sabato 15 dicembre 2018

Motori ed Inquinamento: come siamo messi?





Un post di WM



Con l'arrivo della stagione invernale i ricorrenti anticicloni favoriscono il ristagno degli inquinanti a livello del suolo, soprattutto in Pianura Padana Attualmente la variabile che determina la sospensione della circolazione automobilistica parte da un parametro: PM10. I PM2,5 non sono al momento considerati, seppur rilevati, e sarebbero anche più pericolosi entrando in circolo dagli alveoli. Quindi abbiamo il particolato prodotto dalla combustione nei motori diesel ma anche da altre fonti quali inceneritori, camini a legna di vecchia concezione, industria ecc. inoltre esistono anche altri inquinanti, tra gli altri gli ossidi di azoto, NOx.

Vorrei entrare nel dettaglio degli inquinanti provenienti da motori a combustione interna.

Come tutti sanno i motori sono principalmente di due tipi, Ciclo Otto (motori a benzina) e Ciclo Diesel (motori a gasolio), i motori due tempi (a miscela di benzina e olio) molto inquinanti sono ormai marginali, posso però ricordare che quasi 30 anni fa collaborai con un progetto per lo sviluppo del motore 2 tempi in campo automobilistico, il concetto era interessante in quanto il 2 tempi ha un rendimento molto alto, avendo aspirazione e scarico contemporanei, minor peso e facilità costruttiva. La questione irrisolvibile erano gli inquinanti allo scarico dovuti alla lubrificazione a perdere, si provava con luci scarico particolarmente studiate ma l'imminenza dell'entrata in vigore delle norme antinquinamento (Euro1) fecero abbandonare il progetto. Rimane il Ciclo Wankel anch'esso molto delicato e il Ciclo Atkinson (motori a benzina con differente manovellismo, meno potenza ma maggior efficienza) usato in prevalenza su modelli ibridi, per curiosità molti anni fa esistevano in Nord America dei motori Diesel a 2 tempi.

Il principale imputato come capacità inquinante è il motore Diesel, la sua caratteristica principale è di funzionare con rapporti di compressione molto alti e di avere dunque una maggior efficienza. I vecchi Diesel erano solo aspirati ad iniezione indiretta ma con rapporti di compressione fino a 22:1, erano lenti con bassa potenza specifica in rapporto alla cilindrata ma molta coppia a bassi regimi. Infatti nella loro evoluzione si iniziò ad usare la sovralimentazione che aumentava la potenza ai regimi più alti col vantaggio della curva di coppia elevata in basso. Per fare questo però era necessario diminuire i rapporti di compressione perché si producevano molti NOx e meccanicamente le sollecitazioni erano molto forti, infatti motori moderni hanno valori di 15/16:1, a volte meno, e pressione di sovralimentazione fino ad 1 bar.

La sovralimentazione aiuta in particolare con la turbina a passo variabile ma la differenza principale è stata l'applicazione dell'iniezione diretta sequenziale del carburante (multijet) dove 7/8 getti o più ad altissima pressione e le mappature delle gestioni elettroniche risolvono parzialmente i problemi dell' accensione istantanea del carburante, la propagazione di fiamma, che è uno dei principali limiti del Ciclo Diesel. La ragione è intrinseca, non avendo un valore stechiometrico fisso, il motore può funzionare con rapporti comburente/combustibile molto ampi, da 5 a 1 fino a 20 a 1 e oltre, nel primo caso avremo una nuvola di fumo e incombusti che il FAP farà fatica a bloccare. Nell'iniezione sequenziale un paio di getti vengono inviati dopo lo scoppio per ridurre la rumorosità tipica del diesel e in parte per bruciare gli incombusti. Della riduzione rumore si potrebbe anche fare a meno riducendo il consumo.

Una via per la riduzione del particolato inoltre è l'impiego di apposita trappola, il FAP, che però deve essere periodicamente “svuotato”, ciò avviene con un ciclo apposito a regime controllato in cui viene iniettato carburante in eccesso che aumenta la temperatura per bruciare il particolato che non dimentichiamo è costituito principalmente da Carbonio, con la gestione elettronica dell'iniezione non difficile, ma una scocciatura per il guidatore e inquinante per l'aumento delle emissioni.

Il gasolio è una frazione relativamente pesante nella raffinazione del petrolio, da molti anni subisce un trattamento di desolforazione ma contiene Aromatici Policiclici (PCA) che in caso di combustione ottimale bruciano quasi completamente ma nei transitori (accelerazione) vanno a far parte degli incombusti e si generano allo scarico sostanze molto tossiche, ad esempio Benzo(a)pirene.

Per ovviare si utilizzano da molti anni catalizzatori ossidanti che riescono parzialmente ad eliminare questi inquinanti ma non del tutto. Un altro strumento è il riciclo dei gas di scarico tramite una valvola che li reimmette in parte in camera di scoppio. Si chiama EGR. Ma attenzione, in caso di forte richiesta di potenza viene disinserita.

Dallo scandalo Volkswagen in poi è venuto fuori un altro inconveniente difficile da risolvere, la formazione degli ossidi di azoto, i famigerati NOx. Si formano nella fase di compressione e nella rapida espansione dopo lo scoppio, l'Azoto e l'Ossigeno rimangono legati, la loro eliminazione deve essere affrontata con mezzi costosi e complessi, infatti reagendo con l'acqua producono Acidi (Nitrico e/o Nitroso)

Il catalizzatore convenzionale è per definizione ossidante e bisogna utilizzare un riducente, il più diffuso è l'Urea che combinandosi con gli NOx, li trasforma in Azoto gassoso e Acqua, la reazione deve essere catalizzata e i costi sono elevati per la gestione del sistema oltre che critica, difficile da controllare.

Come abbiamo visto la riduzione degli inquinanti è difficoltosa e nel corso degli anni le norme sono diventate sempre più restrittive da Euro 1 a Euro 6 con aumento dei costi per gli adeguamenti che ha causato il desiderio di prendere scorciatoie. Trucchi e software appositi per aggirarle. In realtà un modo ci sarebbe per rimanere in ambiti normali, ridurre le prestazioni, drasticamente. Le potenze specifiche sono arrivate a livelli impressionanti inutilmente ai fini di un uso normale.

Veniamo al Ciclo Otto, in condizioni normali (regime costante) non emette molto particolato e tecnicamente ha una combustione più controllata, la ragione principale nella gestione del rapporto stechiometrico tramite Sonda Lambda (14,7:1), in passato si erano tentate soluzioni alternative come la combustione magra, ossia poca benzina, molto inferiore al rapporto stechiometrico canonico ma con altre problematiche dovute alle temperature di esercizio molto alte. Il motore Ciclo Otto è meno inquinante utilizzando una combustibile che brucia meglio e più in fretta, cosa che presenta anche degli svantaggi, ad esempio devono essere utilizzati rapporti di compressione più bassi pena l'autoaccensione o detonazione (il ben noto battere in testa) normalmente intorno 10:1 e inferiore sui motori sovralimentati.

