giovedì 21 aprile 2016

Nel frattempo, in Groenlandia......

Da “The Washington Post”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)


Di Chris Mooney

In questa foto del 19 luglio 2011 si formano pozze di ghiaccio fuso sopra il ghiacciaio Jakobshavn, vicino al bordo della vasta calotta glaciale della Groenlandia. (AP Photo/Brennan Linsley)

Un nuovo studio scientifico pubblicato giovedì ha dato l'ennesima botta di cattive notizie sulla Groenlandia – la grande calotta glaciale settentrionale che contiene 6 metri di potenziale aumento del livello del mare. La calotta glaciale si sta “scurendo”, ovvero sta perdendo la sua capacità di riflettere sia la radiazione visibile sia quelle invisibile, man mano che fonde sempre di più, scopre la ricerca. Ciò significa che sta assorbendo maggiore energia solare, cosa che poi alimenta ulteriore fusione. “Lo chiamo cannibalismo di fusione. La fusione alimenta se stessa”, dice Marco Tedesco, l'autore principale dello studio, che è un ricercatore dell'Osservatorio Terrestre Lamont Doherty dell'Università della Columbia. La ricerca è stata pubblicata su The Cryosphere da Tedesco e cinque altri autori di università statunitensi e belghe. Gli scienziati hanno a lungo temuto che, per quanto riguarda la fusione della calotta glaciale della Groenlandia, ci sono numerose delle cosiddette “retroazioni positive”, o processi di auto amplificazione, che possono renderla peggiore.

martedì 19 aprile 2016

Giorgio Nebbia: dopo il referendum, abbiamo bisogno di un vero piano energetico


di Giorgio Nebbia


Prima di tutto voglio dichiarare che il 17 aprile sono andato a votare per il referendum: ho sempre votato per tutti i referendum perché sono chiamati non da un governo, o da un presidente, o da un partito, ma, una volta tanto nella vita, è il popolo “We the People”, che chiede a me personalmente che cosa penso di un certo problema. Da bambino mi hanno insegnato che quando qualcuno chiede qualcosa è buona educazione rispondere, a maggior ragione se è “il popolo” che mi interroga. Poi voglio chiarire che ho votato SI --- inutilmente --- insieme a molti altri milioni di persone, dopo aver ascoltato attentamente le ragioni dei sostenitori del SI, ma anche quelle dei sostenitori del NO, convinto che l’ostinazione nell’estrazione di petrolio e gas a ridosso delle coste dal fondo di un mare che si muove continuamente (i cui “confini” sono un nonsenso ecologico), da giacimenti in via di esaurimento, non giova all’economia dell’Italia, all’occupazione e tanto meno all’ambiente.

Adesso, a mio parere, un governo dovrebbe fare un sensato “piano” energetico, parola che abbiamo sentito ripetere infinite volte; talvolta nei decenni passati i governi hanno fatto dei piani energetici, ma tutti con previsioni di produzione e di consumo di energia sbagliati, il che ha provocato costi pubblici e dolori privati.

L’energia è una cosa che non si vede; si vedono, si comprano e vendono il petrolio, i pannelli solari, il carbone, i rifiuti (si anche quelli vengono bruciati e contabilizzati come fonti di energia, addirittura “rinnovabili”), le pale eoliche, eccetera. Ma l’energia non si vede né si tocca; se ne vedono soltanto gli effetti sotto forma di merci e di servizi, di scatole di conserva di pomodoro e di luce, di carta e di mobilità e conoscenza, eccetera. Un piano energetico ha senso se si comincia a stabilire quali merci e quali servizi si vogliono rendere accessibili ad una comunità e solo dopo si può decidere con quali forme e fonti di energia è bene “fabbricarli” e renderli disponibili ai cittadini con vantaggio per l’economia o per l’occupazione o per l’ambiente.

A tal fine occorre andare su e giù per le 65 righe e colonne delle tavole intersettoriali dell’economia, quelle che contengono i soldi che passano da un settore all’altro e da cui, alla fine, si calcola il Prodotto Interno Lordo.

