venerdì 21 giugno 2019

Carne o non carne? – Siamo animali vegetariani o onnivori?





di Bruno Sebastiani

I vegetariani e i vegani sostengono che mangiare carne sia nocivo per gli animali uccisi, per la salute di chi li mangia e per l’ambiente.
Nonostante la percentuale ridotta di chi aderisce a queste diete, meno del 10% della popolazione mondiale, le argomentazioni esposte contengono elementi che meritano la massima considerazione.
Riassumiamoli partitamente e poi svolgiamo ulteriori considerazioni.

1 – Nocività per gli animali uccisi

Chi è preda e soccombe non può che vivere con angoscia il proprio annientamento. Ma se questa è una legge universale, il dramma vissuto dal bestiame ai nostri giorni è di dimensioni ben più ampie sia quantitativamente che qualitativamente. Non riporterò in questa sede i dati numerici né riferirò delle terribili condizioni in cui vivono e muoiono gli animali negli allevamenti intensivi. Si tratta infatti di situazioni ben note e documentate, sebbene la maggioranza delle persone preferisca ignorarle. In quel tipo di allevamenti viene praticato l’esercizio massimo di violenza nei confronti della natura. Là persino il venire al mondo è in funzione della successiva macellazione. E, tra la nascita e la morte, la vita trascorre in una serie inenarrabile di tormenti.

2 – Nocività per chi mangia gli animali uccisi

Mentre il primo tipo di nocività è indubbio, relativamente al secondo tipo, la nocività della dieta carnivora per gli esseri umani, l’argomento è controverso. Analizzare la questione significherebbe addentrarsi in un ginepraio di dati e informazioni contrastanti dal quale sarebbe difficile uscire. Mi limiterò pertanto ad assumere come elemento di sicura nocività (universalmente conclamata in campo medico) l’eccessivo consumo di carne da parte dell’uomo e ignorerò per il momento l’estremo opposto, ovvero se possa essere nociva anche una dieta completamente priva di carne e suoi derivati.

3 – Nocività degli allevamenti di animali per l’ambiente

Per consentire la dieta carnivora di 7 miliardi di persone (il 90% della popolazione non vegetariana), occorre mantenere in vita e poi uccidere oltre 29 miliardi di animali (dati FAO del 2014). Questi numeri non consentono di riservare a tali animali gli spazi e il tipo di vita che madre natura aveva progettato per loro. Di qui l’esigenza di allestire gli allevamenti intensivi, resi ancor più infelici e brutali dall’avidità e dalla cattiveria umana. La concentrazione di tanto materiale organico in spazi ristretti è fonte di grave inquinamento per il pianeta, così come l’altro elemento di elevata nocività è rappresentato dal mangime necessario per sfamare 29 miliardi di bocche: per produrlo ampie zone del pianeta vengono deforestate e sottoposte a monocolture intensive di soia e di altri legumi e cereali. Anche in questo caso ometto di citare i dati, facilmente reperibili in rete e su importanti testi qualificati.

Se questi sono i capi di accusa rivolti da vegetariani e vegani ai cosiddetti “onnivori”, quali altre argomentazioni possono essere svolte a completamento del tema?

Ulteriori considerazioni

1 - Il ruolo svolto dall’alimentazione carnivora nell’evoluzione della nostra specie