Rapporto di compressione più basso determina rendimenti termodinamici inferiori, il motore a benzina consuma di più a pari potenza sviluppata e se con l'elettronica si sono fatti passi avanti notevoli nell'impiego a regime costante, rimane un consumo maggiore rispetto al diesel nei transitori, uso cittadino ad esempio.

Anche nel Ciclo Otto si formano gli incombusti e il particolato, una causa è l'attivazione e disattivazione della Sonda Lambda che in rilascio e forte richiesta di potenza viene disinserita, in questo caso l'azione del catalizzatore avviene solo per la sua capacità ossidante che trovandosi ad gestire molti incombusti fatica, dunque emette inquinanti.

Per finire alcuni dati sul rendimento dei due principali motori da cui si potrebbe dedurre anche l'emissione netta. Partiamo da un dato, i rendimenti variano molto in funzione del regime di rotazione, dalla richiesta di potenza, il tipo di guida. I produttori con le gestioni elettroniche cercano di ovviare e parzialmente ci riescono ma in genere c'è un regime al quale il rendimento raggiunge il massimo, le case statisticamente si adeguano all'uso a velocità costante intorno alla coppia massima.

Un Diesel sovralimentato arriva intorno al 30/32 % e in certi casi 35% addirittura motori ben rodati, vecchi, anche oltre. Ricordo una prova su strada di una vecchissima Passat con oltre 200000 km che a 60 Km/h faceva 60 km con 1 litro! A maggior ragione si consideri che i generatori diesel elettrici essendo progettati per funzionare a regime costante arrivano anche oltre il 40%. Il motore a Benzina rende molto meno, 20/25% nelle migliori condizioni, ma in città può scendere anche sotto il 10% .

Un accenno ai combustibili gassosi, GPL (Propano e Butano liquefatti) e Metano gassoso. Hanno un potere calorifico nettamente inferiore e dunque consumi più elevati rispetto ai combustibili liquidi, per contro hanno un vantaggio in termini di combustione più pulita.

Ho trascurato tutte le valutazioni sul recupero di efficienza mediante migliorie nella riduzione degli attriti, nella ricerca di fasature variabili, fluidodinamica per i riempimenti dei cilindri, pneumatici più stretti, aerodinamica, peso del veicolo e modalità di guida.

Considerando che ancora per qualche anno i motori endotermici saranno in circolazione l'idea di sviluppare meno potenza specifica sarebbe una bel proposito, inoltre per gli ibridi un piccolo motore endotermico che fornisce energia per la ricarica delle batterie e il motore elettrico, che funzioni a regime costante avrebbe rendimenti molto più alti. Il motore elettrico sarebbe la fonte primaria di potenza per il movimento, l'esperienza dei locomotori diesel-elettrici è li a dimostrarlo.


wm

mercoledì 12 dicembre 2018

Le Monadi Sovrumane


(Immagine di Colin Hay). Nel 1971, Robert Silverberg pubblico un romanzo dal titolo "The World Inside", tradotto in Italiano come "Monade 116" (Fanucci 1974). La storia descrive un mondo futuro dove decine di miliardi di esseri umani vivono in immense città verticali, (le "monadi"). In cambio del diritto di riprodursi senza limiti, hanno ceduto tutti gli altri diritti umani che una volta avevano, allo stesso tempo avendo sterminato tutti gli altri esseri viventi del pianeta. Una storia che risponde in un modo inquietante alla domanda che viene spesso posta: "quante persone può nutrire la terra?" alla quale dovremmo rispondere, "a che prezzo?" Qui di seguito, Bruno Sebastiani esamina l'impatto degli edifici multipiano sull'occupazione umana di spazio sul pianeta




E SE TUTTI GLI EDIFICI DELLA TERRA FOSSERO MONOPIANO?

di Bruno Sebastiani


L’uomo è l’unico tra gli animali cosiddetti superiori a costruire abitazioni su più piani.

Lo fa perché è in grado di farlo (il suo cervello super evoluto gli consente di fare questo e ben altro).

Lo fa perché è conveniente farlo (un solo basamento e un solo tetto per più nuclei abitativi).

Lo fa perché consente ad un numero elevato di persone di abitare entro il perimetro delle città in cui si svolgono gran parte delle attività lavorative, amministrative, culturali ecc.

Ma, inconsapevolmente, lo fa anche per un altro motivo, che, passo dopo passo, andiamo ora ad indagare.

Nei miei libri mi sono soffermato a lungo sulla nocività della nostra specie per la biosfera. Ho paragonato gli esseri umani alle cellule tumorali: ci riproduciamo con lo stesso ritmo frenetico ed invadiamo e distruggiamo in modo analogo i tessuti sani limitrofi.

Questa attività patologica però non è addebitabile, a mio avviso, ad alcun “istinto malvagio” della razza umana: semplicemente è l’inevitabile conseguenza della super evoluzione cerebrale già ricordata.

Anzi, l’uomo è anche in buona fede quando spinge sull’acceleratore del progresso: ritiene di rendere un servigio alla propria specie, di sviluppare tecnologie utili a migliorare la qualità della vita dei propri simili. E tra queste tecnologie vi è anche la propensione a costruire abitazioni su più livelli.

Questa tecnica costruttiva secondo Lewis Mumford prende avvio a fine Medioevo.

«Nello schema medievale, la città si estendeva orizzontalmente e le fortificazioni erano verticali. Nell’ordine barocco la città, confinata entro le fortificazioni, poteva svilupparsi solo verticalmente con caseggiati a più piani …» (L. Mumford, La Città nella Soria, Milano, Tascabili Bompiani IX ediz., 1996, p. 453)

Ma, pur accettando come attendibile questa ipotesi, vi è da dire che la crescita verticale delle abitazioni umane è proseguita, ed anzi si è incrementata, anche quando le città non furono più racchiuse entro fortificazioni e presero ad estendersi nuovamente anche in senso orizzontale.

Sempre Mumford così spiega queste due direzioni espansive:

«Con l’invenzione della diligenza, della ferrovia e infine del tram, si ebbero per la prima volta nella storia mezzi di trasporto di massa. La distanza che era possibile percorrere a piedi cessò di costituire un limite all’estensione della città, il cui ritmo di crescita aumentò vorticosamente …» (ibidem, p. 535)

«Questo discorso sull’ampliamento in superficie della città commerciale dall’Ottocento in avanti vale anche per la sua espansione verticale favorita dall’invenzione dell’ascensore. Quest’ultima in un primo tempo fu limitata alle maggiori città del Nuovo Mondo. Ma gli errori radicali che vennero a suo tempo commessi nell’ideazione dei grattacieli si sono ora diffusi a tutto l’universo… Tutti gli sbagli commessi nelle città americane si stanno così ripetendo su scala altrettanto orrenda in Europa e in Asia … il grattacielo divenne un simbolo di “modernità”.» (ibidem, p. 536)

Da notare che l’americano Mumford scriveva innanzitutto per i suoi compatrioti e lo faceva nel 1961. Oggi, a 58 anni di distanza, quanti argomenti in più avrebbe potuto addurre a sostegno delle sue tesi! Uno di questi è l’oggetto del presente articolo, ma prima di sviscerarlo soffermiamoci un attimo su quel simbolo di superbia e di presunzione che è il grattacielo.