I soldi di ciascuno scambio sono accompagnati da uno scambio di materiali e di energia sotto forma di calore o di elettricità, milioni di tonnellate di materiali, fra cui carbone e petrolio e gas, prodotti agricoli e legno e minerali e metalli e gomma, eccetera, e 150 milioni di tonnellate di rifiuti solidi che vanno da un posto all’altro, dai campi alle stalle, dalle strade ai negozi, dalle fabbriche alle abitazioni, tutti mossi dall’energia.

A mio modesto parere, senza un simile “piano”, nato dalla capacità di pensare al futuro di un paese e dei suoi abitanti, tutto resta al livello di chiacchiere, fertile terreno per speculazioni e frodi.

La grande sconfitta del referendum: lettera aperta agli ambientalisti



di Ugo Bardi

Ora che il grande rumore del referendum sulle trivelle si è un po' calmato, credo che sia tempo di riflettere su quello che è successo. E, a questo punto, mi sento di poter dire con certezza che è stata una pesante sconfitta per chi, in Italia, si definisce come ambientalista. Non so se questo referendum era nato fin dall'inizio come una trappola contro gli ambientalisti; probabilmente no, ma lo è diventato rapidamente. Arrivati a un certo punto, per il governo (e per la lobby dei fossili che lo sostiene) non c'è stato bisogno di fare altro che stare a guardare mentre gli ambientalisti scavavano la buca nella quale si sarebbero poi seppelliti da soli.

Non servivano particolari virtù profetiche per prevedere come sarebbe andata a finire: bastava guardare la pagina di Wikipedia intitolata "consultazioni referendarie in Italia". Dal 1997, c'erano state sette consultazioni referendarie (oggi sono otto), nessuna delle quali ha raggiunto il quorum, eccetto quella sul nucleare del 2011. Ma, per quel referendum, c'era voluto uno tsunami planetario per smuovere la gente ad andare a votare. Come ci si poteva ragionevolmente aspettare che su un quesito così astruso come quello dell'ultimo referendum si potesse fare di meglio? E allora, non era il caso di prendere un po' le distanze da un referendum che non era nemmeno nato dal movimento ambientalista?

Eppure, non sembra che in molti si siano data la pena di fare questa ricerchina su internet e tutti si sono lanciati a testa bassa a propugnare il "si" anche con iniziative chiaramente fuori misura e controproducenti, tipo quella del "trivella tua sorella." Più che altro, la campagna per il "si" è stata debole, con slogan vaghi e poco efficaci (tipo "difendiamo il nostro mare") che hanno cercato di demonizzare le piattaforme petrolifere, ma senza riuscire a spaventare nessuno. Allo stesso tempo, abbiamo visto fior di rappresentanti del movimento ambientalista: ricercatori, politici, climatologi, gruppi, associazioni e formazioni varie, impegnare il loro prestigio e il loro nome su una battaglia che, come minimo, avrebbe dovuto essere percepita come molto rischiosa, se non completamente senza speranza. E quando uno impegna il proprio nome su una causa, la sconfitta lascia un segno. Un segno che non si cancella facilmente.

Certo, si potrebbe dire, con il Mahatma Gandhi, che in una buona causa non ci sono mai sconfitte. Forse è vero, certo però che ci vuole anche un po' di strategia per vincere una battaglia come quella in cui tanti di noi sono impegnati, quella di salvare il paese dal disastro economico e ecosistemico. Ed è, mi sembra chiaro, proprio quello che manca al movimento ambientalista: un minimo di strategia che non sia dire di no a tutto.

Guardate com'è ridotto il movimento ambientalista inteso come entità politica: a parte fare campagne per il "no" all'energia rinnovabile che "deturpa il paesaggio" cosa fa? Attenzione! Non mi fate dire che non esistono ambientalisti intelligenti: esistono, eccome! E si sta facendo molto, moltissimo lavoro a livello locale. Si sta spingendo per l'efficienza, per le buone pratiche, per la salute di tutti. Il problema, però, è che non tutto si può fare a livello locale, ignorando il problema politico nazionale. La questione della riduzione delle emissioni è una questione politica a livello nazionale ed internazionale: se i governi - incluso quello italiano - non si impegnano seriamente, non si potrà ottenere nulla. Il tentativo, in parte riuscito, del governo di demolire l'industria italiana delle rinnovabili è anche quello un problema politico a livello nazionale: non si installano impianti per l'energia rinnovabile se il governo mette i bastoni fra le ruote, come sta facendo. 

