venerdì 3 gennaio 2020

A proposito di "Greenbusiness"


Di Bruno Sebastiani

Una frase di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è giustamente passata alla storia. È quella pronunciata da Tancredi, nipote del Principe di Salina, quando, ne “Il Gattopardo”, afferma: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Il giovane nobile aveva capito che il Regno delle Due Sicilie era al tramonto, ma che una certa aristocrazia avrebbe potuto continuare a governare sotto le insegne del nuovo Stato nazionale in via di costituzione. Da tale atteggiamento deriva il termine di “gattopardismo”, di cui noi italiani abbiamo dato prova in tante occasioni.
Probabilmente in questi giorni, consciamente o inconsciamente, questa frase risuona nelle orecchie di molti manager di aziende di ogni dimensione, dalle piccole imprese alle grandi multinazionali.
Come fare a continuare a vendere prodotti inutili e inquinanti a una popolazione che sta prendendo sempre più coscienza dei guai che il consumismo ha causato e sta causando alla biosfera?
Tutto potrà dirsi di Greta Thunberg ma resta innegabile il fatto che, in concomitanza con le sue pubbliche apparizioni, ha iniziato a diffondersi ovunque la consapevolezza della nostra nocività ai danni dell’ambiente e, di conseguenza, è aumentato a dismisura lo spazio dedicato dai media all’argomento. E più i media ne parlano più cresce il numero delle “cellule cancerogene consapevoli”, tanto per parafrasare il titolo di un mio recente libro.
Ma a forza di parlarne e di sentirne parlare in molti è sopravvenuta l’idea di passare dalle parole ai fatti: se i combustibili fossili uccidono la biosfera, perché usarli ancora? se la plastica inquina, perché continuare a comprarla? se i pesticidi e i fitofarmaci avvelenano la natura, perché insistere nell’utilizzarli?
Domande legittime, ma senza risposta. Il progresso ha prodotto tutta una serie di vantaggi materiali all’essere umano che hanno comportato tutta una serie di svantaggi all’ambiente. Come fare ora a eliminare i secondi senza rinunciare ai primi? Perché questo è il cuore del problema. In tanti siamo disposti a fare qualche piccola rinuncia per il bene del pianeta, ma in quanti siamo disposti a rinunciare alla luce elettrica, alle medicine, alle automobili, agli aerei e ai telefonini? E, domanda ancor più inquietante, se anche volessimo rinunciare a tutto ciò, potremmo farlo senza innescare reazioni ancor più devastanti per l’equilibrio artificiale che consente a oltre sette miliardi di esseri umani di convivere?
Mentre le moltitudini si tormentano con questi dilemmi, i manager delle aziende di ogni dimensione, dalle piccole imprese alle grandi multinazionali, si pongono il problema di come continuare a cavalcare la tigre, di come cioè continuare a vendere i loro prodotti percepiti sempre più dalla pubblica opinione come dannosi per l’ambiente e nocivi per la biosfera.
In realtà la pratica del cosiddetto “greenwashing” non è una novità.
Nel 1986 l'ambientalista statunitense Jay Westerveld coniò il termine per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere di invitare gli ospiti a ridurre il consumo di asciugamani facendo leva sull'impatto ambientale dei lavaggi, quando in realtà il vero obiettivo dell’invito era di far risparmiare le catene alberghiere stesse.
Da allora tutte le grandi aziende hanno fatto ricorso, chi più chi meno, alla favoletta del “proteggiamo l’ambiente” ed hanno presentato i loro prodotti in versione agreste – bucolica. Un esempio paradigmatico al riguardo lo offre da anni il marchio Mulino Bianco della multinazionale Barilla.
Ma quello a cui stiamo assistendo oggi (e a cui assisteremo sempre più nel prossimo futuro) va ben oltre a questi quadretti idilliaci che per aumentare le vendite facevano leva più sulla nostalgia dei bei tempi andati che non su una vera e propria consapevolezza ecologica.
Ora il “popolo bue” si sta svegliando. I giovani stanno suonando la carica contro lo scempio realizzato dalle vecchie generazioni, e allora la risposta delle aziende deve essere adeguata a queste che per loro non sono altro che “nuove richieste dei consumatori”.
Non sono più sufficienti immagini statiche e slogan del tipo “un mondo buono”. Occorre essere ancor più incisivi, mostrare ai compratori che il prodotto che hanno davanti è realizzato da una azienda che sta dalla loro parte, che combatte come loro e più di loro per la salvaguardia dell’ambiente, che mette in atto comportamenti virtuosi e processi eco-sostenibili.
La mastodontica macchina della produzione e distribuzione industriale richiede del tempo per adeguarsi a queste nuove esigenze, ma alcuni hanno giocato di anticipo e i primi spot eco-friendly stanno già passando in televisione sotto i nostri occhi.
Uno su tutti si impone per il suo slogan tanto diretto quanto ingenuo: “Viva la Natura, abbasso la CO2”. Mi riferisco, come qualcuno avrà compreso, allo spot dell’AcquaMinerale San Benedetto “ecogreen”.
Un aspetto buffo della vicenda è che la campagna in questione è stata realizzata da una agenzia pubblicitaria che si chiama “The Beef” (il “manzo”, nel senso che i concorrenti fanno tanto fumo e loro l’arrosto), ma questo è un dettaglio secondario.
In realtà se andiamo a vedere nel sito dell’azienda di acque minerali troviamo pagine e pagine di quanto da loro conseguito in tema di produzione di energia da fonti rinnovabili, efficienza dei processi produttivi, realizzazione di contenitori plastici riciclabili e compensazione di CO2 (!?!).
Lascio ad altri l’onere di verificare l’attendibilità e la validità di quanto asserito. Io mi limito ad osservare che tutte queste eco-realizzazioni nulla hanno a che vedere con il processo produttivo in sé e che se sono state attuate lo si deve unicamente all’importanza sempre maggiore che la pubblica opinione attribuisce al fattore ambiente.
Aggiungo anche che, trattandosi di una azienda che produce acque minerali, il beneficio maggiore per la comunità e per l’ambiente sarebbe stato che chiudesse i battenti invitando tutti i clienti ad abbeverarsi direttamente agli acquedotti comunali.
Ma questo è contro la logica della società industriale e della crescita economica. Ed ecco allora i manager delle aziende spremersi le meningi per cambiare tutto affinché tutto continui come prima.
Di queste giravolte ne vedremo tante nei mesi a venire e, laddove non siano false o ingannevoli, avranno anche una qualche utilità nel ritardare l’agonia del pianeta, tenendo presente che un crollo improvviso del sistema comporterebbe enormi problemi di sopravvivenza ai 7 / 8 o 9 miliardi di esseri umani presenti al momento del collasso.
E allora prepariamoci tutti a tuffarci nel green-business, nuova frontiera del capitalismo più avanzato.