di
Bruno Sebastiani
I
vegetariani e i vegani sostengono che mangiare carne sia nocivo per gli animali
uccisi, per la salute di chi li mangia e per l’ambiente.
Nonostante
la percentuale ridotta di chi aderisce a queste diete, meno del 10% della
popolazione mondiale, le argomentazioni esposte contengono elementi che
meritano la massima considerazione.
Riassumiamoli
partitamente e poi svolgiamo ulteriori considerazioni.
1 – Nocività per gli animali uccisi
Chi
è preda e soccombe non può che vivere con angoscia il proprio annientamento. Ma
se questa è una legge universale, il dramma vissuto dal bestiame ai nostri
giorni è di dimensioni ben più ampie sia quantitativamente che
qualitativamente. Non riporterò in questa sede i dati numerici né riferirò
delle terribili condizioni in cui vivono e muoiono gli animali negli allevamenti
intensivi. Si tratta infatti di situazioni ben note e documentate, sebbene la
maggioranza delle persone preferisca ignorarle. In quel tipo di allevamenti viene
praticato l’esercizio massimo di violenza nei confronti della natura. Là
persino il venire al mondo è in funzione della successiva macellazione. E, tra
la nascita e la morte, la vita trascorre in una serie inenarrabile di tormenti.
2 – Nocività per chi mangia gli animali
uccisi
Mentre
il primo tipo di nocività è indubbio, relativamente al secondo tipo, la
nocività della dieta carnivora per gli esseri umani, l’argomento è controverso.
Analizzare la questione significherebbe addentrarsi in un ginepraio di dati e informazioni
contrastanti dal quale sarebbe difficile uscire. Mi limiterò pertanto ad
assumere come elemento di sicura nocività (universalmente conclamata in campo
medico) l’eccessivo consumo di carne da parte dell’uomo e ignorerò per il
momento l’estremo opposto, ovvero se possa essere nociva anche una dieta
completamente priva di carne e suoi derivati.
3 – Nocività degli allevamenti di animali
per l’ambiente
Per
consentire la dieta carnivora di 7 miliardi di persone (il 90% della
popolazione non vegetariana), occorre mantenere in vita e poi uccidere oltre 29
miliardi di animali (dati FAO del 2014). Questi numeri non consentono di
riservare a tali animali gli spazi e il tipo di vita che madre natura aveva progettato
per loro. Di qui l’esigenza di allestire gli allevamenti intensivi, resi ancor
più infelici e brutali dall’avidità e dalla cattiveria umana. La concentrazione
di tanto materiale organico in spazi ristretti è fonte di grave inquinamento
per il pianeta, così come l’altro elemento di elevata nocività è rappresentato
dal mangime necessario per sfamare 29 miliardi di bocche: per produrlo ampie
zone del pianeta vengono deforestate e sottoposte a monocolture intensive di
soia e di altri legumi e cereali. Anche in questo caso ometto di citare i dati,
facilmente reperibili in rete e su importanti testi qualificati.
Se
questi sono i capi di accusa rivolti da vegetariani e vegani ai cosiddetti “onnivori”,
quali altre argomentazioni possono essere svolte a completamento del tema?
Ulteriori considerazioni
1 - Il ruolo svolto dall’alimentazione
carnivora nell’evoluzione della nostra specie
Praticamente
tutti gli antropologi concordano sul fatto che i nostri lontanissimi
progenitori fossero erbivori. Tra sette e cinque milioni di anni fa avvenne la
mutazione che dall’albero genealogico dei primati originò il nuovo ramo della
nostra specie, i cui primi esponenti furono gli australopitecini,
caratterizzati da un cervello di dimensioni maggiori di quello degli scimpanzé,
i nostri parenti più prossimi.