E quindi, il movimento politico che si rifà all'ambientalismo si è autodistrutto in una serie di decisioni sbagliate delle quali l'ultima è stata quella di impegnarsi per il si al referendum. Ma si è autodistrutto, più che altro, non riuscendo a impegnarsi su delle tematiche condivise anche da chi non si ritiene un ambientalista. Se uno vuol decrescere e sostiene di essere "felice", è una sua scelta legittima, ma non è un programma politico che può avere successo.

Allora, permettetemi di domandare se non vi sembra che un movimento ambientalista che voglia avere un minimo di impatto sulla società (e lo sappiamo quanto è disperatamente necessario averlo) dovrebbe essere d'accordo su certe cose fondamentali, soprattutto col fatto che è necessario sostenere l'energia rinnovabile, e sostenerla seriamente e con convinzione.  

Come facciamo a essere allo stesso tempo contro il nucleare e contro il petrolio se non riusciamo a identificare un'alternativa? Ci possiamo riuscire? O continueremo per sempre nella politica del "no a tutto"? Pensateci sopra.








lunedì 18 aprile 2016

Abbiamo perso; è una novità?


pandaCome da pronostico, sconfitta ambientalista.   Un terzo scarso degli aventi diritto è andato a votare ed il referendum non è passato.   Sorpresi?   Quante volte abbiamo già visto questo film?   Non credo che nessuno fra quelli che si sono attivati per il “SI” credesse davvero di poter vincere.