Praticamente tutti gli antropologi concordano sul fatto che i nostri lontanissimi progenitori fossero erbivori. Tra sette e cinque milioni di anni fa avvenne la mutazione che dall’albero genealogico dei primati originò il nuovo ramo della nostra specie, i cui primi esponenti furono gli australopitecini, caratterizzati da un cervello di dimensioni maggiori di quello degli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi.
Secondo Richard Wrangham, antropologo britannico allievo di Jane Goodall e autore di “Catching Fire. How Cooking Made Us Human” (tradotto in italiano con il titolo “L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo”, Bollati Boringhieri, 2014) il «passaggio da una dieta a base di fogliame a una – qualitativamente superiore – a base di radici è una spiegazione plausibile del primo incremento delle dimensioni del cervello (da 350 a 450 cm3 circa) nel passaggio dalle scimmie antropomorfe della foresta agli australopitecini» (p. 130).
A questo primo incremento ne seguirono altri di entità ben maggiore in corrispondenza di importanti variazioni nella dieta degli ominidi, che iniziò a contemplare l’assunzione di proteine animali. Wrangham individua tre di tali variazioni.
La prima sarebbe avvenuta poco più di due milioni di anni fa, allorquando il nostro antenato Homo habilis iniziò ad affilare pietre e a mangiare carne. I ritrovamenti archeologici non lasciano dubbi al riguardo. Le difficoltà connesse a una dentizione e a un organismo inadatti al consumo di carne cruda furono superate in parte grazie all’uso di questi strumenti litici (che consentivano di tagliare e battere la carne) e in parte grazie a lente e graduali modifiche anatomiche. Secondo “The Expensive-Tissue Hypothesis” (“L’Ipotesi del Tessuto Costoso”) di Leslie Aiello e di Peter Wheeler (pubblicata nell’aprile 1995 su “Current Anthropology”), il consumo di carne avrebbe fatto crescere le dimensioni del cervello e consentito la parallela diminuzione delle dimensioni dell’intestino. La capacità cranica di Homo habilis passò da 450 a 612 cm3.
La seconda variazione, ben più sostanziosa, avvenne 1,8 milione di anni fa con il passaggio da Homo habilis a Homo erectus e con un aumento delle dimensioni del cervello da 612 a 870 cm3 (primi esemplari di “erectus”) fino a 950 cm3 (tardi esemplari, un milione di anni fa). Tale balzo avvenne contestualmente all’”addomesticamento” del fuoco e al suo uso per la cottura della carne e di altri cibi. «Per oltre 2,5 milioni di anni i nostri antenati hanno tagliato via la carne dalle ossa delle loro prede, e l’impatto fu rilevante. Una dieta che comprendeva carne cruda e vegetali … diede inizio all’evoluzione di cervelli più grandi … Ma … ci sarebbe voluta l’invenzione della cottura per trasformare gli habilines (Homo habilis) in Homo erectus e dare il via al viaggio che ha condotto … fino all’anatomia dei moderni esseri umani.» (Wrangham, op. cit., p. 118)
Una terza variazione « … si verificò con la comparsa dell’Homo heidelbergensis (altrimenti conosciuto come Homo sapiens arcaico), a partire da ottocentomila anni fa. Anche questo aumento fu sostanziale e fece sì che il cervello raggiungesse i 1200 centimetri cubici circa.» (ibidem, p. 134) Quali le cause di questo nuovo balzo in avanti? «Una possibilità è l’introduzione di una tecnica di caccia più efficace … ciò rende … credibile l’ipotesi che l’assunzione di carne, e di conseguenza l’utilizzo di grassi animali, sia aumentato in modo significativo … e abbia giocato un ruolo nell’evoluzione da Homo erectus a Homo heidelbergensis. In alternativa, di sicuro la cottura continuò ad avere effetti sull’evoluzione del cervello anche molto tempo dopo che era stata inventata, perché con il trascorrere del tempo i metodi di cottura migliorarono.» (ibidem, pp. 134 – 135)
A quell’epoca eravamo cacciatori e raccoglitori, onnivori e cioè mangiatori di animali e di piante. Così siamo ancora oggi, a oltre due milioni di anni di distanza. Sono cambiate le fonti di approvvigionamento: la pastorizia e l’allevamento hanno sostituito la caccia, l’agricoltura ha sostituito la raccolta. Ciò che ci metteva a disposizione la natura oggi ce lo procuriamo artificialmente e con ordini di grandezze ben superiori a quelli di una volta.

2 – In natura è normale cibarsi di carne

Avremmo potuto non imboccare la via dell’alimentazione carnivora e rimanere erbivori? È una domanda priva di risposta in quanto inverificabile. Ma nel ragionare di tale argomento teniamo comunque presenti due questioni.
Prima questione. Anche le piante sono dotate di vita, e noi come tutti gli altri onnivori ed erbivori ce ne cibiamo senza alcuno scrupolo.
Seconda questione. Molte specie animali sono carnivore. Ma anche le altre si nutrono di organismi viventi più o meno grandi. Il pesce grosso mangia quello piccolo e quest’ultimo si nutre di plancton, che è un misto di organismi animali e vegetali, le galline mangiano i vermi ecc. ecc. Ma qual è il limite dimensionale al di sotto del quale è ammissibile per la morale “vegetariana” sopprimere una vita a fini alimentari e al di sopra del quale non lo è? Sembra di capire che una certa dose di antropocentrismo venga trasmessa, quasi come proprietà transitiva, agli animali di dimensioni come le nostre o poco maggiori o poco minori, talché uccidere un vitello o un pollo e mangiarlo è riprovevole, mentre uccidere un microorganismo o un insetto non lo è, o lo è molto meno.
La verità è che la vita è un processo trasformativo che fagocita di continuo organismi viventi per consentire ad altri organismi viventi di nascere, svilupparsi, crescere e morire in un ciclo senza fine. Persino il nostro corpo dopo la morte diverrebbe pasto per vermi, iene o avvoltoi se venisse abbandonato alla natura anziché essere tumulato in casse a tenuta stagna.
Non è quindi il mangiar carne lo scandalo, ma il modo in cui noi uomini ce la procuriamo, le indicibili sofferenze inflitte ai 29 miliardi di animali che alleviamo a scopo alimentare.

3 – Che effetti può avere una dieta priva di carne sul lungo periodo?

