sabato 18 marzo 2023

Burioni ha ragione. Purtroppo per lui.

 


(C'è un altro tweet molto simile attribuito a Burioni che gira sul Web. Sembra che entrambi siano autentici, anche se non ne possiamo essere sicuri al 100%. In ogni caso, sono in linea con il pensiero e il modo di fare del personaggio e non sono stati smentiti)


Il tweet di Roberto Burioni riportato qui sopra è andato virale su molti social, dove è stato commentato con insulti e accidenti all'autore. La reazione del pubblico è comprensibile di fronte a un'affermazione che contrasta così platealmente con la linea che Burioni e altri avevano sostenuto fino ad ora, ovvero "fidatevi della scienza, sappiamo noi cosa fare." Invece, questo tweet è una discreta zappata sui piedi (o lesione ad altre parti delicate del corpo) per tutti i televirologi che hanno imperversato negli ultimi 3 anni. 

Burioni si trova in evidente difficoltà, costretto in difesa, cercando di giustificare i suoi molteplici errori e contraddizioni. Normalmente, lui usa la tecnica del "blastaggio," consapevole di generare una forte reazione negativa. La mette in conto: è un modo di far passare un certo messaggio generando polemiche. Ma è una tattica che si può usare soltanto in attacco, non in difesa,

Il tweet si limita a dire esplicitamente una cosa che è ben nota a tutti quelli che lavorano nel campo della ricerca, anche se risulta sorprendente per il pubblico in generale. Non c'è quasi nessun controllo sulla validità dei dati e dei risultati pubblicati su una rivista scientifica, anche fra quelle di "alto livello." Vi passo, più sotto, una discussione sull'argomento da parte di  "Birbo Luddynski." Scusate il linguaggio scatologico, ma la sua descrizione di come funziona la scienza è valida, perlomeno nel complesso. 

In breve, comunque, Burioni ha ragione quando dice che il meccanismo di pubblicazione dei risultati di una ricerca si basa quasi completamente sulla fiducia. L'editore scientifico può solo decidere se il lavoro gli sembra adatto alla rivista, mentre i "referee" che sono incaricati di una forma di controllo qualità possono solo giudicare se le conclusioni degli autori sono consistenti con i dati riportati, e poco più. 

Quindi, uno scienziato può imbrogliare? Certamente si. Come editore di una rivista e referee di tantissimi articoli mi sono capitati spesso casi in cui sospettavo un imbroglio, in alcuni casi con una evidenza lampante. Ma non è nei poteri dell'editore, e neppure del referee, di accusare un autore di aver falsificato i dati o di esserseli inventati di sana pianta senza prove precise. Per cui, anche un articolo sospetto può essere pubblicato senza grossi problemi. Forse poi qualcuno andrà a verificarne la correttezza rifacendo le misure, ma è una cosa rara.  

Quindi non mi sono stupito quando uno degli epidemiologi più famosi al mondo, John Ioannidis, ha pubblicato un articolo con il titolo "perché la maggior parte dei risultati pubblicati sulle riviste scientifiche sono falsi." Secondo Ioannidis, un buon 50% degli articoli pubblicati mostrano segni di manipolazione dei dati, hanno difetti di impostazione, o le loro conclusioni non sono riproducibili. Altri hanno valutato una percentuale minore di falsificazioni e il dato si riferisce più che altro alla ricerca in campo medico. Ma, comunque sia, quando leggete un articolo scientifico, c'è una probabilità significativa che gli autori vi stiano imbrogliando. 

Ma perché gli scienziati imbrogliano? Per tante ragioni: prestigio, carriera, soldi, e -- certe volte -- pura incompetenza. Alle volte anche per disperazione, quando la scelta per un giovane ricercatore è fra tirar fuori "qualcosa di pubblicabile" e il licenziamento. In ogni caso, pensate al conflitto di interesse che appare automaticamente quando uno scienziato accetta di essere pagato da una ditta farmaceutica per testare l'efficacia di uno dei loro farmaci. Come minimo, sono decine di milioni di euro in ballo che dipendono dai risultati del test. Vi stupireste se lo scienziato è tentato di dare un "aggiustatina" ai dati per far sembrare il farmaco più efficace di quanto non sia in realtà? Oppure che sia tentato di non controllare bene un set di dati troppo belli per essere veri? Oppure che faccia capire ai suoi sottoposti che si aspetta che venga fuori un certo risultato e non un altro?

Tornando a Burioni, nel suo tweet lui sta semplicemente cercando di giustificare qualcuna delle sue affermazioni avventate (per non dir di peggio) espresse durante la pandemia, dicendo "non è colpa mia, io mi fidavo di quello che leggevo sulla letteratura scientifica." Ma si sta dando la proverbiale zappata sui piedi. 

In primo luogo perché arriva soltanto ora a dirci che i risultati scientifici vanno presi con un certo scetticismo, mentre prima ci presentava "La Scienza," ovvero le sue (di Burioni) affermazioni, come incontrovertibili. In secondo luogo perché si auto-accusa di non essere in grado di valutare criticamente quello che legge. Invece, un vero professionista di solito è in grado di "fiutare" un imbroglio quando lo vede. Dovrebbe perlomeno evitare di descrivere certe cose sospette come vere finché non ci sono prove indipendenti a sostegno. A meno che non ci sia un conflitto di interesse, ovviamente. 

E così è andata. La scienza sta percorrendo la sua spirale di declino diventando sempre di più una struttura auto-referenziale che produce più che altro cartaccia inutile, quando non dannosa o addirittura letale. Prima o poi, i decisori e il pubblico dovranno anche accorgersi che li stanno imbrogliando, ma ancora ci vorrà un po' di tempo. A quel punto, ci vorrà una riforma radicale che mandi a casa gli imbroglioni, i profittatori, e gli incompetenti della scienza. Con il rischio di prendersela con quelli, e ce ne sono ancora tanti, che cercano di fare del loro meglio per essere scienziati onesti. Li si trovano specialmente in campi dove non girano tanti soldi, come l'astronomia, lo studio degli ecosistemi, e altri. Ma, anche lì, la corruzione avanza.  

Nel frattempo, fatevi due risate (amare) con Birbo Luddynski. Come dicevo prima, è un po' esagerato nella sua critica, ma nel complesso ha ragione. 




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La scienza è una montagna di merda!





di “Birbo Luddynski”

Premessa

La Scienza non è il metodo scientifico. La “Scienza” – maiuscolo tra virgolette – è oggi una istituzione, apolide e transnazionale, che si è appropriata fraudolentemente del metodo scientifico, ne ha fatto il suo monopolio esclusivo, e di questo si serve per taglieggiare la società – in proprio o per conto terzi – dopo essersi autoproclamata novella Chiesa della Certificazione del Vero [1].

Un elettricista che cerca di individuare un guasto o un cuoco che mira a perfezionare una ricetta, stanno applicando il metodo scientifico, senza neanche sapere cosa sia, e funziona! Ha sempre funzionato da migliaia di anni, prima cioè che qualcuno ne codificasse l’algoritmo, e continuerà a farlo, nonostante i moderni inquisitori.

Chi scrive non è un erudito, non cita fonti per convinzione ideologica, ma ha imparato in tenera età come si scrive “epistemologia”. Ha poi sguazzato per anni nei liquami dell’associazione a delinquere di cui sopra, fino a quando, senza esser riuscito ad assuefarsi al mefitico fetore, non ha trovato una onorevole via d’uscita. Popper, Kuhn, Feyerabend, sono stati tutti pensatori che avevano compreso appieno la perversione di certi meccanismi istituzionali, ma che non avrebbero neanche potuto immaginare che il marciume avrebbe dilagato in modo così incontrollato e tirannico nella società, fino al punto che uno scienziato possa raggiungere il potere di impedirti di uscire di casa, o di possedere un’automobile, o di importi di mangiare i vermi. A parte TK, lui aveva capito tutto, ma questo è un altro discorso.

In questo scritto non si parlerà del ruolo che ha la scienza nella società contemporanea, del suo progressivo divenire culto, del progressivo erodere degli spazi di libertà e di partecipazione civile in suo nome. Non si parlerà del rapporto coi media, e del potere che hanno i questi di far passare gli sproloqui di un mediocre professore borioso per verità acclarate. Non si parlerà quindi delle massime cariche dello stato che dichiarano guerra all’antiscienza, che dichiarano vittorie a plebisciti mai indetti, dove la gente viene portata alle urne a ricatti e bastonate.

Non si parlerà di come la “vera scienza” – ossia quella che afferisce al rispetto del metodo scientifico – sia violentata dal virologo internazionale e dai CTS del mondo, che prendono decisioni incoerenti, letteralmente a cazzo di cane, e pretendono che chiunque si adegui senza dubitare.