Nel mio blog (https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/) vi è una pagina dal titolo “Torri di Babele” dove passo in rassegna le 20 più alte torri del mondo, in ordine crescente fino ad arrivare alla “Burj Khalifa” di Dubai, alta oltre 800 metri e attualmente il più alto edificio del pianeta (in attesa che sia completato il grattacielo che supererà per la prima volta il chilometro di altezza, attualmente in costruzione a Jeddah - Arabia Saudita).

Perché dedicare una pagina di un blog alla descrizione e alle foto degli edifici più alti del mondo? Perché essi raffigurano egregiamente lo smisurato desiderio di onnipotenza dell’essere umano che già aveva attratto l’attenzione e la condanna del narratore biblico nell’episodio della Torre di Babele, descritto in Genesi, 11,1-9.

E la gran parte di queste “Torri di Babele” moderne sorge oramai in Asia, ben 16 tra le prime 20, esattamente come aveva predetto Mumford quasi sessant’anni fa.

Ma, attenzione, questa tendenza a costruire edifici sempre più alti, di cui la realizzazione dei grattacieli è solo la punta dell’iceberg, nasconde un segreto inconfessabile che l’uomo contemporaneo non ha il coraggio di manifestare neppure a se stesso!

Proviamo a disvelarlo per la prima volta e vediamo se la sua conoscenza potrà servire allo scopo che mi prefiggo, e cioè rendere edotto Homo sapiens della sua natura tumorale nei confronti della biosfera.

Cominciamo col chiederci: quanta parte del globo è ricoperta dalle colate di asfalto e cemento su cui poggiano le nostre città e con le quali impediamo a Madre Terra di respirare e alla vegetazione di crescere?

Calcolo oltremodo difficile. Secondo alcuni la superficie occupata dalle città sarebbe limitata all’1 – 3 % del pianeta (fonte Focus.it “L’impronta delle città sul pianeta”), nonostante che in esse risieda ben oltre il 50 % della popolazione mondiale.

La stima è vecchia e certamente inesatta per difetto.

In Italia l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) pubblica annualmente un rapporto su “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. L’edizione 2018, reperibile in rete, indica che nel nostro Paese la stima della cosiddetta “superficie artificiale” (quella ricoperta da asfalto, catrame, cemento ecc.) si attesta nel 2017 al 7,75 % dell’intero territorio nazionale (esclusi i corpi idrici), pari a poco più di 23.000 km quadrati.

Il medesimo rapporto precisa come siano difficoltosi i confronti internazionali in quanto il consumo del suolo non è monitorato in maniera omogenea, ma informa che in Europa Eurostat ha promosso la rilevazione “LUCAS” (Land Use and Cover Area frame Survey), secondo la quale nel 2015 la “superficie artificialmente ricoperta” a livello europeo sarebbe intorno al 4,2 % di quella totale (in quell’anno l’Italia era al 6,9 %).

Ma il vero superamento delle difficoltà di confronto tra i vari Paesi è già in atto a cura dell’Agenzia Spaziale Tedesca (DLR), la quale, utilizzando 180.000 immagini radar di due suoi satelliti, ha dato vita al progetto Global Urban Footprint, ha cioè mappato l’intero pianeta suddividendo la superficie terrestre in tre tipi di copertura: insediamenti (in nero), superficie terrestre (in bianco) e acqua (in grigio). Il tutto con una precisione stupefacente ovvero una risoluzione spaziale di 12 metri per cella di griglia.

La mappa è di libera consultazione e risulta estremamente suggestiva, come si può vedere dall’immagine qui riportata, relativa al nord Italia.











Non è possibile a occhio valutare con esattezza la percentuale di suolo effettivamente “urbanizzata” e, salvo errori, l’Agenzia Spaziale Tedesca non ha fornito cifre al riguardo.

Ma è sufficiente ciò che l’immagine mostra per condurre a termine il nostro ragionamento.

Pensiamo infatti quanti punti neri vi sarebbero sulla piantina se le nostre costruzioni, anziché svilupparsi in altezza, fossero tutte monopiano.

Dovremmo moltiplicare le percentuali di copertura del suolo per quante unità? Io credo almeno per 5, ma forse per 6, 7 o anche più: teniamo presente che anche le attuali costruzioni cosiddette monopiano in realtà hanno un seminterrato e un sottotetto, costituendo così a tutti gli effetti degli edifici a tre piani.

E dunque il 7,75 % di copertura del suolo italiano diventerebbe il 38,75 % o il 46,5 % o il 54,25 % o ancora di più?

Più della metà del territorio nazionale sarebbe cementificato! E noi oltretutto sappiamo che non è solo la cementificazione la causa di alterazione irreversibile del suolo: ad essa si aggiungono significativamente agricoltura e allevamenti intensivi, inquinamento, smaltimento rifiuti incontrollato ecc. ecc.

In altre parole, il collasso che per il momento siamo ancora riusciti a rinviare sarebbe già avvenuto da tempo.

E dunque, a conclusione del ragionamento, possiamo affermare che la propensione a edificare costruzioni su più piani, seppure inconsapevolmente e fortuitamente, è il sistema che l’essere umano ha escogitato per potersi riprodurre più di quanto la disponibilità di suolo del pianeta gli avrebbe consentito.

La nuova tendenza del villaggio globale a crescere in altezza con grattacieli sempre più alti persegue anch’essa il medesimo fine?

È probabile, ma pur con tutti questi espedienti i limiti della sostenibilità prima o poi verranno raggiunti, ed allora il redde rationem non potrà che essere triste e doloroso.

venerdì 7 dicembre 2018

Quanto rende il capitale? - Agonia del capitalismo 4 -

di Jacopo Simonetta

Quarto post di una serie di dieci, i precedenti sono reperibili qui: primo, secondo, terzo.

Nel precedente post abbiamo visto che nel corso del secolo scorso il rendimento medio del capitale si è ridotto, mentre sono aumentati gli stipendi di fascia alta ed altissima, talvolta in modo spropositato.

Il grafico mostra che, in Francia come nel resto d’Europa, la parte di reddito nazionale percepito dall’1% più ricco sia passato dal 20% del 1910 al 8-9% attuale, quasi interamente dovuti agli stipendi.   In USA ed altri paesi extra-europei, la quota di reddito percepito dalla classe dominante è tornata a valori analoghi a quelli di un secolo fa, ma anche in questo caso, prevalentemente per gli elevati ed elevatissimi stipendi percepiti e solo secondariamente per il reddito del capitale. 

Dunque il capitale è diventato marginale?   Non è così semplice.



Il rendimento del grande capitale.