Del resto, questo referendum era nato da una contesa per il potere interna alla macchina dello stato ed al partito di governo.   Allora perché una sconfitta ambientalista?
Innanzitutto direi che bisogna distinguere i due fiaschi che il 17 si sono assemblati: il fiasco dell’istituto referendario ed il fiasco del movimento ambientalista.
referendum 17 aprile 2016Per quanto riguarda il primo, c’è poco da dire se non “Grazie Pannella”.   Fu infatti il leader radicale che, oramai tanto tempo fa, tentò di scardinare la macchina del potere partitico subissando il governo con una massa di referendum che, sperava, avrebbe obnubilato le capacità di reazione dei partiti.   Invece accadde il contrario.   Da un lato, fu messa a punto una tecnica estremamente efficace per boicottare i referendum, come abbiamo visto anche nei mesi scorsi.   Dall'altro, la maggior parte della gente si è stufata di troppe domande, troppo frequenti e troppo tecniche.   Risultato, il più democratico degli istituti è morto ammazzato dal suo più ardente paladino.   Si sapeva anche la settimana scorsa.   Amen.
Il secondo punto è più complicato, a cominciare dal fatto che questo referendum è nato nell'ambito di una lotta per il potere interna al PD ed alla macchina statale.   Tuttavia aveva delle implicazioni ambientali ed il movimento ci si è buttato.   Ha perso, ma quello che mi interessa qui è che non abbiamo perso ieri: abbiamo perso sempre.    Un movimento che 50 anni fa sembrava capace di cambiare l’agenda politico-economica globale si sta disintegrando senza aver ottenuto praticamente nulla.
Un dato questo inoppugnabile alla luce dei fatti: rispetto al 1970, la situazione ambientale del mondo è peggiorata in modo terrificante.   E’ vero, il panda non si è ancora estinto, anzi è in lieve ripresa.   Ma attenzione: ciò non è accaduto in forza di norme ed interventi del governo o di una presa di coscienza popolare.   Bensì come “sottoprodotto” del boom economico ed edilizio cinese che ha drenato verso le grandi città decine di milioni di contadini e montanari.   Questo ha dato temporaneo respiro ai boschi dove vivono i panda, ma intanto è raddoppiato l’inquinamento mondiale e con ogni probabilità abbiamo oramai superato il punto di rottura climatico.   Un po’ quello che è accaduto in Europa negli anni ’50 e ’60, più in grande ed in un contesto globale ben peggiore.
indicatori di crisi
E mentre quasi tutti gli indicatori mondiali di qualità ambientale peggiorano in maniera esponenziale (andate a leggere questo link), perfino sul piano culturale l’ambientalismo ha perso buona parte della la sua forza propositiva.   Ad oggi, in Italia ed in Europa esiste una piccola e radicata nicchia di persone preoccupate per l’ambiente, ma le associazioni storiche stanno scomparendo, quelle nuove non decollano ed alle riunioni si vedono sempre le stesse teste, sempre più bianche.   E mentre sui teleschermi assistiamo alla telecronaca in diretta del collasso della nostra civiltà, continuiamo a ripetere come dei mantra parole ormai prive di senso, come “sostenibilità” ed “efficienza”.   Né servono a molto quei pochi che, viceversa, accettano il ruolo di “foglia di fico” del sistema economico, sempre senza preoccuparsi minimamente di come questo si interfacci con la realtà.
Non è un caso se tutti i testi fondamentali per l’ambientalismo sono vecchi di 50 anni: “Silent Spring” 1962, “The Population Bomb” 1968, “The Entropy Law and Economic Process” 1971, “Limits to Growth” 1972.
Dopo è stato scritto molto e molto a proposito, ma i termini fondamentali della questione erano chiari allora ben più di ora.
Le opzioni possibili invece sono cambiate perché il tempo è passato e molte delle cose che non sono state fatte in passato non potranno essere fatte in futuro.
D'altronde, sull'altro fronte le cose vanno perfino peggio.   Se nel 1970 le principali industrie europee finanziavano lo studio che portò ai “Limiti dello sviluppo”, oggi il panorama economico è dominato da individui che si occupano di grattare il fondo del barile.   Oppure da ingenui che davvero credono che eliminando i pochi brandelli di tutele ambientali e sociali ancora esistenti si possa rilanciare una crescita economica che per noi è finita da anni e per il mondo (probabilmente) sta finendo proprio adesso.   Amen (un’altra volta).
Dunque la domanda che mi pongo è questa:   Ha ancora senso che esista un movimento ambientalista?   Se si, quali gli scopi che si dovrebbe prefiggere?
Non è una domanda nata oggi dalla sconfitta di ieri.   E’ una domanda nata 10 anni or sono dalla sconfitta di 50 anni consecutivi in cui non è stato possibile modificare di un millimetro la traiettoria suicida della civiltà umana.   Oggi semplicemente la ripropongo, perché ancora non ho trovato una risposta.
sconfitta e attesa       La aspetto, non ho fretta.


Come sfottere i referendari.


A commento del referendum di ieri, mi sembra che questo post ci stia tutto e ci stia benissimo!

Dal blog "Argento Fisico" di Er Monnezza

Renzie sfotte i referendari: "sconfitto chi aveva scopi personali" (!!!), #ciaone ...






Tho, che bello eh? Ci sputa pure in faccia, sto sboroncello da canonica del cazzo. Proprio parente stretto dei vari Lupi, Forminchioni ...

Il Fatto - Referendum trivelle, Renzi: “Sconfitto chi aveva scopi personali”.


Chi e' che aveva scopi personali? Io? Poi ti stupisci e fai la vittima e gridi "ai nazisti" se ti mandano a fare in culo? (notere dietro a PittiGrullo, oltre ai culi dei cavalli, tal Guidi ... e vedere sotto il link a tutti gli indagati del PD su trivellopoli)

La Cosa - Lo scandalo #Trivellopoli spiegato in 3 minuti

Total, amici degli amici, mariti non mariti, politici del PD ... a sfregio, proprio, le uscite di sto arrogante cazzoncello faccia da beota, Bertoldo Bertoldino e Cacasenno, mangiapane (e caviale) a tradimento.