Non si parlerà neanche della tendenza a intavolare sterili dibattiti internettiani a partire dall’articolo che ci dà ragione sulla rivistona Lancette o Brianza Medical Journal, o Manure. Né della ovvia tendenza a fare raccolta ciliegie da parte del deboonker del momento. “Eh ma il professor Giannetti di Fortestano è un noto cialtrone, lol”. I perculatori d’ufficio dell’ipse dixit sono oggi dei meticolosi applicatori di una rigorosa gerarchia delle fonti e delle opinioni, basate su improbabili quanto rigorosi ranking di prestigio qualitativi, o peggio altrettanto improbabili quanto arbitrari indici bibliometrici quantitativi.

Qui troverete raccontato il motivo per cui la scienza non è ciò che dice di essere, e proprio per questo motivo ha assunto tale ruolo nella società.

Tutto quello che trovaterete qui scritto è ampiamente risaputo e documentato in libri, longform, articoli su settimanali divulgativi e persino articoli su riviste peer-reviewed (LOL). Googlate “publish or perish”, “reproducibility crisis”, “p-hacking”, “publication bias”, e decine di altri termini correlati. Io di fonti non ne fornisco, perché come ho detto è contrario alla mia ideologia. Il valore aggiunto di quanto vado a scrivere è una descrizione immediata, sicuramente partigiana e senza censure, dei meccanismi osceni che pervadono tutto il mondo scientifico, dal reclutamento degli studenti di PhD alle pubblicazioni.

Non c’è inoltre nessuna “vera scienza” da salvare, in contrapposizione a “lascienza”. La tesi di questo scritto è che la scienza è strutturalmente corrotta, e che i conflitti di interesse che la attanagliano sono così profondi e pervasivi, che solo una radicale ricostruzione – dopo la sua demolizione – dell’istituzione universitaria può salvare la credibilità di una ristretta cerchia di studiosi, quelli che cercano faticosamente, onestamente e umilmente, di aggiungere tasselli alla conoscenza del Creato.


Lo scienziato e la sua carriera

Per “scienziato” oggi si intende un ricercatore, impiegato a vario titolo presso università, centri di ricerca pubblici o privati, think tanks. Quella dello scienziato è una carriera completamente diversa da quella di ciascun lavoratore, e ricorda quella del cursus honorum della classe senatoria romana. Il cursus honorem della soia. Il CV di uno scienziato è diverso da quello di tutti gli altri lavoratori. Tra parentesi, la cosa più difficile per uno scienziato è compilare un CV intellegibile al mondo reale, qualora volesse tornare a guadagnarsi da divere onestamente fra i comuni mortali. Provate a fare un Europass dopo sei anni di post-doc LOL.

Lo scienziato è uno studente modello, nel corso di tutta la carriera scolastica prima e universitaria poi. Studente modello significa disciplinato, con voti negli ultimi percentili dei test standardizzati, e anche buone capacità relazionali. Riesce a farsi notare durante gli ultimi anni dell’università (cosiddetta “undergraduate”, che però stranamente in Italia è la magistrale o specialistica o come cazzo si chiama oggi), fino a trovare la raccomandazione (letteralmente) da parte di un professore per iscriversi a un programma di PhD, o dottorato, come si chiama fuori dall’Anglosfera. Il PhD è un programma universitario elitario, lungo dai tre ai sei anni a seconda del paese e della disciplina, dove viene addestrato a fare “lo scienziato”.

Durante il PhD nei primi anni segue corsi di altissimo livello tecnico, tenuti dai migliori professori del suo dipartimento, ai quali si affianca una prima fase di avviamento alla ricerca, sotto forma di “research assistant”, o RA. Questa fase, che sancisce il passaggio dalla “conoscenza consolidata” dei libri di testo alla “frontiera della ricerca scientifica”, avviene esplicitamente sotto la guida di un professore-mentore, che con buona probabilità seguirà lo studente dottorando durante la rimanente parte del corso di dottorato, e quasi sempre nel corso di tutta la carriera. L’agoghé della soia. Non tutti i dottorandi verranno ovviamente accoppiati a un mentore “vincente”, ma solo quelli più determinati, ambiziosi, e che mostrano vivacità nei corsi.

Nel corso di questa fase di RA, lo studente viene svezzato a quelle che sono le vere pratiche della ricerca scientifica. È una fase davvero cruciale, è il momento in cui lo studente passa dagli ideali romantico-prometeico-faustiani della scoperta del Vero, alle nottate passate a smanettare con dati che non hanno senso, fra errori nel codice e un generale sbigottimento di fronte al senso smarrito. Perché sto facendo tutto questo, perché devo trovare proprio QUEL risultato? Non è contrario a tutti gli schemini razionalisti che condividevo su facebook due anni fa, quando prendevo per il culo il terrapiattista di turno? Come sarebbe a dire che se la stima non supporta l’ipotesi allora devo cambiare la specificazione del modello? È a questo punto che in genere pone al mentore delle timide domande dal vago sapore “epistemologico”, che in genere vengono evase con supercazzole positiviste sulla scienza che prosegue per errori, o con un discorso che suona più o meno così: “Ti succederà di non capire. Ci sono due modi di non capire: non capire aspettando di capire, o non capire rompendo i coglioni. Scegli tu. A ottobre ti finisce la borsa.”

I più puri a questo punto cadono in depressione, dalla quale usciranno trovandosi un lavoro onesto, con o senza pezzo di carta. Gli arrivisti, gli psicopatici e gli ingenui Fachidioten andranno invece avanti come treni, inarrestabili nella loro sfolgorante carriera votata al prestigio.

Dopo la prima fase di RA, durante la quale contribuisce alle pubblicazioni del mentore – con o senza menzione tra gli autori – passa alla fase successiva, più matura, fatta di costruzione di una propria pipeline di ricerca, collaborazione da coautore con il mentore e i suoi altri coautori, partecipazione a conferenze, tessitura di una rete relazionale con altre università. Al coronamento di questa fase c’è il conseguimento del titolo di PhD, che però a questo punto non è niente altro che una formalità, dal momento che i conseguimenti del dottorando parlano da soli. La “dissertazione”, o “difesa” infatti non sarà altro che un seminario dove lo studente presenta il suo lavoro di maggior rilievo, già pubblicabile.

Ma ora lo studente è già lanciato: a seconda della disciplina e della fortuna, avrà già firmato un contratto da “assistant professor” in “tenure track”, o da “post-doc”. La sua carriera futura sarà quindi determinata esclusivamente dalla sua abilità nello scegliere i cavalli giusti, ossia i progetti di ricerca sui quali puntare. È infatti entrato nel mondo infernale del “publish or perish”, nel quale la sua probabilità di essere confermato “a vita“ dipende esclusivamente dal numero di articoli che riesce a pubblicare su riviste peer-reviewed “buone”. In molte scienze dure il limbo dei post-doc, durante i quali lo scienziato si sposta di contratto in contratto come un monaco errante, nell’impossibilità di vivere relazioni stabili, può durare anche dieci anni. La “tenure track”, ossia il periodo dopo il quale possono decidere se confermarti o meno, dura più o meno sei anni. Un ricercatore che riesce a diventare strutturato stabile in una università prima dei 35-38 anni anni può ritenersi fortunato. E questa non è affatto una peculiarità del sistema italiano.

Dopo l’agognato “posto fisso” da professore, può forse il ricercatore rilassarsi e mettersi a lavorare solo su progetti sensati, di qualità, che richiedono tempo e pazienza e che potrebbero anche non portare da nessuna parte? Può lavorare su progetti che possono anche sfidare il famoso consensus? Ha tempo di studiare per poter recuperare un po’ di visione di insieme? Sebbene l’istituto della “tenure”, cioè il posto fisso da professore, sia stato pensato proprio per questo, la risposta è no. Qualcuno lo fa anche, conscio di finire emarginato e ignorato dai suoi pari, nel dipartimento e fuori. Based, ma finisce nell’ultima stanza in fondo vicino al cesso, non vede una lira di fondi di ricerca, non lo invitano alle conferenze, e gli appioppano i dottorandi più sfigati per fare ricerca. Se simpatico viene trattato da zio eccentrico e preso bonariamente in giro, se antipatico viene prima odiato e poi ignorato.

Ma in generale, se sei sopravvissuto a dieci anni di publish or perish – e non tutti ci riescono – è perché ti piace farlo. Quindi continuerai a farlo, anche perché i premi sono ambiti. Aumenti di stipendio, named chairs, posto da editor delle riviste, fondi di ricerca, consulenze, inviti alle conferenze, grants milionari in qualità di principal investigator, interviste ai giornali e in televisione. Letteralmente soldi e prestigio. La corsa alle pubblicazioni non finisce, anzi a questo punto diventa sempre più spietata. E lo scienziato, ora di fatto un manager della ricerca, con decine di dottorandi e post-doc a disposizione come forza lavoro, perderà sempre più contatto con la materia della ricerca per interessarsi di politica accademica, soldi e pubbliche relazioni. Sarà il dottorando ora a “sbagliare” il codice al posto suo, fino a trovare il risultato sperato. Non dovrà neanche chiederglielo esplicitamente, nella maggior parte dei casi. Tanto comunque nessuno si accorge quasi mai di niente, perché a nessuno frega niente. Ma come, e il peer review?