Sul lungo periodo e dai valori medi dei principali paesi capitalisti, Piketty giunge alla conclusione che il rendimento del capitale è passato da un 4-5% di prima dei “30 catastrofici”, al 5-6% del dopoguerra, fino al 3-4% attuale.  Medie significative, ma che nascondono considerevoli differenze legate alla taglia del capitale.

Per cominciare vi è un fattore legato al fatto che chi dispone di grandi patrimoni è in condizione sia di servirsi di professionisti migliori, sia di ottenere migliori condizioni dagli stati e dalle banche.  Un caso limite lo abbiamo visto con la crisi di Cipro, in cui le banche cipriote hanno assecondato la fuga dei grandi oligarchi russi, mentre hanno chiuso la tagliola sulle dita dei ricconi di mezza tacca.  Dinamica analoga si è vista con la “volutary disclosure” concordata fra il governo Renzi e la Svizzera: chi è rimasto nella trappola sono stati i pesci piccoli e piccolissimi, mentre i grossi patrimoni sono in qualche modo stati protetti (almeno in parte perché erano già stati “scudati” da Berlusconi).

Ma anche tralasciando simili situazioni eccezionali, i grandi capitali pagano proporzionalmente meno tasse di quelli piccoli, grazie a diversi meccanismi.   Per esempio, i redditi aziendali sono tassati in modo più blando dei redditi personali e le grandissime imprese possono addirittura ottenere degli sconti ulteriori sulla base di trattative internazionali.   Certo, i redditi aziendali vanno poi a finire in tasca a qualcuno, ma questo secondo passaggio è tanto più opaco quanto più ingenti sono le cifre in questione.   Lo scandalo dei “Panama Papers” ha dimostrato proprio questo: le norme finanziarie a fiscali di tutti i paesi del mondo hanno delle falle attraverso cui i capitali possono, in parte, sfuggire legalmente all'imposizione.  A condizione però di potersi pagare i massimi livelli dei servizi finanziari e di consulenza fiscale o legale.  Si chiama "elusione fiscale", da non confondere con la ben più rozza "evasione fiscale".

Vi è poi un altro fattore importante: i piccoli capitali sono costituiti in massima parte da fondi pensionistici e proprietà immobiliari.  I primi godono di regimi fiscali agevolati, ma i secondi sono invece soggetti ad una duplice imposizione.  Per riprendere l’esempio fatto in precedenza, il signor Rossi che affitta un appartamento ereditato dalla nonna, paga sia una tassa sulla proprietà, sia una tassa sul reddito che questa eventualmente gli da.   Viceversa, i grandi patrimoni sono costituiti perlopiù da titoli che vengono continuamente scambiati.  Non sono soggetti a tasse sulla proprietà ed anche quelle sul reddito sono difficili da calcolare, vista la dinamicità ed elusività di questo tipo di capitale.

Per cercare di quantificare l’effetto di questi fattori, Piketty ha avuto l’eccellente idea di indagare i rendimenti dei patrimoni detenuti dalle università americane.   Questi sono infatti pubblici e del tutto trasparenti.

Come si vede, a fronte di un rendimento medio lordo dell’ 8,2% annuo per il periodo 1980-2010, i patrimoni plurimiliardari delle grandi università (Harvard 30 miliardi, Yale 20 e Princeton 15) hanno avuto un rendimento del 10,2%.  Nello stesso periodo, i patrimoni inferiori ai 100 milioni hanno reso solo il 6,2%.

Passando ai patrimoni privati, le cose diventano assai più nebulose, per ovvi motivi.  Tuttavia lo storico francese propone una tabella da cui risulta che i miliardari avrebbero goduto di un rendimento del 6-8%, cioè circa il doppio della crescita del PIL mondiale nel medesimo periodo.

Da notare anche che la crescita media dei patrimoni mondiali è stato del 2% circa e quella dei redditi di appena l’1,4%.  Come è possibile?  Ci sono tre ragioni che contribuiscono a spigare questo apparente paradosso:

La prima è che buona parte della crescita ufficiale del PIL è dovuta ad artifici contabili e stime più o meno manipolate a scopi politici.

La seconda è che mentre cresce l’economia, cresce anche la popolazione ed anche se la torta è più grande, va ripartita fra più commensali.

La terza è che i piccoli e piccolissimi patrimoni hanno un rendimento molto più basso che difficilmente lascia un surplus da reinvestire, mentre una parte consistente del rendimento dei grandi patrimoni viene reinvestito.

Il rendimento del micro-capitale

Abbiamo visto che il capitalismo post-bellico è stato completamente diverso da quello prebellico principalmente per due ragioni:

1 - La classe dominante non è più quella dei redditieri, ma quella dei quadri e super-quadri che godono di stipendi vertiginosi rispetto a quelli dei loro dipendenti.

2 - La nascita ed il radicamento di una grossa percentuale (nei paesi "avanzati" circa metà della popolazione) di mini e micro capitalisti.

Sul reddito del mini- capitale Piketty non fornisce dati, ma un'idea possiamo farcela tornando a fare i conti in tasca al nostro signor Rossi.    Dalla sua denunzia dei redditi (immaginaria, ma realistica), impariamo che il famigerato appartamento della nonna vale circa 120.000 € ed è affittato ad un peruviano per 9.000 € l’anno.  Su questi Rossi paga il 21% di cedolare secca, ossia 1890€ cui si devono aggiungere circa 800 € di IMU e altrettanti di condominio (salvo complicazioni).  Dunque,  al netto, Rossi prende circa 5.400 € (450 € al mese).   Cioè il suo capitale rende il circa il 4%, in linea con i dati macroeconomici elaborati da Piketty, da cui occorre però sottrarre ancora l’inflazione, che spesso non è compensata da un parallelo aumento della pigione, specie sui contratti lunghi.  In pratica, Rossi può contare su un rendimento reale dell’2-3% .  Salvo incidenti.

Del resto, altri investimenti classici dei mini e micro-capitalisti, come i fondi pensione, offrono oggi rendimenti al lordo dell’inflazione fra il 2 ed il 3%, mentre i leggendari BOT oramai nemmeno compensano l'inflazione.

Dunque per Rossi l’affitto del peruviano è un piacevole integrativo, ma a condizione che disponga anche di un buono stipendio perché se, invece, ha bisogno di questi soldi per le spese correnti, quando dovrà fare dei lavori sarà in difficoltà.  Se poi l’inquilino smette di pagare o se ne va lasciando dei danni, rimetterci un anno di pigione è il minimo che gli possa capitare.   Per non parlare del fatto che le tasse sugli affitti si pagano comunque, anche se gli inquilini non pagano la pigione.

Viceversa, la signora Liliane Bettencourt, cui è attribuito un reddito, netto da tasse ed inflazione, di alcuni milioni di euro l’anno, non potrà che reinvestirne la maggior parte, condannandosi ad una crescita esponenziale della propria ricchezza. Ci sono infatti dei limiti a quello che una persona può spendere, a meno di non devolvere parti cospicue del proprio reddito ad interessi comuni come alcuni miliardari effettivamente fanno tramite apposite fondazioni (ma mica tutte limpide come quella con cui i coniugi Tompkins hanno regalato al Cile un intero Parco Nazionale).

