di Ugo Bardi
Ora che il grande rumore del referendum sulle trivelle si è un po' calmato, credo che sia tempo di riflettere su quello che è successo. E, a questo punto, mi sento di poter dire con certezza che è stata una pesante sconfitta per chi, in Italia, si definisce come ambientalista. Non so se questo referendum era nato fin dall'inizio come una trappola contro gli ambientalisti; probabilmente no, ma lo è diventato rapidamente. Arrivati a un certo punto, per il governo (e per la lobby dei fossili che lo sostiene) non c'è stato bisogno di fare altro che stare a guardare mentre gli ambientalisti scavavano la buca nella quale si sarebbero poi seppelliti da soli.
Non servivano particolari virtù profetiche per prevedere come sarebbe andata a finire: bastava guardare la pagina di Wikipedia intitolata "consultazioni referendarie in Italia". Dal 1997, c'erano state sette consultazioni referendarie (oggi sono otto), nessuna delle quali ha raggiunto il quorum, eccetto quella sul nucleare del 2011. Ma, per quel referendum, c'era voluto uno tsunami planetario per smuovere la gente ad andare a votare. Come ci si poteva ragionevolmente aspettare che su un quesito così astruso come quello dell'ultimo referendum si potesse fare di meglio? E allora, non era il caso di prendere un po' le distanze da un referendum che non era nemmeno nato dal movimento ambientalista?
Eppure, non sembra che in molti si siano data la pena di fare questa ricerchina su internet e tutti si sono lanciati a testa bassa a propugnare il "si" anche con iniziative chiaramente fuori misura e controproducenti, tipo quella del "trivella tua sorella." Più che altro, la campagna per il "si" è stata debole, con slogan vaghi e poco efficaci (tipo "difendiamo il nostro mare") che hanno cercato di demonizzare le piattaforme petrolifere, ma senza riuscire a spaventare nessuno. Allo stesso tempo, abbiamo visto fior di rappresentanti del movimento ambientalista: ricercatori, politici, climatologi, gruppi, associazioni e formazioni varie, impegnare il loro prestigio e il loro nome su una battaglia che, come minimo, avrebbe dovuto essere percepita come molto rischiosa, se non completamente senza speranza. E quando uno impegna il proprio nome su una causa, la sconfitta lascia un segno. Un segno che non si cancella facilmente.
Certo, si potrebbe dire, con il Mahatma Gandhi, che in una buona causa non ci sono mai sconfitte. Forse è vero, certo però che ci vuole anche un po' di strategia per vincere una battaglia come quella in cui tanti di noi sono impegnati, quella di salvare il paese dal disastro economico e ecosistemico. Ed è, mi sembra chiaro, proprio quello che manca al movimento ambientalista: un minimo di strategia che non sia dire di no a tutto.
Guardate com'è ridotto il movimento ambientalista inteso come entità politica: a parte fare campagne per il "no" all'energia rinnovabile che "deturpa il paesaggio" cosa fa? Attenzione! Non mi fate dire che non esistono ambientalisti intelligenti: esistono, eccome! E si sta facendo molto, moltissimo lavoro a livello locale. Si sta spingendo per l'efficienza, per le buone pratiche, per la salute di tutti. Il problema, però, è che non tutto si può fare a livello locale, ignorando il problema politico nazionale. La questione della riduzione delle emissioni è una questione politica a livello nazionale ed internazionale: se i governi - incluso quello italiano - non si impegnano seriamente, non si potrà ottenere nulla. Il tentativo, in parte riuscito, del governo di demolire l'industria italiana delle rinnovabili è anche quello un problema politico a livello nazionale: non si installano impianti per l'energia rinnovabile se il governo mette i bastoni fra le ruote, come sta facendo.
E quindi, il movimento politico che si rifà all'ambientalismo si è autodistrutto in una serie di decisioni sbagliate delle quali l'ultima è stata quella di impegnarsi per il si al referendum. Ma si è autodistrutto, più che altro, non riuscendo a impegnarsi su delle tematiche condivise anche da chi non si ritiene un ambientalista. Se uno vuol decrescere e sostiene di essere "felice", è una sua scelta legittima, ma non è un programma politico che può avere successo.
Allora, permettetemi di domandare se non vi sembra che un movimento ambientalista che voglia avere un minimo di impatto sulla società (e lo sappiamo quanto è disperatamente necessario averlo) dovrebbe essere d'accordo su certe cose fondamentali, soprattutto col fatto che è necessario sostenere l'energia rinnovabile, e sostenerla seriamente e con convinzione.
Come facciamo a essere allo stesso tempo contro il nucleare e contro il petrolio se non riusciamo a identificare un'alternativa? Ci possiamo riuscire? O continueremo per sempre nella politica del "no a tutto"? Pensateci sopra.