Il peer-review

Migliaia di pagine sono state scritte su questo istituto, sui pregi, sui difetti, su come migliorarlo. È stato ridicolizzato e trollato a sangue, ma la conclusione recitata dagli alfieri della scienza è sempre la medesima: è il sistema migliore che abbiamo e ce lo dobbiamo tenere. Il che è in parte vero, ma la sua supposta aura di infallibilità è la principale responsabile dello stato penoso nel quale versa l’accademia. Vediamo come funziona.

Il nostro ricercatore Anon ha il suo bel Pdf scritto in Latex intitolato “The Antani Problem: is it Quintana or Setta?” (citazione boomer), e lo sottomette al Journal of Liquid Bullshit tramite la sua piattaforma web. Il Chief editor del JoLB prende il pdf, dà una occhiata veloce, e decide a quale associate editor smistarlo, in base all’argomento. L’editor prescelto dà un’altra occhiata veloce e decide se 1) mandare una breve lettera dove dice ad Anon che il suo lavoro è sicuramente bello e interessante ma unfortunately it is not a good fit for the Journal of Liquid Bullshit, I reccomend similar outlets such as Journal of Bovine Diarrhea, or Liquid Bovine Stool Review oppure 2) inviarlo ai referee. Ma fermiamoci un attimo.

Cos’è il Journal of Liquid Bullshit?

Il Journal of Liquid Bullshit è un “field journal” nell’ambito della disciplina generale “Bullshit” (Medicina, Fisica, Statistica, Scienze Politiche, Economia, Psicologia, etc), che si occupa del campo più specialistico Liquid Bullshit (Virologia, Astrofisica, Machine Learning, Regime Change, Labour Economics, etc). Non è una rivista gloriosa come Science o Nature, e non è una rivista prestigiosa nella disciplina (Lancet, JASA, AER, etc). Ma è una buona rivista, sulla quale pubblicano comunque regolarmente nomi importanti nel campo della merda liquida. Al contrario di quelle più prestigiose, legate in genere ad enti specifici o a editrici universitarie, la maggior parte di queste riviste è pubblicata (online, si intende) da editrici for profit, che campano vendendo a caro prezzo pacchetti di abbonamenti alle università.

Chi è il Chief editor? L’editor è una personalità di spicco nel campo del Liquid Bullshit. Sicuramente un Full Professor, minimo 55 anni, decine di pubblicazioni di rilievo, citatissimo, è stato keynote speaker in svariate conferenze annuali dell’American Association of Liquid Bovine Stools. Durante le conferenze ha costantemente un capannello di gente intorno.

Chi sono gli Associate editors?

Sono professori associati o full, con numerose pubblicazioni, anche se relativamente giovani. Ben connessi, ben lanciati. Il compito dell’associate editor è quello di gestire il manoscritto in tutte le sue fasi, dalla scelta dei referee alle decisioni circa le revisioni. L’AE è chi ha tutto il potere sul paper, non solo ovviamente per la decisione finale, ma anche per la scelta dei referee.

Chi sono i referee

I referee sono degli accademici, contattati formalmente dall’AE per valutare il paper e scrivere una breve relazione. Separatamente, inviano anche una raccomandazione privata all’AE sul destino del paper: accettazione, revisione, o rigetto. Il lavoro dei referee non è pagato, è tempo sottratto alla ricerca o molto spesso al tempo libero. Il referee riceve solo il paper, non ha alcun modo di valutare i dati o i codici, a meno che (cosa rarissima) gli autori non li mettano a disposizione sulle loro pagine web personali prima della pubblicazione. Difficile in ogni caso che il referee si metta a perdere tempo a smanettare. La valutazione richiesta al referee infatti è solo di natura metodologico-qualitativa, e non di merito. La valutazione “di merito” infatti spetterebbe alla “comunità scientifica”, che replicando il lavoro degli autori, sotto le stesse o altre condizioni sperimentali, ne giudicheranno la validità. Anche un bambino capirebbe che c’è un conflitto di interessi grande come una casa. Il referee infatti può attivamente sabotare il paper, e l’autore può tranquillamente sabotare i referee quando sarà il loro turno a giudicare. Infatti, quando i paper si scrivevano a macchina e viaggiavano per posta, il sistema usato era quello della review in “doppio cieco”. Dal manoscritto si toglieva il frontespizio: il referee non sapeva chi stava giudicando, e l’autore non sapeva chi fosse il referee. Da quando esiste internet, tuttavia, gli autori hanno trovato sempre più conveniente pubblicizzare i loro lavori in formato “workings paper”. Ci sono molte ragioni per farlo e non mi dilungo, ma la cosa è ormai talmente diffusa che ai referee basta una brevissima ricerca su google per trovare il working paper, e con esso i nomi degli autori. Ormai sempre più riviste hanno rinunciato a far finta di credere alla revisione in doppio cieco, e inviano ai referees il pdf completo di frontespizio. I referees non sono più quindi degli anonimi arbitri, soprattutto perché hanno dei forti conflitti di interesse. Ad esempio al referee può capitare tra le mani il paper di un suo amico o collega, o di uno sconosciuto che dà ragione – o torto – alla sua ricerca. Un referee può anche “rivelarsi” anni dopo all’autore, ad esempio davanti a un bicchiere, durante gli eventi alcolici nel corso di una conferenza, ovviamente in caso di report favorevole. Sai, sono stato referee del tuo paper al journal X. Può far comodo, se c’è una certa confidenza. Non dimentichiamo infatti che i referee è gente che a sua volta sta cercando di pubblicare i loro articoli su altri giornali, o addirittura gli stessi. E non tutti i referee sono uguali. Un “buon” referee è merce rara per un editor. Il buon referee è quello che risponde in tempo, e scrive report prevedibili. Ho conosciuto professori affermati che si vantavano di ricevere decine di paper al mese da referare “perché sanno che glieli rigetto tutti subito”.

Come funziona quindi questo processo di peer review?

Non dobbiamo immaginarci gli editor come gente avulsa dal mondo, ma con le mani estremamente in pasta. Un editor infatti ha un potere enorme, e non si diventa editor se non si dimostra di bramare a questo potere, oltre ad esserselo meritato, secondo le logiche perverse del cartello. Il potere enorme dell’editor consiste nell’influenzare la sorte di un paper in tutte le fasi della revisione. Può scegliere referee favorevoli o sfavorevoli a un paper: le faide scientifiche e i loro partecipanti sono note, e sono soprattutto note agli editors. Può anche schierarsi con il referee di minoranza e chiedere una revisione (o il rigetto).

Ogni ricercatore di alto livello sa quali sono gli editors amici, e sa quali possono essere i potenziali referee nemici più pericolosi. Gli articoli vengono spesso calibrati, cercando di leccare il culo all’editor o ai referee potenziali, strizzando l’occhio alle loro agende di ricerca. È in questo contesto infatti che si sviluppa il mercato delle vacche delle citazioni: se ho paura del referee Tizio, ne citerò più lavori possibili. Oppure altra strategia (valida per giornali minori e lavori di nicchia) è ignorarlo completamente, altrimenti l’editor neutrale potrebbe sceglierlo come referee semplicemente scorrendo la bibliografia. Molti referee inoltre, in fase di revisione, fanno di tutto per pompare le loro citazioni sostanzialmente spingendo gli autori a citare i loro lavori, anche se poco pertinenti. Ma questo accade su riviste minori. [2]

La cosa più rilevante da comprendere della natura del peer review, è come sia un processo a cui partecipano soggetti consapevolmente e strutturalmente in conflitto di interessi. La cosa divertente è che questo stesso sistema è anche usato per allocare i fondi di ricerca pubblici, come vedremo.

Il fatto che ogni tanto qualche articolo “scomodo” riesca a bucare il muro del peer review non deve ovviamente ingannare: il processo, seppur ben guidato, rimane ancora in parte casuale. Un referee può raccomandare l’accettazione inaspettatamente, e l’editor può farci ben poco. In ogni caso poco male: un articolo scomodo ogni tanto non contribuirà mai alla crazione del consensus, quello che fa comodo agli apparati finanziatori ultimi, e anzi dà all’osservatore esterno l’illusione che ci sia un dibattito franco.

Ma quindi si può davvero truccare i risultati di una ricerca e farla franca?

Generalmente sì, anche perché si bara a vari livelli, generalmente lasciandosi dietro vari schermi di plausible deniability, ossia espedienti che ti permettono di dire che ti sei sbagliato, che non lo sapevi, che non l’hai fatto apposta, che è stato il dottorando, che il cane ti ha mangiato i dati grezzi. Certo, nel raro caso che si venga scoperti non ci fai una bella figura, e il paper generalmente finirà “retracted”. Un discreto marchio di infamia sulla carriera di un ricercatore, che se però riesce a nascondere le prove della sua malafede conserverà comunque la cattedra, e tra qualche anno tutti si saranno dimenticati. Dopotutto son cose che fanno tutti: peccato, pietre, eccetera.