Ma perche' agli italiani devono sempre piacere gli sboroncelli cazzoni e furbetti del cazzo, gli sparacazzate paraculati? .. ah, si, perche' cosi' e' l'italiano medio, certo, che sciocco. Ignorante, paraculo, cazzone .. traditore e voltagabbana ... gia'.

Poi leggo dalla Tampieri che su twitter sti renziani si sono anche divertiti a fottere con un bel #ciaone.

Che bello eh? Ora saremo energeticamente indipendenti! Yeah! :D .. e la benza costera' 20 cent al litro :D ... si, credici.

Comunque almeno bisogna ringraziare questa kermes perche' almeno adesso qualcuno in piu' sa come l'Italia e' il paradiso fiscale delle multinazionali petrolifere, che pagano le royalties piu' ridicole del pianeta, roba che persino nelle repubbliche delle banane africane pagano il doppio o il triplo (rimetteranno in pari il bilancio energetico del paese! .. tz) - un po' di persone in piu' sanno che in Romagna le citta' srofondano e si paga gia' piu' in ripascimenti per i bagnini di quanto di guadagna con le royalties, ecc, ecc. ... non si e' comunque mai parlato di quanti posti di lavoro ha massacrato Renzie nelle rinnovabili da quando e' al potere .. si vede che quelli sono posti di lavoro di serie B.

PS: Guarda che simpatica manipolazione delle menti anche qua (RAI 3):




chi non nota di che sto parlando e' radiato dal sito a vita

domenica 17 aprile 2016

Referendum: in una buona causa, non ci sono mai sconfitte





Il Mahatma Gandhi aveva sicuramente ragione quando ha pronunciato la frase che da il titolo a questo post. Credo però che sarebbe d'accordo anche lui che a furia di prendere mazzate sulla testa, uno finisce per sentire anche male.

Me lo aspettavo (vedere il mio post precedente) ma non ne sono certamente contento. Vi dirò che stamattina, quando c'era stato un momento di ottimismo sulla possibilità di arrivare al quorum, avevo avuto un attimo di felicità al pensiero che potevo aver cannato completamente la mia previsione. Ma non è andata così.

Non tutto è perduto, però, se da questa esperienza impareremo come ambientalisti perlomeno che ci sono delle cose che non dovremmo fare, ovvero: a) dire di no a tutto, b) essere quelli che perdono sempre, c) cascare sempre nelle trappole che ci tendono.


giovedì 14 aprile 2016

La trappola della scimmia


Di Jacopo Simonetta.

Questo articolo è già stato pubblicato sul n. 8 della rivista online "Overshoot".   Il numero è scaricabile gratuitamente a questo link:  http://www.rientrodolce.org/

La trappola della scimmia è un recipiente che contiene qualcosa di molto buono da mangiare; la scimmia vi infila la mano per prenderlo, ma il pugno chiuso non può uscire dalla bocca del vaso.   In realtà niente impedisce all'animale di lasciare l’esca e andarsene, ma non vuole rinunciare alla sua leccornia e così continua a stringere.   Ma più si agita, più monta il panico e più si stringono le dita, finché arriva il cacciatore che uccide la scimmia e se la mangia.

Oggetto reale o metafora dell’avidità umana poco importa. Qui vorrei utilizzarla come spunto per una riflessione su qualcosa che a noi umani è molto caro.   Qualcosa da cui siamo abituati ad attenderci ogni bene e che può diventare una trappola mortale.

Per arrivarci vorrei partire da un modello economico proposto da Herman Daly per spiegare come l’incremento della produzione di beni e servizi non necessariamente giova all'economia; anzi può diventare la macchina che la distrugge.  Sembra un paradosso, ma non lo è, come molti dei fenomeni che stanno condizionando il nostro presente ed il nostro futuro.

Partiamo da una semplice considerazione: ad ogni incremento della produzione corrisponde un aumento del vantaggio per il produttore.  Se vendere 100 pizze al giorno porta un determinato vantaggio, poniamo 100 euro di guadagno netto, produrre 200 pizze dovrebbe dare un vantaggio maggiore.   Di solito è così, ma di quanto?   Non di altri 100 €.   Perché?   Perché incrementando la disponibilità di un bene diminuisce il desiderio per il medesimo, mentre aumentano le spese per produrlo e commercializzarlo.