Conclusioni 4

Il rendimento reale del capitale è oggi fortemente influenzato dalla taglia del medesimo.   Mentre i mini e micro- capitali sono al più un modo per proteggere i risparmi dall'inflazione, i grandi e grandissimi capitali hanno un reddito decisamente notevole: anche il 10% in un mondo la cui la crescita economica ufficiale è dell’3-4%, in realtà probabilmente meno.

Questo fenomeno va di pari passo con stipendi che crescono esponenzialmente man mano che si sale la scala gerarchia, mentre sono stagnanti, o in diminuzione, ai livelli basali ed intermedi.  La combinazione di questi due fattori sta molto rapidamente scavando un baratro fra un’élite sempre più numerosa in termini assoluti, ma sempre più esigua in termini percentuali, e tutto il resto del corpo sociale. La cosa interessante è che si tratta di un fenomeno comune a tutti i paesi, ma con differenze importanti a seconda delle aree geo-politiche.  In Europa, malgrado sia evidente, il fenomeno è di gran lunga meno sviluppato (circa il 10% del reddito nell’1% delle mani; cioè la classe dominante dispone di redditi circa 10 volte il reddito medio). Negli stati Uniti siamo a circa il doppio (il 20% del reddito nell’1% delle mani; quindi 20 volte il reddito medio).

Molto interessante è anche il fatto che questa polarizzazione è presente anche all'interno del 10% superiore, dove l'1% guadagna nettaente più del sottostante 9%, lo 0,1 percento molto di più dell' 0,9% e cos via, con un'allargamento esponenziale del reddito, salendo la scala sociale.
Per il poco che se ne sa, nei “paesi emergenti” troviamo situazioni comprese fra questi due estremi od anche peggio, ma ovunque si riscontra una  tendenza ad un rapido aumento della divergenza.

Per saperne di più: Picco per Capre









martedì 4 dicembre 2018

Una recensione di "Non c'è più Tempo," di Luca Mercalli








Non c'è più tempo 

Luca Mercalli 

Einaudi 255 pag. 18 Euro 




L'autore non necessita di presentazioni, ben conosciuto, da anni si prodiga per mettere in guardia tutti dagli effetti dei cambiamenti climatici.

In questo volume una bella raccolta di articoli, piccoli saggi, contributi, apparsi su settimanali, quotidiani, riviste in un arco di tempo che va dal 2008 al 2018. Sono contributi che ben illustrano il pensiero e l'allarme che cerca di trasmettere ai lettori ma scritti con garbo, mai fuori dalle righe, sempre corretti e alla portata di tutti.

Argomenti ben conosciuti da chi si occupa di questi temi  che purtroppo paiono inascoltati, relegati ai margini dell'informazione,  tuttavia Mercalli continua a ripetere. Ecco, se c'è un limite in questo libro forse  è la non sequenzialità temporale degli articoli e il numero che tende a renderli ripetitivi pur non banalizzando il messaggio che Mercalli vuole trasmettere: attenzione, siamo fuori tempo massimo, non c'è più tempo. Appunto.

wm



mercoledì 28 novembre 2018

Soluzione Finale. Voci dall'Antropocene.
Un documentario di Natan Feltrin & Pellegrino Dormiente







Cosa significa vivere nell'Antropocene? 
Non credo che nemmeno raccogliendo tutte le testimonianze dei più esperti scienziati potremmo mai davvero averne un'idea. Questo poiché, seppure tutti coinvolti in una tempesta perfetta, ognuno di noi avrà la sua personale esperienza del cambiamento globale. In questo documentario, attraverso numerose interviste, abbiamo provato a mostrare che di fronte all'avanzare di una crisi ecologica, politica ed economica senza precedenti non si hanno soluzioni univoche, semplici, lineari...

Benvenuti nell'Antropocene! 
Sarebbe stupendo avere una formula magica per cambiare le leggi della termodinamica, regolare il clima globale, sfamare un infinito numero di persone e potersi scordare il concetto di "picco". Sfortunatamente, la realtà trascende sempre le logiche troppo umane e, in particolar modo se non si ha l'arguzia e la lungimiranza di guardare oltre a comodi modelli socio-economici, tende a presentare il conto in maniera molto poco gradevole. Questo docu-film, dal titolo volutamente provocatorio, vuole dirci in maniera chiara che la "SOLUZIONE" non esiste.




(Riprese presso il lago di Antrona)

Il cambiamento è in atto e sfuggirvi è impossibile, ma vi è ancora uno spazio di manovra per adattarvisi in modo non eccessivamente traumatico. Quello che potete trovarvi all'interno è un coro di voci che possono essere di ispirazione all'adattamento. Sia ben chiaro, nessuna di esse è portatrice di Verità (in senso assoluto ovviamente). Tuttavia, ognuna di esse contiene una porzione di realismo in un periodo storico in cui il catastrofismo puro e l'ottimismo ignorante occultano ogni ragionamento onesto. Molte sono le riflessioni che potrei trarre dall'esperienza di questo anno e mezzo di stesura, riprese e montaggio di "Soluzione Finale", ma preferisco lasciare ad ognuno di voi una libera interpretazione del lungometraggio. 

Ci tengo solo a riportare un aneddoto legato alle riprese del documentario. Quando mi trovavo a Firenze per seguire la FIRST CLUB OF ROME SUMMER ACADEMY 2017, tra innumerevoli interventi che dipingevano scenari poco rassicuranti, mi presi un giorno di pausa e, con il camper in cui soggiornavo per ammortizzare i costi, mi diressi a Livorno per gustarmi una meritata cinque e cinque (per chi non sapesse di cosa parlo si tratta di una versione livornese della farinata). Decisi poi di trascorre lì la notte onde rientrare a Firenze il giorno seguente, ma non fu esattamente una serata all'insegna del riposo. Quel giorno, come poi riportarono tristemente i giornali, vi fu un'alluvione che provocò la morte di diverse persone ed io ebbi il mio assaggio concreto di Antropocene. Dopo una veglia terrificante, in cui il caravan sembrava accartocciarsi sotto i colpi dei tuoni e del vento e con solo una bottiglia di cannonau a tenermi compagnia, il mattino seguente vidi la realtà plasmata. Una sola notte di cattivo tempo è costata vite ed ingenti danni... 








(Livorno il mattino del 10 settembre 2017)



Quando non lo viviamo sulla nostra pelle è difficile capirlo. Così come oggi ci riesce impossibile capire cosa significa vivere una crisi alimentare in Yemen o un esodo di massa come in Sud America. Nel futuro, forse, queste realtà busseranno alla nostra porta e no, non ci sarà più tempo per una salvifica SOLUZIONE FINALE.



(La pace possibile... Dal Sacro Monte di Varese)


Ps: è nostra intenzione realizzare un secondo documentario sul tema sovrappopolazione. La diffusione e la recensione, anche critica, di questo lavoro sarebbero di grandissimo aiuto. Per quanto riguarda la qualità generale si tratta di un documentario zero-budget per il quale siamo andati in rosso. Abbiate perciò pazienza per i nostri limiti tecnici.