Ogni tanto, sempre più di frequente, capita qualche retraction grossa, dove si scopre che i dati di qualche lavoro ben pubblicato erano completamente inventati, e che i risultati erano troppo belli per essere veri. Questo accade quando qualche giovane emergente psicopatico esagera, e attira troppo l’attenzione su di sé. Questi casi estremi di frode totale sono sicuramente più numerosi di quelli scoperti, ma come detto non serve inventarsi i dati per trovare un risultato pubblicabile, basta pagare una scimmia che provi tutti i modelli possibili su tutti i sottoinsiemi possibili. La giustificazione a posteriori del perché hai escluso il sottoinsieme B si trova sempre. Volendo puoi anche ometterla, tanto se non hai pestato i piedi a nessuno è escluso che qualcuno si metta a fare le pulci al tuo lavoro. Addirittura nelle scienze sperimentali può capitare che nessuno sia riuscito a replicare gli esperimenti di paper importantissimi, e ci hanno messo quindici anni a scoprire che forse si erano inventati tutto. Andatevi a cercare su google “alzheimer scandal” LOL! Non c’è nessun incentivo reale nell’accademia a scoprire articoli farlocchi, se non letteralmente vantarsene su twitter.

I fondi per la ricerca


Per fare ricerca servono soldi. Non ci sono solo le attrezzature dei laboratori, che non sono comunque necessari in numerose discipline. C’è anche e soprattutto la forza lavoro. I laboratori e in generale la ricerca è infatti mandata avanti da gente sottopagata, cioè dottorandi e post-doc (in italia noti come “assegnisti”). Ma non solo, ci sono anche spese per software, acquisto dataset, viaggi per conferenze, seminari e workshop da organizzare, con gente da invitare e a cui pagare viaggio, albergo e cena in ristorante decente. Considerate l’importante lato PR di questo aspetto: invitare un professore importante, magari un editor, per una vacanzetta di due giorni e farselo “amico” può sempre tornare utile.

Oltre a tutto questo, c’è da considerare che in genere le università trattengono una quota dei grants vinti da ogni professore, e con questa quota ci fanno varie cose. Se il professore sfigato che non vince i grants deve cambiare la sedia, o il computer, o vuole andare a presentare a una conferenza sfigata dove non è invitato, dovrà andare col cappello in mano dal direttore di dipartimento a chiedere i soldi, che in buona parte proverranno dai grants vinti dagli altri. Non so come funzioni in Italia, ma nel resto del mondo è certamente così. Questo significa ovviamente che un professore che vince grants avrà più potere e prestigio in seno al dipartimento di uno che non li vince.

In breve, vincere fondi è un obiettivo fondamentale per ogni ricercatore ambizioso. Non vincere grants, anche per un professore con la tenure, implica diventare una sorta di reietto. A non vincere grants è quello strano, coi capelli arruffati, che ha l’ufficio in fondo al corridoio vicino al cesso. Ma come si vincono i grants?

I grants vengono dati da appositi enti – pubblici o privati – per l’erogazione di fondi alla ricerca, che pubblicano dei bandi, periodici o speciali. Il professore, o gruppo di ricerca, scrive un progetto di ricerca, nel quale dice cosa vuole fare, perché è importante, come intende farlo, con quali risorse e quanti soldi gli servono. La commissione a questo punto nomina dei referees “anonimi” esperti nel campo, che fanno la peer review sul progetto. Non ci vuole poco a capire che se sei un esperto nel campo, sai benissimo chi andrai a valutare. Se avete letto fino a qua, saprete anche benissimo che i referees hanno un gigantesco conflitto di interessi. Basta infatti una supercazzola per affossare il progetto della banda rivale, o favorire l’amico con il quale condividi la stessa agenda di ricerca, mentre nessuno avrà il coraggio di affossare il progetto del raìs del campo. La commissione infine valuterà il profilo accademico del richiedente, ovviamente contando il numero e il prestigio delle pubblicazioni, nonché il totemico H-index.

Abbiamo quindi un sistema dove pubblica chi ottiene i grants, e ottiene i grants chi pubblica. Il tutto governato da un inestricabile intreccio di conflitti di interesse, dove a risultare vincenti sono le connessioni informali – e in ultima istanza interessate – del singolo ricercatore. Connessioni informali che, ricordiamolo partono dal dottorato. Quello che è presentato come un sistema asettico, oggettivo e informale di valutazione meritocratica, assomiglia nella migliore delle ipotesi al sistema per assegnare l’appalto del rifacimento del parcheggio dei bus di un paesino dell’agro Pontino negli anni Ottanta.

L’agenda di ricerca

L’abbiamo nominata varie volte, ma cos’è davvero una agenda di ricerca? Sinteticamente possiamo dire che l’agenda di ricerca è un filone di ricerca in un certo sotto-campo di una sotto-disciplina, legato ad una ipotesi di partenza, e/o a una particolare metodologia. Questa ipotesi di partenza tenderà sempre a trovare conferma da chi porta avanti l’agenda. La metodologia invece verrà sempre presentata come risolutiva, e di gran lunga superiore alle alternative. Agenda di ricerca, per continuare con l’esempio di prima, potrebbe essere il rapporto fra colore e peso specifico degli escrementi bovini e produzione di latte. Oppure metodi non-parametrici per stimare la produzione di escrementi data la composizione della dieta.

Attorno all’agenda di ricerca vengono costruite o bloccate le carriere: un ricercatore con agenda “hot”, magari in un campo relativamente nuovo, avrà molte più probabilità di pubblicare bene, e quindi di prendere grants, e quindi di pubblicare bene. In genere si viene lanciati sull’agenda hot durante il dottorato, se l’advisor ti consiglia bene. Ad esempio può darsi che l’advisor abbia in mente un filone, ma non gli va di mettersi a imparare una nuova metodologia a 50 anni, quindi manda avanti il giovane coautore. Spesso quindi il prof cinquantenne, ormai “full professor”, si trova a diventare fra i leader di un filone di ricerca “d’avanguardia” senza averne mai davvero padroneggiato le metodologie e le tecnicalità, limitandosi dunque al lato manageriale e di marketing della questione.

Come già spiegato, intorno alle agende si formano delle vere e proprie bande, che agiscono per monopolizzare il dibattito sull’argomento, dando vita a un vero e proprio pseudo-dibattito controllato. Gli articoli “seminali” dei boss non si potranno mai demolire totalmente, semmai arricchire, espandere. Si potranno esplorare le questioni da un altro punto di vista, sotto altre dimensioni, utilizzare nuove tecniche di analisi, altri dati, che porteranno a conclusioni sempre via via diverse. La cosa chiave è che nessuno dirà mai “scusate raga ma qui stiamo perdendo tempo”. L’unico tempo perso nell’accademia è quello che non porta a pubblicazioni e quindi a grants.

Ma quindi chi detta l’agenda? La dettano – direttamente – i big players della ricerca, ossia i professori al top della carriera a livello internazionale, editors delle riviste più prestigiose. Indirettamente la dettano quindi i finanziatori ultimi della ricerca, diretti e indiretti: multinazionali e governi, sia direttamente che indirettamente, tramite l’azione delle lobby e dei vari potentati internazionali.

Il grosso equivoco alla base della scienza, e quindi della giustificazione del suo finanziamento di fronte all’opinione pubblica, è che questo incessante e caotico “ricercare per pubblicare” riesca comunque ad aggiungere tasselli alla Conoscenza. Ciò è largamente falso.

Infatti, le agende di ricerca non si parlano mai tra loro, e soprattutto non sembrano mai giungere ad una conclusione. Dopo anni di pseudodibattito l’agenda sarà stata talmente “arricchita” da centinaia di articoli pubblicati, che provare a dargli un senso sarebbe un lavoro duro e ingrato. Ingrato perché di fare questo lavoro non interessa a nessuno. Fondi sono stati spesi, e cattedre sono state prese. Il filone infatti prima o poi si secca: l’argomento smette di essere di moda, quindi di essere appetibile per le riviste top, passa via via su riviste minori, i dottorandi nuovi smetteranno di interessarsene, e se i leader del filone tengono alla carriera, passeranno ad altro. E ricomincia la giostra.

Le domande fondamentali poste all’inizio dell’agenda non avranno trovato risposte soddisfacenti, e le problematiche concettuali e metodologiche sollevate nel corso dello pseudo-dibattito accademico non saranno certamente state risolte. Un osservatore esterno che dovesse studiare tutta la letteratura di un filone di ricerca non potrà fare a meno di notare che i risultati “da portare a casa” sono ben pochi. Fra risultati inconcludenti, metodologie errate o applicate erroneamente, il contributo netto portato alla conoscenza è quasi sempre zero, e la risposta qualitativa, o “di buon senso”, rimane sempre la migliore.

Conclusioni

Abbiamo fin qui descritto lo scientificio. Il suo funzionamento, gli attori in esso coinvolti e il loro reclutamento. Abbiamo descritto come il conflitto di interessi – e la corruzione morale e sostanziale – governino ogni aspetto della professione accademica, che non è quindi in grado, nel suo complesso, di offrire alcun punto di vista oggettivo e imparziale, su nulla.