Ad ogni attività commerciale, come ai processi biologici, si applica l’implacabile legge dei ritorni decrescenti.   Qualunque cosa cresca, da un certo momento in poi, comincia ad incontrare una resistenza sempre maggiore al suo sviluppo finché questo necessariamente si arresta.
In termini termodinamici la faccenda si spiega col fatto che, man mano che qualcosa cresce, aumentano le sue necessità e, dunque, le sue difficoltà a reperire abbastanza energia per continuare a crescere.

Contemporaneamente, ogni accrescimento comporta anche un aumento dei costi, siano questi energetici, monetari o d’altro genere.   Per fare più pizze è necessario non solo comprare più farina e mozzarella, ma anche ingrandire il forno ed assumere personale.   Per reperire più cibo è necessario camminare di più.   Per catturare più luce occorre mantenere tronchi e rami sempre più grandi e pesanti.   Per pompare più petrolio è necessario perforare pozzi sempre più profondi eccetera.   Finché le uscite equivalgono alle entrate e la crescita si ferma.    Una legge che gli economisti conosco bene e che chiamano “legge del quando fermarsi”.

Quello che di solito non si dice è che, col tempo, le strutture realizzate per catturare energia si usurano ed aumenta quindi il bisogno di energia per la loro manutenzione.   Man mano che il tempo passa, il fabbisogno di energia aumenta, aumentano le difficoltà a reperirne abbastanza ed i sistemi cominciano a diventare fatiscenti, finché collassano.

Tutte le strutture dissipative, di qualunque natura e dimensione, invecchiano e muoiono; dalle cellule alle galassie.   Ed è un bene, perché è proprio questo che consente l’evoluzione.   “La Morte è l’artificio mediante cui si mantiene la Vita” diceva Goethe.

Tornando alle nostre preoccupazioni economiche, se è assodato che i vantaggi marginali non possono che diminuire ed i costi marginali non possono che aumentare, come è possibile pensare che la crescita economica possa proseguire all'infinito?

Sostanzialmente per due motivi:

Il primo è che, comunemente, si ritiene che i ritorni decrescenti si applichino alle singole attività, ma non alle economie complessive.   Si presume infatti che ci sia sempre la possibilità di inventare nuovi prodotti o servizi, man mano che quelli già disponibili raggiungono il fatidico livello d’arresto.   Un’idea che era perfettamente ragionevole quando fu concepita un paio di secoli or sono.

All'epoca, sulla Terra c’era meno di un miliardo di persone, abbondanza di risorse e spazi apparentemente illimitati in cui disperdere i nostri rifiuti.   Pensare la stessa cosa oggi, in un mondo in cui ogni giorno ci sono 300.000 persone in più a grattare il fondo del barile di risorse come l’acqua, il suolo, la biodiversità e l’aria; un mondo in cui le caratteristiche chimiche e fisiche dell’atmosfera e degli oceani sono state gravemente alterate dall'accumulo di rifiuti è semplicemente una stupidaggine.

Il secondo motivo è più interessante perché è vero che disponiamo di potenti mezzi in grado di spostare il famoso punto di equilibrio del “quando fermarsi” sia a livello di singole attività che di intere economie: la crescita demografica, la pubblicità (e tutti gli altri trucchi del consumismo), il progresso tecnologico.

Per capirne il ruolo dobbiamo osservare con più attenzione il modello di Daly.

a) 1 = Limite economico; 2 = Limite di saturazione; 3 = Catastrofe.  
Da H. Daly modificato.
 All'aumentare dei consumi, il vantaggio marginale diminuisce ed i costi salgono, fino a che si equivalgono.   Oltrepassare questo punto di equilibrio significa investire per distruggere ricchezza, anziché costruirne.  Chi potrebbe fare una cosa simile?   Eppure succede.