Link del documentario: https://www.youtube.com/watch?time_continue=813&v=KbWoVaweD8A







domenica 25 novembre 2018

Il picco del gasolio, edizione 2018





di Antonio Turiel (dal blog "The Oil Crash") - traduzione di Ugo Bardi

Cari Lettori

Sei anni fa abbiamo commentato in questo stesso blog che, tra tutti i carburanti derivati ​​dal petrolio, il gasolio era quello che probabilmente avrebbe visto prima il suo calo della produzione. Il motivo per cui la produzione di gasolio sarebbe probabilmente diminuita prima di, per esempio, la benzina, ha a che fare con la caduta della produzione di petrolio convenzionale iniziata dal 2005 e il peso crescente dei cosiddetti "oli non convenzionali." Sostituti che non sono sempre adatti alla produzione di diesel. 

Con i dati del 2012 ho scritto "Il Picco del Diesel". A quel tempo c'era una certa stasi della produzione di diesel, ma sembrava troppo presto per dire se era definitiva o se potesse ancora essere superata. Ho esaminato il problema nel 2015, nel post "Il picco del diesel, edizione del 2015." I nuovi dati disponibili hanno mostrato che nel 2012 il picco non era arrivato in realtà, anche se la produzione di gasolio era cresciuta meno fortemente dal momento che se abbiamo confrontato con il ritmo storico, e anche gli ultimi 18 mesi del periodo in esame, aveva mostrato una certa stagnazione. Ora sono passati altri tre anni, ed è un buon momento per guardare i dati e vedere cosa è successo.

Prima di iniziare, devo ringraziare Rafael Fernández Díez per aver avuto la pazienza di scaricare i dati da JODI, dopo aver disegnato i grafici, qui mostrati con qualche ritocco, e dopo aver notato il problema  con diesel raffinati (come vedremo più sotto). Non ha avuto il tempo di finire il suo post ed è per questo che sono stato io a scriverlo, ma quello che segue è in realtà il suo lavoro.

Come nei due post precedenti, utilizzeremo il database della Joint Oil Data Initiative (JODI). Questo database fornisce informazioni sulla maggior parte dei produttori mondiali di petrolio e prodotti raffinati, ma non tutti. I paesi non inclusi sono paesi con gravi problemi interni e una grande mancanza di trasparenza a causa delle guerre o perché sono dittature molto chiuse. Per questo motivo, le cifre che mostrerò sono inferiori di circa il 10% rispetto a quelle che dovrebbero essere se fossero misurate globalmente. Tuttavia, date le caratteristiche dei paesi che non vengono conteggiati, è molto probabile che i loro dati non abbiano modificato le tendenze osservate, ma piuttosto l'ammontare totale degli importi indicati.

Tutti i grafici che mostrerò sono destagionalizzati, ovvero sono la media dei 12 mesi precedenti. In questo modo si evitano gli effetti della variazione dovuti alla stagione, la grafica è meno rumorosa e le tendenze si vedono meglio. I grafici saranno sempre espressi in milioni di barili al giorno (Mb / g).

Prima di tutto, vi mostro il grafico dell'evoluzione della produzione del gasolio negli ultimi anni:



 
812/5000
ComCome si vede nel grafico, l'anno 2015 ha segnato il massimo produttivo fino ad oggi. Non c'è stato un calo così marcato della produzione di gasolio come dopo la crisi del 2008-2009, ma nel caso della caduta del 2015 scopriamo che 1) non c'è stata una grave recessione economica globale; 2) la discesa dura più a lungo e 3) i livelli di produzione del gasolio non mostrano alcun segno di recupero, anche se è ancora un po' presto per essere sicuri che il picco si sia verificato. Ma il ristagno - anche la caduta - sta cominciando a durare a lungo.

Guardando i dati di JODI si osservano altre due cose molto interessanti. Da un lato, se si analizza la produzione di tutto l'olio combustibile che non è gaslio, si scopre che la sua produzione è in declino da anni.



Come mostra il grafico, dal 2007 (e quindi prima dell'inizio ufficiale della crisi economica) la produzione di altri oli combustibili è in declino e sembra una tendenza perfettamente consolidata. L'interpretazione abituale degli economisti è quella di considerare che semplicemente non c'è una domanda per questi combustibili (sebbene siano della stessa famiglia del gasolio). Quando il petrolio viene raffinato, viene sottoposto a un processo chiamato cracking, in cui le lunghe catene molecolari presenti nel petrolio si rompono (attraverso il calore e altri processi) e quindi le molecole vengono separate dalle loro differenti proprietà di fluidità e densità. 

Il fatto è che se sono state apportate modifiche nelle raffinerie per il cracking del petrolio per ottenere prodotti più leggeri (e quindi meno oli combustibili pesanti), queste molecole prima di andare agli oli combustibili pesanti dovrebbero andare ora ad altri prodotti. Logicamente, tenendo conto del valore aggiunto dei combustibili con molecole più lunghe, è normale che questi oli pesanti vengano usati soprattutto per generare gasolio e possibilmente più cherosene per gli aeroplani e infine più benzina. Non dobbiamo dimenticare che dal 2010 il fracking negli Stati Uniti è decollato con forza e ha inondato il mercato di olio leggero, che non vale la pena di raffinare a gasoliol. È quindi molto probabile che le raffinerie si siano adattate per convertire una quantità crescente di olio combustibile pesante in olio combustibile leggero (gasolio). Rafforza questa idea il fatto che, se sommiamo i volumi dei due grafici precedenti, abbiamo una certa compensazione del piccolo aumento della produzione di gasolio con la diminuzione del resto degli oli combustibili.


Quello che ci mostra questa figura è che, dopo il crollo del 2008-2009, è stato molto difficile aumentare la produzione totale di oli combustibili, che avevano raggiunto il picco nel 2014, rimanendo stabili per quasi un anno. Al momento siamo in una fase di caduta abbastanza clamorosa (circa 2,5 Mb / d in meno dai livelli del 2014).

Quest'ultima osservazione è abbastanza pertinente, perché se si può intuire che se c'è meno olio combustibile pesante da trattare per garantire che la produzione di gasolio non si abbassi, la rapida caduta di olio combustibile pesante trascinerà rapidamente anche il gasolio verso il basso. Infatti, il grafico mostra che, dopo la caduta nel 2015 e nel 2016, nel 2017 è stato possibile stabilizzare la produzione di tutti gli oli combustibili, ma si è visto anche che negli ultimi mesi la loro caduta è piuttosto rapida. Sicuramente, nella scarsità di gasolio si comincia a notare la mancanza dei 2,5 Mb / g di petrolio convenzionale (più versatile per la raffinazione e quindi più adatto alla produzione di olio combustibile), come aveva detto l'Agenzia Internazionale per l'Energia  nella sua ultima relazione annuale. Questo spiega l'urgenza di sbarazzarsi del gasolio che ha recentemente scosso le cancellerie d'Europa: si nascondono dietro reali problemi ambientali (che il motore diesel ha sempre causato, ma finora gli importava un piffero) per cercare di adattarsi rapidamente a una situazione di scarsità. Carenza che può essere brutale per non aver preso provvedimenti per una situazione che si sapeva doveva arrivare.