Il prodotto della scienza è una gigantesca montagna di merda: risposte sbagliate, incomplete, platealmente false e/o irrilevanti. Risposte a domande che nella maggior parte dei casi nessuno sano di mente avrebbe voluto porre. Una montagna di merda dove nessuno, fra quelli che vi sguazzano, sa un cazzo. Nessuno capisce un cazzo, e a domande malposte vengono date dietro pagamento risposte pilotate. Una montagna di merda dentro la quale mani febbrili cercano – e trovano – la giustificazione mistico-religiosa del potere, dell’arbitrio e della tirannide contemporanea.

Certo, ci sono le eccezioni. Certo, ci sta il prof. che è passato attraverso le maglie del sistema, e ora grazie alla posizione ha una piattaforma per dire qualcosa di interessante. Ma è una voce isolata, ridicolizzata, utilizzata per aizzare i consueti due minuti d’odio televisivi o social. Non c’è nessun bambino da salvare nell’acqua sporca. Il bambino è morto. Affogato nei liquami.

Il “dibattito accademico” è ormai un processo totalmente autoreferenziale, che non porta ad alcun risultato quantitativo (o qualitativo) tangibile. L’intera ricerca accademica non è altro che un gigantesco schema Ponzi per aumentare le citazioni, che servono a ottenere grants e pompare l’ego e il conto in banca – ma soprattutto l’ego – di carrieristi di professione.

La scienza come istituzione è un elefantiaco apparato ipertrofico, corrotto fino al midollo, la cui unica funzione – oltre a riprodurre incestuosamente sé stesso – è fornire la legittimazione del potere. Sicuramente un tempo era in grado di fornire anche la base della conoscenza tecnica necessaria alla riproduzione e al mantenimento del potere stesso. Oggi non più, la produzione inarrestabile della montagna di merda lo rende impossibile. Al più riesce a selezionare, nominalmente ed assegnando semplicemente un gettone di presenza attraverso le scuole più d’élite, i rampolli della nuova classe dirigente.

Quando qualcuno vi magnifica l’ultimo ritrovato della scienza, l’unica risposta possibile che si può dare è “non compro niente, grazie”. Se qualcuno vi dice che sta agendo “secondo scienza”, scappate.

[1] A consigliare Galilei di parlare di “ipotesi” fu Bellarmino. Per tutta risposta Galilei pubblicò il ridicolo “dialogo”, dove l’evidenza portata a sostegno delle sue affermazioni sull’eliocentrismo non era altro che una congettura, completamente sbagliata e senza alcun fondamento empirico. La posizione del Santo Uffizio fu letteralmente “dì quello che ti pare basta che non la spacci per Verità”. Galilei si è vendicato: ora dicono quello che gli pare e la spacciano per verità. Fonti? Cercatevele. 

[2] Paradossalmente, nella fascia medio-bassa dei giornali, dove la competizione dei tagliagole è minima, si può trovare ancora qualche raro esempio di peer review fatto bene. Ad esempio una volta mi fu richiesto di referare un paper per un giornale minore, con il quale non avevo mai avuto nulla a che fare e del quale non conoscevo l’editor neanche indirettamente. Paper inviato senza frontespizio quindi anonimo, e stranamente non trovai il working paper online. Era oggettivamente una porcheria, e raccomandai il rigetto.


giovedì 16 marzo 2023

Continua la campagna di propaganda contro i veicoli elettrici: ma è vero che emettono più particolato di quelli tradizionali?

 


Chi ha ucciso la EV1, una delle prime auto elettriche moderne? La risposta è ovvia: la propaganda. E ora ci stanno provando di nuovo denigrando l'ultima generazione di veicoli elettrici. 


Gira in rete una nuova storiella: le emissioni di particolato delle auto elettriche sarebbero superiori a quelli dei veicoli convenzionali. Ce la stanno veramente mettendo tutta per denigrare le auto elettriche ma, semplicemente, questa storia non è vera.
 
In questo caso, la storia si basa su un articolo del 2016, a sua volta basato su dati del 2009. Già si tratta di dati vecchi e obsoleti, ma il problema è che i dati a supporto della tesi dell'articolo NON sono vere misure del particolato emesso, ma solo stime basate sul peso dei veicoli. Siccome i veicoli elettrici sono leggermente più pesanti dei veicoli convenzionali, a parità di altre caratteristiche, ne consegue, secondo l'articolo, che emettono più particolato come risultato non della combustione, ma della frizione dei pneumatici con la strada, usura dei ferodi dei freni, e cose del genere. 

Ma le considerazioni dell'articolo non tengono conto, per esempio, della capacità dei veicoli elettrici di recuperare energia in frenata, e quindi di usare i freni meno di quelli convenzionali. Per non parlare di pneumatici e ferodi speciali per ridurre le emissioni di particolato, che sono abbastanza comuni nelle auto elettriche, dove si tende a usarli per risparmiare energia e aumentare l'autonomia. E, infine, non tengono conto del "particolato secondario," ovvero particolato che viene generato dalle emissioni della combustione -- un tipo di particolato che non esiste nel caso dei veicoli elettrici.
Recentemente sono state fatte delle vere misure sperimentali -- le trovate qui. E, come ci si poteva aspettare, il risultato è che le auto elettriche emettono MENO particolato di quelle convenzionali. La conclusione dell'articolo è (PM= particolato, EF= Fattore di Emissione, EV=veicolo elettrico, ICEV= veicolo con motore a combustione interna:)

Il nostro studio ha dimostrato che l'EF totale di PM dei veicoli elettrici è significativamente inferiore a quello dei veicoli a benzina e dei diesel, quando nella determinazione è stato incluso il PM dei gas di scarico secondari. Pertanto, la sostituzione dei veicoli industriali con veicoli elettrici può migliorare la qualità dell'aria e ridurre l'impatto negativo del PM sulla salute umana.

E' vero, tuttavia, che i veicoli dell'attuale generazione, elettrici o no, sono troppo pesanti. Abbiamo bisogno di veicoli leggeri che consumino meno risorse, siano meno inquinanti, e più sicuri. Vale per tutti i tipi di veicoli.

Quello di cui abbiamo veramente bisogno, in ogni caso, è che la gente la smetta di bersi tutte le storie assurde che gli raccontano.


martedì 14 marzo 2023

Niente Foreste, Niente Pioggia. Un recente studio lo dimostra

  


L'idea che le foreste creino pioggia è nota ai contadini da centinaia, forse migliaia, di anni. I primi studi scientifici risalgono ad Alexander von Humboldt (1769-1859), ma l'argomento rimane controverso. Tuttavia, stiamo iniziando a comprendere le profonde e complesse interazioni tra l'atmosfera e la biosfera. Esse formano un vero e proprio "olobionte", un sistema di elementi collegati che si influenzano a vicenda in modo non lineare. Un recente lavoro pubblicato da un gruppo di ricerca guidato da Anastassia Makarieva mostra come l'evapotraspirazione, l'evaporazione dell'acqua da parte degli alberi, modifichi la dinamica del vapore acqueo e possa generare regimi ad alto contenuto di umidità che forniscono la pioggia necessaria all'ecosistema terrestre. C'è ancora molto da capire su questi meccanismi, ma un punto è chiaro: le foreste sono un elemento cruciale per la stabilità del clima terrestre, e devono essere preservate il più possibile (U.B.) (dal blog "The Proud Holobionts")


Qui sotto, la traduzione del comunicato stampa a cura degli autori (traduzione cortesia di Mara Baudena)


Traspirazione da parte delle foreste e il ciclo dell'acqua sulla terra. Una relazione non banale

Makarieva, A. M.,  Nefiodov, A. V.,  Nobre, A. D.,  Baudena, M.,  Bardi, U.,  Sheil, D.,  Saleska, S. R.,  Molina, R. D., &  Rammig, A. 

Con la crescente scarsità d’acqua a livello globale e la deforestazione che minaccia molte delle foreste naturali rimaste, è sempre più urgente cercare di capire come le piante influenzino le piogge e più in generale il ciclo dell’acqua. Uno studio internazionale, capeggiato dalla Technical University di Monaco di Baviera (Germania), a cui ha partecipato l’Istituto di Scienze dell'Atmosfera e del Clima del Consiglio nazionale delle ricerche di Torino (Cnr-Isac) e pubblicato su Global Change Biology, rivela che, quando le condizioni atmosferiche sono umide, le foreste contribuiscono attivamente ad aumentare il trasporto di umidità dal mare alla terraferma. Viceversa, date condizioni atmosferiche più secche, la traspirazione delle piante può far diminuire il trasporto di umidità marina sulla terra e quindi le piogge.