Secondo
Richard Wrangham, antropologo britannico allievo di Jane Goodall e autore di “Catching Fire. How Cooking Made Us Human”
(tradotto in italiano con il titolo “L’intelligenza
del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo”, Bollati
Boringhieri, 2014) il «passaggio da una
dieta a base di fogliame a una – qualitativamente superiore – a base di radici
è una spiegazione plausibile del primo incremento delle dimensioni del cervello
(da 350 a 450 cm3 circa) nel passaggio
dalle scimmie antropomorfe della foresta agli australopitecini» (p. 130).
A
questo primo incremento ne seguirono altri di entità ben maggiore in
corrispondenza di importanti variazioni nella dieta degli ominidi, che iniziò a
contemplare l’assunzione di proteine animali. Wrangham individua tre di tali
variazioni.
La
prima sarebbe avvenuta poco più di due milioni di anni fa, allorquando il
nostro antenato Homo habilis iniziò
ad affilare pietre e a mangiare carne. I ritrovamenti archeologici non lasciano
dubbi al riguardo. Le difficoltà connesse a una dentizione e a un organismo inadatti
al consumo di carne cruda furono superate in parte grazie all’uso di questi
strumenti litici (che consentivano di tagliare e battere la carne) e in parte
grazie a lente e graduali modifiche anatomiche. Secondo “The Expensive-Tissue Hypothesis” (“L’Ipotesi del Tessuto Costoso”) di Leslie Aiello e di Peter Wheeler
(pubblicata nell’aprile 1995 su “Current
Anthropology”), il consumo di carne avrebbe fatto crescere le dimensioni del
cervello e consentito la parallela diminuzione delle dimensioni dell’intestino.
La capacità cranica di Homo habilis passò
da 450 a 612 cm3.
La
seconda variazione, ben più sostanziosa, avvenne 1,8 milione di anni fa con il
passaggio da Homo habilis a Homo erectus e con un aumento delle dimensioni
del cervello da 612 a 870 cm3 (primi esemplari di “erectus”) fino a 950 cm3
(tardi esemplari, un milione di anni fa). Tale balzo avvenne contestualmente all’”addomesticamento”
del fuoco e al suo uso per la cottura della carne e di altri cibi. «Per oltre 2,5 milioni di anni i nostri
antenati hanno tagliato via la carne dalle ossa delle loro prede, e l’impatto
fu rilevante. Una dieta che comprendeva carne cruda e vegetali … diede inizio
all’evoluzione di cervelli più grandi … Ma … ci sarebbe voluta l’invenzione della
cottura per trasformare gli habilines (Homo
habilis) in Homo erectus e dare il
via al viaggio che ha condotto … fino all’anatomia dei moderni esseri umani.»
(Wrangham, op. cit., p. 118)
Una
terza variazione « … si verificò con la
comparsa dell’Homo heidelbergensis (altrimenti conosciuto come Homo sapiens arcaico), a partire da ottocentomila anni fa. Anche
questo aumento fu sostanziale e fece sì che il cervello raggiungesse i 1200
centimetri cubici circa.» (ibidem, p. 134) Quali le cause di questo nuovo
balzo in avanti? «Una possibilità è
l’introduzione di una tecnica di caccia più efficace … ciò rende … credibile
l’ipotesi che l’assunzione di carne, e di conseguenza l’utilizzo di grassi
animali, sia aumentato in modo significativo … e abbia giocato un ruolo
nell’evoluzione da Homo erectus a Homo heidelbergensis. In alternativa, di
sicuro la cottura continuò ad avere effetti sull’evoluzione del cervello anche
molto tempo dopo che era stata inventata, perché con il trascorrere del tempo i
metodi di cottura migliorarono.» (ibidem, pp. 134 – 135)
A
quell’epoca eravamo cacciatori e raccoglitori, onnivori e cioè mangiatori di animali
e di piante. Così siamo ancora oggi, a oltre due milioni di anni di distanza. Sono
cambiate le fonti di approvvigionamento: la pastorizia e l’allevamento hanno sostituito
la caccia, l’agricoltura ha sostituito la raccolta. Ciò che ci metteva a
disposizione la natura oggi ce lo procuriamo artificialmente e con ordini di
grandezze ben superiori a quelli di una volta.