Questa terza considerazione è certamente quella che più delle altre sarà oggetto di critiche da parte di vegetariani e vegani, i quali giurano e spergiurano che la salute umana non può che trarre benefici dall’eliminazione della carne.
Poiché mi rendo conto che la questione è complessa, assai difficile da dirimere e coinvolge troppe esperienze individuali, cercherò di affrontare l’argomento da un punto di vista evolutivo, astenendomi dal commentare le singole situazioni pro o contro l’uso della carne.
Per essere più esplicito non tirerò in ballo i casi di quei vegetariani o vegani che dopo un periodo più o meno lungo di astinenza dai prodotti animali sono tornati a mangiarli per motivi di salute o ideologici.
Spesso questi voltafaccia sono conseguenti a scelte fatte con leggerezza o, peggio, per sfruttare la moda del “biologico” e del “mangiar sano”, come nel caso di una famosa youtuber crudista vegana (Yovana Mendoza Rawvana) che è stata recentemente sorpresa a mangiare pesce fritto.
In altre situazioni la scelta di far ritorno alla dieta onnivora è ben più sofferta e meditata, come nel caso di Lierre Keith, nota attivista ambientalista americana, fondatrice, insieme a Derrick Jensen, del movimento Deep Green Resistance, diffuso in tutto il mondo. Dopo anni di sofferenze sopportate stoicamente per rispetto della vita degli animali, Lierre ha compreso quanto ho evidenziato nella mia seconda considerazione, e cioè che in natura la vita si nutre della vita, nonché ha realizzato quanto sia nociva la moderna agricoltura per la conservazione della biosfera. Ha descritto questo suo tormentato itinerario nel libro “The Vegetarian Myth: Food, Justice, and Sustainability”, pubblicato in Italia nel 2015 da Sonzogno con il titolo “Il mito vegetariano”. A questo testo, oltremodo serio e documentato, rinvio chi volesse approfondire i singoli aspetti e le difficoltà di chi fa la scelta vegana e poi torna sui propri passi.
Ma escludendo l’esame dei singoli casi, di minore o maggior peso, proviamo ad osservare il problema dal punto di vista non dell’individuo ma della specie.
Il passaggio dall’alimentazione erbivora a quella carnivora (o meglio onnivora) ha richiesto milioni di anni, nel corso dei quali il nostro fisico e la nostra anatomia si sono lentamente modificati adattandosi alle nuove sostanze nutritive. È ragionevole pensare che ora, nel corso di una sola generazione, si possa tornare ad essere erbivori? È legittimo credere che ciò possa avvenire senza conseguenze fisiche per chi si sottopone alla nuova dieta?
Ma ammettiamo che il nuovo regime sia sostenibile da chi lo adotta e che i singoli vegani – utilizzando particolari prodotti vegetali o alcuni integratori alimentari messi a disposizione dall’industria chimica – riescano a vivere felicemente la loro scelta. Che ne sarà delle future generazioni? Se il sistema venisse esteso a tutta la popolazione mondiale, come evolverebbe Homo sapiens da qui a centomila o un milione di anni?
Forse in quel futuro Homo sapiens non ci sarà più, ma questo è un altro discorso.
Proviamo invece a ragionare secondo il ben noto imperativo categorico kantiano che ci impone di comportarci come se ogni nostra scelta potesse essere replicata utilmente per il bene di tutti i nostri consimili. E teniamo presente che il nostro cervello ha raggiunto le sue attuali dimensioni anche in conseguenza del consumo di carne. Se non la si mangiasse più, regredirebbe? E l’intestino tornerebbe a crescere per poter assimilare solo vegetali? Forse il pianeta gradirebbe un arretramento delle nostre capacità intellettuali, ma si tenga presente che voler modificare artificialmente l’evoluzione comporta il rischio di disastri ben più gravi delle disfunzioni che si intende correggere.

Conclusione

Siamo davanti a un vicolo cieco e la strada sin qui fatta non può essere percorsa a ritroso! Il numero degli umani è spropositato, la nostra alimentazione prevede la carne e per soddisfare questa esigenza gli allevamenti intensivi sono una triste necessità. Se volessimo lasciar crescere liberi all’aperto gli oltre 29 miliardi di animali da noi allevati a scopo alimentare, ciascuno di essi avrebbe a disposizione meno 2.000 metri quadrati di terra (tenuto conto di una superficie terrestre “utilizzabile” di circa 57,8 milioni di km2), da condividere con gli spazi agricoli, quelli urbani, quelli boschivi e quelli riservati agli animali selvaggi (ma questi sono sempre meno, a breve spariranno). E parte del terreno sarebbe montuoso. Una situazione insostenibile. L’auspicio di vegetariani e vegani di non mangiar più carne risolverebbe parte dei problemi, ma va contro la natura dell’essere umano così come si è evoluta in milioni di anni, e perdippiù non è condiviso dal 90 % della popolazione. Bisognerebbe imporlo con la forza, e c’è da temere che l’ecocatastrofe che si profila all’orizzonte comporti prima o poi la necessità di nuove forme dittatoriali: un esito ben triste per un’era nata col sogno del progresso e della libertà. Ma la ristrettezza degli spazi aumenta l’aggressività negli animali come negli uomini, e forse anche noi un giorno dovremo essere rinchiusi in gabbie metalliche all’interno di enormi capannoni come capita oggi a mucche e maiali.