Lo studio va molto oltre alle convinzioni tradizionali sul ruolo delle piante nel ciclo dell’acqua. “Abbiamo basato la nostra analisi su un nostro risultato precedente, cioè che l'aumento dell'umidità dell’aria dovuto alla presenza della foresta amazzonica porta a un grande incremento della pioggia” dichiara la Dr. Mara Baudena, ricercatrice del Cnr-Isac e coautore della ricerca. Combinando questa dipendenza con una piena considerazione del bilancio idrico atmosferico, i ricercatori hanno dimostrato che l’aumento delle piogge legato alla presenza delle foreste in condizioni umide, porta a una maggiore importazione di umidità dai mari. “Tali risultati confermano la teoria secondo cui le foreste agiscono come una “pompa biotica”, un cuore pulsante che sposta l’acqua sul pianeta” dichiara la Dr. Anastassia Makarieva (Technical University di Monaco di Baviera), primo autore del lavoro. Continua: “C’è anche una controparte: esistono due regimi per il ciclo dell’acqua, uno secco ed uno umido. In condizioni secche, la traspirazione delle foreste non porta a piogge e anzi va a diminuire il trasporto di umidità dal mare all’entroterra”. Questi risultati sono validi ovunque, dall’Amazzonia all’altopiano desertico del Loess, in Cina.

I risultati dello studio hanno profonde implicazioni, per esempio per la resilienza delle foreste tropicali di fronte al pericolo della deforestazione e del cambiamento climatico. La deforestazione può deumidificare l'atmosfera e quindi portare la foresta in un regime più secco, dove la vegetazione in ricrescita potrebbe estrarre ulteriormente l’acqua dal suolo intensificando l’aridità e al contempo diminuire l'importazione di aria umida dall’oceano. Uscire da questa trappola potrebbe essere impossibile. “Speriamo che i risultati dello studio aumentino la consapevolezza dell'importanza della conservazione delle foreste pluviali” continua Baudena. "Dobbiamo tenere conto delle relazioni olobiontiche tra tutti gli elementi dell'ecosistema che consentono una regolazione efficiente del ciclo dell'acqua", aggiunge un altro autore, il dott. Ugo Bardi (Club di Roma, Università di Firenze).

C’è anche una buona notizia: anche nelle terre aride, ripristinando la vegetazione originaria si dovrebbe poter migliorare l’apporto di umidità atmosferica dal mare verso l’entroterra. Per raggiungere questo obiettivo, la strategia di ripristino ecologico dovrebbe essere attentamente progettata per guidare la transizione dell'ecosistema dal regime secco a quello umido. Conclude Makarieva: “I flussi d'acqua atmosferici non riconoscono i confini internazionali; quindi, la deforestazione in una regione potrebbe innescare una transizione al regime più secco in un'altra. I nostri risultati indicano che le foreste naturali della Terra, sia alle alte che alle basse latitudini, sono la nostra eredità comune di fondamentale importanza globale, in quanto supportano il ciclo dell'acqua terrestre. La loro conservazione dovrebbe diventare una priorità ampiamente riconosciuta per risolvere la crisi idrica globale».

La scheda

Chi: Cnr-Isac (Torino), Università Tecnica di Monaco (Germania), Centro de Ciência do Sistema Terrestre INPE, São Paulo, Brazil, Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze

Che cosa: Makarieva, A. M.,  Nefiodov, A. V.,  Nobre, A. D.,  Baudena, M.,  Bardi, U.,  Sheil, D.,  Saleska, S. R.,  Molina, R. D., &  Rammig, A. (2023).  The role of ecosystem transpiration in creating alternate moisture regimes by influencing atmospheric moisture convergence. Global Change Biology,  00,  1– 21. https://doi.org/10.1111/gcb.16644


 

 

venerdì 10 marzo 2023

Compostaggio domestico: un passo verso l'economia circolare



La mitica compostiera elettrica di Ugo Bardi. 



Questo articolo è riprodotto dal blog della ditta SAEC

Di Ugo Bardi

Non c’è cosa più infamata e disprezzata al mondo della parte organica dei rifiuti domestici. La parte che puzza del sacchetto, quella che tende a formare liquidi immondi, quella che attira insetti, topi, batteri, e altre creature orribili. Insomma, il peggio del peggio, l’essenza del concetto di “rifiuto” che viene da una parola latina che vuol dire “buttar via.”

Eppure, il rifiuto organico è la parte più utile del rifiuto domestico. È quella parte che può essere trasformata completamente in un prodotto utile senza bisogno di trattamenti complicati e costosi. Confrontate, per esempio, con la plastica: riciclare la plastica è un incubo. Richiede tecnologie complicate e il risultato non è mai così buono come la plastica originale (si chiama “downcycling” – “riciclaggio verso il basso”).

Invece, dal riciclo della frazione organica si ottiene “compost” che è un ottimo fertilizzante e substrato per la coltivazione. Se il compost è fatto bene, non esiste il problema del “downcycling.” Se lo fate partendo, per esempio, dagli scarti dei pomodori, lo potete utilizzare per coltivare pomodori altrettanto buoni di quelli originali. Ci potete anche fare un “ammendante,” ovvero un materiale che migliora le caratteristiche fisiche del suolo, e anche un substrato per coltivare funghi commestibili.

Purtroppo, il compost ha una cattiva fama, più che altro sulla base dei vecchi metodi dei contadini e i loro cumuli di letame. In effetti, non era roba profumata. Ma il compost, di per sé non puzza. Anzi, è un prodotto naturale, e madre natura non ama lo spreco, che è invece una caratteristica delle cose puzzolenti. Fatevi due passi in un bosco. Specialmente se è appena piovuto, sentite un odore che è difficile da descrivere in parole, ma che tutti conosciamo. È un odore piacevole, che alcuni trovano addirittura inebriante. Ed è l’odore dell’attività dei batteri e dei funghi impegnati a compostare foglie e tutto quello che c’è di organico al suolo.



Ma noi umani non siamo altrettanto bravi dei batteri a compostare la materia organica, specialmente quelli di noi che vivono in città. Se qualcuno abbandona un sacchetto della spazzatura per terra in una strada, in breve tempo si genera un odore nauseabondo. Vi ricordate la crisi dei rifiuti di Napoli dei primi anni del 2000? Ecco, era successo proprio quello, ma su larga scala. Il risultato era che i batteri “buoni” non avevano la possibilità di fare il loro mestiere ed erano rimpiazzati da batteri meno buoni che, nel decomporre la materia organica tiravano fuori molecole odorose di vario tipo, fra le quali per esempio la “putresceina” che capite bene dal nome che non è una cosa piacevole da annusare.

D’altra parte, è anche vero che noi umani possiamo imparare. E stiamo imparando come gestirci meglio la parte organica dei nostri rifiuti domestici. È una storia che comincia molto tempo fa, quando i rifiuti non venivano considerati un problema e, anche in città, molte famiglie avevano piccoli orti e appezzamenti di terra. Non c’era plastica fra i rifiuti domestici: era tutto materiale organico che si poteva smaltire semplicemente sparpagliandolo in giardino, oppure facendo dei piccoli cumuli di compost. Ma, con gli anni, tutto è cambiato. Gli spazi per orti e giardini sono diminuiti e, soprattutto, la composizione dei rifiuti è cambiata. I rifiuti oggi contengono sostanze che non si potrebbero sparpagliare in giardino sperando che spariscano da sole, per esempio la plastica.

Circa un secolo fa, le grandi città hanno cominciato a mettere in opera dei sistemi municipali di raccolta dei rifiuti. All’inizio, i cittadini buttavano tutto nei bidoni della spazzatura, il tutto veniva caricato su dei camion puzzolenti e poi scaricato alla rinfusa dentro delle discariche a cielo aperto. Il risultato era un disastro di robaccia inquinante, maleodorante, e che poteva inquinare le falde freatiche con i liquami che la decomposizione produceva.

Col tempo, si è cominciato a fare di più e di meglio. Oggi, la raccolta differenziata ha enormemente migliorato le cose. Si cerca di separare la frazione organica dei rifiuti domestici per compostarla in impianti centralizzati, oppure trasformarla in energia in forma di biogas. Indubbiamente una cosa buona, ma rimane molto da migliorare. La frazione organica dei rifiuti domestici è oggi intorno al 40% del totale. Di questi, solo circa la metà viene compostata. Altre frazioni vanno all’incenerimento o alla produzione di biogas, ma rimane una frazione importante che finisce nell’indifferenziato a renderlo puzzolente.

Insomma, si può e si deve migliorare. Soprattutto, uno dei problemi principali del compostaggio centralizzato è la piaga del “conferimento improprio”. Molta gente non ha idea di come funzioni il compostaggio, non capisce la differenza fra organico o inorganico, e butta di tutto nei cassonetti dell’organico. Quando questo materiale arriva all’impianto, ci si trova di tutto. Alcuni rifiuti impropri possono essere filtrati, per esempio se c’è dentro un paio di scarpe. Ma la plastica, il metallo, e altre cose, finiscono spezzettati negli impianti di trattamento e, fatalmente, riemergono nel compost nella forma di pezzettini di materiale che non è compost. Nella peggiore delle ipotesi, il compost non può essere utilizzato come tale e va a finire in discarica come compost non a specifica.