Vediamo meglio i tre punti di possibile crisi.

1 - Il “ Limite economico” si raggiunge quando la curva dei benefici calanti incrocia quella dei costi montanti.   E’ questo il famoso punto “quando fermarsi”.   Qui è fondamentale tener presente che, parlando di intere economie e non di singole attività, la curva dei costi include necessariamente anche tutte le esternalità che, invece, non figurano nei bilanci delle imprese.   Questo è uno dei motivi per cui spesso le imprese trovano vantaggioso spingere l’economia generale in territorio collettivamente negativo.

2 – Il “limite di saturazione” può trovarsi in qualunque punto della curva e corrisponde a quando la gente ne ha fin troppo di qualcosa.   Smette di comprare, la curva dei vantaggi precipita e finisce il gioco.   L’economia neoclassica nega formalmente l’esistenza di questo limite con il postulato di “non sazietà” la cui validità è però smentita dai fatti, oltre che dallo sviluppo iperbolico dell’industria pubblicitaria e, più in generale, tutto l’armamentario del consumismo.  



Ma anche altre forzanti, in particolare la crescita demografica, possono facilmente spostare il limite economico ben addentro al territorio della crescita anti-economica.    Cioè in posizioni in cui la somma dei costi, comprese le esternalità, supera i ricavi.   Parlando di economie, il fatto di aver raggiunto od anche superato il punto di equilibrio non significa infatti che tutte le attività siano negative.   Anzi, di solito alcune vanno meglio di prima ed altre nuove nascono, anche se si sviluppano a spese di altre che chiudono.
In pratica, l’economia diventa un gioco a somma negativa, ma ciò non impedisce che vi siano dei vincitori e poiché sono proprio questi che assurgono al potere vi sono ben poche possibilità che fermino la macchina.
Ma quel che è più importante, è che in questo modo ci avvicina al terzo limite.

3 – Il “Limite della catastrofe ecologica”.   Sappiamo, o dovremmo sapere, che qualunque attività umana modifica l’ecosistema da cui preleva le risorse necessarie e scarica i rifiuti risultanti.   Entro certi limiti, l’ecosistema si adatta, mantenendo comunque una sua funzionalità.

Oltre questo limite, l’ecosistema collassa in un sistema quasi privo di vita, completamente incapace di sostenere qualsivoglia attività umana.   L’esempio classico è quello della messa a coltura di territori vergini che può portare allo sviluppo di agro-ecosistemi molto complessi e vitali, così come a lande desolate a seconda dell’intensità con cui si sfruttano i suoli, l’acqua e la biodiversità.

Anche l’esistenza di questo limite viene esplicitamente negata, o perlomeno ridotta ad una possibilità del tutto teorica, dalla scuola economica corrente in base al presupposto che lo sviluppo economico sia in grado di produrre anche i mezzi per riparare i danni che produce.  Il fatto che un’infinità di attività e di economie siano già collassate assieme agli ecosistemi di cui vivevano non sembra interessare i grandi guru del denaro.

Ma ciò che qui ci interessa è il ruolo chiave rivestito dalla tecnologia.   L’effetto principale del progresso tecnico è infatti quello di rendere più efficienti i processi produttivi.

L’intera élite mondiale ed anche buona parte della risicata nicchia ambientalista conta proprio sull'aumento dell’efficienza produttiva per togliere dal fuoco le castagne dell’umanità senza che nessuno si faccia troppo male.

Ma se i processi produttivi diventano più efficienti, i costi di produzione diminuiscono, la curva dei costi marginali si sposta verso il basso ed il punto di equilibrio verso destra.   Eventualmente fino a coincidere con il punto di rottura che scatena la catastrofe.   Oltre, ovviamente, non ci sono più attività economiche di sorta.

Parlando di economia globale, non sappiamo esattamente dove questo “punto” si trovi, anzi potremmo addirittura averlo già superato.   Non possiamo saperlo, ma possiamo essere certi che c’è.


