nuovo rialzo, quando Nansen ha attraversato la Groenlandia e Roald Admunsen è diventato il primo a raggiungere il Polo Sud. 

2014: le competizioni sciistiche. 

Oggi i norvegesi adorano la neve in modo diverso, più romantico, dice Alnæs. Si tratta del desiderio koderno di allontanarsi dalla città e andare in campagna. Abbiamo tempo e soldi per avere uno stile di vita all'aperto e godere dell'inverno, non di sopravvivergli. Ha anche a che fare con la sciocchezza degli atleti e dello sport, aggiunge Alnæs. 

Therese Johaug che attraversa la linea del traguardo a Holmenkollen con un grido primordiale. La solare, forte e gioviale Marit Biørgen. Entrambe tengono in vita il mito secondo cui la “Norvegia è meglio con gli sci ai piedi”. 

La neve è un simbolo di identità così forte oggi come ieri, solo in un altro modo, indica Alnæs. 

La gente della costa può sciare? 

E' difficile da credere, ma già oggi la neve è rara in alcune zone della fredda Norvegia. Utsira, al largo di Haugesund, è uno di quei posti: lì la temperatura media in inverno è al di sopra dello zero. Ecco perché l'isola non ha un inverno proprio, non nel modo in cui lo definiscono i meteorologi. 

Su Utsira c'è un altro elemento meteorologico che da l'identità. Il vento influenza qualsiasi cosa, dal vestiario al modo in cui crescono gli alberi a dove attraccano i traghetti, sul lato settentrionale o meridionale dell'isola. 

La neve norvegese è minacciata 

L'inverno verde di Utsira in futuro potrebbe diventare una regola più che un'eccezione, visto che la previsione dei ricercatori climatici è che il clima diventerà più mite e più umido. Le analisi fatte da Dagrun Vikmar Schuler, ricercatore climatico all'Istituto di Meteorologia, mostrano che l'inverno sta cambiando in due modi: il primo è che la stagione della neve sta diventando più breve in tutto il paese. L'autunno e la primavera si stanno avvicinando fra loro (a spese dell'inverno). L'estate si gode la vittoriosa e diventa più lunga. Il secondo è che la quantità di neve sta cambiando in tutto il paese. Qui i ricercatori climatici dividono il secolo in 2 parti: 

fino al 2050 la quota della neve si ritirerà a 800-900 metri. 

Al di sopra di questa altitudine ci sarà sempre più neve, mentre ci sarà più pioggia nelle aree più basse. Le tipiche località sciistiche, come Ustaoset, Hemsedal o Geilo possono avere più neve nei prossimi decenni. Allo stesso tempo la cosa sembra preoccupante per luoghi come Tyrvann, che si trovano a 500 metri sul livello del mare. 

Nell'ultima metà del secolo, le quote della pioggia e della neve si ritireranno sempre di più. 

Ci sarà quindi meno neve anche in luoghi più alti. Le piste da sci a Ustaoset, Hemsedal e Geilo potrebbero quindi essere verdi per tutto l'anno, perché ci può essere una maggiore variazione di anno in anno. 

La previsione per il futuro mostra solo una media del meteo, sottolinea Schuler. Anche se la media implica poca neve, alcuni inverni nevosi come li conosciamo oggi potrebbero ancora verificarsi. 

La neve diventa un lontano ricordo.

Cosa succederebbe ai norvegesi ed alla loro identità se la neve scompare? Penso che provocherà una grande frustrazione, dice lo storico Karsten Alnæs. La gente cercherà la neve nella Nordmarka (foreste a nord di Oslo). 

Ciò ha sollevato grandi preoccupazioni, ma a così breve termine l'identità non era in pericolo. Ma se il futuro sarà senza neve, alla fine la neve diventerà un lontano ricordo e perderà di interesse, conclude lo storico. 

Mappa: gli inverni futuri possono rivelarsi così

La mappa mostra come potrebbe essere l'inverno secondo la previsione dei ricercatori climatici nel periodo fra il 2071 e il 2100, in confronto al periodo normale fra il 1961 e il 1990 (che è stato un periodo prodigo di neve). Qui si ipotizza che le nostre emissioni di gas serra saranno di livello medio in futuro. 

Dalla mappa, si può per esempio leggere questo:

  • Oslo potrebbe avere 50-60 giorni di neve in meno ogni anno, di media
  • Høyfjellet nel sud della Norvegia potrebbe avere 30-40 giorni in meno di neve ogni anno, in media. 
  • Finnmarksvidda potrebbe avere 30-40 giorni di neve in meno ogni anno, in media.
  • Høyereliggende e parti più alte della costa Norvegese potrebbero avere 80 giorni di neve in meno all'anno, di media. Praticamente, con questi 80 giorni di meno , significa che l'inverno dura un mese di meno sia all'inizio che alla fine.