2 – In natura è normale cibarsi di carne
Avremmo
potuto non imboccare la via dell’alimentazione carnivora e rimanere erbivori? È
una domanda priva di risposta in quanto inverificabile. Ma nel ragionare di
tale argomento teniamo comunque presenti due questioni.
Prima
questione. Anche le piante sono dotate di vita, e noi come tutti gli altri
onnivori ed erbivori ce ne cibiamo senza alcuno scrupolo.
Seconda
questione. Molte specie animali sono carnivore. Ma anche le altre si nutrono di
organismi viventi più o meno grandi. Il pesce grosso mangia quello piccolo e
quest’ultimo si nutre di plancton, che è un misto di organismi animali e
vegetali, le galline mangiano i vermi ecc. ecc. Ma qual è il limite
dimensionale al di sotto del quale è ammissibile per la morale “vegetariana”
sopprimere una vita a fini alimentari e al di sopra del quale non lo è? Sembra
di capire che una certa dose di antropocentrismo venga trasmessa, quasi come
proprietà transitiva, agli animali di dimensioni come le nostre o poco maggiori
o poco minori, talché uccidere un vitello o un pollo e mangiarlo è riprovevole,
mentre uccidere un microorganismo o un insetto non lo è, o lo è molto meno.
La
verità è che la vita è un processo trasformativo che fagocita di continuo organismi
viventi per consentire ad altri organismi viventi di nascere, svilupparsi,
crescere e morire in un ciclo senza fine. Persino il nostro corpo dopo la morte
diverrebbe pasto per vermi, iene o avvoltoi se venisse abbandonato alla natura anziché
essere tumulato in casse a tenuta stagna.
Non
è quindi il mangiar carne lo scandalo, ma il modo in cui noi uomini ce la
procuriamo, le indicibili sofferenze inflitte ai 29 miliardi di animali che
alleviamo a scopo alimentare.
3 – Che effetti può avere una dieta
priva di carne sul lungo periodo?
Questa
terza considerazione è certamente quella che più delle altre sarà oggetto di
critiche da parte di vegetariani e vegani, i quali giurano e spergiurano che la
salute umana non può che trarre benefici dall’eliminazione della carne.
Poiché
mi rendo conto che la questione è complessa, assai difficile da dirimere e
coinvolge troppe esperienze individuali, cercherò di affrontare l’argomento da
un punto di vista evolutivo, astenendomi dal commentare le singole situazioni pro
o contro l’uso della carne.
Per
essere più esplicito non tirerò in ballo i casi di quei vegetariani o vegani che
dopo un periodo più o meno lungo di astinenza dai prodotti animali sono tornati
a mangiarli per motivi di salute o ideologici.
Spesso
questi voltafaccia sono conseguenti a scelte fatte con leggerezza o, peggio, per
sfruttare la moda del “biologico” e del “mangiar sano”, come nel caso di una famosa
youtuber crudista vegana (Yovana Mendoza Rawvana) che è stata recentemente sorpresa
a mangiare pesce fritto.
In
altre situazioni la scelta di far ritorno alla dieta onnivora è ben più
sofferta e meditata, come nel caso di Lierre Keith, nota attivista
ambientalista americana, fondatrice, insieme a Derrick Jensen, del movimento
Deep Green Resistance, diffuso in tutto il mondo. Dopo anni di sofferenze
sopportate stoicamente per rispetto della vita degli animali, Lierre ha
compreso quanto ho evidenziato nella mia seconda considerazione, e cioè che in
natura la vita si nutre della vita, nonché ha realizzato quanto sia nociva la moderna
agricoltura per la conservazione della biosfera. Ha descritto questo suo tormentato
itinerario nel libro “The Vegetarian
Myth: Food, Justice, and Sustainability”, pubblicato in Italia nel 2015 da
Sonzogno con il titolo “Il mito
vegetariano”. A questo testo, oltremodo serio e documentato, rinvio chi
volesse approfondire i singoli aspetti e le difficoltà di chi fa la scelta
vegana e poi torna sui propri passi.