Come possiamo migliorare? L’idea è di partire dall’inizio della catena di trasformazione. Se si parte da un materiale migliore – ovvero ben selezionato – allora tutto il processo è più semplice è il risultato è di buona qualità. Una linea possibile è la raccolta porta-a-porta dove il cittadino può essere guidato a selezionare meglio i propri rifiuti. Ma forse meglio ancora è l’idea di incoraggiare il compostaggio domestico con investimenti specifici da parte delle Amministrazioni centrali e/o periferiche (Regioni, Province, Comuni).

­­­­­­­In un certo senso il compostaggio domestico è un ritorno a quello che si faceva 100 anni fa, quando ognuno compostava i propri rifiuti a casa propria. È una cosa che già le aziende municipalizzate stanno facendo, incoraggiando i cittadini a compostare fornendo gratuitamente piccole compostiere domestiche in plastica o altri materiali e facendo sconti sulla tassa sui rifiuti per chi lo fa. La frazione di rifiuti compostata in questo modo, però, rimane molto piccola, al massimo qualche percento del totale. Questo è dovuto a vari fattori. In primo luogo, si può fare solo se uno ha un giardino. Poi, questi bidoni da compostaggio sono poco efficienti, funzionano solo in estate, attirano insetti e altri animali, possono anche emettere cattivi odori se non sono gestiti bene.

Grazie alla tecnologia la soluzione potrebbe essere un’altra. Ormai da almeno un decennio in Oriente, Cina e Giappone, si usano comunemente dei “compostatori elettrici.” Sono macchine ben più evolute e sofisticate dei bidoni da giardino. All’interno, il sistema controlla e mantiene costante sia l’umidità come la temperatura, assicurando condizioni ottimali per il compostaggio. Oggi fortunatamente il mercato offre soluzione tecnologiche decisamente avanzate che non puzzano, non sono rumorosi, non attirano insetti, e sono abbastanza piccoli e con designed veramente gradevoli da poter essere facilmente inseribili in qualsiasi arredamento di cucina o anche su un piccolo balcone. Il fatto di essere gestiti a livello familiare evita il conferimento improprio: nessuno butterebbe un paio di scarpe vecchie dentro il proprio compostatore, come del resto non le butterebbe dentro la pentola del lesso!

Questi impianti vanno benissimo anche a livello condominiale, oppure a livello di piccola azienda, per esempio un bar o un ristorante. In questo caso, richiedono un minimo di supervisione per evitare che qualcuno rovini tutto buttandoci dentro qualcosa di sbagliato. Per esempio, la comune segatura ha la capacità di avvelenare i batteri “buoni” che lavorano per noi. Non va assolutamente messa nel compostatore! Lo stesso per la plastica detta “biodegradabile” che non è detto affatto che lo sia. Imparare a fare del buon compost è un po’ come imparare a cucinare. Ci vuole un po’ di tempo e, le prime volte, può capitare di bruciare l’arrosto.

Questi nuovi compostatori elettrici, ormai completamente automatizzati sono parte della tendenza all’elettrificazione di tutti i servizi domestici. Mentre una volta usavamo fornelli a gas, adesso si usano a induzione. E lo stesso per il riscaldamento, che oggi tende a essere fatto usando pompe di calore elettriche. I compostatori elettrici usano piccole potenze. Sono bene isolati, quindi poche decine di Watt sono sufficienti per mantenere la temperatura interna a circa 40°C, mentre solo ogni tanto il sistema mette in moto l’asta di mescolamento, arrivando a consumare qualche centinaio di Watt. Sono anche sistemi che si sposano bene con il fotovoltaico domestico. Nel futuro, è probabile che saranno gestiti in modo tale da funzionare solo quando l’energia fotovoltaica è disponibile. In questo modo peseranno zero sulle spese energetiche delle famiglie.

Ma, alla fine dei conti, perché uno dovrebbe mettersi un dispositivo del genere in casa? C’è più di una ragione. La più semplice è lo sconto sulla tassa sui rifiuti. Un altro vantaggio è che non avrete più bisogno di andare in giro con sacchetti di roba puzzolente, oppure di tenerveli in casa aspettando il giorno della raccolta. Poi, se avete un giardino o un piccolo orto, o se avete qualche amico o parente che ce l’ha, vedrete che il compost che producete è un vero toccasana per ortaggi e fiori. E se avete dei vasi da fiori, potete divertirvi a fare l’“orto a sorpresa”. Sparpagliando un po’ di compost sulla superficie del vaso, i semi degli ortaggi che avete compostato germoglieranno, producendo di nuovo pomodori, peperoni, e zucchine. Provateci!


giovedì 9 marzo 2023

La caduta del Leviatano: La fine del capitalismo.

 


Di  | Feb 24, 2023


‘LA CADUTA DEL DEL LEVIATANO’

ovvero

NASCITA, CRESCITA, DINAMICA E FATO DELLA CIVILTÀ’ INDUSTRIALE.

“LA CADUTA DEL LEVIATANO. Collasso del capitalismo e destino dell’umanità” è un libro che si propone di superare la consueta narrativa circa l’insostenibilità e l’iniquità del capitalismo contemporaneo. Non cova infatti, né intenti vendicativi, né assolutori e si astiene dal proporre soluzioni più o meno utopiche. Illustra invece come il Fato della civiltà globale abbia preso forma da una combinazione unica nella storia di ineludibili leggi naturali, imprevedibili incidenti storici e l’affermarsi di una potente mitologia, capace di orientare gradualmente l’intera umanità verso un unico scopo supremo: Crescere!

Nella metafora di Hobbes, il Leviatano era formato da un intero popolo fedele ad un monarca assoluto. Nella nostra trattazione è invece una realtà fisica ben definita come “struttura dissipativa auto-organizzata evolutiva”. L’intero pianeta risulta oramai ricoperto dal suo corpo immane, costituito non solo da oltre 8 miliardi di esseri umani, ma anche da quasi 40.000 miliardi di tonnellate di catrame, metallo, cemento, colture e bestiame che costituiscono oramai un’unica mega-macchina globale di cui il sistema economico capitalista, nelle sue varie articolazioni, costituisce il metabolismo.

Una struttura estremamente efficiente in grado di evolvere con straordinaria rapidità, ma capace di fare un’unica cosa: assorbire sempre più energia e risorse per crescere perché, se la sua espansione si interrompe, muore. Tuttavia, anche la crescita continua lo condanna a un destino infausto, sebbene procrastinato nel tempo. Una condizione ben illustrata dal celebre aforisma: “Non puoi vincere, non puoi pareggiare, non puoi uscire dal gioco”; e neppure barare. La tecnologia assolve infatti a questa funzione fondamentale: barare al gioco della vita. Ha funzionato in passato e lo sta facendo tuttora, ma solo temporaneamente e con conseguenze penose inscindibili dai vantaggi che offre.

Attingendo alle più disparate discipline (dalla fisica alla mitologia, dall’economia alla filosofia, dalla storia all’ecologia) il discorso si dipana per oltre 400 pagine che si sforzano di descrivere fenomeni complessi nella maniera più semplice e divulgativa possibile. L’opera non consiste in un esercizio di esagerato determinismo, improntato a un morboso “tanto oramai non c’è più nulla da fare”; si propone invece di capire cosa sia possibile che accada e cosa no. Compito imprescindibile perché, con poche forze e ancora meno tempo a disposizione, sprecarli è disperante.



Un esempio molto semplice, ma utile per capire la natura del problema: immaginiamo un pietrone sferico su di un piano inclinato. Quali opzioni abbiamo al riguardo? Possiamo reggerlo, lasciarlo precipitare e scansarci oppure inventare un modo per bloccarlo il più a lungo possibile; possiamo pure spingerlo in salita o danzarci sopra mentre rotola a valle. In nessun caso, invece, il macigno tornerà verso l’alto da solo e smetterà di gravare verso il basso.

Sembra banale, ma forse non lo è, visto che l’intera politica mondiale si basa su presupposti altrettanto fantasiosi di un macigno che rotola da solo verso l’alto. Perfino molti premi Nobel dell’economia hanno avanzato teorie basate sulla presunta capacità dell’ingegno umano di violare la fisica e le leggi naturali. Ecco perché il libro si impegna a demistificare concetti tanto alla moda quanto antiscientifici, allo scopo di analizzare il Fato del Leviatano nel modo più realistico possibile.

Il Fato non stabilisce infatti ineluttabilmente il futuro, ma delimita un campo di probabilità decrescenti, fino a zero. Esiste dunque una gamma di opzioni possibili, ognuna delle quali provocherà ripercussioni immediate ed altre più o meno dilazionate nel tempo; talvolta utili e talaltra disastrose, comunque sempre difficili o impossibili da prevedere perché il sistema a cui apparteniamo è troppo complesso per comprenderlo nei dettagli, alcuni trascurabili altri invece cruciali. Malgrado un noto aforisma, ben difficilmente una farfalla scatena un uragano e, comunque, non potremo mai sapere se la tempesta in corso in Italia sia stata davvero innescata da una farfalla brasiliana che volava un secolo fa.