I seguaci di quella religione che si chiama liberalismo economico insisteranno a pieni polmoni che ciò che si vede qui è un picco della domanda, quella vecchia fallacia che non regge con i dati (chi pensa che qualcuno stia smettendo di consumare olio perché lo vuole, crede che ci siano alternative migliori?). Sosterranno che c'è una minore domanda di gasolio ed è per questo che la produzione ristagna e che la produzione di oli combustibili diminuisce perché, poiché sono più inquinanti, le nuove normative ambientali non ne consentono l'uso. È un po 'il vecchio problema di chi è venuto prima, l'uovo o la gallina. Per quanto riguarda il fatto che la domanda di gasolio non aumenta, il suo prezzo ha un'influenza considerevole: è così che le carenze sono regolate in un'economia di mercato. E per quanto riguarda le ragioni ambientali, la produzione di gasolio pesante scende dal 2007, quando non c'era un interesse a regolamentarlo, come sembra esserlci ora. 

C'è un aspetto del nuovo regolamento che ritengo sia interessante evidenziare qui: dal 2020 in poi, tutte le navi dovranno usare carburante con un contenuto di zolfo più basso di quello consentito oggi. Dato che di solito le grandi navi da trasporto hanno utilizzato oli combustibili molto pesanti, questo requisito, dicono, fa temere che si verifichi una carenza di gasolio. In effetti, da quello che abbiamo discusso in questo post, quello che sembra accadere è che gli oli combustibili pesanti stanno decadendo molto velocemente e le navi non avranno altra scelta che passare al gasolio. Che ciò causerà problemi di carenza di gasolio è più che evidente. È un problema imminente, ancor più dei picchi dei prezzi del petrolio che, secondo quanto annunciato dall'IEA, saranno prodotti entro il 2025.

La seconda delle cose interessanti che i dati JODI ci mostrano è come si è evoluto il volume prodotto da tutti i prodotti petroliferi.




Il volume prodotto ha potuto continuare ad aumentare durante questi anni grazie al sussidio energetico che stanno facendo gli Stati Uniti. al mondo attraverso il fracking. Tuttavia, l'il petrolio di fracking serve solo a produrre benzina ed è per questo che non allevia il problema del gasolio. Ma è anche che la fine del grafico su queste linee finisce con lo scendere allo stesso modo della produzione di gasolio, con un calo di oltre 2 Mb / d. Cosa significa? Il contributo del fracking all'intero volume tocca il tetto, non si alza più. È un'ulteriore indicazione che stiamo già raggiungendo il picco del petrolio di tutti i liquidi combustibili.

Ecco perché, caro lettore, quando ti annunciano che le tasse sulla tua auto diesel saranno aumentate in modo brutale, ora capirai perché. Perché è preferibile regolare questi squilibri con un meccanismo che apparentemente sembra di mercato (sebbene questo sia in realtà meno libero e più regolato) che dire la verità. Il fatto è che d'ora in poi quello che ci si può aspettare è una vera persecuzione contro l'auto con un motore a combustione interna (la benzina arrivera alcuni anni dopo il diesel). Non dire che non sei stato avvisato (e non sono stato nemmeno io il primo a farlo in questo blog). E se non sembra giusto, forse quello che dovresti fare è chiedere ai tuoi rappresentanti di spiegare la verità.

Saluti


AMT

sabato 17 novembre 2018

Disparità della ricchezza fra realtà e fantasia – Agonia del capitalismo 3 –

di Jacopo Simonetta

Terzo articolo di una serie di 10.  Per i precedenti si veda qui: primo; secondo.
Questo articolo è già apparso su Apocalottimismo in data 12/19/2018.

Il livello di disparità della ricchezza è uno degli argomenti oggi più sentiti e dibattuti, ma viene di solito trattato in modo molto approssimativo.  Rimandando al testo di Piketty per una trattazione approfondita dell’argomento, qui riassumeremo molto per sommi capi i punti fondamentali.

Reddito da capitale e reddito da lavoro.

Sembra una distinzione netta, ma non lo è.   Vi sono infatti casi evidenti: lo stipendio mensile è un reddito da lavoro, mentre l’affitto percepito da un inquilino è un reddito da capitale.  Ma in effetti la distinzione è chiara solo ai due estremi della classe sociale: i nullatenenti il cui reddito è quindi interamente da lavoro, ed i multimilionari, che generalmente pagano dei professionisti per gestire i loro patrimoni.   Nel mezzo le cose si complicano parecchio.

Per esempio, gli imprenditori che dirigono le proprie aziende hanno tipicamente un reddito misto: in parte derivante dal loro lavoro dirigenziale ed in parte dal fatto che posseggono impianti, brevetti, ecc.   Un caso che è in realtà molto diffuso, specialmente fra professionisti, artigiani e consulenti che sono pagati a fattura per delle prestazioni, ma che per svolgere il proprio lavoro investono cifre consistenti in apparecchiature ed attrezzi, programmi, studi, automezzi, immobili, ecc.   I contadini, a fronte di redditi netti spesso molto ridotti, investono capitali consistenti in terreni, bestiame, macchine ed altro.  Ma anche il tizio che ha semplicemente ereditato un piccolo appartamento dalla nonna e che lo affitta su B&B ha un reddito misto in cui è impossibile distinguere la parte ascrivibile al valore dell’immobile e quella ascrivibile al suo lavoro di gestione e manutenzione. 

Perfino l’operaio o l’impiegato che hanno comprato casa propria godono di una rendita indiretta dalla proprietà, a meno che non stiano ancora pagando il mutuo.

Dunque, tenendo ben presenti queste difficoltà, si può procedere ad una molto sommaria ripartizione fra reddito da capitale e reddito da lavoro.  Sempre prendendo ad esempio la Francia e tenendo conto che gli altri paesi europei hanno vissuto evoluzioni analoghe, relativamente poco influenzate dagli eventi politici che, invece, sono stati molto diversi da un paese all’altro.
agonia del capitale

Dunque, in Europa, il periodo di massimo potere economico del capitale fu sostanzialmente alla metà del XIX secolo (fig. Piketty), guarda caso quando l’internazionale socialista prima si formava e poi si sfasciava.   Durante i “30 terribili” (1914-1945) il reddito da capitale precipitò ai minimi storici, per poi recuperare molte delle posizioni perdute, ma assolutamente non tutte.  Oggi fornisce circa il 25% del reddito nazionale francese (in altri paesi la cifra è analoga), cioè poco più della metà di quello che rendeva nelle economie “belle epoque”.

