Di Bruno Sebastiani
Una frase di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa è giustamente passata alla storia. È quella pronunciata da
Tancredi, nipote del Principe di Salina, quando, ne “Il Gattopardo”, afferma: «Se
vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Il giovane nobile aveva
capito che il Regno delle Due Sicilie era al tramonto, ma che una certa aristocrazia
avrebbe potuto continuare a governare sotto le insegne del nuovo Stato
nazionale in via di costituzione. Da tale atteggiamento deriva il termine di “gattopardismo”,
di cui noi italiani abbiamo dato prova in tante occasioni.
Probabilmente in questi
giorni, consciamente o inconsciamente, questa frase risuona nelle orecchie di molti
manager di aziende di ogni dimensione, dalle piccole imprese alle grandi
multinazionali.
Come fare a continuare a
vendere prodotti inutili e inquinanti a una popolazione che sta prendendo
sempre più coscienza dei guai che il consumismo ha causato e sta causando alla
biosfera?
Tutto potrà dirsi di Greta
Thunberg ma resta innegabile il fatto che, in concomitanza con le sue pubbliche
apparizioni, ha iniziato a diffondersi ovunque la consapevolezza della nostra
nocività ai danni dell’ambiente e, di conseguenza, è aumentato a dismisura lo
spazio dedicato dai media all’argomento. E più i media ne parlano più cresce il
numero delle “cellule cancerogene consapevoli”, tanto per parafrasare il titolo
di un mio recente libro.
Ma a forza di parlarne e
di sentirne parlare in molti è sopravvenuta l’idea di passare dalle parole ai
fatti: se i combustibili fossili uccidono la biosfera, perché usarli ancora? se
la plastica inquina, perché continuare a comprarla? se i pesticidi e i
fitofarmaci avvelenano la natura, perché insistere nell’utilizzarli?
Domande legittime, ma senza
risposta. Il progresso ha prodotto tutta una serie di vantaggi materiali all’essere
umano che hanno comportato tutta una serie di svantaggi all’ambiente. Come fare
ora a eliminare i secondi senza rinunciare ai primi? Perché questo è il cuore
del problema. In tanti siamo disposti a fare qualche piccola rinuncia per il
bene del pianeta, ma in quanti siamo disposti a rinunciare alla luce elettrica,
alle medicine, alle automobili, agli aerei e ai telefonini? E, domanda ancor
più inquietante, se anche volessimo rinunciare a tutto ciò, potremmo farlo
senza innescare reazioni ancor più devastanti per l’equilibrio artificiale che
consente a oltre sette miliardi di esseri umani di convivere?
Mentre le moltitudini si tormentano
con questi dilemmi, i manager delle aziende di ogni dimensione, dalle piccole
imprese alle grandi multinazionali, si pongono il problema di come continuare a
cavalcare la tigre, di come cioè continuare a vendere i loro prodotti percepiti
sempre più dalla pubblica opinione come dannosi per l’ambiente e nocivi per la
biosfera.
In realtà la pratica del
cosiddetto “greenwashing” non è una novità.
Nel 1986 l'ambientalista
statunitense Jay Westerveld coniò il termine per stigmatizzare la pratica delle
catene alberghiere di invitare gli ospiti a ridurre il consumo di asciugamani facendo
leva sull'impatto ambientale dei lavaggi, quando in realtà il vero obiettivo
dell’invito era di far risparmiare le catene alberghiere stesse.
Da allora tutte le grandi
aziende hanno fatto ricorso, chi più chi meno, alla favoletta del “proteggiamo
l’ambiente” ed hanno presentato i loro prodotti in versione agreste – bucolica.
Un esempio paradigmatico al riguardo lo offre da anni il marchio Mulino Bianco
della multinazionale Barilla.
Ma quello a cui stiamo assistendo
oggi (e a cui assisteremo sempre più nel prossimo futuro) va ben oltre a questi
quadretti idilliaci che per aumentare le vendite facevano leva più sulla nostalgia
dei bei tempi andati che non su una vera e propria consapevolezza ecologica.
Ora il “popolo bue” si sta
svegliando. I giovani stanno suonando la carica contro lo scempio realizzato dalle
vecchie generazioni, e allora la risposta delle aziende deve essere adeguata a
queste che per loro non sono altro che “nuove richieste dei consumatori”.
Non sono più sufficienti immagini
statiche e slogan del tipo “un mondo buono”. Occorre essere ancor più incisivi,
mostrare ai compratori che il prodotto che hanno davanti è realizzato da una
azienda che sta dalla loro parte, che combatte come loro e più di loro per la
salvaguardia dell’ambiente, che mette in atto comportamenti virtuosi e processi
eco-sostenibili.
La mastodontica macchina
della produzione e distribuzione industriale richiede del tempo per adeguarsi a
queste nuove esigenze, ma alcuni hanno giocato di anticipo e i primi spot
eco-friendly stanno già passando in televisione sotto i nostri occhi.
Uno su tutti si impone per
il suo slogan tanto diretto quanto ingenuo: “Viva la Natura, abbasso la CO2”.
Mi riferisco, come qualcuno avrà compreso, allo spot dell’AcquaMinerale San Benedetto “ecogreen”.
Un aspetto buffo della
vicenda è che la campagna in questione è stata realizzata da una agenzia pubblicitaria
che si chiama “The Beef” (il “manzo”, nel senso che i concorrenti fanno tanto
fumo e loro l’arrosto), ma questo è un dettaglio secondario.
In realtà se andiamo a
vedere nel sito dell’azienda di acque minerali troviamo pagine e pagine di
quanto da loro conseguito in tema di produzione di energia da fonti
rinnovabili, efficienza dei processi produttivi, realizzazione di contenitori
plastici riciclabili e compensazione di CO2 (!?!).
Lascio ad altri l’onere di
verificare l’attendibilità e la validità di quanto asserito. Io mi limito ad
osservare che tutte queste eco-realizzazioni nulla hanno a che vedere con il
processo produttivo in sé e che se sono state attuate lo si deve unicamente all’importanza
sempre maggiore che la pubblica opinione attribuisce al fattore ambiente.
Aggiungo anche che, trattandosi
di una azienda che produce acque minerali, il beneficio maggiore per la comunità
e per l’ambiente sarebbe stato che chiudesse i battenti invitando tutti i clienti
ad abbeverarsi direttamente agli acquedotti comunali.
Ma questo è contro la
logica della società industriale e della crescita economica. Ed ecco allora i
manager delle aziende spremersi le meningi per cambiare tutto affinché tutto
continui come prima.
Di queste giravolte ne
vedremo tante nei mesi a venire e, laddove non siano false o ingannevoli, avranno
anche una qualche utilità nel ritardare l’agonia del pianeta, tenendo presente
che un crollo improvviso del sistema comporterebbe enormi problemi di
sopravvivenza ai 7 / 8 o 9 miliardi di esseri umani presenti al momento del
collasso.
E allora prepariamoci
tutti a tuffarci nel green-business, nuova frontiera del capitalismo più
avanzato.