In compenso, conosciamo abbastanza bene alcune delle leggi che governano energia, materia ed informazione per capire che la forza inarrestabile del capitalismo si deve ad una peculiarità che lo differenzia da molti altri arrangiamenti socio-economici elaborati nella storia: quella di estremizzare la tendenza innata delle strutture dissipative, ossia distruggere il proprio “intorno” per crescere in dimensione e complessità. Così, il capitalismo ha letteralmente mangiato l’intero pianeta e con esso tutti i popoli che lo abitano, annientandoli o assorbendoli. Un’invenzione formidabile dunque, che ha prodotto la più grande civiltà di tutti i tempi e consentito all’uomo azioni un tempo ritenute prerogativa degli Dei, come volare e raggiungere la Luna. Ma ad un prezzo: accelerare una dinamica propria di tutte le strutture che assorbono e dissipano energia: l’invecchiamento e la morte. O, per meglio dire, il degrado ed il collasso.

Infatti, malgrado sia nato poco più di quattro secoli or sono e sia giunto a compimento appena trent’anni fa, il Leviatano appare già vecchio e malandato. Il libro illustra quindi i principali malanni che lo affliggono, in ultima analisi tutti dipendenti dalla sua fisiologia perché la stessa dinamica che, in un pianeta ricco di risorse e di biosfera, ha causato la sua smisurata crescita, nel mondo attuale dove ormai abbondano solo gli umani e i relativi schiavi (animali, vegetali e meccanici) sta rapidamente portando al collasso ed alla disintegrazione del Leviatano e quindi del capitalismo, che ne è l’apparato digerente. Al punto che, per sopravvivere, sta ormai divorando non più solo la biosfera ed i poveri del mondo, ma anche buona parte dei capitalisti e dello stesso Capitale.

Normalmente, le opere che affrontano tematiche affini a quelle de La caduta del Leviatano si chiudono con una serie di consigli e buone pratiche per correggere la rotta e salvarsi. Qui non ne troverete perché il sistema non è correggibile, al massimo se ne possono mitigare in modo molto limitato alcune tendenze. E dunque?

Ognuno cercherà il modo di cavarsela il meno peggio possibile secondo le sue opportunità e possibilità, ma noi esortiamo i lettori affinché pensino anche a coloro che verranno dopo di noi. In fondo, l’unico evento capace di cancellare l’umanità sarebbe un collasso generalizzato della biosfera, innescato dall’estinzione di massa in corso e vivacemente sostenuta dalle autorità di ogni ordine e grado, in ogni angolo del mondo, al grido di “Rilanciamo la crescita!”. Non sappiamo se la Vita sulla Terra sopravvivrà, ma è possibile ed è pertanto legittimo sperarlo. In caso positivo, i nostri più o meno remoti discendenti dovranno creare nuove civiltà con il poco di utile che avremo lasciato loro. E di cosa ha bisogno una civiltà? Acqua dolce, cibo, biodiversità, un clima vivibile, ecc., ma non basta. Ha bisogno anche di un mito fondatore perché è la mitologia e non la scienza che guida l’umanità, ora più che mai e così sarà anche in futuro. Perciò, mentre vi preoccuperete di salvare i vostri risparmi, di imparare l’orticoltura e le pratiche agroecologiche o di contrastare le speculazioni dei palazzinari amici del sindaco, pensate ad un mito che possa dare un senso a quanto vi accade ed una speranza per un futuro che nessuno di noi vedrà. Contrariamente al pensiero comune, una nuova mitologia è più importante di una nuova tecnologia perché attribuire un senso a ciò che ci accade e nutrire una qualunque forma di speranza sono due bisogni assoluti per noi umani, senza i quali non riusciamo a sopravvivere a lungo.

Dunque è imperativo elaborare una “grande narrativa” in grado di sostituire il mito del Progresso che ci ha condotti nell’impasse i cui ci troviamo, consapevoli che i miti fondatori sono sempre opere collettive che maturano nel tempo. Nessuno ne è l’autore, ma molti vi partecipano.

SINOSSI

CAPITOLO 1 – Illustra la natura del Leviatano unitamente ai concetti di “struttura dissipativa” e di “superorganismo”, necessari per comprendere la dinamica interna del Leviatano, derivante in ultima analisi da leggi fisiche.

CAPITOLO 2 – Tratteggia la genesi storica del Leviatano. Partendo da alcune peculiarità che rendono unica la specie umana attuale e rappresentano i necessari presupposti per lo sviluppo del Leviatano. Si delineano quindi i passaggi storici fondamentali e alcuni dei soggetti che, ispirandosi a presupposti ideologici diversi, hanno storicamente contrastato il formarsi del Leviatano.

CAPITOLO 3 – Descrive sommariamente la tecnostruttura che non solo permette al Leviatano di esistere, ma che ne è parte integrante e sostanziale, assieme all’intera umanità con i suoi organismi simbionti, commensali e parassiti.

CAPITOLO 4 – Si analizza l’“economia-mondo” che struttura gerarchicamente il pianeta in regioni centrali e periferiche, organizzando i flussi di materia, energia ed informazione caratterizzanti l’economia e la società globalizzata. Viene quindi spiegata la dinamica interna del sistema economico che alimenta il Leviatano, evidenziando l’importanza degli incrementi nella disponibilità di cibo ed energia per costruire società sempre più complesse. Infine, si accenna all’impossibilità di un’economia effettivamente circolare e dunque all’inevitabile alterazione dei cicli bio-geo-chimici da cui dipende la continuità della vita sulla Terra.

CAPITOLO 5 – Si affrontano la mistica del Progresso e i correlati miti della Macchina, del Mercato e della Crescita economica infinita, che hanno plasmato i modelli di pensiero dominanti negli ultimi due secoli, servendo anche a legittimare sia le profonde ineguaglianze sociali e inter-generazionali (spacciate per temporanee), sia il degrado dell’ambiente (ritenuto un fatto inevitabile e marginale).

CAPITOLO 6 – Si elencano le principali dinamiche perverse che stanno minando la funzionalità del sistema socio-economico globale, con le relative ricadute ambientali e sociali. Fra queste, si richiama l’attenzione su fenomeni apparentemente paradossali come l’erosione del reddito da capitale e la pauperizzazione di parte crescente dei capitalisti per opera del capitalismo stesso.

CAPITOLO 7 – Si tenta una diagnosi spiegando perché le “patologie” che affliggono il Leviatano non sono contingenti e neppure reversibili, essendo dovute ai profondi danni inferti alla biosfera ed al degrado quali-quantitativo delle risorse.

CAPITOLO 8 – Disamina delle fosche prospettive dal punto di vista storico e sistemico con particolare attenzione al fatto che, al variare della disponibilità di risorse e della salute della biosfera, le medesime dinamiche che hanno creato il Leviatano lo stanno ora distruggendo.

CAPITOLO 9 – La “morte del Leviatano” appare quindi un fatto procrastinabile, ma inevitabile e le conseguenze saranno di portata tale da modificare irreversibilmente non solo la storia dell’umanità, ma anche quella della biosfera tutta. Del resto, le prime avvisaglie di un tale evento sono già evidenti sotto il profilo ecologico, energetico ed economico. Si tratteggiano poi brevemente i principali tentativi di reazione alla crisi globale, soprattutto in Occidente.

CAPITOLO 10 – Abbozza una proposta avulsa dagli aspetti tecnici e pratici della crisi, bensì concentrata sul modo più appropriato di pensare ad essa, alla ricerca degli elementi su cui costruire un nuovo Mito Fondatore che possa sostituire quello ormai defunto del Progresso, per sostenerci e orientarci nei prossimi decenni che saranno probabilmente fra i più difficili dell’intera storia umana.

L’opera è stata sottoposta a Richard Heinberg, noto giornalista e scientifico e senior fellow del Post Carbon Institute, che si è così espresso: “Questa e’ la panoramica piú completa ed accurata della condizione umana nel 21° secolo in cui mi sia mai imbattuto”.

PER DISCUTERNE

Esistono una pagina FB ed un profilo Instagram (la_caduta_del_leviatano) dedicati al libro che, al di là dall’intento promozionale, possono essere sede di discussione. Occasioni per parlare direttamente di questi argomenti ci saranno in occasione delle presentazioni pubbliche che saranno annunciate sui canali social, man mano che saranno organizzate.

Per ora sono state fissate le seguenti:

15 aprile, presso Comunità dell’Isolotto, Via degli Aceri, 1 – Firenze. Ore 21:00

18 aprile presso Conventino Caffé Letterario, Via Giano della Bella, 20 – Firenze. Ore 18:00

21 aprile presso Circolo Arci Via Vittorio Veneto, 54 – Pontasserchio, comune di San Giuliano Terme (PI). Ore 17:30

Il libro si può acquistare in libreria, sul sito Web della Albatros Il Filo Edizioni, su Amazon e i principali bookstore on line.