Un punto questo su cui ritorneremo perché è molto importante:  Il rapporto al PIL, la quantità di capitale oggi è quasi altrettanto alta che alla fine del XIX secolo, ma la quota di reddito che fornisce è molto inferiore.  Forse qualcuno troverà la cosa sorprendente.

La ripartizione del capitale.

Ma come è ripartito fra le diverse classi sociali il capitale?  Confrontando la media dei paesi europei e gli Stati Uniti si notano alcuni dettagli interessanti.

In Europa la concentrazione del capitale era già molto alta nel 1810 (80% del capitale detenuto dal 10% della popolazione) ed è salito fino al 90% nel 1910, picco storico della concentrazione.  Il 50% era concentrato nelle mani di solo l’1% dei nostri concittadini.   Negli USA la situazione era meno esasperata, ma la tendenza esattamente la medesima.
In Europa, le due guerre mondiali e le altre crisi correlate provocarono non solo la massiccia distruzione di capitale che abbiamo già visto, ma anche una drastica riduzione dei livelli di ineguaglianza che, si badi bene, è proseguita fino a tutti gli anni ’60; cioè per tutto il periodo della ricostruzione e del seguente “miracolo economico”.   E’ interessante notare anche che “’a livella” colpì in proporzione più gli altissimi capitali: la quota di proprietà del 10% più ricco diminuì infatti del 30%, mentre la quota di proprietà dell’1% più ricco diminuì di circa il doppio.   A far data dagli anni ’80 la tendenza si è invertita, ma di poco in rapporto ai dati storici.

Negli USA la tendenza è stata molto simile, ma meno esacerbata, visto che le guerre si sono combattute in casa nostra.   Per questo a partire dagli anni ’60 il grado di concentrazione del capitale è stato maggiore oltre Atlantico, ma anche in questo caso permane a livelli nettamente inferiori di quelli di cento anni fa.

Per capire meglio, nella tabella si mostrano quattro situazioni tipiche: la ripartizione della proprietà in società diverse.  quattro sono situazione reali ed una è ipotetica.  Consiglio di studiarla e meditarla con calma.
L’utilità della tabella è che non illustra solo la situazione del 10% più ricco (la classe superiore), ma anche come la proprietà si articola all'interno di questa classe, con una tendenza alla concentrazione nei livelli più alti, anche fra i membri privilegiati della società.

Illustra anche cosa succede negli strati intermedi e inferiori della società.  Osserviamo così un fenomeno fondamentale del secondo dopoguerra: la formazione di una classe di mini e micro capitalisti molto diffusa.   Mentre nel 1910 la classe media europea deteneva qualcosa come il 5% del capitale, negli anni successivi al boom economico deteneva il 35-40% dei beni.    Nello stesso periodo, migliorò anche la situazione patrimoniale delle classi povere, anche se in misura molto minore.

Un cambiamento epocale poiché si passò da una società strutturata su due sole classi: ricchissimi e poveri o quasi; ad una strutturata su tre classi, con una classe media numericamente molto consistente (i leggendari “piccolo borghesi” di sessantottina memoria).

Una situazione che a noi sembra normale, ma che rappresenta invece una forte anomalia storica.  Del resto, per il poco che si sa della maggioranza dei paesi non occidentali, le società continuano ad essere sostanzialmente bi-stratificate, tranne che in alcuni paesi che hanno recentemente avuto una tumultuosa crescita economica.


 La ripartizione del reddito.

Andiamo ora a dare un’occhiata a come è invece ripartito il reddito da lavoro, fra le diverse classi sociali.

Anche in questo caso il prof. Piketty ci fornisce una tabella da cui si arguisce che il reddito da lavoro è assai meno concentrato della proprietà del capitale.   Per esempio, oggi in Europa il 10% più ricco detiene circa il 60% del capitale, ma percepisce solo il 25% del monte-stipendi complessivo.  Vice versa, il 50% più povero della popolazione possiede, complessivamente, solo il 5% del capitale, ma si ripartisce il 25% del monte-stipendi.
Se ora andiamo a vedere il reddito totale (lavoro più capitale) troviamo che la disparità della ricchezza è ovviamente superiore rispetto ai soli stipendi, ma inferiore rispetto al valore del capitale detenuto.   In pratica, la classe superiore detiene il 60% del capitale, ma questo aggiunge solo un 10% circa al reddito che percepisce.
Prima di chiudere su questo argomento, diamo ancora un’attenta occhiata ad un altro grafico che confronta la percentuale di reddito nazionale afferente al 10% più ricco (N. B. L’incremento europeo è perlopiù dovuto alla traiettoria del Regno Unito, assai più simile a quella americana che a quella dell’Europa continentale).   Per quanto possa sorprendere, nel “primo mondo”, l’esplosione delle disparità retributive rimane per ora un fenomeno principalmente anglo-americano.

Nel resto d’Europa il fenomeno è presente, ma per ora appare molto più mitigato, anche se bisogna tener conto che i dati di Piketty si fermano al 2013 e negli ultimi anni la situazione è peggiorata.

Per gli altri paesi bisogna accontentarsi dell’indice Gini, assai meno preciso, ma comunque interessante.

Ciò non significa che non vi siano nella UE persone che percepiscono stipendi inverecondi (esistono e sui giornali talvolta se ne parla).  Significa però che la struttura sociale, legale e fiscale europea per ora limita un fenomeno che, viceversa, in altri paesi ha un andamento decisamente impressionante.


Conclusioni 3

Nel 1914 la classe dirigente capitalista commise un vero e proprio suicidio politico-economico (spesso anche fisico).   Ben poche delle famiglie che erano ricche nel 1910 lo erano ancora nel 1950.   Molte, anzi, erano letteralmente estinte.

Nei decenni successivi il capitalismo risorse, ma era radicalmente cambiato.

In primo luogo, in USA e nei paesi suoi satelliti, si venne formando una consistente classe di mini e micro capitalisti, proprietari di un’ abitazione, di almeno un’automobile e di consistenti dotazioni di elettrodomestici; più tardi anche di computer e vari gadget tecnologici.   Oltre che di risparmi sotto forma di fondi pensione, BOT e cose simili.

In secondo luogo, il reddito fornito dal capitale è proporzionalmente molto più basso di un tempo e la classe dominante, il famigerato 1%, deve il suo alto ed altissimo reddito anche al possesso di cospicui patrimoni, ma soprattutto grazie al fatto di percepire degli stipendi altissimi, spesso pagati proprio dai detentori dei capitali che costoro amministrano.

Prima di pensare che tutto ciò sia molto democratico, riflettiamo però su di un fatto: le carriere che permettono di raggiungere stipendi molto alti sono accessibili quasi esclusivamente ai figli di coloro che possono investire cifre molto alte per far laureare i propri pargoli in una decina di università costosissime ed esclusive, oltre ad avere un giro di conoscenze ed amicizie negli ambienti che contano.   “L’uomo che si è fatto da solo” esiste, ma è sempre più raro, man mano che la crescita economica rallenta ed il divario fra i “vincenti” e tutti gli altri si allarga.

Per saperne di più: Picco per Capre