In altre parole, l’aumento di efficienza produttiva e commerciale portano benefici a chi se ne serve, ma a costo di avvicinare progressivamente il sistema alla soglia di collasso.   Finché vi sono ampi margini di manovra, rappresentati da risorse e possibilità di smaltimento prive di forti controindicazioni, i vantaggi superano certamente gli svantaggi.

Non per nulla in ogni società che è collassata i successi del passato hanno indotto la gente a tenersi stretto il suo progresso.   Esattamente come fa la scimmia con la sua pagnotta.

D'altronde, per la scimmia fare diversamente significherebbe rimanere a pancia vuota.   Per una società umana mollare la presa significherebbe avviare volontariamente il proprio declino politico ed economico.   Cioè restare a pancia vuota, essere invasi o, perlomeno, rischiare parecchio.   Ma continuare ad alzare la posta ha sempre avuto il risultato di rimandare la resa dei conti finché non sopraggiunge il cacciatore, nelle vesti di una raffica di catastrofi tanto più devastanti, quanto più a lungo è stato possibile rimandare.

Sono pochissimi e parziali gli esempi storici di società che sono state capaci di fermarsi ad un livello a cui era ancora possibile stabilizzare il sistema per periodi relativamente lunghi.

Dunque il rilancio economico ed ancor più il progresso tecnologico da cui ci attendiamo salvezza sono esattamente quelle cose che hanno già condannato a morte molti di noi e forse l’umanità intera, se non la Biosfera.

Dovremmo allora considerare “cattiva” la tecnologia?    Sarebbe come se un gatto considerasse cattivi i propri artigli perché gli hanno permesso di catturare tutti i topi del quartiere.   Non ha senso.   Tra l’altro, avremo bisogno di tutto quel che abbiamo per scendere la parte destra del “Picco di Seneca”.

Il fatto è semplicemente che abbiamo elaborato una forma di evoluzione troppo efficiente e questo ci ha permesso di distruggere una buona fetta del Pianeta.  Per chi ne ha assaporato i frutti, è stato bello non sentire più la fame, poter guarire da tante malattie, andare in vacanza ed in pensione, viaggiare in automobile o in aereo, eccetera.   Niente di strano che più sentiamo sfuggirci tutto ciò, più forte stringiamo le dita.   E chi è vissuto sperando di realizzare lo stesso sogno, ucciderà e morirà prima di rinunciarvi. La tecnologia ci ha spacciati non già perché sia cattiva, bensì perché funziona troppo bene!

Ci sarebbero, o ci sarebbero stati, a mio avviso almeno due modi per sfuggire alla trappola.   Man mano che la tecnologia riduceva i costi di produzione, si sarebbero dovuti imporre limiti crescenti alla disponibilità delle risorse e/o al diritto di acquistare determinati beni o servizi.   Gli strumenti per ottenere questo erano molti: dalla tassazione al razionamento, ma in ogni caso una cosa simile avrebbe significato semplicemente la fine dell’economia di mercato.

Una mostruosità che solo a dirla scatena derisione e scandalo, ma che accadrà comunque in un futuro non lontano e senza bisogno di riesumare ideologie che hanno già ampiamente fallito.   Basterà che una risorsa insostituibile raggiunga costi di estrazione, raffinazione e trasporto eccessivi per il mercato. Per fare un esempio fra i tanti possibili, che faremo quando il petrolio avrà dei costi di “produzione” di 150 $ al barile?   A quel prezzo non potrà essere venduto, ma neppure se ne potrà fare a meno.   Dunque, semplicemente, l’industria petrolifera sarà in qualche modo nazionalizzata o militarizzata e continuerà a lavorare come potrà, consegnando i suoi prodotti ai servizi essenziali (oltre che ad una ristretta cerchia di oligarchi).

In conclusione, è possibile che nel nostro futuro si verifichi un repentino collasso delle attività economiche.   Molti lo temono, ma personalmente credo più probabile che ad una serie di crisi parziali si risponderà con una progressiva militarizzazione dell’economia e della società.   Perlomeno in quei paesi che al momento avranno i mezzi e la capacità per poterlo fare.   Non sarà piacevole, ma potrebbe andare anche peggio.