(Pubblicato anche sul blog "Appello per la Resilienza")
Per chi conosce il problema dei "limiti dello sviluppo" può sembrare sorprendente rileggere oggi l'ultima parte di "Verso un ecologia della mente" di Gregory Bateson. Questo padre del pensiero sistemico aveva già chiaro il destino che attende la nostra civiltà (se non cambia... ecc, ecc)
Se io sono nel giusto, allora il nostro atteggiamento mentale rispetto a ciò che siamo e a ciò che sono gli altri deve venire ristrutturato. Non si tratta di uno scherzo e non so quanto tempo abbiamo prima della fine. (G. Bateson, pag. 503; grassetto mio)
Questo veniva detto nel gennaio 1970, dunque prima che fosse pubblicato il primo rapporto sui Limiti dello sviluppo (1972). Ora, sono passati quasi 50 anni da questi avvertimenti e ci troviamo, noi contemporanei, a vivere proprio "quel" momento che sembrava non arrivare mai. Siamo "on the cusp of collapse" direbbe David Korowicz.
Tuttavia - rilevo - la nostra specie non sembra affatto in grado di reagire di fronte ad un pericolo annunciato, probabilmente il più grave della storia umana. Intendo dire tutti: dallo scienziato al filosofo, dall'operaio all'agricoltore. Come mai dunque? Sebbene la questione sia stata assai discussa (anche su questo blog) qui mi interrogo su altre motivazioni.
La mente "mente" dicono i buddisti. Il pensiero è un'anticipazione della realtà, una sua rappresentazione, dicono gli occidentali.
Il pensiero è una pre-occupazione - sia esso scientifico, filosofico o artistico - viene "prima" del "contatto" vero e proprio con la realtà e nel quale la coscienza si spegne, per così dire. O si pensa o si è tutt'uno con la realtà. Questo non significa che non si debba mai pensare, ma che bisogna comprendere che il pensiero è una simbolizzazione della realtà.
Sfortunatamente siamo malati di troppo pensiero e non siamo quasi mai in contatto col mondo. Siamo "con" i nostri pensieri, ma i pensieri non sono il mondo. La realtà è non-verbale, direbbero ancora una volta i buddisti.
Tutti i cosiddetti "catastrofisti", mi sembra, si trovano d'accordo su un punto: che vi sarà un "tipping point", un punto di svolta dopo del quale accadrà certamente un grosso cambiamento, ma non c'è accordo su che cosa accadrà. Le opinioni variano dagli estremi di un "catastrofismo ottimista" sino all'apocalisse e all'estinzione umana a breve termine (detta NTHE in inglese).
ANTROPOCENTRISMO
Quando si parla di "antropocentrismo" ci si può spingere fino a riferirsi a ciò che accumuna tutti gli uomini di questo pianeta, non solamente una cultura specifica (con le dovute eccezioni). Secondo questa idea siamo tutti affetti da una forma di egocentrismo che ci porta, inconsapevolmente o meno, a ritenerci più importanti degli altri esseri.
"Ogni essere vivente è imperialista" diceva Bertrand Russell. Non solo noi ma tutti gli esseri. Per ogni specie si potrebbe cambiare il suffisso "antropo" e lasciare "centrismo". Sembra inscritto in tutti gli esseri viventi quello di sentirsi al centro dell'universo, ma l'uomo è la forma autocosciente di questo delirio, come già diceva Nietzsche. Non molto tempo è passato da quando pensavamo che Dio avesse creato per noi piante, animali e tutto il resto.
Se mettete Dio all'esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l'idea di essere stati creati a sua immagine e somiglianza, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica (op.cit.,p. 503)
LA PARTE E IL TUTTO
Sebbene però la "natura" - termine con cui in modo bizzarro etichettiamo tutto ciò che noi non siamo - abbia una logica nella sua ciclica "distruzione" e creazione (nel senso che le catene alimentari sono crudeli ma "funzionali" all'armonia dell'insieme) noi invece sembriamo agire in maniera del tutto disfunzionale, sia dal punto di vista della nostra specie che dal punto di vista del pianeta. Ci distruggiamo a vicenda e distruggiamo il pianeta - pianeta di cui facciamo parte. Ecco, ciò che intendo dire si riduce a questa affermazione, che va indagata in profondità.
[...] se un organismo o un'aggregato di organismi stabilisce di agire avendo di mira la propria sopravvivenza allora il suo "progresso" finisce per distruggere l'ambiente [...] in effetti avrà distrutto se stesso. (op.cit., p. 491)
Quando diciamo che noi siamo parte della natura in realtà lo diciamo solo a parole ma non "a fatti". Siamo consapevoli di derivare dalle scimmie? Solo a parole. Di più: siamo consapevoli di derivare dai batteri? No. Il pensiero evolutivo ci ha abituato a questa consapevolezza, ma è qualcosa che abbiamo digerito senza masticarlo veramente. Lo abbiamo accettato come vero e ovvio ma senza pensare davvero alle sue conseguenze.
Non deriviamo però solamente da qualcos'altro, noi siamo quell'altro che pur facciamo fatica a riconoscere. Siamo letteralmente costituiti di parti di mondo, compresa la componente inerte (minerali), in ogni nostra parte.
E' questa la radice di tutti i nostri problemi, un grande ritardo "culturale" se volete, un grandioso disadattamento della specie, una incapacità di accettare la propria origine. E' la hybris dell'homo sapiens sapiens.
Nessuno sa quanto tempo ci resti, nel sistema attuale, prima che si abbatta su di noi qualche disastro, più grave della distruzione di un gruppo di nazioni. Il compito più importante oggi è forse di imparare a pensare nella nuova maniera. (op.cit., p. 503)