Ma
escludendo l’esame dei singoli casi, di minore o maggior peso, proviamo ad
osservare il problema dal punto di vista non dell’individuo ma della specie.
Il
passaggio dall’alimentazione erbivora a quella carnivora (o meglio onnivora) ha
richiesto milioni di anni, nel corso dei quali il nostro fisico e la nostra anatomia
si sono lentamente modificati adattandosi alle nuove sostanze nutritive. È
ragionevole pensare che ora, nel corso di una sola generazione, si possa
tornare ad essere erbivori? È legittimo credere che ciò possa avvenire senza
conseguenze fisiche per chi si sottopone alla nuova dieta?
Ma
ammettiamo che il nuovo regime sia sostenibile da chi lo adotta e che i singoli
vegani – utilizzando particolari prodotti vegetali o alcuni integratori alimentari
messi a disposizione dall’industria chimica – riescano a vivere felicemente la
loro scelta. Che ne sarà delle future generazioni? Se il sistema venisse esteso
a tutta la popolazione mondiale, come evolverebbe Homo sapiens da qui a centomila o un milione di anni?
Forse
in quel futuro Homo sapiens non ci
sarà più, ma questo è un altro discorso.
Proviamo
invece a ragionare secondo il ben noto imperativo categorico kantiano che ci
impone di comportarci come se ogni nostra scelta potesse essere replicata
utilmente per il bene di tutti i nostri consimili. E teniamo presente che il
nostro cervello ha raggiunto le sue attuali dimensioni anche in conseguenza del
consumo di carne. Se non la si mangiasse più, regredirebbe? E l’intestino
tornerebbe a crescere per poter assimilare solo vegetali? Forse il pianeta gradirebbe
un arretramento delle nostre capacità intellettuali, ma si tenga presente che voler
modificare artificialmente l’evoluzione comporta il rischio di disastri ben più
gravi delle disfunzioni che si intende correggere.
Conclusione
Siamo
davanti a un vicolo cieco e la strada sin qui fatta non può essere percorsa a
ritroso! Il numero degli umani è spropositato, la nostra alimentazione prevede la
carne e per soddisfare questa esigenza gli allevamenti intensivi sono una triste
necessità. Se volessimo lasciar crescere liberi all’aperto gli oltre 29 miliardi
di animali da noi allevati a scopo alimentare, ciascuno di essi avrebbe a
disposizione meno 2.000 metri quadrati di terra (tenuto conto di una superficie
terrestre “utilizzabile” di circa 57,8 milioni di km2), da condividere con gli
spazi agricoli, quelli urbani, quelli boschivi e quelli riservati agli animali
selvaggi (ma questi sono sempre meno, a breve spariranno). E parte del terreno
sarebbe montuoso. Una situazione insostenibile. L’auspicio di vegetariani e vegani
di non mangiar più carne risolverebbe parte dei problemi, ma va contro la
natura dell’essere umano così come si è evoluta in milioni di anni, e perdippiù
non è condiviso dal 90 % della popolazione. Bisognerebbe imporlo con la forza,
e c’è da temere che l’ecocatastrofe che si profila all’orizzonte comporti prima
o poi la necessità di nuove forme dittatoriali: un esito ben triste per un’era
nata col sogno del progresso e della libertà. Ma la ristrettezza degli spazi
aumenta l’aggressività negli animali come negli uomini, e forse anche noi un
giorno dovremo essere rinchiusi in gabbie metalliche all’interno di enormi
capannoni come capita oggi a mucche e maiali.